MSOI thePost Numero 90

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

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N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA POLONIA, MORAWIECKI A BRUXELLES PER RILANCIARE IL DIALOGO CON L’UE

Politica migratoria e riforma della magistratura al centro dell’incontro

Di Giulia Marzinotto 9 gennaio. Bruxelles. Una “discussione dettagliata sullo stato di diritto” è stata al centro della cena tra il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, e il premier polacco, Mateusz Morawiecki. I portavoce dell’UE hanno fatto sapere che l’appuntamento, svoltosi in un’atmosfera amichevole, era stato voluto da Junker allo scopo di rilanciare in modo costruttivo il dialogo con la Polonia dopo un periodo di forte gelo. L’incontro è avvenuto nel giorno del rimpasto del Governo di Varsavia, interpretato da più parti come segnale distensivo nei confronti di Bruxelles: i Ministri della Difesa, Antoni Macierewicz, e degli Esteri, Witold Waszczykowski, dalle visioni più che mai differenti da quelle dell’UE, sono stati sostituiti rispettivamente da Mariusz Blaszczak e Jacek Czputowicz. Anche il ministro dell’Ambiente Jan Szyszko e quello della Sanità Konstanty Rdziwill hanno lasciato il Governo. Morawiecki e il presidente della Commissione, alla presenza del vicepresidente vicario Frans Timmermans, si sono confrontati su diversi temi. Fra questi,

uno spazio importante è stato dedicato alla politica migratoria, divenuta apertamente motivo di scontro da alcuni mesi. Il rifiuto del sistema europeo, basato sulla solidarietà, è costato al Paese contestatissime sanzioni da parte dell’Unione e il deferimento alla Corte di Giustizia UE a causa del mancato rispetto degli obblighi giuridici in materia di ricollocamento lo scorso dicembre. “Non siamo in guerra con la Polonia” aveva fatto sapere il portavoce della Commissione Europea, Margaritis Schinas, alla vigilia dell’incontro, ma appare palese che la Polonia rimanga ancora sotto la lente delle istituzioni comunitarie e della Commissione in particolare: la recente riforma della magistratura, considerata preoccupante dagli Stati membri al punto da accusare Varsavia di mancato rispetto dello stato di diritto, aveva portato all’attivazione del meccanismo preventivo previsto dall’articolo 7 del TUE. Per la prima volta nella storia dell’Unione un Paese rischia la sospensione del suo diritto di voto in seno al Consiglio UE. Al termine dell’incontro, attraverso una nota congiunta, i due leader hanno fatto sapere di

aver “concordato di incontrarsi di nuovo per proseguire la discussione, con l’obiettivo di fare passi avanti, entro fine febbraio”. Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, aveva fatto sapere poche ore prima di restare in allerta rispetto ai comportamenti adottati da Varsavia: “Il partito Legge e Giustizia, attualmente al Governo, potrebbe portare la Polonia fuori dall’Unione Europea”. In un’intervista al settimanale Tygodnik Powszechny l’ex Presidente polacco ha aggiunto di non avere dubbi circa il fatto che “uno degli obiettivi del PiS e’ di liberare la politica polacca dagli oneri dell’Ue. Posso facilmente immaginare una situazione in cui la Polonia si ritrova tra i contributori netti (al bilancio comunitario) e allora il governo in Polonia penserà che è arrivato il momento di chiedere ai polacchi se vogliono che la Polonia continui a essere nell’UE”. Restano molto critiche anche le posizioni di tutti principali gruppi dell’Europarlamento, che lo scorso 15 novembre avevano chiesto l’attivazione dell’articolo 7, approvata ad ampia maggioranza dall’aula di Strasburgo. MSOI the Post • 3


EUROPA LA STRATEGIA EUROPEA SULLA PLASTICA IN UN’ECONOMIA CIRCOLARE

La Commissione Europea presenterà la strategia comune per la lotta all’inquinamento

Di Edoardo Schiesari In Italia infiamma la polemica sull’introduzione, ad opera del governo Gentiloni, del provvedimento che dal primo gennaio prevede l’obbligo di utilizzo di sacchetti biodegradabili e compostabili a pagamento. Un provvedimento che ha consentito di abbandonare l’utilizzo di sacchetti ultraleggeri, impiegati soprattutto per l’acquisto di frutta e verdura. Anche all’interno dell’Unione Europea si sta facendo strada l’idea della necessità di un’economia sempre più ecosostenibile. La Commissione Europea, in occasione della prima sessione annuale plenaria del Parlamento Europeo, prevista per il 16 gennaio a Strasburgo, presenterà difatti un pacchetto di norme ad hoc che, se approvate, arriveranno a costituire il nocciolo della strategia europea sul tema delle plastiche. L’intento è quello di creare un’economia circolare, in cui “il valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse siano mantenute sul mercato il più a lungo possibile, e sia minimizzata la produzione di rifiuti nell’ ottica di “sviluppare un’economia sostenibile, competitiva, che sfrutti efficientemente le risorse e sfrutti al minimo il carbone”.

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L’economia circolare rappresenta un modello che permetterebbe all’economia di rigenerarsi da sola. Distinguendo tra materiali biologici e materiali tecnologici, una volta terminato il loro utilizzo i primi verrebbero reintegrati nella biosfera e i secondi valorizzati. La produzione dei rifiuti diminuirebbe drasticamente, ponendo fine alle dannose conseguenze dello smaltimento. Con questo ambizioso progetto, l’Unione Europea intende porre le basi per un cambiamento strategico comune nella produzione, arrivando a investire sulle energie rinnovabili e sulla progettazione di prodotti versatili, duraturi e non monouso, in modo da limitare gli sprechi e ridurre i costi di produzione. Per riuscire nell’intento sarà cruciale un’armonizzazione della disciplina normativa dei singoli Stati Membri per il riutilizzo dei materiali. Ad oggi, la Germania, presa a modello dalla Commissione, ricicla il 66% dei propri rifiuti. Altri Paesi, come la Repubblica Ceca, faticano a raggiungere la percentuale del 30%. L’obiettivo fissato dall’Esecutivo europeo è pertanto quello di raggiungere entro il 2019 un calo dell’80% dell’uso della

plastica rispetto a quanto registrato dei consumi del 2010. Ancora oggi, infatti, il 50% dei rifiuti prodotti dagli stati dell’Unione sono di materiali in plastica. Uno dei punti cardine della proposta è sicuramente la riduzione dell’utilizzo degli strumenti monouso (come le stoviglie): il consumo della plastica si ridurrebbe in maniera considerevole se sul mercato circolassero esclusivamente materiali biodegradabili. La Commissione intenderebbe poi arrivare entro il 2030 a rendere riutilizzabili tutti gli imballaggi, auspicando in tal senso un’armonizzazione delle norme che regolamentano l’immissione di nuovi materiali sul mercato. Inoltre, la proposta dovrebbe scongiurare l’utilizzo delle microplastiche nei cosmetici e nei detersivi, materiali che tradizionalmente finiscono per essere scaricati nelle fognature e che invadono le coste e i mari europei. Infine, sempre nell’ottica della salvaguardia della flora e della fauna marina, la Commissione proporrà all’approvazione del Parlamento una direttiva che imponga sia alle navi sia alle semplici imbarcazioni da diporto di attrezzarsi per lo smaltimento a terra dei rifiuti prodotti a bordo.


NORD AMERICA HAPPY NEW YEAR, CANADA

Il discorso di fine anno di Justin Trudeau celebra i traguardi raggiunti e le sfide del futuro

Di Erica Ambroggio “Milioni di persone, di ogni provenienza, cultura e fede, si sono unite per rendere il Canada il Paese diverso, aperto e prospero che è oggi”. Con queste parole, il primo Ministro canadese Justin Trudeau, ha voluto celebrare l’ultimo giorno del 2017 ed aprire le porte al nuovo avvenire della nazione. Il consueto discorso di fine anno, tenuto dal leader canadese ha rappresentato una celebrazione dei traguardi raggiunti dall’amministrazione Trudeau senza, tuttavia, oscurare gli ideali che dovranno essere oggetto di un costante ed ulteriore lavoro. Tra i maggiori successi riportati durante quest’anno, spicca, sicuramente l’impegno in prima linea dell’amministrazione Trudeau nella lotta ai cambiamenti climatici. Le strategie messe in atto e finalizzate alla riduzione delle emissioni di CO2 hanno trovato fondamento in più settori, dando luogo ad un piano di sostenibilità ambientale di grande valore. Dal settore edilizio a quello dei trasporti, dal settore industriale a quello dello smaltimento dei rifiuti, la politica ambientalista di Trudeau ha lasciato un segno di profondo cambia-

mento, dando prova degli sforzi messi in atto per raggiungere quanto stabilito dall’Accordo di Parigi e dalla nuova Powering Past Coal Alliance nata durante i lavori della COP 23 di Bonn. Accanto alla priorità ambientale, ha ribadito il Primo Ministro, è stata portata avanti la lotta per la difesa dell’eguaglianza. Non esente da una storia di politiche di emarginazione, il Canada guidato dal primo ministro Trudeau ha manifestato più volte l’intenzione di cambiare rotta. “Abbiamo fatto dell’eguaglianza una priorità in patria e all’estero”, ha dichiarato il leader canadese, con commosso riferimento alle azioni di riconciliazione con le popolazioni indigene, alle recenti azioni di difesa per i diritti LGBT+ e ai numerosi sforzi compiuti per incrementare la presenza di rappresentanti femminili all’interno delle istituzioni pubbliche e private. L’anno riportato dal Primo Ministro, dunque, è apparso come ricco di progressi e di sforzi tesi alla costruzione di un futuro migliore per le future generazioni. Azioni di miglioramento anche sul fronte economico, ha ricordato Trudeau, dove la crescita dei posti di lavoro e la

diminuzione della pressione fiscale sulle piccole imprese hanno contribuito a dare una spinta alla crescita economica interna. Inclusione ed apertura, dunque, sembrano essere i valori chiave dall’amministrazione Trudeau, distintasi, inoltre, per le numerose azioni intraprese relativamente all’emergenza rifugiati. Tra le priorità del Primo Ministro, come spesso dichiarato nel corso dell’anno, vi è stata e vi continuerà ad essere l’intensa attività di accoglienza e di sostegno ai rifugiati e per il loro successivo ed adeguato inserimento all’interno della società canadese. Ontario, Québec e Alberta sono state le province canadesi dal più elevato numero di accoglienze, a fronte di un totale di oltre 40.000 rifugiati giunti sull’intero territorio nazionale. In un momento politico di consenso altalenante per l’amministrazione Trudeau, in cerca di ulteriori appoggi, il discorso di fine anno del Primo Ministro ha dato luce ai programmi di maggior rilievo della propria politica. “Andiamo avanti insieme”, ha dichiarato Trudeau manifestando il proprio impegno per il futuro e ricordando: “Abbiamo ancora molto lavoro da fare”. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA MAKE AMERICA GREAT AGAIN

Il presidente Trump sta rispettando le promesse della campagna elettorale?

Di Alessandro Dalpasso L’idea alla base della campagna elettorale del candidato Trump è stata, fin dalle prime uscite pubbliche, quella del “Make America Great Again”, rendere l’America di nuovo grande. Ci si sarebbe aspettato dunque un impegno maggiore in politica estera, soldati americani dispiegati nei teatri più rischiosi del globo oppure una rinnovata leadership degli Stati Uniti in seno alle maggiori organizzazioni internazionali. Il candidato, diventato nel frattempo Presidente, Trump si è però dimostrato, e fin dai primi giorni del suo mandato, portatore di un’idea differente. Restituire al Paese un ruolo di leadership non sarebbe arrivato da una più forte politica estera, bensì sarebbe passato dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Questo non solo per dare nuovo slancio ad un’economia in difficoltà, ma anche per restituire speranza a quella classe sociale, i “blue collars”, che l’avevano votato dietro alla promessa di un maggior numero di impieghi e di una rinnovata dignità per 6 • MSOI the Post

una classe di lavoratori che si è sentita sempre più abbandonata negli ultimi anni. Un’America di nuovo grande, sarebbe stata dunque, nella filosofia politica del tycoon newyorkese, un’America capace di offrire opportunità di lavoro a quante più persone possibili. Sono da leggersi in quest’ottica alcune delle scelte che più hanno fatto discutere come la decisione di tagliare fondi e limitare l’EPA (l’Agenzia governativa incaricata della protezione ambientale) per provare a favorire imprese che, non rispettando standard ambientali anche minimi, avevano però il vantaggio di offrire lavoro a molte più persone. Sulla stessa linea d’azione è anche da collocarsi la nuova politica del “buy American” che l’Amministrazione è in procinto di approvare e sviluppare nelle ultime settimane. Gli attachés militari e i diplomatici delle varie rappresentanze saranno incoraggiati, tramite incentivi che per il momento non sembrano essere ancora pubblici, a commerciare materiale

bellico a stelle e strisce. Non si tratta dunque solo di armi leggere e munizioni, ma anche elicotteri, armi pesanti, aerei e droni. Sebbene le modalità di queste nuove linee guide non siano ancora chiare, l’obiettivo è, al contrario, evidente: mantenere le promesse della campagna elettorale creando nuovi posti di lavoro e al tempo stesso cercare di ridurre le perdite della bilancia commerciale che da sei anni registra un trend dal segno negativo (circa 50 miliardi di dollari di deficit annui). Un esempio lampante viene dalla Repubblica Centrafricana. David Brownstein, ambasciatore USA a Bangui, hanno fatto sapere che doneranno una cifra vicino ai 13 milioni di dollari per aiutare l’addestramento e il rinnovamento dell’Armée Centrafricane. L’esercito andrà però armato e, sebbene abbia ricevuto un carico di armi leggere dalla Russia di recente, gli addestratori saranno europei ma soprattutto americani e le armi da comprare saranno decise dagli USA.


MEDIO ORIENTE CAMBIAMENTI IN ARABIA SAUDITA: LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA

Dopo le numerose trasformazioni sociali ci si chiede: facciata o voglia di cambiamento?

Di Maria Francesca Bottura Anna Muzychuk, campionessa mondiale di scacchi, non parteciperà al campionato mondale che si svolgerà a Riad. Questa scelta ha puntato l’attenzione sugli ultimi cambiamenti sociali in atto nel Paese per migliorare la condizione delle donne. In Arabia Saudita una donna non può andare al cinema, assistere ad una partita da calcio, vestire liberamente, viaggiare, aprire un conto in banca. Alcune cose sembra stiano cambiando, ma alcuni si chiedono se non sia un’operazione politica che riduce le donne ad uno strumento, al viatico tramite il quale migliorare l’immagine internazionale saudita. La scelta della campionessa in carica è stata dettata proprio da questo enorme abisso che si è creato tra l’immagine veicolata grazie ad alcune vittorie sociali e una situazione che non sembra cambiare davvero. Infatti,

anche se pochi mesi fa giungeva la notizia che le donne saudite potessero finalmente guidare, oggi la legge impone ancora alle donne obblighi come quello di indossare l’abaya (l’abito lungo indossato sopra altri vestiti). Il rapporto 2016/2017 di Amnesty International descrive l’Arabia Saudita come un Paese in crisi a causa del crollo del prezzo del petrolio, con il conflitto armato in Yemen sulle spalle, il difficile rapporto con l’Iran e una pesante inflazione. Questo ha comportato una riduzione della spesa pubblica destinata alle riforme sociali. Anche gli interventi in merito ai diritti delle donne da parte del Governo, come il progetto Visione 2030, che avrebbe dovuto portare ad un incremento dal 22 al 30% della forza lavoro femminile, fino allo scorso anno sembrava essersi arenato. Altri cambiamenti portano alla luce una politica ambigua fatta di idee innovative che spiccano in una società alquanto tra-

dizionalista. Ne è un esempio la scelta del Sovrano di creare centri turistici dove i bagnanti possano abbronzarsi in costume da bagno ignorando la Shari’a. Ma il desiderio di modernità può leggersi anche nell’ambizioso obiettivo di trasformare l’Arabia Saudita in una potenza finanziaria regionale, allontanandosi così dal mercato petrolifero che sta affossando l’economia. In un Paese dove la modernizzazione è divenuta un punto fondamentale per la politica interna ed estera, in un Paese dove viene concessa per la prima volta la cittadinanza ad un robot donna, tutti gli sforzi potrebbero essere vanificati dalla difficile situazione in cui vivono le cittadine. La scelta di permettere alle donne di guidare, andare in bicicletta e praticare sport è dunque solo una questione di immagine o testimonia una reale volontà di dimostrare come il cambiamento sia inevitabile? MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE L’IRAQ DOPO “IL GIORNO DELLA VITTORIA”

Festeggiata la vittoria contro Daesh, ora si guarda alle prossime elezioni

Di Lorenzo Gilardetti Erano gli ultimi giorni di novembre quando l’esercito iracheno liberava l’ultimo dominio del sedicente Stato islamico, Rawa, e il presidente al-Abadi predicava prudenza e dichiarava come obiettivi i miliziani in fuga nel deserto. La ratio strategico-militare ha però lasciato spazio alle logiche politiche, le quali hanno partorito in Iraq quello che è stato celebrato come “il giorno della vittoria”, con tanto di parata militare tenutasi il 10 dicembre: l’occasione per sancire la fine della guerra contro Daesh e per ricordare che “si è trattato di una vittoria irachena”, proprio a pochi mesi dalle prossime elezioni, previste per maggio 2018. I fatti accaduti dopo il 10 dicembre, data proclamata nuova festività nazionale, suggerirebbero però una lettura diversa tanto della realtà irachena passata, quanto di quella attuale. Innanzitutto: è chiaro alla popolazione il prezzo pagato per la vittoria, e se tale può essere considerata? Secondo Associated Press, no. Il governo avrebbe infatti mentito gravemente riguardo al bilancio delle vittime nell’operazione militare per liberare Mosul: se Baghdad ne

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dichiarò infatti meno di 2.000, il rapporto AP (che contempla il periodo che va fino a luglio 2017) conta una cifra vicina alle 15.000, per più di due terzi civili. In secondo luogo c’è da tenere in considerazione che, come preannunciato da un messaggio del leader di Daesh al-Baghdadi, risalente a settembre, i suoi miliziani stanno continuando la lotta attraverso la guerriglia. Lo dimostrano tanto l’attentato di inizio dicembre a Baghdad contro le truppe del Fronte di Mobilitazione Popolare, quanto la sparatoria ad ovest di Mosul di metà dicembre (nella quale secondo fonti governative avrebbero perso la vita tre agenti): episodi geograficamente sparsi che mantengono alta la tensione e che, secondo le alte cariche dell’esercito, non sarebbero da sottovalutare. Un messaggio forte ed esemplare è stato fatto pervenire dal governo nella persona del ministro della giustizia, al-Zamili, il quale, lo scorso 15 dicembre a Nassiryia, ha presenziato all’esecuzione di 38 terroristi appartenenti ad Al-Qaeda e Daesh. Segnali, questi, che rendono quindi evidente come il Paese stia ancora vivendo in balìa di

una paura che la narrazione governativa, con la prematura celebrazione della vittoria, vorrebbe ignorare. Intanto anche il leader sciita al-Sadr pensa alle elezioni e ordina ai suoi uomini di consegnare le armi e cedere a Baghdad il controllo delle aree amministrate, invitando le milizie sciite (ancora finanziate e gestite dall’Iran, nonostante il passaggio formale di subordinazione al governo Iracheno) a fare lo stesso: come annunciato dall’attuale Premier, infatti, i gruppi armati e le formazioni paramilitari saranno esclusi dalle parlamentari. Ancora in ottica elezioni, al-Abadi nel discorso del 10 dicembre si è concentrato sul futuro del Paese, annunciando che, chiuso il capitolo Daesh (per altro senza nominare i peshmerga, evidenziando come rimanga viva la lacerazione post-referendum con il Kurdistan iracheno), il governo può finalmente concentrare le forze sulla corruzione, “vero cancro del Paese”: già più di 1.600 i rinvii a giudizio, che non hanno risparmiato neanche ex-ministri. Ma tra le mire della commissione ci sarebbero anche membri del governo attuale.


RUSSIA E BALCANI INGERENZE DELLA RUSSIA NEL SISTEMA POLITICO UNGHERESE La politica di Orban, sempre più lontana dall’UE, sembra influenzata dall’amicizia con Putin

Di Ilaria Di Donato La linea politica di Orban, inaugurata fin dalla sua prima elezione avvenuta nel 2010, non è mai stata conforme a quella europea. La vittoria quasi plebiscitaria ottenuta con le ultime consultazioni elettorali gli ha consentito di approvare una serie di misure su media, giustizia, migrazioni e altri temi sensibili che sono state accolte con svariate polemiche, ponendosi in contrasto con la linea tendenzialmente liberale adottata in Europa. La figura controversa del leader ungherese ha dato spazio a una serie di preoccupazioni, tra cui primeggia quella di comprendere il ruolo che gioca, e ha giocato, la Russia nella politica magiara. La strategia di Mosca di diffondere fake news volte a denigrare l’immagine pubblica di candidati che concorrono in partiti politici avversi a quelli cui strizza l’occhio il Cremlino, non è cosa nuova. Tale pratica assume però un’eco ancora maggiore se calata nella realtà dell’Europa centro-orientale, territori che sono meno schermati contro simili tentativi di propaganda celata. L’influenza di media poco trasparenti,

in tale area geografica, risulta altresì favorita dalla presenza di minoranze russe nelle regioni dell’est Europa, oltre che dal fascino esercitato da leader autoritari in un contesto che da poco si è emancipato dall’egemonia sovietica. Alla luce di questa premessa, l’Ungheria si presenta come il territorio più consono alla proliferazione delle ingerenze russe nelle elezioni politiche che si terranno nella prossima primavera. In realtà, il Cremlino non deve “conquistare” Budapest attraverso le già richiamate campagne mediatiche subliminali: la classe politica ungherese, infatti, intrattiene dei buoni rapporti con Mosca e non vi sono esponenti istituzionali che le si schierino apertamente contro. La vicinanza di Orban alla Russia va di pari passo con il suo distacco dall’Unione Europea, fenomeno esploso soprattutto negli ultimi anni. Orban, infatti, ha consolidato rapporti sempre più saldi con la Russia, e l’ha fatto proprio nel momento in cui Mosca veniva invece punita con ulteriori sanzioni economiche a seguito della crisi ucraina. Un ruolo non secondario nell’avvicinamento alla Russia di

Putin è senz’altro rappresentato da ragioni economiche: già all’indomani dell’occupazione in Crimea, il leader ungherese è stato il primo esponente politico europeo ad accogliere Putin nel proprio Paese, e lo ha fatto anche per sottoscrivere gli accordi di fornitura del gas. Tale contratto ha garantito il riscaldamento nella maggior parte del Paese a prezzi contenuti. Peraltro, il presidente Putin ha garantito a Orban un prestito di 10 miliardi di euro per la modernizzazione del suo unico impianto nucleare, il quale sorge a circa 100 chilometri dalla capitale. Al di là degli aspetti economici, vi sono importanti risvolti politici nelle relazioni intrattenute tra le due massime cariche di Ungheria e Russia. È evidente che Orban, da parte sua, trova una sponda favorevole nella nazione di Putin proprio mentre il resto dell’Europa guarda con sospetto alle sue politiche. Dall’altra parte, il disegno seguito dal leader del Cremlino è quello di rafforzare l’amicizia con un Paese che si trova, per ragioni geografiche e politiche, in una posizione strategica. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI NAVALNY: UN OPPOSITORE “DIVERSO” Non c’è elezione senza competizione

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia Il 25 dicembre la Commissione elettorale russa ha espresso il verdetto su Navalny, principale oppositore di Putin alle elezioni presidenziali del 2018. La Commissione gli ha vietato di partecipare alle elezioni a causa di una condanna per appropriazione indebita, definita dal candidato come “politicamente motivata”. Navalny non correrà quindi contro Putin alle elezioni del 18 marzo, durante le quali quest’ultimo cercherà di ottenere il suo quarto mandato come Presidente. Il commento di Navalny a seguito della sentenza è stato “Noi non riconosciamo le elezioni senza competizione”. Ha successivamente invitato i suoi connazionali a scendere in piazza il 28 gennaio per manifestare contro la decisione della Commissione e ha chiesto ai suoi sostenitori di boicottare le elezioni. Il Cremlino ha risposto con durezza a questa provocazione, annunciando che, se Navalny chiederà il boicottaggio delle elezioni, questa sua azione verrà considerata illegale e verranno attivate delle misure contro di lui. La figura di Navalny è controversa. Viene molto ammirato delle generazioni più giovani poiché aspira alla presidenza nono-

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stante il Cremlino tenti in tutti i modi di ostacolarlo. Prende parte in modo attivo al nuovo trend ideologico dei nazional-democratici, i Natsdem. Quest’ultimi si considerano pro-Europa, democratici, ma al tempo stesso xenofobi. Ma contro di lui sono state mosse anche diverse critiche. Alcuni ritengono che voglia riabilitare il nazionalismo. Da quest’accusa, Navalny si difende affermando che non si tratta di un nazionalismo etnico ma civico, e si proclama a favore dell’abolizione del federalismo. Rimproveri all’oppositore sono arrivati soprattutto dopo la sua partecipazione a proteste razziste, tra cui la Marcia russa di Mosca del 2011. Per quanto riguarda le elezioni presidenziali, però, è Navalny il leader del Partito del Progresso ed è anche il più noto oppositore del presidente Putin.

conosciuto. Inoltre la sua esclusione alimenta ancor di più l’idea che le prossime elezioni non saranno una vera e propria competizione elettorale. Infine, l’invito di Navalny a boicottare le elezioni, potrebbe influire sui dati dell’affluenza ai seggi, uno dei principali problemi per Putin. Quest’ultimo non vuole solamente vincere, vuole essere l’unico e solo vincitore delle elezioni.

Sotto alcuni aspetti, la sua esclusione dalle elezioni, fortemente condizionata dal governo di Putin, potrebbe apparire priva di senso. Sebbene sia il più noto oppositore di Putin, secondo un sondaggio elettorale di dicembre, alle elezioni presidenziali Navalny otterrebbe solamente il 2% dei voti, una percentuale irrilevante a livello nazionale. Questa percentuale così bassa è dovuta dal fatto che, al di fuori delle grandi città, il candidato è poco

Secondo Higgins, inoltre, Putin teme l’insorgere di nuove manifestazioni di protesta, poiché Navalny ha dimostrato di riuscire a mobilitare con grande facilità molte persone. È un leader diverso dalla maggior parte dell’opposizione russa, poiché fa parte di quell’opposizione a cui solitamente non viene permesso partecipare alle elezioni e che si oppone davvero al sistema di potere del Presidente russo.

Quali allora le ragioni del Cremlino? Secondo alcuni osservatori, sarebbe stato il governo russo a non permettere a Navalny di partecipare alle elezioni. Permettergli di candidarsi, significherebbe inserirlo nella mappa politica russa e inoltre “renderebbe impossibile tenerlo lontano dalla televisione, il posto dove la politica russa si forma”.


ORIENTE “CAUGHT RED HANDED!”

Trump accusa la Cina di vendere petrolio alla Corea del Nord violando le sanzioni ONU

Di Fabrizia Candido “Colta con le mani nel sacco!”: si apre così il tweet di Donald Trump del 28 dicembre 2017, pubblicato dopo la diffusione del report del giornale sudcoreano Chosun Ilbo riguardo la vendita ed il trasbordo di petrolio operati segretamente da una nave cinese ad una nordcoreana, pratiche dichiarate illecite dalle risoluzioni ONU, come ricordato dal ministro del Tesoro statunitense Steven Mnuchin, e di cui l’agenzia Reuters accusa anche Mosca. L’allegazione è corroborata dalle immagini dei satelliti statunitensi che, dal mese di ottobre, hanno registrato circa 30 casi di rifornimento fra navi battenti bandiera cinese ed imbarcazioni nordcoreane. Arriva inoltre da Seul la notizia del sequestro della petroliera Lighthouse Winmore, formalmente battente bandiera di Hong Kong, sospettata di aver trasbordato il 19 ottobre 600 tonnellate di petrolio su una nave nordcoreana. Il portavoce del ministero della Difesa cinese Ren Guoqiang, interrogato durante un regular briefing in merito alla questione del transbordo, ha commentato: “Il problema da voi menzionato non esiste assolutamente”. La portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying ha invece lamentato che il report non

è stato accurato e che Pechino non permetterà mai alle compagnie nazionali di violare le risoluzioni dell’ONU. Solo una settimana prima la Cina aveva supportato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza promossa dagli USA in seguito al test missilistico del 28 novembre, in base alla quale le forniture di prodotti petroliferi e di petrolio greggio alla Corea del Nord non possono rispettivamente eccedere i 500.000 ed i 4.000.000 barili annui: un taglio di più del 90% sulle importazioni nordcoreane, che ha portato Kim Jong-un a definire le sanzioni “un atto di guerra”. Non sono nuove le critiche del Presidente statunitense verso le politiche commerciali della Cina. In realtà, Xi Jinping nutre m diffidenza verso Ki , il quale recentemente si sarebbe peraltro liberato di alti dirigenti filocinesi della gerarchia nordcoreana. Inoltre, per quanto il Leader Supremo, come sostenuto da Trump, possa esser messo all’angolo facilmente, dato che il 90% delle merci importate ed esportate in Corea del Nord dipende dalla Cina, la sopravvivenza della DPRK è considerata fondamentale a Pechino: il crollo di un altro regime comunista minerebbe la legittimità del PCC. A guidare la Cina ci sarebbe inol-

tre il timore dell’arrivo di un’ondata di profughi nordcoreani in caso di guerra e, soprattutto, dell’installazione di un regime ostile dall’altro lato del Fiume Yalu. La Corea del Nord starebbe assumendo quindi il ruolo di cuscinetto tra Cina ed esercito statunitense, che da tempo mantiene in Corea del Sud circa 28.500 truppe. Il superamento da parte degli Stati Uniti del 38° parallelo inimicherebbe anche Mosca, che, come Pechino, in seno al Consiglio di Sicurezza spinge per il dialogo, la diplomazia ed il double-freezing del programma nucleare nordcoreano e degli esercizi militari congiunti di USA e Corea del Sud. La Cina ha nel frattempo però accordato il proprio favore per le risoluzioni ONU contro la DPRK (1718, 1874, 2094, 2270, 2321, 2371 e 2375) e il governo ha annunciato di voler revocare la clausola del Trattato Sino-Nordcoreano di Amicizia, Cooperazione e Assistenza Mutuale del 1961, che costringerebbe Pechino a difendere Pyongyang nell’eventualità di un conflitto. Infine, l’intimazione che, se sarà Kim a cominciare il conflitto, l’obbligo pattizio non sussisterà sembra suggerire che l’alleanza Cina – Corea del Nord, come sostenuto anche da Jeffrey Bader del Brookings Institution, appartenga ormai al passato.

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ORIENTE 45° ANNIVERSARIO DELLE RELAZIONI DIPLOMATICHE SINO-AUSTRALIANE Tra importanti traguardi e crescenti tensioni

Di Francesca Galletto “Attraverso l’impegno dei governi, la lungimiranza e l’ingegno delle nostre comunità imprenditoriali, e il duro lavoro e il contributo personale di entrambi i popoli, abbiamo costruito una relazione che genera sostanziali benefici per entrambe le parti. La nostra società è stata enormemente arricchita dalle migliaia di cinesi che hanno fatto la loro casa in Australia e, a loro volta, molti australiani ora vivono e lavorano in Cina, dando il loro contributo al nostro partenariato bilaterale.” In occasione del 45° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Australia e Cina, queste sono state le parole del ministro australiano degli Affari Esteri Julie Bishop. Dal 1972 i due Paesi hanno intrapreso una sempre più stretta relazione diplomatica e commerciale. Al centro del loro rapporto c’è l’accordo di libero scambio entrato in vigore nel 2015, legami economici e d’investimento in rapidissima crescita, con un commercio a doppio senso valutato circa 155 miliardi di dollari. La partnership sino-australiana non si limita al campo economico, ma comprende cooperazione e collaborazione in settori come la legge e l’ordine pubblico, il crimine transnazionale, la 12 • MSOI the Post

lotta al terrorismo e la sicurezza informatica. I rapporti restano però difficili se si considera il coinvolgimento dell’Australia nella disputa sul Mar Meridionale Cinese. In seguito alle osservazioni pubblicate nel Libro Bianco sulla politica estera dell’Australia, la retorica cinese si è inasprita. In esso emerge come la Cina abbia causato tensione nell’area, sfidando la posizione dominante degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico. Inoltre traspare una certa preoccupazione per il ritmo e le dimensioni senza precedenti delle attività espansive cinesi. Il testo si oppone inoltre alla costruzione di strutture insulari artificiali a scopi militari, promuovendo la risoluzione delle differenze attraverso negoziati basati sul diritto internazionale. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lu Kang, lo stesso giorno della pubblicazione del libro, ha invitato l’Australia a non intromettersi nella questione, non essendo direttamente interessata, e ad astenersi dal fare osservazioni irresponsabili. A capodanno, un articolo del Global Times, quotidiano del Partito Comunista Cinese, ha sottolineato come l’interferenza dell’Australia nell’area potrebbe spingere la Cina ad adottare

contromisure che potrebbero avere un serio impatto sullo sviluppo economico dell’Australia. Una reazione simile da parte della Cina non è da escludersi, e potrebbe ricalcare quanto avvenuto con le Filippine per una contesa insulare nelle stesse acque. L’Australia non è indifferente a questo genere di leva economica. La Cina è infatti il più grande mercato di esportazione del Paese e le vendite di alcuni prodotti agricoli potrebbero trovarsi a rischio se la Cina dovesse sostanziare l’avvertimento. Paul Keating, ex Primo Ministro australiano, ha dichiarato che il governo non sembra comprendere l’importanza economica della relazione con la Cina e le questioni strategiche ad essa collegate. Alcuni funzionari dell’esecutivo cinese ritengono che la posizione dell’amministrazione di Turnbull rifletta il fatto che il rapporto bilaterale tra Australia e Cina stia attraversando un periodo di tensione. La storia dirà se sarà il preludio di un radicale cambiamento politico e diplomatico o se si tratta di ardimento retorico a breve termine.


AFRICA AMBAZONIA: CRISI NAZIONALE O SOLUZIONE FEDERALE? A rischio la stabilità interna del Camerun

Di Barbara Polin La stabilità interna del Camerun affronta la sua più importante sfida dai tempi dell’unificazione, avvenuta nel 1961 tra la colonia francese e quella inglese. Le proteste pacifiche intraprese dalla minoranza di lingua inglese nel 2016, infatti, sono degenerate negli ultimi mesi in uno scontro aperto con il governo centrale di Yaoundè, a maggioranza francese. Un attacco armato ha causato la morte di 4 poliziotti in servizio presso la regione del Manyu, nel sud-ovest del Paese. Tale area, a maggioranza anglofona, fa parte dell’autoproclamata Repubblica di Ambazonia, costituitasi il 1 ottobre 2017, ed è la concretizzazione politica del progetto secessionista più radicale. Essa si presenta come una spaccatura dell’unità nazionale, resa fragile dalla repressione contro i rappresentanti della comunità di lingua inglese, che protestavano per le discriminazioni nell’istruzione e nell’amministrazione pubbliche. L’auto-proclamatasi Repubblica si estende per circa 45 chilometri lungo il perimetro sud-occi-

dentale ed è diventata una faglia di apertura per una crisi umanitaria, che si congiunge con la minaccia terroristica della nigeriana Boko Haram, in fase di rapida ramificazione nel territorio camerunense. Il governo centrale, nel tentativo di ripristinare il controllo sul territorio insorto, ha dichiarato lo stato di emergenza, bloccando anche le attività economiche di presunti separatisti. Le frequenti incursioni dell’esercito regolare nella regione hanno contribuito all’aumento del flusso dei richiedenti asilo verso la confinante Nigeria. Le fonti di Abuja indicano che ad oggi circa 10.000 individui sono stati accolti nei campi rifugiati allestiti nel sud-est del Paese, ma sono più di 30.000 camerunensi a cercare rifugio nell’anglofona Nigeria. Le radici dell’instabilità attuale sono rintracciabili sia nella storia nazionale camerunense, che in più recenti sviluppi politici. Per quanto riguarda la prima, la differenza linguistica tra le due regioni dell’ovest e il resto dello Stato è stata uno dei motivi alla base dell’adozione di una Costituzione federale da parte del Camerun indipendente. Que-

sta, tuttavia, ebbe vita breve: negli anni ‘70, infatti, fu abolita a favore di un testo che istituisse uno Stato unitario. Una parte della minoranza anglofona lesse tale decisione come un tentativo di marginalizzazione ordito dalla maggioranza francofona. Le successive politiche di centralizzazione e di assimilazione di Yaoundè aumentarono la distanza fra le autorità francofone e i cittadini anglofoni. Questo divario, negli anni, si è rivelato essere un contesto fertile perché si alimentasse un clima di reciproca sfiducia. La politica recente ha fornito la miccia perché questa trovasse espressione: nell’ottobre 2016, di fronte alla mancata approvazione parlamentare dello status di nazione bilingue, sono scoppiate le proteste, allargatesi a macchia d’olio nelle regioni anglofone. La coltre di sospetto e incomprensione, alla base del peggioramento della stabilità interna, potrebbe essere dissolta dall’avvio di un dialogo politico tra i rappresentanti del movimento anglofono e il governo centrale, onde evitare una frattura pericolosa interna alla nazione camerunense. MSOI the Post • 13


AFRICA GEORGE WEAH SCENDE NUOVAMENTE IN CAMPO L’ex atleta vince le elezioni e a 51 anni diventa Presidente della Liberia

Di Valentina Rizzo George Weah, stella del mondo calcistico degli anni ’90, sarà il nuovo Presidente della Liberia. L’ex calciatore, infatti, il 26 dicembre scorso ha battuto alle elezioni presidenziali il rivale Joseph Boakai, attuale vicepresidente, aggiudicandosi il 61.5% dei voti. Dopo aver concluso una brillante carriera sportiva (fu vincitore del Pallone d’Oro nel 1995), Weah nel 2004 si diede all’attività politica, fondando il partito Congresso per la Democrazia e il Cambiamento (CDC). L’anno successivo si presentò alle elezioni per la presidenza, ma venne sconfitto al ballottaggio dall’imprenditrice Ellen Johnson-Sirleaf, prima donna eletta alla presidenza in un Paese africano. Annunciò poi di volersi ricandidare per il CDC alle presidenziali del 2011, ma alla fine si presentò come vice di Winston Tubman e Sirleaf venne confermata nuovamente alla presidenza. Nel 2014 riuscì ad entrare in Senato. Per la Liberia, queste elezioni rappresentano un momento di svolta: si tratta infatti non solo della terza consultazione elettorale dalla fine della guerra civi-

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le, ma anche della prima transizione di potere pacifica e democratica dal 1947. Tra il 1989 al 2003 si combatterono due sanguinose guerre civili, che causarono la morte di circa 250.000 liberiani. I 14 anni di guerra ebbero terribili conseguenze sullo sviluppo economico e infrastrutturale dello Stato, che tutt’oggi si trova in una situazione critica. Secondo le Nazioni Unite, infatti, la Liberia si colloca al 177° posto sulla scala dell’Indice di Sviluppo Umano. In accordo con le stime del World Food Programme, inoltre, l’83% della popolazione vive con meno di $1,25 al giorno. Ad aggravare la già difficile situazione economica vi è stata la gravissimaepidemia di Ebolache ha colpito il Paese tra il 2014 e il 2015, causando migliaia di morti e mettendo a dura prova un sistema sanitario già provato dalla recente guerra. Il nuovo Presidente, dunque, dovrà far fronte a numerose sfide, tra le quali si può annoverare la gestione dell’eredità politica lasciata da Sirleaf. La Presidentessa uscente fu vincitrice del premio Nobel per la pace nel 2011, in ragione del suo impegno per il miglioramento dei diritti delle donne.

Tuttavia, la fine del suo mandato è stata coronata da una serie di accuse di nepotismo, per aver affidato a tre dei suoi figli importanti incarichi a livello governativo. In questo contesto, il programma politico di Weah non sembra essere abbastanza chiaro. Il miglioramento dell’economia e la lotta alla povertà sembrano le due principali aree nelle quali si avrebbe intenzione di intervenire una volta al potere, ma il neo-eletto non ha ad ora saputo specificare quali azioni concrete metterà in atto per ottenere risultati concreti. L’ex calciatore ha però ricevuto numerose critiche per aver scelto come suo vice Jewel Howard Taylor, moglie di Charles Taylor. Quest’ultimo fu Presidente della Liberia dal 1997 al 2003 e nel 2012 è stato condannato a 50 anni di reclusione dalla Corte Speciale per la Sierra Leone per crimini contro l’umanità commessi negli anni della guerra civile. Il supporto dell’elettorato più giovane è stato fondamentale per la vittoria di Weah alle presidenziali: l’eroe del pallone incarna un desiderio di cambiamento che molti sperano non venga deluso.


AMERICA LATINA SCANDALO POLITICO IN PERÙ Concessa la grazia ad Alberto Fujimori

Di Tommaso Ellena Il presidente peruviano Pedro Pablo Kuzczynski ha preso una decisione che è stata contestata da parte della popolazione peruviana. Il 24 dicembre ha infatti concesso la grazia ad Alberto Fujimori, arrestato il 7 novembre 2005 per l’omicidio di 27 persone, sequestro di persona e violazione dei diritti umani, reati compiuti quando era Presidente del Paese (1990-2000). La società peruviana è divisa sulla questione: parte della popolazione non ha ancora dimenticato le atrocità compiute dall’ex Presidente, mentre un’altra parte preferisce sottolineare l’importanza degli interventi positivi della presidenza Fujimori, come i miglioramenti dell’economia e la sconfitta dei gruppi armati Sendero Luminoso e Movimento Revolucionario Túpac Amaru. La decisione di Kuzcynski, però, sembra legata alla sua precaria posizione politica: a metà dicembre il Parlamento peruviano ha infatti iniziato il procedimento per l’impeachment. L’accusa è di aver ricevuto tangenti da parte della società edile brasiliana Odebrecht nel periodo in cui era Ministro delle Finanze sotto la presidenza García, anch’egli accusato di corruzione. Nel documento presentato per solleci-

tare la destituzione di Kuczynski si sottolinea come “l’incapacità morale è applicabile in caso di condotte gravi che, senza essere delitti o infrazioni di giudizio politico, deteriorino la magnificenza e la dignità presidenziale, soprattutto quando il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e personifica la Nazione”. Kuzcynski, pur ammettendo le sue colpe, non ha ceduto alle richieste di dimissioni, dichiarando: “non abdicherò per il mio onore, per i miei valori, per la mia responsabilità come Presidente di tutti i peruviani. Sono disposto a difendere la mia verità”. Il 21 dicembre scorso il Parlamento ha votato contro l’impeachment. Non è stata raggiunta la soglia di voti necessaria (fissata dalla Costituzione a 87) per destituire il Presidente. Decisiva l’astensione di Kenji Fujimori (figlio di Alberto), che ha convinto 9 dei 61 fujimoristi in Parlamento a votare contro l’impeachment. All’interno della famiglia Fujimori c’è stato un netto contrasto: la sorella maggiore Keiko ha votato a favore della destituzione, così come altri 60 fujimoristi. L’aiuto di Kenji è stato ricambiato con la concessione di grazia al padre. I fujimoristi hanno celebrato sui social network e fuori dalla clini-

ca dove l’ex capo di Stato è ricoverato, mentre più di 500 persone hanno tentato di raggiungere la casa di Kuczynski in segno di protesta. La polizia ha caricato violentemente i manifestanti, respingendoli con l’aiuto dei lacrimogeni. D’ora in poi il Kuzcynski non potrà più appoggiarsi acoloro che criticano il fujimorismo, ma piuttosto cercare in Kenji e Keiko degli alleati. Permangono, inoltre, dubbi sulle reali condizioni di Fujimori: secondo Elmer Huerta, oncologo peruviano del Washington Hospital Center “Questo indulto non ha giustificazioni. Il signor Fujimori soffre di malattie come qualsiasi persona della sua età”. Dal punto di vista legale c’è poi ancora possibilità che Fujimori possa rientrare in prigione: secondo l’avvocato penalista Luis Lamas Puccio “coloro che sono contrari all’indulto possono appellarsi alla Corte Interamericana dei Diritti Umani, che può ribaltare la decisione di Kuzcynski”. La Corte stessa indica chiaramente come gli Stati “debbano astenersi dal ricorrere ad amnistia, indulto e stabilire esclusioni di responsabilità, così come misure che impediscano la persecuzione pensale o sopprimere gli effetti di una sentenza condannatrice”. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA UNA PRIMAVERA LATINA?

In Honduras 8 mila persone in piazza per protestare contro Hernández

Di Anna Filippucci Un inizio anno tutt’altro che tranquillo in Honduras, dove continuano le manifestazioni contro il presidente Juan Orlando Hernández, rieletto in condizioni dubbie il 26 novembre 2017. Il risultato della consultazione elettorale è stato considerato fraudolento dall’opposizione di sinistra, ed è per questo che un ricorso è stato presentato immediatamente al Tribunal Supremo Electoral (TSE); il risultato di tale richiesta si è fatto attendere fino al 5 di gennaio, quando è stata rifiutata per “mancanza di prove”. Hernández è stato quindi dichiarato ufficialmente Presidente. Il leader dell’opposizione, Salvador Nasralla ha dichiarato che non si arrenderà e presenterà nuovamente ricorso per richiedere giustizia. Durante un discorso in diretta televisiva sul canale HCH, Nasralla ha affermato che, in un clima di corruzione dilagante, la risposta del TSE conferma di fatto una collusione tra il Tribunale e la presidenza di Hernández, definita una dittatura. L’intervento dell’ex candidato è stato seguito, il 6 gennaio, da una grande manifestazione a San Pedro Sula, la seconda città dell’Honduras.

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8.000 persone, secondo i militanti per i diritti umani, sono scese in piazza per protestare. Si trattava di militanti nella coalizione di sinistra, ma anche di comuni cittadini che hanno bandito cartelli e intonato cori per opporsi a un Governo che ritengono dittatoriale. Con il pretesto dei brogli, questa manifestazione, come le altre che si sono svolte nelle scorse settimane, ha dato voce alle richieste più varie e a una domanda generale di cambiamento. Gli appelli della popolazione sono tanti: c’è chi richiede la liberazione dei prigionieri politici, chi invoca la fine degli omicidi di Stato, chi semplicemente rifiuta che, anche in seguito a elezioni democratiche, la “dittatura” possa resistere. Manuel Zelaya, ex-Presidente dell’Honduras e coordinatore dell’alleanza di opposizione insieme a Nasralla, ha incitato la popolazione alla disobbedienza civile e agli scioperi; blocco del traffico, dei porti, degli aeroporti e dei servizi essenziali: tutti i mezzi di protesta sono utilizzabili, pur di ottenere il rispetto della volontà popolare. Zelaya ha inoltre espresso il suo disaccordo con la posizione dell’Organizzazione degli

Stati Americani (OEA), la quale, dopo settimane di tentennamento, ha annunciato che l’unica via per risolvere la situazione sarebbe di ripetere le elezioni, data l’impossibilità, con i dati disponibili, di determinare chi sia il vero vincitore del voto di novembre. Tra i Paesi parte dell’Organizzazione, l’ex Presidente diffida principalmente degli Stati Uniti, i quali sono tra la ventina di Nazioni che ha riconosciuto l’elezione di Hernandez. È senza dubbio una situazione incandescente quella in cui si trova l’Honduras: da una parte è possibile ignorare l’ingiustizia e la mancanza di reale democrazia nel Paese, dall’altra sembra difficile contestare la decisione ufficiale del TSE e cambiare le sorti di queste elezioni. Quel che sembra certo, però, è che analogamente all’Argentina e al Venezuela, in Honduras la società civile si è risvegliata ed è pronta a prendere in mano il proprio destino. Fino ad ora, il bilancio delle manifestazioni che hanno seguito il voto è di una trentina di vittime. Gli scontri con la polizia non sono mancati e sono stati riportati durissimi episodi di repressione violenta.


ECONOMIA TASSE UNIVERSITARIE DAL KANSAS ALL’UE

I cittadini statunitensi sostenuti dalla “Rural Opportunity Zones”

Di Francesca Maria De Matteis Settantasette delle sue 105 contee sono le protagoniste del nuovo progetto promosso dal Department of Commerce del Kansas, Stato degli Stati Uniti centrali abitato da circa 3 milioni di persone. Il Dipartimento le autorizza a fornire incentivi finanziari per i nuovi residenti. I più coinvolti dal provvedimento sono gli studenti universitari, i quali, una volta provata l’effettiva residenza a tempo pieno e a lungo termine nello Stato a partire dal 1 luglio 2011, potranno ricevere un rimborso sul prestito studentesco fino a 15.000 dollari. Tale cifra, comunque, non arriverebbe a coprire l’intero ammontare del debito, rappresentando solamente il 20% dell’importo totale medio che i cittadini americani devono sostenere durante il loro percorso di studi superiori. Sono ammessi al bando tutti coloro che sono in possesso di una laurea triennale o magistrale o un associate’s degree e la cui situazione economica sia gravata da un sostanziale debito verso lo Stato dovuto alle spese universitarie.

Chiamato “Rural Opportunity Zones” (ROZ), questo progetto darà la possibilità anche ad una parte dei nuovi residenti, non studenti, di essere esonerati dal pagamento delle tasse sul reddito, per un periodo lungo fino a cinque anni. Requisiti fondamentali per essere autorizzati a procedere alla domanda di esonero sono l’aver vissuto per almeno 5 anni al di fuori del Kansas con uno stipendio inferiore ai 10.000 dollari e l’aver stabilito la propria residenza in una delle contee coinvolte nel momento o successivamente all’entrata in vigore del progetto. Si pensa saranno almeno 40 milioni i nuovi cittadini coinvolti dalla proposta. Recenti studi hanno individuato nell’educazione la principale fonte della disuguaglianza sociale e delle differenze economiche che caratterizzano le società moderne all’interno e tra i Paesi. Nonostante ciò, le misure attuate dai singoli governi di tutto il mondo sembrano differire profondamente tra loro. Valorizzato e incentivato in alcune zone del Pianeta, quando non addirittura considerato

un settore meritevole di sussidi, come, ad esempio, tra gli stati dell’Unione Europea, accade in Grecia, in altre frequentare l’università sembra addirittura un lusso. In Europa, i Paesi che si dimostrano maggiormente vicini a studenti e laureandi sono la Finlandia e la Norvegia, dove le borse di studio possono andare ben oltre le poche migliaia di euro (fino a 9,600). Anche tenendo conto delle agevolazioni in base al reddito, al merito e al luogo di residenza, in Italia le tasse richieste agli studenti dalle università pubbliche sono tra le più alte d’Europa. Vari studi condotti da diverse agenzie, come Eurydice, la rete ufficiale europea che fornisce informazioni sull’educazione, o Federconsumatori, hanno stimato una media nazionale per fasce di reddito: per la fascia più bassa, la tassa media corrisponde a 527,71 euro, mentre per quella più alta è di 2.104,97 euro. Escludendo gli studenti esonerati dal pagamento per merito, disabilità o altri motivi, rimane a versare l’importo dovuto circa l’88% della popolazione studentesca italiana. MSOI the Post • 17


ECONOMIA L’UNIONE EUROPEA STUDIA UNA TASSA SUL CONSUMO DI PLASTICA La scelta sarebbe dettata non solo da ragioni ambientali, ma soprattutto economiche

Di Giacomo Robasto L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, prevista entro il primo trimestre del 2019, avrà delle conseguenze di primaria importanza sul funzionamento dell’Unione: tra queste, vi sarà senz’altro una diminuzione delle risorse finanziarie destinate al bilancio comune europeo, che si tradurranno presto in un ammanco stimato tra i 12 e i 14 miliardi di euro l’anno. La Commissione europea, dunque, tra le molteplici attività in cui è coinvolta, sta anche pensando a come reperire rapidamente nuova liquidità per le casse comunitarie. A questo scopo, secondo quanto ha rivelato il quotidiano britannico The Independent, una prima proposta concreta sarà presentata ufficialmente la prossima settimana dal commissario europeo al bilancio, il tedesco Gurten Oettinger. Tale iniziativa consiste nell’introduzione di una tassa sul consumo di plastica, con la duplice finalità di disincentivarne l’utilizzo da parte dei cittadini e di ridurre così la quantità di rifiuti plastici non smaltibili o destinati al riciclo, che proprio a partire da quest’anno sarà più complicato rispetto al passato. 18 • MSOI the Post

Questa complicazione è legata al fatto che, a partire dal 1° gennaio scorso, la Cina ha vietato l’importazione di 24 tipi di materie prime e lavorate destinate al riciclo. Tra queste, vi sono soprattutto le plastiche post-consumo, il PET delle bottiglie, i sacchetti, il PVC, le plastiche per gli imballaggi alimentari, il PS delle posate usa e getta e molte altre. Per comprendere il contributo della Repubblica Popolare Cinese nel riciclo delle plastiche europee, basta porre mente a qualche cifra: tra il 1995 e il 2016 le importazioni di materie plastiche da recupero sono decuplicate passando dagli iniziali 4,5 milioni di tonnellate a ben 45 milioni nel 2016. In altre parole, in tempi recenti quasi la metà degli scarti di plastica europei erano destinati al mercato cinese per il riciclo o lo smaltimento. Il bando imposto dalla Cina avrà un impatto notevole non soltanto sull’industria mondiale del riciclo, ma anche sulla produzione cinese, che tutt’ora dipende moltissimo dai materiali riciclati. Infatti, la grande crescita dell’economia cinese si deve anche al recupero non soltanto delle plastiche, ma anche di carta e cartoni

da imballaggi. Uno sviluppo, però, che non aveva mai voluto prendere in considerazione le conseguenze sull’ambiente. Ora, il Paese asiatico sembra voler correre ai ripari anche con la chiusura di alcuni impianti di riciclo ritenuti tra i più contaminanti. In ogni caso, la prossima settimana, spetterà al commissario europeo Oettinger stabilire la natura della nuova tassa: infatti, non è ancora chiaro se il provvedimento andrà a colpire le componenti che si usano per produrla, e se ci saranno esenzioni per i prodotti di uso più comune. Ma soprattutto, sarà necessario fare luce sui soggetti colpiti dalla nuova imposta, se cioè ricadrà sui produttori all’inizio del ciclo produttivo o ai consumatori alla fine della catena. L’unica certezza, al momento, rimane l’effetto nefasto che l’inquinamento da materie plastiche provoca sull’ambiente: se si considera che il 79% del materiale plastico prodotto, dagli anni Cinquanta del secolo scorso ad oggi, è finito nelle discariche e nei mari, e che la popolazione mondiale è in aumento, è necessario studiare misure drastiche per sradicare l’utilizzo della plastica.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO ADDITIVI FOSFATICI NEL KEBAB

Che cosa potrebbe cambiare nella normativa dell’UE

Di Chiara Montano L’obiezione all’autorizzazione dell’uso di additivi fosfatici nei kebab, votata dal Parlamento europeo lo scorso 13 dicembre, non ha ottenuto la maggioranza assoluta di 376 deputati necessaria per essere approvata. Da una relazione della Commissione europea del 2017 è emerso che in alcuni Stati membri le autorità e gli operatori del settore alimentare abbiano interpretato diversamente (e talvolta in maniera errata) la legislazione dell’Unione europea sui prodotti a base di carne. Per questa ragione, l’applicazione delle regole sulla sicurezza alimentare non è stata uniforme. I più ghiotti di kebab all’interno dell’UE sono i tedeschi, che ne consumano circa l’80%. Sono stati proprio quest’ultimi, infatti, ad allarmarsi maggiormente quando è stata prospettata la possibilità che il Parlamento europeo ponesse il veto all’autorizzazione da parte della Commissione. Nell’Unione europea esistono svariati additivi e aromatizzanti di affumicatura de-

stinati all’uso alimentare. L’UE ha effettuato delle valutazioni preventive su tali sostanze e ne ha regolato l’uso con una vasta normativa. Se usati conformemente agli obblighi stabiliti dalla legge, gli additivi alimentari possono contribuire a migliorare la qualità e la sicurezza degli alimenti. Tuttavia, l’abuso di alcuni di essi può portare dei rischi per la salute umana. Per questa ragione, la normativa europea stabilisce limiti massimi per la maggior parte degli additivi. I fosfati sono generalmente vietati nella preparazione della carne dal Regolamento n. 1333/2008, tuttavia l’uso di tali sostanze è permesso nella preparazione di una piccola quantità di prodotti, fra i quali non rientra, per ora, il kebab. L’articolo 6 del Regolamento n. 1333/2008 prevede che un additivo alimentare possa essere incluso negli elenchi delle sostanze il cui uso è concesso soltanto se, sulla base dei dati scientifici disponibili, è escluso che possa causare problemi di sicurezza per la salute dei consumatori e se il suo impiego è ragionevolmente considerato una necessità tecnica che non può essere

soddisfatta con altri mezzi. Inoltre, il suo utilizzo non deve poter indurre in errore i consumatori. La Commissione che si occupa di salute e sicurezza alimentare era contraria all’autorizzazione per motivi sanitari; inoltre, un articolo scientifico pubblicato nel 2012 sosteneva che gli additivi alimentari in taluni casi possono aumentare il rischio di malattie cardiovascolari. L’EFSA (European Food Safety Authority) sta svolgendo uno studio scientifico proprio sui rischi connessi all’utilizzo degli additivi che dovrebbe essere pubblicato entro la fine del 2018. Il testo dell’obiezione invitava il Parlamento europeo ad opporsi all’autorizzazione in attesa dei risultati di questo studio. Da questo momento, però, la Commissione europea potrà procedere ad autorizzare l’uso degli additivi fosfatici nella carne del kebab. Essa, infatti, ritiene che l’uso dei fosfati nel kebab sia necessario per ragioni “tecniche” legate alla sua preparazione, nonché alla cottura e al congelamento e che non vada ad intaccare la salute dei consumatori.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL PRINCIPIO DI SOLIDARIETÀ NELL’UNIONE EUROPEA L’Art. 80 TFUE che chiede fiducia

Di Stella Spatafora Dal punto di vista etico e sociale la solidarietà è quel rapporto di sostegno reciproco tra i soggetti di una collettività, che genera un sentimento di connessione e condivisione di interessi e obiettivi comuni. Nel contesto dell’UE la solidarietà è un elemento costante e trova codificazione nell’Art. 80 TFUE in cui si afferma che “le politiche dell’Unione e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri”. La formulazione dell’Art. 80 delinea un vero e proprio ruolo istituzionale della solidarietà, per garantire armonia tra gli Stati membri e l’UE e per realizzare efficacemente gli obiettivi del Trattato. La presa di coscienza e la considerazione giuridica di un concetto così risoluto ha permesso alla stessa UE di evolversi in termini di valori da salvaguardare specialmente in materia di immigrazione, frontiere e asilo. È cruciale in tali ambiti il collegamento tra solidarietà e ripartizione delle responsabilità, ovvero l’espressione più grande di ciò che può essere definito solidaristico. A causa dell’elevato numero di migranti giunti sulle coste europee nel corso degli ultimi anni, l’UE ha cercato di suddividere 20 • MSOI the Post

gli oneri derivanti dalla solidarietà e dalla ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, compito assai difficile e non privo di contraddizioni e carenze sistemiche. Infatti, per “L’Europa delle migrazioni” il 2017 è terminato attraverso l’insorgenza e l’aggravarsi di imponenti lacune nell’armonizzare la gestione dei flussi migratori. Questo ha smosso la consapevolezza di una frontiera ‘esterna’ che non può arrestarsi in paesi come Grecia e Italia, ma si protrae in altre aree del Mediterraneo e dei Balcani, tormentate da un transito eccezionale di persone che si trovano ad “attraversare” veri e propri vuoti di diritto, intensificando il fenomeno del traffico degli esseri umani. Inoltre, continua a persistere la fase di stallo del sistema di Dublino e della gestione delle frontiere Schengen, rivelando un blackout nel sistema comune di asilo europeo. Tutte queste debolezze intrinseche rappresentano la necessità di considerare un’applicazione efficace della solidarietà attraverso l’equa ripartizione delle responsabilità, in modo da permettere agli Stati membri e alle Istituzioni europee di generare un processo virtuoso, armonizzato e basato su maggior cooperazione e sostegno. Dal punto di vista giuridico il problema è

che la solidarietà risulta essere un principio vago, con spazi di discrezionalità e margini di apprezzamento ampi. Infatti, come viene ribadito nella Decisione del Consiglio del 14 settembre 2015 sulla ricollocazione “a beneficio dell’Italia e della Grecia”, la promozione attiva e positiva della solidarietà non conosce vincoli obbligatori o predeterminati; L’Art. 80 non vuole creare un obbligo di fare in capo alle istituzioni, bensì insistere sulla sussidiarietà che pone in prima linea gli Stati membri, subordinando un intervento dell’Unione all’impotenza degli stessi. Dunque, seppur nella teoria la solidarietà appare ambiziosa, un concetto di così ampio respiro ne rende difficile l’applicazione esaustiva dal punto di vista pratico. Come poter rinforzare la solidarietà nell’Unione europea? Probabilmente attraverso maggiore lealtà, utile a incentivare fiducia reciproca sia tra gli Stati membri sia nei confronti delle Istituzioni Europee. Quella tra lealtà, fiducia e solidarietà è una connessione imprescindibile, fatta di tre elementi essenziali volti alla gestione virtuosa ed efficace delle politiche dell’Unione Europea.


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