MSOI thePost Numero 92

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino

LA CINA E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE pag. 12


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

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N u m e r o

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EUROPA LA GERMANIA RISCRIVE LA STORIA DEL LAVORO

Storico accordo raggiunto fra industriali e sindacati per la ridefinizione dell’orario lavorativo

Di Simone Massarenti La Germania scrive un nuovo capitolo del rapporto fra sindacati e industriali raggiungendo un accordo storico sull’orario di lavoro, portato a 28 ore settimanali. Per il momento le modifiche verranno applicate nel Baden-Wurttemberg, regione in cui si è concluso il patto e bacino industriale di circa 900.000 lavoratori, area pilota da estendere successivamente all’intera Germania. L’accordo prevede, per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, la possibilità di ridurre su base volontaria la settimana lavorativa da 40 a 28 ore per un periodo dai 6 ai 24 mesi. Tale riduzione, nel caso in cui riguardi lavoratori che ne fanno richiesta per motivi familiari o per a causa di lavori usuranti, non comporterà il taglio dello stipendio, punto sul quale sindacati e industrie si sono scontrate nei mesi scorsi. L’intesa tutelerà anche le industrie: i lavoratori che volessero aumentare l’orario di lavoro da 35 a 40 ore potranno farlo, sempre su base

volontaria. La volontarietà è un elemento fondamentale in quanto, durante le trattative, i sindacati hanno indetto uno sciopero a tempo indeterminato del comparto metallurgico. Il leader sindacale Jörg Hofmann ha riportato alla BBC che “l’accordo rappresenta una pietra miliare verso un mondo del lavoro moderno e auto-determinato”. Come ricorda l’emittente inglese, la flessibilità del lavoro è un tema caldo in Germania fin dai tempi della riunificazione, e questo sottolinea l’importanza e la necessità di un accordo che permettesse ai lavoratori di coniugare lavoro e famiglia. Questo passo avanti trova terreno fertile in una situazione di forte crescita dell’economia tedesca: nell’ultimo anno l’economia ha visto una crescita del 2,2%, un aumento rispetto ai 6 anni precedenti nonché un forte rialzo rispetto alla media dello 0,81% degli ultimi 10 anni. L’analista della Commerzbank Eckart Tuchtfeld considera che su base annuale l’implementazione del nuovo orario di lavoro porterà a un aumento del

3,5% dei salari, percentuali certificate da confermate anche dall’economista Frederik Ducrozet, che nelle sue dichiarazioni alla Reuters, ha affermato come “le misure e gli accordi economici presi porteranno ad un forte incremento dei salari nei prossimi anni”. L’aspettativa è quella di poter applicare il modello in tutta la Germania, trovando il benestare anche delle altre industrie. A tal proposito, la seconda forza sindacale tedesca, quella dei Verdi, pubblicherà a breve una proposta salariale per il settore pubblico. Tale necessità deriva, come affermato da Christiane von Berg, dal “cambio di priorità dei lavoratori”. Per il momento, la certezza è che dal 2019 i lavoratori riceveranno comunque un bonus annuale di 400 euro, equivalente al 27,5% della loro paga mensile. La situazione è in continua evoluzione e, nell’ottica di un ampliamento dell’accordo a livello nazionale, sarà necessario proporre garanzie sufficienti a placare i dubbi delle piccole e medie imprese.

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EUROPA INIZIA LA SECONDA FASE DEI NEGOZIATI UK - UE

Theresa May e Michel Barnier dovranno trovare un accordo sull’unione doganale

Di Rosalia Mazza Il 5 febbraio 2018 è iniziata la seconda fase dei negoziati sulla “hard Brexit”: Michel Barnier, negoziatore UE per la Brexit, David Davis, segretario per la Brexit, e il Primo ministro britannico Theresa May, si sono incontrati a Londra per discutere dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea e preparare i colloqui che si terranno a Bruxelles fino al 9 febbraio. Si apre così la seconda parte degli accordi sulla Brexit, che riguarderanno in particolar modo sulle relazioni commerciali tra il Regno Unito e i membri dell’Unione Europea, e sulla fase di transizione che sarà necessaria affinché i mercati e i Governi si adeguino. I primi negoziati si sono conclusi l’8 dicembre 2017: la premier May e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker avevano annunciato che, seppure faticosamente, un accordo era stato raggiunto in materia di diritti dei cittadini UE residenti all’interno della Gran Bretagna e rispetto all’ammontare delle sanzioni applicate da Bruxelles. Altra

importante

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questione

trattata durante questa prima fase è stata lo status dell’Irlanda del Nord: nonostante l’iniziale scetticismo della Repubblica d’Irlanda, Theresa May si è mostrata favorevole alla soluzione di un’isola economicamente unita. L’uscita della Gran Bretagna dall’UE non intacca, dunque, l’Accordo del Venerdì Santo e il conseguente ampio autogoverno dell’Irlanda del Nord. Belfast non sarà penalizzata dalle barriere commerciali che la separeranno dall’Eire, e manterrà il suo ruolo di membro dell’unione doganale europea. Questa decisione ha però causato le rimostranze della Scozia, contraria alla Brexit e desiderosa che quanto applicato all’Irlanda del Nord venga reso valido anche per le altre nazioni del Regno Unito. Nonostante i dissensi, la premier May e il presidente Juncker si erano mostrati ottimisti e pronti a iniziare la seconda fase dei negoziati all’insegna di una rinnovata fiducia. Il tempo della seconda sessione di negoziati è dunque giunto, e questo secondo round sembra essere più difficoltoso del primo acausadeipiùprofondidisaccordi in materia commerciale. Londra ha già manifestato la volontà di non far parte

dell’unione doganale, né del mercato comune europeo, ma non vuole che questo comporti il pagamento di dazi sulle operazioni commerciali. È proprio su questo punto che Barnier ha mostrato più resistenze: ha dichiarato che l’uscita dall’UE comporterà, per la Gran Bretagna, un trattamento pari a quello riservato a tutti gli Stati non membri, fatto salvo il periodo di transizione che renderebbe ufficiale la Brexit solo nel dicembre del 2020. I disaccordi sulla fase transitoria, durante la quale la condizione della Gran Bretagna non sarebbe diversa da quella attuale, riapre il dibattito sulla questione dei diritti dei cittadini: mentre la Gran Bretagna vorrebbe applicare le sue norme sui cittadini comunitari residenti all’interno del suo territorio a partire dall’uscita formale dall’UE, Bruxelles vuole che Londra rinunci all’esclusività del suo diritto e rispetti le normative europee fino al 2020. Le parti dovranno trovare un accordo su vecchi e nuovi contenziosi prima di presentare la proposta finale al Parlamento di Strasburgo entro il 29 marzo 2019, data dell’uscita formale della Gran Bretagna dall’UE.


NORD AMERICA LA RIPRESA DELL’ECONOMIA U.S. PREOCCUPA I MERCATI FINANZIARI

Il previsto aumento dell’inflazione ha spaventato Wall Street

Di Luca Rebolino Dopo più di un anno di considerevole e sostenuta crescita, lunedì 5 febbraio i mercati azionari hanno avuto una forte ricaduta, a completamento di un trend negativo era iniziato il venerdì precedente. Per la Borsa statunitense questa è stata la peggiore giornata dall’agosto 2011: il Dow Jones è sceso di 1.100 punti e, alla chiusura, ha registrato perdite finali del 4,61%. Anche nelle altre borse mondiali si sono registrate importanti conseguenze, soprattutto in Europa e in Giappone, e una spiccata volatilità ha caratterizzato i giorni successivi, sebbene ora si possa affermare che i mercati si siano parzialmente ripresi. L’evento risulta particolarmente significativo perché questo “panico finanziario” non è frutto di condizioni critiche dell’economia. Al contrario, recentemente sono state registrate ottime aspettative di crescita per le economie mondiali, Stati Uniti in primis, e l’ultima grave recessione sembra ormai superata. In particolare, si pensa che a breve le autorità monetarie inizieranno a ridurre

considerevolmente le emissioni di denaro e che alzeranno i tassi di interesse, tuttora straordinariamente bassi. I mercati finanziari temono però che la Fed agisca in maniera troppo repentina e decisa. Si crede che, per evitare il pericolo dell’inflazione, probabilmente ricorrerà ad una stretta monetaria, alzando per almeno tre volte i tassi di interesse nel corso del 2018. L’inflazione potrebbe costituire un problema, perché grazie alla ripresa dell’economia il mercato del lavoro statunitense si sta avviando verso una piena occupazione. I salari, infatti, si sono alzati più rapidamente di quanto ci si aspettasse: a gennaio hanno raggiunto il livello massimo dal 2009. L’aumento del reddito complessivo, che si traduce in maggiori consumi e investimenti, non potrà che alzare il livello generale dei prezzi. La FED dovrà allora tenere sotto controllo questa inflazione di tipo salariale, aumentando il costo del denaro. Si spiegano così i timori dei mercati azionari legati a un’economia che è attualmente in crescita. Le preoccupazioni inflazionistiche sono alimentate anche dall’ultima riforma fiscale, varata da Trump. Gli ingenti sgravi fiscali concessi alle

imprese costituiscono un forte stimolo alla produzione, che, però, rischia di surriscaldare eccessivamente l’economia e i mercati. Inoltre, la riforma avrà un notevole peso sul bilancio Il conseguente pubblico. aumento del deficit porterà inevitabilmente a rendimenti più elevati sui titoli di Stato. Il nuovo presidente della Federal Reserve, Jerome Powell insediatosi lunedì - si è mostrato sullo comunque fiducioso stato dell’economia, proprio come la Casa Bianca. La Fed ha dichiarato che alzerà solamente in maniera graduale i tassi di interesse, come ha fatto la precedente presidentessa Janet Yellen. Queste misure di politica monetaria sono incentrate principalmente sul sostegno dell’economia e del mercato del lavoro, oltre che sul controllo della stabilità dei prezzi. Il crollo della Borsa statunitense, che ha avuto ripercussioni su tutta la finanza mondiale, provocando in particolare ricadute per le borse europee, e le parole di Powell non hanno comunque influenzato la posizione della BCE, che ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di alzare i tassi di interesse, ora al minimo, dato che l’inflazione risulta essere ancora sotto al 2%. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA TRUMP FIRST

Avrà convinto il discorso sullo stato dell’Unione del Presidente?

Di Martina Santi Lo scorso 30 gennaio, il presidente Trump ha tenuto il suo primo discorso sullo stato dell’Unione, presso il Congresso convocato a sezioni unite, fornendo una relazione circa la situazione generale del Paese e gli obiettivi in agenda. Per l’occasione, il Presidente ha preferito un linguaggio pacato alla pungente oratoria che solitamente lo ha contraddistinto. Un elogio alla sua stessa persona ha occupato il passo introduttivo, assicurando l’acclamazione da parte di una folla entusiasta. Poca attenzione, invece, è stata rivolta alle calamità naturali che negli ultimi dodici mesi hanno colpito il territorio, a cui il Presidente ha fatto riferimento unicamente per lodare la determinazione mostrata dai “wonderful, incredible americans” nell’affrontare quelle sfide. Il discorso del Presidente si è concentrato principalmente sul tema dell’immigrazione, attaccando l’operato della passata legislazione, accusata di aver permesso il proliferare delle bande criminali che hanno minato la tranquillità delle famiglie statunitensi. “Il mio sacro dovere è quello di difendere il diritto del sogno americano, perché anche gli 6 • MSOI the Post

americani sono Dreamers”, ha detto il Presidente, alludendo così ai cosiddetti “sognatori”, gli immigrati irregolari che entrarono nel Paese da bambini e che ora rischiano l’espulsione. Al centro della relazione anche un ambizioso progetto di costruzione di nuove infrastrutture. “America is a nation of builders” ha ricordato il Presidente, che ha poi chiesto al Congresso 1.500 miliardi di dollari per il finanziamento del piano. Il discorso del leader americano sembra, insomma, descrivere un’America idilliaca: protetta nei confini, ripulita nelle periferie, risanata nell’economia, in cui Trump si erge a padre della Patria e difensore dei valori statunitensi (famiglia e fede) e dove la parola d’ordine è national interest. Ma non tutti hanno apprezzato le sue parole. Una reazione immediata è stata quella dei Democratici, a cui Trump ha dedicato un’attenzione particolare nel suo discorso, chiamando in causa le due forze politiche per realizzare insieme un’America migliore. Gli esponenti Democratici, tuttavia, hanno dimostrato di non condividere l’entusiasmo dei colleghi Repubblicani, ascoltando per lo più in silenzio.

Come da tradizione, l’opposizione democratica ha assegnato il compito di replica al discorso del Presidente ad un esponente di partito. La scelta è ricaduta sul deputato Democratico del Massachusetts, Joseph Kennedy III, nonché nipote di Robert Kennedy. Questi ha rivolto il proprio discorso all’America che non si riconosce nella Casa Bianca e che è rimasta esclusa dalle sue politiche, da lui definite “un gioco a somma zero”, dove ciò che uno vince, corrisponde nella stessa misura a quello che l’altro perde. Duro anche il commento dalla direttrice esecutiva di Amnesty International USA, Margaret Huang. La costruzione del muro al confine col Messico, la decisione di mantenere attiva la prigione di Guantanamo, il Muslim Ban: queste le tematiche al centro delle critiche della Huang, che ha biasimato l’assenza di riferimenti ai diritti umani nell’intero discorso del Presidente. Un primo sondaggio della Cnn ha mostrato che il 48% degli statunitensi ha apprezzato il discorso presidenziale. Tali dati vanno, però, letti tenendo conto che solo 48 milioni di telespettatori lo ha ascoltato, come rilasciato da Statista. Numero ridotto rispetto ai suoi predecessori.


MEDIO ORIENTE LA CONTRADDITTORIA VISITA DEL PRESIDENTE TURCO Erdoğan si reca a Roma in visita dal Papa

Di Lucky Dalena A 59 anni di distanza dall’ultima visita di un Primo Ministro di Ankara in Vaticano, il Presidente turco ha riaperto il dialogo con il Vaticano. Recep Tayyip Erdoğan, lunedì scorso, si è recato presso la Santa Sede per seguire con Papa Francesco gli sviluppi sulla questione di Gerusalemme. Erdoğan e il Papa hanno più volte sottolineato l’importanza di mantenere lo status quo per non minare i delicati equilibri della regione, e si sono dichiarati concordi sia con la necessità di intensificare la lotta al terrorismo sia sulla necessità di ristabilire la pace. L’incontro, durato cinquanta minuti e definito “cordiale” dalle parti, arriva inaspettato dopo le tensioni del 2016: in occasione di un viaggio in Armenia, il Papa aveva per la prima volta parlato di genocidio nei confronti del popolo armeno. Un argomento che, in Turchia, è quantomeno tabù. Il presidente turco ha poi pranzato con il presidente Mattarella e ha incontrato il primo ministro Gentiloni. In tale occasione ha ribadito la sua volon-

tà di procedere con le pratiche di accesso all’Unione Europea, dopo aver rifiutato, qualche giorno prima, la proposta francese di sviluppare invece un partenariato fra UE e Turchia. Non sono mancate, però, le critiche a Erdoğan, al Papa e al governo italiano per la leggerezza con cui sarebbe stato accolto il Presidente turco. Numerose sono state le manifestazioni portate avanti dalle associazioni curde presenti in Italia, le quali hanno denunciato il governo turco, soprattutto per gli attacchi in Siria e le “epurazioni” effettuate nelle prime file della società civile in seguito al presunto golpe del 2016 ai danni della repubblica. La questione curda, inoltre, resta un problema cardine nella relazione tra i paesi occidentali e la Turchia, in particolare all’interno della NATO: proprio la scorsa settimana, l’esercito turco ha cominciato un’offensiva contro l’Unità di protezione popolare (YPG) - alleati degli Stati Uniti nella lotta contro il sedicente Stato Islamico - nel nord della Siria Il governo italiano, d’altronde, così come i governi europei (non è un segreto la reazione

del presidente francese Macron che, dopo aver accusato duramente la Turchia per le iniziative in Siria, ha ritrattato dopo la risposta infuriata di Ankara), ha numerosi interessi a mantenere la Turchia tra i Paesi amici. Oltre ai vantaggi economici derivanti dall’industria bellica, la questione energetica e migratoria fanno chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani. Se da un lato l’accordo UE-Turchia sui migranti dello scorso anno risulta piuttosto ambiguo, è un dato di fatto che il Paese rivesta un ruolo fondamentale nel confinare il fenomeno migratorio verso i confini europei. Il suo ruolo di collegamento fra Asia ed Europa, inoltre, fa sì che anche il suo ruolo come corridoio energetico, da cui passano importanti gasdotti, resti incontrastato. Se la Germania ha immediatamente sospeso gli accordi commerciali con la Turchia a causa delle proteste da parte della società civile, dopo che erano stati associati alle industrie tedesche dei carri armati impiegati in Siria, l’Italia sembra essere rimasta silenziosa per la stessa questione relativa agli elicotteri prodotti da aziende italiane. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE PAPER WALLS

Prospettive e Problematiche del Rientro dei Rifugiati in Siria

Di Martina Terraglia “Oggi, negli edifici governativi d’Europa e del Medio Oriente, ufficiali discutono le politiche che farebbero ritornare milioni di rifugiati siriani nella loro terra devastata dalla guerra”. Jan Egeland, segretario generale di NRC, pone l’accento su come le recenti vittorie su ISIL ci offrano forse una visione distorta dei fatti, le cui conseguenze potrebbero essere molto rischiose. La guerra in Siria sta entrando nel suo ottavo anno: dal 2011, quella che era iniziata come una protesta ha costretto circa metà dell’intera popolazione siriana a cercare asilo. Secondo i dati raccolti da varie ONG nel report Dangerous Ground, oltre 6 milioni di individui sono sfollati all’interno del Paese, circa 5 milioni si troverebbero nei Paesi confinanti, e 1,5 milioni in Europa. Il peso dei rifugiati grava prevalentemente su Turchia, Giordania e Libano, già alle prese con una crisi economica e sociale intestina: durante le conferenze internazionali di Londra 2016 e Bruxelles 2017, i tre Paesi hanno richiesto ingenti aiuti economici per far fronte alle sfide poste dal flusso di richiedenti asilo proveniente dalla Siria. 8 • MSOI the Post

Fuori dalla Siria, i rifugiati risiedono in campi completamente isolati dai centri abitati, spesso in condizioni estreme: in fondo, è una soluzione temporanea. Per quanto? In virtù di tale temporaneità, Ankara, Amman e Beirut stanno chiudendo i confini. Nel 2017 decine di migliaia di rifugiati sono stati respinti ai confini o rimpatriati. È tuttavia un dato di fatto che i Siriani vogliano ritornare in Siria. Già, ma quale Siria? E con quali modalità ciò sarebbe possibile? Secondo Egeland, il costo della ricostruzione si aggirerebbe intorno ai 180 miliardi di dollari. La Siria oggi è quasi lo scheletro di un Paese. Una seria minaccia alla sicurezza dei civili è rappresentata dalle ostilità vive in molte parti del Paese, dalla presenza di ordigni inesplosi (mine, bombe inesplose, mucchi di munizioni, etc.), da violenze perpetrate ancora contro donne e bambini, e da scarse condizioni igienico-sanitarie. I più basilari servizi che permetterebbero la presenza di una popolazione mancano o sono gravemente danneggiati, inclusi ospedali, scuole, abitazioni e sistemi idrici. Se anche volessimo tralasciare i

rischi alla sicurezza e alla salute, molti rimarrebbero i problemi burocratici. Molti rifugiati non possiedono documenti che possano dimostrare proprietà, matrimonio, istruzione, residenza, persino appartenenza a un nucleo familiare o identità: molti documenti sono infatti andati persi durante il conflitto, o non stati convalidati e/o rinnovati presso le autorità competenti nei Paesi ospiti, spesso a causa di disinformazione o scarso accesso alle strutture governative. Eppure, nonostante le numerotse difficol à che un rientro comporterebbe, il ritorno potrebbe diventare la nuova priorità nella risposta alla crisi siriana nel 2018, almeno da parte governativa. Il rischio maggiore sarebbe il passaggio in secondo piano delle condizioni che potrebbero davvero facilitare il ritorno. Accesso ad istruzione e lavoro, e quindi legalizzazione della condizione di rifugiato, rappresentano infatti le strategie principali per fornire ai rifugiati siriani gli strumenti per essere artefici della ricostruzione della Siria. Ciononostante, le politiche dei Paesi ospitanti sembrano voler ignorare tali necessità, a favore di modalità più restrittive e confini più chiusi.


RUSSIA E BALCANI LE URNE CONFERMANO ZEMAN ALLA PRESIDENZA

Milos Zeman vince contro Jiri Drahos confermandosi Presidente della Repubblica Ceca

Di Amedeo Amoretti Il 26 e 27 gennaio 2018, la Repubblica Ceca si è recata alle urne per eleggere il nuovo Presidente. Con circa il 52% di voti a favore, il presidente uscente Zeman ha vinto il ballottaggio contro lo sfidante indipendente Drahos, confermando il suo precedente ruolo istituzionale. Dopo la prima tornata elettorale, tenutasi il 12-13 gennaio 2018, tutti gli altri candidati sconfitti avevano promosso la figura di Drahos, ma invano. Il giorno stesso delle elezioni, il direttore della New York University a Praga, Jiri Peche, ha dichiarato: “questo è un voto tra il muoversi verso una più moderna prospettiva, rappresentata da Drahos, e il restare con opinioni che sono ancora influenzate dal nostro passato comunista, rappresentate da Zeman”. Secondo alcuni esperti del Prague Security Studies Institute, Zeman ha sfruttato la disinformazione nella campagna elettorale per ottenere un maggior consenso dall’elettorato. Il think tank parla di fake news che avrebbero legato Drahos a finanziamenti esterni, all’ex polizia segreta comunista StB, alla possibile nomina a Primo Ministro dell’impopolare

Miroslav Kalousek e a politiche di apertura delle frontiere per il flusso migratorio, opzione scarsamente sostenuta dalla popolazione. Secondo l’istituto, le presidenziali sono state protagoniste di questa forma di populismo in maniera più decisa rispetto a quanto accaduto nelle elezioni parlamentari tenute nello scorso ottobre. Con la vittoria di Zeman, il tycoon Andrej Babis, recentemente dimessosi dall’incarico di Primo Ministro in seguito alla decisione del Parlamento di revocargli l’immunità perché indagato di malversazione, potrebbe riottenere la fiducia. E se Babis lo appoggiasse, Zeman potrebbe riallacciare i rapporti con Cina e Federazione Russa sviluppando una retorica populista, xenofoba e antimigratoria, tale da definire il flusso migratorio come “un’invasione organizzata” e ritenere l’Islam incompatibile con la cultura europea. Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, congratulandosi con Zeman per la vittoria, ha affermato che la Repubblica Ceca “continuerà a giocare un ruolo attivo e costruttivo all’interno dell’UE”. Anche il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, è

intervenuto richiamando la necessità alla cooperazione. La visita di Babis a Juncker, il 29 gennaio, ha restituito un’aria di collaborazione, ma la volontà di Zeman sarebbe quella di portare alle urne il popolo ceco per un possibile referendum di uscita dall’Unione Europea o perlomeno perseguire la politica dura del “gruppo di Visegrad” per un’Europa di nazioni sovrane che contrastino i nuovi piani di integrazione UE francotedeschi. Lo sconfitto Jiri Drahos aveva in tutti i modi cercato di ottenere la fiducia del corpo elettorale dichiarando che “Mr. Zeman è il passato, è simbolo di divisione e insulti” e facendo leva sul forte linguaggio populista utilizzato dall’avversario. Nonostante gli estremi e più diretti attacchi al Presidente uscente nel secondo dibattito, Drahos si è dovuto arrendere ai risultati delle urne e, dopo essersi congratulato con l’avversario, ha espresso il desiderio di voler rimanere in politica, seppur non abbia dato precise informazioni. Affermando “non è finita”, l’ex scienziato e professore di chimica ha voluto sottolineare la ferrea volontà a perseguire i suoi ideali politici europeisti e pro-NATO, di volontà ad aderire all’Euro e di maggior legami con l’Occidente.

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RUSSIA E BALCANI NUOVI VENTI DI GUERRA SULL’UCRAINA

La tensione, mai allentata, tra Ucraina e Repubbliche separatiste torna a livelli alti

Di Davide Bonapersona Il conflitto armato in Ucraina è una questione, oggi più che mai, aperta. Formalmente, una svolta era stata trovata il 12 febbraio 2015 con la firma dell’Accordo di Minsk da parte di Ucraina, Russia e Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, grazie all’intervento di Francia e Germania. Tale accordo prevedeva l’immediato cessate il fuoco e il ritiro delle truppe da entrambe le parti e, successivamente, l’adozione di una riforma costituzionale da parte di Kiev volta a rafforzare l’autonomia delle regioni di Donetsk e Lugansk. Era previsto, inoltre, lo svolgimento di elezioni nei territori separatisti, al termine delle quali l’Ucraina avrebbe ripreso il controllo del confine con la Russia. Tuttavia, le elezioni non si sono mai tenute e le operazioni militari non sono mai cessate definitivamente. Lo scorso 18 gennaio, il Parlamento ucraino ha approvato un disegno di legge sulla reintegrazione dei territori della parte orientale del Paese che “momentaneamente si trovano sotto il controllo dei separatisti filorussi”. Più precisamente, tale documento descrive le aree

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di Donetsk e Lugansk come temporaneamente occupate, definisce la Federazione Russa come “Paese aggressore” e conferisce al Presidente ucraino il diritto ad utilizzare le forze armate, al fine di garantire la sovranità del Paese. Inoltre, nel testo non viene fatto alcun riferimento agli Accordi di Minsk per risolvere il conflitto. Questo disegno di legge deve quindi essere interpretato come una volontà dell’Ucraina di ritirarsi dal Protocollo di Minsk. Una volontà che risulta ancora più nitida se la legge viene affiancata alle dichiarazioni, rese all’indomani dell’approvazione del documento, dalpresidenteucrainoPoroshenko: “il voto dev’essere un segnale chiaro alla Crimea e al Donbass, in quanto sono ancora parti integranti dell’Ucraina”. Va ricordato come il Cremlino abbia più volte ribadito: “la questione della Crimea è definitivamente chiusa”. Per quanto riguarda le repubbliche separatiste del Donbass, invece, l’assenza di una effettiva occupazione da parte di uno Stato terzo e la mancanza di una volontà di ricongiungersi con la madrepatria rendono l’affermazione dell’Ucraina politicamente debole. Inoltre, non bisogna dimenticare che la popolazione delle due

Repubbliche è russofona e la storia recente racconta che, fin dalla caduta dell’URSS, essa si sia sempre sentita più vicina a Mosca che a Kiev. I leader delle Repubbliche del Donbass hanno espresso perplessità sulla legge, affermando che potrebbe “sciogliere le mani ai militari ucraini”. La Russia ha criticato questo documento, sottolineando che l’unica via di risoluzione del conflitto nel Donbass è l’attuazione degli Accordi di Minsk, ma il Ministero degli Esteri russo ha dichiarato: “Kiev sta seppellendo gli accordi raggiunti a Minsk (…) e questa mossa equivale alla preparazione di una nuova guerra”. Sul versante Occidentale, gli Stati Uniti (che di recente hanno stanziato 350 milioni di dollari per la fornitura di armi di “natura difensiva” in aiuto di Kiev) hanno appoggiato la svolta legislativa, mentre l’Unione Europea, garante degli Accordi di Minsk, non si è ancora espressa. Ad oggi è impossibile sapere se questa legge sarà solo l’ennesima sfida lanciata alla Russia o se invece sarà il primo passo della preparazione di una vera e propria offensiva militare ucraina.


ORIENTE LA MALESIA VERSO IL CAMBIO DI GOVERNO

Nuove elezioni, tra scandali di corruzione e candidati nonagenari

Di Micol Bertolini Il 2018 si preannuncia un anno di importanti cambiamenti per l’unica federazione del sud-est asiatico. La Malesia, infatti, si trova ad affrontare il cambio di governo, previsto ogni 5 anni allo scadere del mandato parlamentare precedente. Entro agosto, la popolazione malese sarà chiamata a eleggere i 222 membri del Parlamento, nel quadro della 14^ Elezione Generale (PRU14) dall’indipendenza dal Regno Unito, risalente al 1957. A capo dell’opposizione, si è candidato l’ex-premier Mahathir Mohamad, alla veneranda età di 92 anni, già Primo Ministro della Malesia dal 1981 al 2003. Qualora dovesse essere rieletto alle prossime elezioni, Mahathir diventerebbe il Capo di Governo più anziano del pianeta. Affiliato inizialmente al partito di destra Organizzazione Nazionale Malese Unita (ONMU), l’anziano politico corre oggi per la coalizione all’opposizione, il cosiddetto Patto della Speranza (“Pakatan Harapan”), alla guida del partito nazionalista da lui fondato nel 2017: il Parti Pribumi Bersatu Malaysia (PPBM). Tra gli altri candidati alla posizione di premier, concorre il primo ministro dal 2009 Najib Razak, facente parte della ONMU e della coalizione di centro-destra Fronte Nazionale (“Barisan

Nasional”), che dalla fondazione, nel 1973, ha dominato quasi incontrastata la politica malese. Per il momento rimane fuori dai giochi Anwar Ibrahim, vicePrimo ministro durante gli anni di governo di Mahathir Mohamad, accusato poi di aver avuto rapporti sessuali omosessuali, una condotta penalmente perseguibile in Malesia, proprio da quest’ultimo. Rilasciato nel 2004, fu nuovamente condannato a 5 anni di prigione per nuove accuse di sodomia. In caso di vittoria, però, Mahathir ha promesso di accelerare la scarcerazione di Anwar, affinchè egli possa rientrare in politica. La candidatura di Mahathir preoccupa ed è accolta con entusiasmo allo stesso tempo. Infatti, in veste di Primo Ministro, Mahathir Mohamad fu promotore della considerabile crescita economica che la Malesia visse negli anni ‘90, attraverso un’importante opera di privatizzazione e modernizzazione infrastrutturale. Ciò nonostante, durante i suoi 22 anni di governo, Mahathir venne ricordato anche per la stretta repressiva nei confronti degli oppositori politici, in particolare per l’implementazione dell’Internal Security Act, una legge introdotta nel 1960 che consentiva, in precise circostanze, la

carcerazione preventiva senza passare attraverso un processo ed anche in mancanza di accuse per atti criminali. Le chances che Mahathir ha di vincere le prossime elezioni sono comunque numerose. L’exPrimo Ministro, infatti, gode del supporto di buona parte della popolazione musulmana a credo islamico, grazie all’introduzione di istituzioni islamiche nei suoi primi anni di governo, come l’Università Islamica Internazionale, e dei Malesi del ricco stato del Kedah, da sempre fedeli componenti della sua base politica. Un ultimo fattore che potrà sicuramente giocare a suo favore è lo scandalo di corruzione e truffa in cui l’attuale primo ministro Najib Razak è implicato. Secondo le accuse, rivolte a quest’ultimo ed ad alcuni funzionari governativi a lui vicini nel 2015, il fondo di investimenti pubblico 1Malaysia Development Bhd (1MDB), creato da Najib nel 2009, è stato utilizzato a fini personali, invece che per sovvenzionare progetti di sviluppo a lungo termine per il Paese. Najib e alcuni suoi collaboratori si sarebbero quindi appropriati di denaro pubblico per finanziare folli spese private, tra cui spicca per singolarità il finanziamento del celebre film “The Wolf of Wall Street”. MSOI the Post • 11


ORIENTE LA CINA E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Pechino intenzionata a diventare frontrunner nell’industria dell’IA entro il 2030

Di Emanuele Chieppa Per la prima volta dal 2010 il PIL della Cina ha registrato un aumento oltre le attese. Le stime effettuate dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale riportano un 6,9% su base annua, un aumento di 0,4 punti sul target annuale del governo di Pechino, che potrebbe permettere un incremento nella spesa in settori dell’economia riguardanti il potenziamento della cosiddetta “nuova economia”, ovvero ciò che non è legato al modello industriale e di produzione di massa, ma allo sviluppo tecnologico, dell’IT e delle comunicazioni. Il surplus del PIL lascerebbe inoltre spazio per investire in energie pulite, nel rispetto delle regolamentazioni di stampo ecologico adottate dal governo e degli obiettivi di crescita sempre più collegati all’implementazione di tecnologie più green. Nel settore dell’Information Technology va affermandosi l’importanza degli know-how legati all’intelligenza artificiale, gli usi e le implicazioni dei quali andranno a caratterizzare molti aspetti del nostro futuro, dall’uso che se ne può fare nell’ottimizzazione dei consumi 12 • MSOI the Post

energetici di grandi impianti industriali, al monitoraggio della popolazione, finanche all’impiego per scopi militari. Secondo una dichiarazione fatta dal presidente russo Vladimir Putin, a settembre del 2017, il futuro dell’umanità è il dominio planetario sono connessi all’elaborazione dell’intelligenza artificiale. Stando alle informazioni rilasciate dall’agenzia Xinhua, entro il 2030 la Cina ha intenzione di affermarsi come leader a livello mondiale nel campo, e secondo il Ministero dell’Industria, della Tecnologia e dell’Informazione, questo balzo in avanti dovrebbe essere raggiunto grazie alla costruzione di nuovi HUB, tra cui un centro di ricerca nel distretto suburbano di Mentougou, a Pechino, in cui saranno investiti 2,1 miliardi di dollari. Il nuovo parco della tecnica, che verrà costruito da qui a 5 anni, occuperà oltre 54 ettari, pari a circa 75 campi da calcio, e si occuperà di high-speed big data, cloud computing, biometric e deep learning, avrà a disposizione la linea 5G, che raggiungerà la terza fase di sviluppo quest’anno, e potrà dotarsi anche dell’aiuto di un supercomputer exascale,

anch’esso assai vicino alla realizzazione, capace di miliardi di miliardi di operazioni al secondo, 200 volte più potente del Tianhe-1 supercomputer, sempre cinese, che nel 2010 era il più potente del mondo. Non è però cosa facile diventare l’avanguardia di una frontiera dell’avanzamento tecnologico che presenta tante sfide. Sopra tutte, la necessità di expertise locale, cioè di ricercatori ed esperti altamente qualificati. L’“U.S.-China Economic and Security Review Commission” riporta: “Un grande problema per la Cina sarà come il suo sistema educativo saprà adattarsi e rispondere alla domanda del mercato di esperti di IA e robotica”. I passi avanti in questa realtà industriale non potranno che avere effetti sempre più rilevanti nello scacchiere globale e negli equilibri geopolitici. La Repubblica Popolare Cinese potrà raccogliere informazioni riguardanti la popolazione con maggiore facilità. Pechino infatti potrà accedere ad una mole enorme di dati, in virtù dei circa 700 milioni gli utenti connessi alla sua rete: il triplo che negli Stati Uniti.


AFRICA IL GIURAMENTO OSCURATO

Dal blocco delle emittenti televisive all’arresto di Miguna Miguna: caos in Kenya

Di Federica De Lollis

Tribunale in senso contrario.

Dallo scorso agosto, il leader dell’opposizione Raila Odinga, a capo del National Resistance Movement, si batte per far vacillare il governo in carica. Nonostante la ripetizione delle consultazioni e l’intervento della Corte Suprema, è stato confermato l’esito che ha proclamato Uhuru Kenyatta presidente.

Il portavoce del governo Eric Kiraithe non ha espresso alcun commento circa le eventuali intenzioni di appellare il provvedimento. Il presidente dell’associazione degli editori Linus Kaikai ha affermato in un comunicato: “Il presidente Kenyatta ha espressamente minacciato di chiudere le emittenti e revocare la licenza dei media che martedì avrebbero trasmesso il giuramento pianificato dei capi della NASA Raila Odinga e Kalonzo Musyoka”.

Il partito di Odinga, tuttavia, non ha mai cessato la sua battaglia contro il governo: nel mese di dicembre, la coalizione antigovernativa National Super Alliance’s People’s Assembly (NASA) ha annunciato il giuramento di Odinga come “Presidente del Popolo” e l’istituzione di una “Assemblea del Popolo” composta dai rappresentanti della coalizione. Il Ministro della Giustizia ha ammonito gli oppositori per la gravità dell’atto, che nel Paese potrebbe integrare gli estremi del reato di tradimento, punibile con la pena capitale. Il 30 gennaio Raila Odinga ha pronunciato il giuramento davanti a migliaia di sostenitori, radunatisi nella capitale. Il governo, prima della cerimonia, ha messo fuori uso le tre principali reti televisive private, in modo da impedire la trasmissione dell’evento, disattendendo un ordine del

Da ultimo, il 2 febbraio la polizia ha arrestato l’avvocato Miguna Miguna, autodichiaratosi “generale” del National Resistance Movement e alleato di Odinga, con l’accusa di aver organizzato il giuramento illegale. La sospensione delle trasmissioni televisive e l’arresto di Miguna Miguna hanno suscitato un allarme diffuso per la sussistenza dello stato di diritto all’interno di una delle più vivaci realtà economiche del continente africano. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha manifestato la sua preoccupazione per i “tentativi del governo di interferire con la libertà di espressione”.

Lunedì 5 febbraio, le emittenti televisive, con la notevole eccezione di Citizen TV e Inooro TV, hanno ripreso le trasmissioni e il Tribunale ha convocato l’ispettore generale di Polizia e il direttore delle indagini criminali per chiedere loro spiegazioni sul mancato rilascio di Miguna, nonostante l’avvocato avesse prestato una cauzione di 50.000 scellini keniani. L’8 febbraio, Miguna è stato trasferito in Canada (Paese del quale ha la cittadinanza), a seguito di un ordine di espulsione emanato sulla base di un dispositivo della precedente Costituzione, che vietava la doppia cittadinanza. Il governo ha inoltre aggiunto che Miguna non ha presentato la richiesta per l’ottenimento della cittadinanza keniana, quando, in virtù della nuova Costituzione, è stato permesso ai cittadini keniani di possedere la cittadinanza di un altro Stato. La comunità internazionale, al momento, si trova divisa di fronte ad una situazione ancora suscettibile di numerose evoluzioni, mentre la popolazione teme possibili ripercussioni sul piano economico. L’appello al dialogo tra le due fazioni, nel rispetto della legalità, dello stato di diritto e della libertà di espressione, sembra non essere stato ancora accolto.

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AFRICA UN FUTURO RINNOVABILE

In Sudafrica tornano ad aprirsi le prospettive di crescita nel campo energetico

Di Guglielmo Fasana Il Sudafrica è, ad oggi, la principale economia del continente africano, del quale rappresenta circa il 35% del PIL. Sebbene il Paese sia stato storicamente segnato da dure battaglie politiche e sociali, combattute sul filo dei diritti e della dignità umana, il suo status di potenza economica regionale si è sempre più consolidato, anche grazie agli sforzi per l’emancipazione postApartheid. Attualmente, tuttavia, l’economia nel Paese non sta attraversando un periodo particolarmente incoraggiante: la cattiva amministrazione delle aziende statali, afflitte dalla piaga della corruzione, ha scoraggiato gli investimenti stranieri, e il Sudafrica è entrato in recessione per la seconda volta nel giro di un decennio. Per di più, come sempre accade nel caso in cui un’economia corposa si trovi di fronte al dilemma energetico, la ricerca delle risposte adeguate non può che essere complessa, e soppesare correttamente le alternative diventa imperativo per individuare la migliore tra le vie percorribili. Come assicurare, dunque, ora ed in futuro, un flusso di energia e sufficient , costante

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ed in modo efficiente a cittadini e imprese su tutto il territorio nazionale? Questo quesito, attuale oggi come all’inizio della Rivoluzione industriale nel XIX secolo, si fa sempre più sfaccettato in un mondo caratterizzato da flussi globali di persone e capitali e in continua accelerazione trasformatrice. Il contesto interno sudafricano, reso volatile dal clima politico, scosso dalle contestazioni dell’attuale presidente Jacob Zuma e del suo partito, non facilita di certo il compito a quegli imprenditori e politici che lavorano alacremente nel tentativo di dare forma ad una policy energetica all’insegna della sostenibilità. Le premesse relative ad un possibile tornante verde nel panorama energetico sudafricano erano, in origine, tutt’altro che deludenti. A partire dal 2011, infatti, sono stati investiti in questo particolare settore circa 15 miliardi di dollari, che sono serviti a finanziare la costruzione di numerosissimi impianti, dalle solar farms ai campi eolici. Tuttavia, l’evoluzione del progetto ha subito una battuta di arresto a partire dal 2015, anno in cui Brain Molefe, stretto collaboratore di Jacob Zuma,

è diventato amministratore delegato dell’azienda energetica nazionale Eskom. Sotto la sua guida, nel 2017, l’ammontare degli investimenti nelle rinnovabili si è ridotto alla trascurabile cifra di 4 milioni di dollari, mentre il grosso dei capitali è stato dirottato verso quella che è di fatto rimasta l’ossessione energetica di Zuma durante tutto il suo mandato politico: il nucleare. Il futuro potrebbe però riservare notevoli sorprese, anche nell’ottica di un auspicato cambiamento ai vertici della leadership politica del Sudafrica. Come affermato da Anton Eberhard, professore della Graduate Business School di Cape Town, il neo-eletto presidente del partito ANC Cyril Ramaphosa – probabile successore di Zuma – ha intenzione di porre rimedio alle battute d’arresto del progetto iniziale. In un discorso nel novembre 2017, ha mandato un segnale forte di cambiamento, invocando una espansione delle energie rinnovabili mirata a ridurre le emissioni di CO2 e alla creazione di posti di lavoro, sottolineando come il Paese ambisse a tornare destinazione per gli investimenti nel campo energetico.


AMERICA LATINA L’ASCESA DI ANDRES MANUEL LOPEZ OBRADOR

A sei mesi dalle elezioni in Messico, il candidato socialista è dato per vincente

Di Elena Amici Le elezioni generali del Messico si terranno il prossimo 1° luglio, posta in gioco 500 seggi alla Camera dei Deputati, 128 al Senato e la stessa Presidenza del Paese, al momento in mano al centrista Enrique Peña Nieto. I tre partiti principali del Paese sono il Partido Revolucionario Institucional (PRI) di Peña Nieto, il conservatore Partido Acción Nacional (PAN) e il Movimiento Regeneración Nacional (MORENA), la fazione più a sinistra. Al momento quest’ultimo è in considerevole vantaggio, grazie principalmente al messaggio anti-establishment del leader Andres Manuel Lopez Obrador, arrivato secondo sia nel 2006 sia nel 2012. L’ascesa di Lopez Obrador può essere attribuita sia a fattori interni sia internazionali. PAN e PRI sono in declino, considerati dalla popolazione messicana inefficienti e corrotti. In particolare, il PRI è al centro di vari scandali, dopo che un piano sventato per sottrarre 13 milioni di dollari dai fondi elettorali ha coinvolto diversi collaboratori del candidato Jose

Antonio Meade. Un’altra causa della popolarità di Lopez Obrador è il suo messaggio di orgoglio nazionale, esacerbato dalla retorica anti-messicana del Presidente USA Trump. Lopez Obrador, paragonato dai suoi detrattori all’ex presidente venezuelano Hugo Chavez, si è però trovato al centro di alcune controversie sulla scena internazionale, accusato di populismo e di avere legami con il Cremlino. Recentemente, infatti, il consigliere USA per la sicurezza H.R. McMaster, echeggiato da rappresentati del PRI, ha annunciato il rischio di un’interferenza russa nelle elezioni messicane: Mosca si sarebbe schierata a favore di Lopez Obrador, con lo scopo di indebolire la regione e il rapporti del Messico con gli USA. La notizia è stata immediatamente smentita tanto dal governo russo quanto dagli addetti stampa del MORENA, ma è comunque probabile che una sua vittoria porterebbe al ridimensionamento delle relazioni fra il Messico e gli Stati Uniti. Lopez Obrador, infatti, si è det-

to pronto a ritirare il Messico dal NAFTA, l’accordo nordamericano per il libero scambio con Canada e USA, e i suoi continui successi nei sondaggi hanno portato alla svalutazione del suo peso sui mercati internazionali negli ultimi mesi. D’altronde, Lopez Obrador, considerato una “prospettiva poco buona” dal Segretario USA per la sicurezza nazionale John F. Kelly, ha osservato il sostegno alla sua candidatura salire ad ogni critica contro la Cassa Bianca. A sei mesi dalle elezioni, a meno di sconvolgimenti nel panorama elettorale, non sembra irrealistico ipotizzare un Messico avviato verso una presidenza drasticamente differente dai precedenti governi dell’era pluri-partitica. Il primo governo spiccatamente di sinistra potrebbe portare a nuove intese per il Messico e ad un ruolo diverso nelle dinamiche della regione. A livello di politica interna, le promesse di lotta alla corruzione di Lopez Obrador prevedono la creazione di una Guardia Nazionale, ma rimane da vedere se un piano così ambizioso potrà essere realizzato. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA LA VISITA DI PAPA FRANCESCO IN CILE E PERU’ Le difficoltà e gli attacchi alla Chiesa Cattolica in America Latina

Di Sveva Morgigni È il 22° viaggio del pontificato di Francesco, il sesto a toccare Paesi dell’America Latina. Sulla carta, quello iniziato lo scorso 15 gennaio, doveva essere un sereno ritorno del Papa nella “sua” America Latina. Al contrario, si è rivelato un viaggio difficile e pieno di contestazioni: attacchi incendiari nelle chiese e negli edifici di culto, segnali di un malessere profondo della popolazione. In realtà, negli ultimi 25 anni, ci sono stati altri episodi nei quali sono stati “aggrediti” o bruciati i luoghi di culto cileni. Finora non ci sono mai state rivendicazioni ufficiali, anche se si ipotizza la colpevolezza dei Mapuche, una delle minoranze indigene più numerose dell’America Latina. Tale gruppo da diversi anni chiede al governo la legittimazione di uno Stato binazionale e la restituzione delle terre sottratte nel corso di cinque secoli. I Mapuche, di per sé non ostili alla Chiesa, che spesso li ha difesi, vorrebbero quindi ottenere maggiore visibilità con tali azioni. 16 • MSOI the Post

Bisogna comunque ricordare anche il profondo risentimento della società cilena verso le istituzioni cattoliche per i numerosi i casi di pedofilia. La Chiesa cilena, che al tempo della dittatura di Pinochet si distingueva per le coraggiose denunce in difesa della giustizia e dei diritti umani, oggi ha perso credibilità davanti all’opinione pubblica a causa delle vicende di abusi sui minori, come quelle perpetrate dall’influente sacerdote Fernando Karadima, riconosciuto colpevole anche dalla Santa Sede. Nonostante tali difficoltà, Papa Francesco ha chiuso il suo ultimo viaggio in America Latina con unacelebrazionespettacolareaLima:qui ha riunito, secondo i dati forniti delle stesse Autorità, 1.000.000 di persone, dimostrando che il cattolicesimo è ancora forte e radicato nel Paese. In Perù si sono potute affrontare tematiche che toccano l’America Latina in modo più ampio. Il Pontefice ha, infatti, inviato un messaggio sulla crisi politica che sta vivendo l’intero continente, divorato dalla corruzione. “La crisi non è solo in Perù, è un problema che soffre tutta

l’America Latina” ha dichiarato il Pontefice e ha chiesto ai vescovi di fare il possibile per recuperare il valore dell’onestà. Oltre ai problemi economici, Papa Francesco ha toccato temi quali la deforestazione, le miniere illegali ed il traffico di esseri umani. Francesco ha fortemente contestato anche la sterilizzazione forzata delle donne, uno dei crimini per cui fu processato Fujimori. “Non lasciamoci confondere dal colonialismo mascherato da progresso”, ha detto il Papa, contestando i piani di controllo delle nascite di alcune organizzazioni internazionali. Quello che emerge, dunque, è che l’America Latina è un continente di cruciale importanza per il futuro del cattolicesimo, ma presenta numerose sfide interne. La religione non dovrebbe più essere strumentalizzata dalla politica ma dovrebbe essere in grado di dare risposta alle esigenze della popolazione, accompagnandola nei profondi cambiamenti sociali che da 10 anni stanno attraversando il Sud America.


ECONOMIA AMERICA FIRST

Trump punta tutto sulla reindustrializzazione e apre una nuova fase nel commercio mondiale

Di Michelangelo Inverso Donald Trump sta senza dubbio rispettando la promessa elettorale di riportare al centro l’America, anche a scapito di partner e pratiche commerciali consolidate. È di questi giorni la notizia che il Presidente statunitense avrebbe deciso di imporre pesanti dazi (circa il 30% del valore finale dei beni) sulle importazioni di alcuni beni tecnologici durevoli, andando a colpire sia Paesi alleati come la Corea del Sud sia Paesi commercialmente rivali come la Cina.

dell’attuale amministrazione, la globalizzazione non è più conveniente. Si è preso atto che il vuoto lasciato dal settore secondario non è colmabile dal terziario. Fin dalla sua campagna elettorale, Trump ha promesso la fine di tutti quegli accordi commerciali, di stampo liberista, che compromettevano la produzione statunitense e ha vinto proprio per questo.

Le reazioni non si sono fatte attendere: la Merkel, appena uscita vincitrice dall’accordo di governo con la SPD, ha lanciato pesanti moniti all’indirizzo di Washington contro politiche protezioniste, evocando addirittura spettri di guerra. Questo genere di dichiarazioni sono, ovviamente, strumentali e non disinteressate. La Germania si sente punta nel vivo da questi dazi, essendo il maggior esportatore mondiale di beni durevoli e di alta qualità. Risulta ovvio, dunque, che la Cancelliera voglia un mercato internazionale il più deregolamentato possibile per poter mantenere in positivo la propria bilancia commerciale.

Già nei primi mesi della sua presidenza, aveva ritirato gli Stati Uniti dal TPP, un accordo multilaterale di libero scambio nell’area del Pacifico. Poi era stata la volta dell’accordo sul clima di Parigi, che rappresentava costi aggiuntivi per la produzione nazionale, dal momento che limitava l’uso di tecnologie inquinanti. Anche la riforma fiscale e lo scudo fiscale introdotti recentemente sarebbero da leggere in questo senso, riducendo di un terzo la tassazione sui redditi delle imprese e favorendo investimenti infrastrutturali per il settore secondario. Proprio in questi giorni, inoltre, si discute in Canada se ritirare gli USA dal NAFTA, trattato stipulato negli anni Novanta tra Canada, Messico e USA che segnò l’inizio dei trattati multilaterali che poi ebbero come prodotto la globalizzazione stessa.

Ma dal punto statunitense e,

La reindustrializzazione del Paese è, dunque, il dichiarato

di vista soprattutto

obiettivo strategico e politico che The Donald ha promesso e persegue. Ritirarsi da questi accordi, aumentare i dazi, diminuire le tasse alle imprese, sono politiche che mirano alla creazione di posti di lavoro attraverso investimenti nella produzione nazionale con vantaggio per salari, stipendi e punti di PIL. Insomma, soddisferebbe sia l’elettorato imprenditoriale sia quello operaio se riuscisse in questa operazione di politica interna. Chi invece non è affatto contento di questo genere di politiche protezioniste sono ovviamente i partner storici, come l’UE e gli asiatici, che vedono ridurre i propri stock di esportazioni dirette verso gli USA con maggior danno per le loro economie. In patria, invece, l’Amministrazione deve guardarsi da quei settori che del mercato aperto hanno fatto la propria bandiera, in particolare i colossi dell’elettronica e dell’informatica, come Facebook e Google, che infatti appoggiarono apertamente Hillary Clinton durante la campagna elettorale, più vicina alle loro posizioni economiche. Comunque lo si veda, America First sta divenendo la dura realtà con cui fare i conti. Letteralmente. MSOI the Post • 17


ECONOMIA AMAZON GO: IL SUPERMARKET DEL FUTURO Nessuna cassa per pagare, l’e-commerce fa un salto nella realtà

Di Alberto Mirimin Il 22 gennaio Amazon ha aperto il primo negozio Amazon Go a Seattle, città dove il colosso statunitense ha il suo quartier generale. Si tratta di un supermercato avveniristico, in cui non ci sono casse: il cliente entra passando attraverso dei tornelli tecnologici, sui quali è posizionato un QR code da scansionare con il proprio smartphone attraverso un’apposita app collegata al proprio account Amazon. Da questo momento in poi, il cliente non dovrà fare altro che prendere i prodotti desiderati dagli scaffali, metterli in borsa e uscire, senza dover passare da nessuna cassa. Qualche minuto dopo arriverà direttamente sullo smartphone la ricevuta degli acquisti, da pagare con la stessa carta di credito registrata sul portale Amazon. Questo innovativo supermercato funziona grazie ad un sistema di centinaia di telecamere e sensori, unito ad un meccanismo di machine learning, posizionati dentro il punto vendita. Essi tengono traccia di tutti i movimenti dei clienti: se qualcuno prende un prodotto dallo scaffale, ma poi cambia idea e lo rimette al suo posto, il sistema lo noterà ed eliminerà il prodot18 • MSOI the Post

to dalla lista degli acquisti. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, rubare è assai difficile: anche quando si tenta di prendere un prodotto nascondendolo in qualche modo, esso verrà comunque addebitato. Amazon è il simbolo più evidente dell’inarrestabile espansione dell’e-commerce: lanciata nel 1995, ha concluso il 2016 con un fatturato pari a 136 miliardi di dollari e da più di anno si trova saldamente nella top 10 dei distributori mondiali. Da qualche tempo, la dirigenza ha avviato un piano di espansione fisica della società, con l’acquisizione di negozi tradizionali usati in alcuni casi come magazzini, altre volte mettendo a disposizione la propria piattaforma per incentivare il commercio online. Ultima importante acquisizione è stata quella della catena Whole Foods Market, che conta più di 450 punti vendita negli Stati Uniti. In senso più generale, l’incontrastabile ascesa dello shopping online ha invaso ormai tutti i settori: i dati statistici del 2016 parlavano di 1,6 miliardi di utenti in tutto il mondo che hanno acquistato prodotti online, spendendo quasi 2 bilioni di dollari, che entro il 2020 potreb-

bero ulteriormente raddoppiare. Secondo l’Omnichannel Selling Guide fornita da BigCommerce, la categoria con il più alto tasso di vendite online negli Stati Uniti (2017) è rappresentata dall’intrattenimento (44%) seguito dall’abbigliamento (43%), l’elettronica (34%) e infine dai prodotti per la bellezza e cura della persona (29%). Di conseguenza, l’apertura di Amazon Go potrebbe rappresentare un cambiamento epocale nel commercio. Sarà da capire, infatti, se il colosso di Jeff Bezos vorrà sfruttare la tecnologia solo per sé, introducendola in tutti i suoi negozi fisici esistenti ed ampliando la catena Amazon Go, oppure deciderà di venderla a peso d’oro alla concorrenza. Sicuramente, in caso di funzionamento, potrà spingere ancora più in alto il commercio online, peraltro in un settore, quello dei generi alimentari, che fino ad oggi era rimasto più legato alla vendita tradizionale. Che sia il primo passo verso il declino del commercio tradizionale è forse esagerato pensarlo, ma quello che è certo, è che Amazon si è dimostrata ancora una volta un passo avanti rispetto alla concorrenza.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO NEI CONFLITTI ARMATI CONTEMPORANEI I rischi di una percezione sbagliata e come contrastarla

Di Elena Carente Al giorno d’oggi, parlare di Diritto internazionale umanitario significa scontrarsi con un forte scetticismo verso quello ius in bello nato per porre limiti alla violenza bellica e attenuarne le sofferenze. Tale scetticismo si deve al mutamento del fenomeno bellico e alla comparsa, nello scenario internazionale, dei cosiddetti non-state actors, del tutto estranei all’applicazione del diritto. La percezione del Diritto internazionale umanitario come diritto inutile perché continuamente violato, non solo è sbagliata ma è anche pericolosa. Un discorso così negativo e sprezzante, rischia non solo di far risultare tali violazioni banali, ma anche di cambiare il modo di guardare al diritto e rendere la sua inosservanza sempre più accettabile. Negli ultimi decenni, il Diritto internazionale umanitario si è sviluppato notevolmente: sono stati adottati trattati, si è formata una ricca giurisprudenza nazionale ed internazionale e le forze armate vengono addestrate secondo i principi del DIU. A ciò si aggiunge il ruolo della società civile, sempre più informata sui conflitti armati in tutto il mondo. Questi importanti sviluppi riflettono la crescente consapevolezza e l’interesse per il diritto internazionale umanitario. Tuttavia, nonostante

questi visibili progressi, le tragiche conseguenze della guerra e le violazioni delle leggi di guerra vengono spesso confuse. Il ruolo del DIU non è quello di porrex fine alla guerra, evento drammatico per natura. Questo è il ruolo di un altro corpo di leggi, inserito nella Carta dell’ONU. Al contrario, l’obiettivo principale del DIU è quello di porre dei limiti alla condotta delle ostilitàe attenuare le devastanti conseguenze del conflitto nella misura del possibile. Pertanto, ha anche uno scopo di fondo diverso dalla tutela dei diritti umani. La specificità e le sfumature del DIU possono, tuttavia, essere difficili da spiegare, specialmente a coloro che hanno meno familiarità con questo corpus normativo o con la storia della sua creazione. Nel tentativo di fornire esempi concreti di applicazione del DIU, prove che dimostrano come il rispetto della legge possa effettivamente portare ad un ambiente più sicuro in tempo di guerra, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha intrapreso un’importante iniziativa volta a riaffermare la rilevanza del diritto internazionale umanitario nei conflitti armati contemporanei. Il database “IHL in Action”, è una piattaforma che mostra esempi reali di applicazione

delle norme. Ogni caso-studio, può essere cercato per paese o per argomento (condotta delle ostilità, protezione dei civili, combattenti e prigionieri di guerra, meccanismi di attuazione) e illustra esempi in cui il diritto internazionale umanitario è stato rispettato. I casi non devono, tuttavia, essere percepiti come una riduzione al minimo delle violazioni che potrebbero essersi verificate. Inoltre, molti di questi contengono riferimenti a presunte violazioni che hanno accelerato la necessità di un cambiamento e sono stati inclusi al fine di dimostrare che la pratica può evolvere nel tempo. Per questo motivo, in un singolo caso potremmo rilevare sia il rispetto che le violazioni del DIU. Recenti studi psicologici hanno dimostrato come concentrarsi su esiti sfavorevoli possa difficilmente portare ad un cambiamento. Al contrario, secondo l’ICRC, l’attenzione per gli aspetti positivi ed i risultati ottenuti può creare un clima di maggiore rispetto del diritto. L’iniziativa rappresenta un invito a cambiare il modo di guardare al DIU e ad unirsi ad una riflessione più ampia sull’importanza del conformarsi a quel corpo di leggi, ancora imperfetto ma indispensabile, al fine di ridurre al minimo la sofferenza umana nei conflitti armati.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO SOCIAL NETWORK, DIFFAMAZIONE E DIRITTI UMANI Quando la libertà di espressione incontra il diritto alla privacy

Di Luca Imperatore L’inarrestabile cavalcata delle (ormai non più tanto) nuove tecnologie ha portato con sé la conseguente necessità di determinare i limiti e le possibilità del loro utilizzo. Il binomio curioso, interessante e quanto mai attuale tra social media e diritto alla privacy provoca, in misura esponenzialmente crescente, un’impennata del numero di cause legali che coinvolgono cittadini di ogni nazionalità, i quali lamentano una violazione dei loro diritti, derivante dall’uso improprio degli strumenti mediali, spesso esercitato da privati. Neppure le istanze internazionali paiono completamente immuni da questo genere di controversie: ne è un esempio rilevante la recente pronuncia della Corte EDU di Strasburgo sul caso Egill Einarsson c. Islanda (app. n. 24703/15). Il ricorrente, noto e controverso personaggio pubblico islandese, era stato coinvolto nel 2011 da uno scandalo mediatico che si originava da un’accusa di violenza carnale e una di molestie sessuali avanzate nei suoi confronti da due donne. Entrambi i procedimenti si erano conclusi per insufficienza di prove, nel frattempo, lo stesso Einarsson rilasciava interviste televisive dibattendo della vicenda. Pochi giorni dopo la conclusione del secondo processo, un individuo pubblicava sul suo profilo Insta-

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gram – seguito da un centinaio di persone – una foto editata di Einarsson recante insulti ingiuriosi e contente la parola “stupratore”. Detta foto veniva successivamente pubblicata da diversi giornali ed Einarsson reagiva azionando un procedimento per diffamazione. Sulla base del suo diretto coinvolgimento in una questione già fortemente mediatizzata, il ruolo pubblico del personaggio ed i suoi pregressi in materia (Einarsson era stato contestato, in passato, per un atteggiamento fortemente denigratorio nei confronti delle donne), il Tribunale di prima istanza e la Corte suprema islandese, in appello, rigettavano la richiesta avanzata. Einarsson proponeva ricorso dinnanzi alla Corte EDU, lamentando violazione dell’art. 8 CEDU in relazione al suo diritto alla privacy. Nella valutazione del caso, i giudici di Strasburgo prendevano in esame i precedenti che avevano coinvolto Einarsson, la sua condizione di personaggio pubblico, la sua stessa partecipazione al dibattito scaturito dalla vicenda giudiziaria, nonché le modalità con le quali la supposta violazione del diritto alla privacy era avvenuta. Nel fare ciò, la Corte statuiva con chiarezza (riprendendo una consolidata, seppur recente, giurisprudenza in materia) che la facilità di accesso e di diffusione dei dati attraverso internet rappresentano un ri-

schio elevato per i diritti degli individui. Per quanto attiene alla tipologia di dichiarazioni, sebbene la valutazione delle stesse sia soggetta ad un certo margine di apprezzamento da parte delle autorità degli Stati membri, la Corte concludeva che il termine “stupratore” rimandasse ad una condizione oggettiva e fattuale in natura e non potesse, dunque, considerarsi neutro. L’art. 8 CEDU, ad opinione della seconda sezione della Corte, “must be interpreted to mean that persons, even disputed public persons that have instigated a heated debate due to their behavior and public comments, do not have to tolerate being publicly accused of violent criminal acts without such statements being supported by facts” (§52). Dalla vicenda in esame si evince la difficoltà sottesa al bilanciamento tra il diritto alla privacy e la libertà di espressione, specialmente quando vengono coinvolti personaggi noti. La questione può, altresì sembrare di poco conto ma occorre rammentare che il principio del de minimis non curatpraetor evolve con i cambiamenti sociali. Ciò che un tempo era irrilevante o secondario può non essere più tale e da una condotta superficiale, perpetrata dietro uno schermo, può facilmente derivare un’intollerabile contrizione dei diritti fondamentali dell’individuo.


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