MSOI thePost Numero 93

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Luca Bolzanin, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


SPECIALE ELEZIONI ITALIANE

Il fact checking applicato ai programmi delle principali forze politiche in corsa per la guida del Paese MSOI thePost ha deciso di affrontare le elezioni italiane in chiave internazionalistica, con uno speciale realizzato da alcuni tra i suoi redattori più attenti. Ciascuno di loro ha seguito un partito politico analizzandone le dichiarazione dei maggiori esponenti e i programmi elettorali in tre ambiti: Unione Europea, immigrazione e politica estera. Le previsioni di spesa che lo Stato italiano affronterebbe applicando tali programmi sono state indagate soprattutto sulla base delle ricerche pubblicate da La Repubblica e curate da Roberto Perotti.

PARTITO DEMOCRATICO Alla guida della coalizione di centrosinistra composta da +Europa, la lista Insieme e Civica Popolare, il Partito Democratico pone l’accento sull’Europa e la politica migratoria. Unione Europea Posta come uno dei pilastri fondamentali del programma, l’Europa a cui il PD aspira sono gli Stati Uniti d’Europa auspicati da Martin Schulz, fine piuttosto ambizioso considerando la crisi che l’Unione sta vivendo tra Brexit, incertezza politica in Germania e tensioni dalla parte dei Paesi di Visegrad. Nel dettaglio, il PD preconizza un approfondimento ulteriore del pilastro sociale

europeo e della Carta dei diritti fondamentali, soprattutto in termini di infrastrutture sociali, educazione e lavoro. Oltre ad una “Unione sociale”, si spinge per un’Unione bancaria rafforzata e un’Unione economica che preveda un Ministro delle Finanze dell’Eurozona, un budget comune contro gli shock e l’emissione di Eurobond fino al 5% del PIL dell’Eurozona, misura storicamente osteggiata dalla Germania. Le possibilità dell’Italia di imporsi su questo punto a livello europeo e contro lo Stato tedesco appaiono molto ridotte. Infine più democrazia, attraverso l’elezione diretta del Presidente della Commissione e l’introduzione di liste transnazionali, le quali però sono state rigettate dal Parlamento Europeo il 7 febbraio scorso, e più flessibilità sul piano fiscale. Tuttavia, la revisione del fiscal compact, in caso di vittoria, potrebbe diventare un motivo di frizione all’interno della coalizione , dal momento che + Europa sostiene al contrario misure di austerità come il congelamento della spesa nominale. Immigrazione Il Partito Democratico, sul piano nazionale, propone il superamento della Bossi-Fini e l’adozione della legge sullo ius soli, che, al termine della scorsa legislatura, il PD aveva deciso di non portare in aula. Inoltre, c’è la volontà di proseguire la “linea Minniti” sugli accordi con i Paesi di partenza e di transito dei migranti. Proprio questa politica è stata criticata da più fronti: nell’agosto scorso, un’inchiesta dell’Associated Press, smentita dal governo italiano, ha raccontato di un accordo con

alcune milizie libiche per fermare i flussi migratori, mentre l’Alto Commissario delle Nazioni Unite ai Diritti Umani ha denunciato le condizioni inumane in cui i migranti sono trattenuti nei campi libici. Sul piano europeo, il PD propone una gestione congiunta dei rifugiati: non solo il superamento degli accordi di Dublino, ma anche politiche comuni sull’immigrazione economica. Lo scoglio per queste proposte riguarda la difficoltà di muoversi in un’Unione spaccata sul tema, immobilizzata dalle posizioni dei Paesi di Visegrad.

Politica estera Il PD pensa ad un’Italia leader in Europa, in grado di essere capofila nel processo di integrazione insieme al tandem franco-tedesco. Inoltre, si rilancia l’idea di una nuova partnership UEAfrica, secondo la proposta del Migration Compact del 2016: non solo gestione delle migrazioni, ma anche una cooperazione più approfondita per aiutare lo sviluppo del continente africano. Tuttavia, questo approccio è stato criticato da alcune ONG, come Amref, perchè instaurerebbe degli accordi fondati su condizioni definite unilateralmente dall’Europa. In quest’ottica, il PD promette di aumentare i fondi per la cooperazione internazionale MSOI the Post • 3


portandoli allo 0,7% del PIL entro il 2020, rispetto allo 0,3% attuale Il PD pone, infine, il tema di un Fondo europeo della difesa, che approfondisca le aree di integrazione già avviate con il sistema Pesco, e di una intelligence europea per far fronte alla minaccia terroristica.

superare le attuali divergenze tra Paesi membri. Infine, si mira a democratizzare la Commissione europea e il Consiglio dell’Unione. Tale progetto appare di difficile attuazione, perché richiederebbe la revisione dei Trattati UE, una procedura che durerebbe mesi, se non anni.

Previsioni di spesa Numerosi sono i dubbi sollevati da Perotti sulla riaffermazione del parametro di Maastricht del 3%, che a suo avviso equivarrebbe a un costo di 54 miliardi l’anno, promettendo al contempo di abbassare il debito pubblico dal 132% al 100%.

Immigrazione +Europa si propone di modificare la normativa italiana per consentire una migliore accoglienza e un più efficace inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro. Le proposte riguardano: il superamento della legge Bossi-Fini, l’applicazione dello ius culturae (ossia l’acquisto della cittadinanza italiana, a seguito di percorso formativo), l’adozione esclusiva dello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), un utilizzo oculato dei fondi europei, la creazione di corridoi umanitari e, infine, la riforma del Regolamento di Dublino III. Mentre le riforme interne risultano fattibili, la riforma di Dublino III presenta le sfide maggiori, dati i passati insuccessi in proposito.

A cura di Micol Bertolini e Vladimiro Labate

+EUROPA +Europa si presenta alle elezioni nella coalizione di centrosinistra, con un programma politico tra i più solidi, stando a una ricerca dell’Istituto Cattaneo. Europa Il partito prospetta la creazione degli Stati Uniti d’Europa, un bilancio pari al 4-5% del PIL europeo (a fronte dell’attuale 1%), che finanzi “la difesa, la diplomazia, il controllo delle frontiere, programmi federali di ricerca scientifica”. Per conseguire questo obiettivo, si ammette anche la possibilità di un’UE a due velocità, potendo, in questo modo, 4 • MSOI the Post

Politica estera Il partito dell’ex Ministra degli Esteri intende rafforzare la politica estera commerciale europea e favorire una maggiore integrazione a livello comunitario per giungere all’Unione Politica, obiettivo ambizioso che incontra il favore dei governi francese e tedesco. Inoltre, si auspica l’istituzione di un’agenzia nazionale

autonoma e indipendente per la tutela dei diritti umani che favorisca la prevenzione delle discriminazioni e la difesa delle libertà fondamentali e si manifesta l’intenzione di voler proseguire in linea con l’Accordo di Parigi nella lotta ai cambiamenti climatici. Infine, nell’ottica della sicurezza internazionale, si promuove la denuclearizzazione di tutti i Paesi, in primis quelli europei. In questo caso, è prevedibile l’opposizione di Parigi, che, con l’uscita del Regno Unito dall’UE, rimarrebbe l’unico Paese membro con testate nucleari. Previsioni di spesa Per ridurre il debito pubblico, si propone il congelamento della spesa pubblica per 5 anni, insieme a una rimodulazione delle tasse e alla riduzione della spesa fiscale. Il taglio di IRPEF e IRES vale circa 50 miliardi, la reintroduzione dell’IMU 4,5. Sono anche previste privatizzazioni e liberalizzazioni, l’abolizione dell’IVA al 10%, il taglio di diverse agevolazioni fiscali e l’istituzione di una carbon tax. Infine, la lotta all’evasione permetterà di coprire la riduzione delle imposte senza aumentare la spesa corrente e permettendo di investire nell’Industria 4.0 e nel Mezzogiorno. Sebbene il congelamento della spesa pubblica abbia sollevato numerose critiche tra gli economisti, secondo un rapporto di Crédit Suisse, le coperture sono adeguate e credibili. A cura di Luca Bolzanin LIBERI E UGUALI La coalizione di sinistra Liberi e Uguali (LeU), guidata da Pietro Grasso, si presenta come un movimento europeista, che invita all’accoglienza e al pacifismo. Unione Europea LeU mira alla

riscrittura


dei trattati per trasferire competenze dagli Stati membri alle istituzioni europee. L’attuazione di tale proposta non

presenta tuttavia un percorso agevole: per la revisione ordinaria dei trattati, come stabilito dall’articolo 48 del TUE, è necessaria la ratifica di tutti gli Stati membri, difficilmente ottenibile dati i recenti fenomeni di euroscetticismo e populismo. Si propone poi un sistema europeo di asilo unico che superi il criterio del Paese di primo accesso del trattato di Dublino, l’accantonamento del Fiscal Compact (che avrebbe “ucciso” la crescita senza aver fatto calare il debito), l’introduzione del principio Golden rule (la cancellazione dai parametri europei delle spese per investimenti e crescita, che richiederebbe però la modifica dell’articolo 81 della Costituzione) ed infine istituzioni più democratiche, con possibilità di definire la composizione della Commissione. Immigrazione LeU prevede l’abolizione della Bossi-Fini, l’introduzione di permessi di ricerca lavoro e di meccanismi di ingressi regolari. Propone la riforma del sistema di accoglienza ispirandosi al modello SPRAR e si dichiara favorevole allo Ius Soli. Il Sole 24 Ore dà al progetto LeU solo il 40% di grado di attuabilità e sottolinea che l’abolizione della Bossi-Fini potrebbe

tramutarsi in un incentivo per gli sbarchi e che i centri di accoglienza pubblici hanno già mostrato i loro limiti. D’altro canto, come afferma anche Boldrini, l’introduzione del reato di immigrazione clandestina nel 2009 non ha impedito un forte aumento degli sbarchi: dal 2010 al 2017 gli arrivi via mare in Italia sono passati da 4.500 a 119.369.

e IMU, istituzione di una carbon tax, scuola gratuita, tasse universitarie abolite e riduzione della spesa militare. Entro il 2022, il disavanzo dovrebbe diminuire di oltre 40 miliardi fino ad azzerarsi. Il professor Roberto Perotti, nell’analizzare la simulazione di spesa fornita da LeU, ha definito “miracoloso” il miglioramento dei conti pubblici.

Politica estera LeU fa del ripudio alla guerra, del multilateralismo e della cooperazione internazionale i suoi punti guida. Rifiuta l’interventismo militare e propone il divieto di esportazione di materiale bellico nei Paesi coinvolti in guerre o crisi e l’istituzione di un Dipartimento della Difesa Civile. La realizzazione di tali intenti potrebbe essere osteggiata dagli interessi

A cura di Fabrizia Candido

LEGA NORD

economici italiani connessi all’esportazione di armi, ne sono un esempio i 411 milioni di euro derivanti dall’autorizzazione alla fornitura all’Arabia Saudita di 19.675 bombe richieste per bombardare lo Yemen. Previsioni di spesa Salvo i 5 miliardi in 5 anni per gli investimenti nella sanità, i costi del programma non sono indicati. Tra le formule LeU ci sono: riforma IRPEF e riduzione IRI, perdendo 30 miliardi di gettito e compensando con un recupero di evasione di 30 miliardi, eliminazione IRAP

Il programma della Lega Nord si basa su alcuni punti centrali: riforma fiscale, difesa dei confini, controllo dell’immigrazione, autonomia dall’UE e difesa dell’interesse nazionale. Il partito fa parte di una coalizione elettorale formata anche da Forza Italia, Fratelli d’Italia e Noi con l’Italia. Unione Europea Verso l’Unione Europea la Lega è critica e reclama maggiore autonomia politica, economica e monetaria. Rivendica infatti un sostanziale recupero della sovranità nazionale. Mira a ridurre i vincoli di dipendenza che il Paese ha con le istituzioni europee, posizione incompatibile con gli attuali trattati. Infatti è giuridicamente scorretto affermare la prevalenza della Costituzione e delle norme interne sul diritto comunitario. MSOI the Post • 5


Salvini ha criticato le politiche di austerità, dichiarandosi pronto a violare il Patto di Stabilità (deficit/PIL sotto il 3%) se l’economia fosse in difficoltà. Posizione in netta contraddizione con quella espressa da Berlusconi, che ha rassicurato i vertici europei sul suo impegno a rispettare questo trattato. Sull’Euro il segretario non ha ancora assunto una posizione definitiva, ma non esclude un’eventuale uscita. Immigrazione Viene avanzato un “blocco degli sbarchi con respingimenti assistiti” per gestire l’immigrazione. È proposto anche un sistema di controlli più rigido sui richiedenti asilo, a cui concedere solo più lo status di rifugiato. La strategia di blocco, espulsione e rimpatrio dei clandestini si scontra però con le norme della legalità internazionale e con problemi logistici di vasta portata, come l’elevato costo e la gestione del trasporto di migliaia di individui. Il blocco navale della Marina italiana, soprattutto se in acque libiche, sarebbe una chiara violazione della sovranità statuale. Inoltre, in Libia non esiste uno Stato pienamente effettivo con cui dialogare: le operazioni di respingimento dovrebbero essere concordate anche con le milizie e i gruppi di potere locali. Un ulteriore problema è legato alla provenienza dei migranti, in gran parte dell’Africa subsahariana; per rimpatriarli bisognerebbe aprire trattative bilaterali con diversi Stati, con i quali attualmente non c’è alcun accordo. Infine, i migranti spesso non hanno neanche documenti ufficiali che ne attestino la cittadinanza di uno specifico Stato. Per arginare il fenomeno viene presentato un “Piano Marshall per l’Africa”, da realizzare con la “stipula di accordi con i Paesi di origine dei migranti economici”. Non sono però forniti dettagli 6 • MSOI the Post

sui costi dell’operazione. Politica estera L’interesse nazionale è il cardine della politica estera. Salvini infatti apprezza le misure protezionistiche e i dazi commerciali di Trump. Vuole inoltre rinsaldare l’alleanza con gli USA e Israele, in funzione della lotta al terrorismo estremista-jihadista. Considera poi la Russia un possibile partner, e promette la cancellazione delle attuali sanzioni. Previsioni di spesa Il professor Perotti, su “la Repubblica”, critica le proposte economiche della coalizione perché reputate insostenibili. Come la proposta di una Flat Tax, un’unica aliquota fiscale. Per la Lega il costo sarebbe di 30 miliardi l’anno, il professore invece ne calcola 66. Salvini insiste anche sulla revisione del sistema pensionistico, con la cancellazione della legge Fornero. ll programma non indica un costo, ma la stima è tra gli 11 e i 15 miliardi. Nel complesso tutte le riforme del centrodestra porterebbero ad una spesa tra i 171 e i 310 miliardi l’anno. Il disavanzo per i conti pubblici è notevole, visto che la copertura stimata è di soli 10 milioni. A cura di Luca Rebolino FORZA ITALIA

Forza Italia, parte della Coalizione di Centrodestra insieme ai gruppi Fratelli d’Italia, Lega Nord e Noi con l’Italia-UDC, ha presentato un programma articolato in 10 punti. Immigrazione, riforma fiscale ed EU, sono le principali tematiche sulle quali, a pochi giorni dalle elezioni, continuano a permanere interrogativi ed incertezze.

Unione Europea Massima priorità ad una minore dall’Europa dipendenza attraverso una revisione dei Trattati e ad un’azione di recupero della sovranità. Su tali punti punti il programma elettorale rimane fermo su affermazioni generiche e prive di approfondimento riguardo quelle che potrebbero essere le implicazioni giuridiche e procedimentali delle proposte presentate. In cerca di un equilibrio, tuttavia, Berlusconi ha dichiarato l’intenzione di rispettare il limite del 3% del rapporto deficit/PIL imposto in sede europea, posizione non condivisa dal leader della Lega Nord. Politica estera All’interno del programma elettorale di FI non troviamo alcun specifico riferimento alle posizioni che si intendono assumere in materia di politica estera. La portata internazionale delle proposte rivolge l’attenzione al tema dell’immigrazione e alla necessità di bloccare i flussi provenienti dal Nordafrica “in attesa di azioni di politica


internazionale che portino alla soluzione dei conflitti in Africa, in Medio Oriente ed ai confini orientali dell’Europa ”. Immigrazione Un maggior controllo dei confini ed il rimpatrio di tutti i clandestini presenti sul territorio nazionale, mediante la stipulazione di accordi con i Paesi d’origine, sarebbero indispensabili, secondo le dichiarazioni di Silvio Berlusconi, per una concreta lotta al terrorismo. Il leader di Forza Italia riferisce di 600.000 migranti irregolari da rimpatriare, una cifra incerta e che non trova corrispondenza con il contenuto del rapporto ISMU sulle migrazioni, il quale, per l’anno 2017, ha calcolato la presenza di 491.000 irregolari. Previsioni di spesa Il consueto, e primo, punto del programma “Meno tasse” vede come protagonista indiscussa la promozione dell’ormai nota Flat Tax, con aliquota sui redditi fissa al 23% ed accompagnata da una No Tax Area per redditi fino a 12.000 euro. Riduzione e semplificazione del sistema si configurano, dunque, come obiettivi perseguiti dalla riforma. Un sistema complesso, tuttavia,, che trarrebbe la propria forza da un autofinanziamento i cui meccanismi sembrano frutto di un’eccessiva semplificazione. Inoltre, tra le possibili implicazioni derivanti da tale riforma fiscale, oltre quelle di natura economica, vi sarebbe la necessità di rispettare il principio di progressività del sistema tributario della Costituzione (art. 53). Secondo FI, l’introduzione della Flat Tax graverebbe sulle casse statali per 30-40 mld, compensati da un recupero di 87-130 mld derivante da una diminuzione dell’evasione fiscale. Le perdite previste potrebbero, invece, giungere fino a 64 miliardi (come riportato dalle analisi dell’economista

Perotti, 72 mld come riportato dalla fonte lavoce.info) e la compensazione stimata appare, secondo i dati 2015 riferiti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, fin troppo ambiziosa. In tema immigrazione risulta arduo prevedere il costo, variabile a seconda della destinazione, derivante dal massiccio rimpatrio promesso da Berlusconi. Secondo un’indagine condotta da EUobserver, il costo medio ed approssimativo di un singolo rimpatrio, operato dall’Agenzia europea Frontex, ammonterebbe a 5.800 euro. A cura di Erica Ambroggio FRATELLI D’ITALIA

Fratelli d’Italia, guidato da Giorgia Meloni, è parte della Coalizione di Centrodestra con Forza Italia, Lega Nord e Noi con l’Italia-UDC. Nel programma sono centrali temi come immigrazione, identità nazionale, tutela delle famiglie e riforma fiscale. Politica estera Gli obiettivi sono la salvaguardia dell’interesse nazionale e l’adeguamento degli stanziamenti per la Difesa ai parametri occidentali. Essendo secondo i dati della Banca Mondiale le spese militari in Italia all’1,5% del PIL, tra i Paesi UE all’1,3% in media, e per quelli OCSE al 2,2%, si tratterebbe probabilmente di un aumento dello 0,7% del PIL.

Unione Europea e Sovranità nazionale ridiscussione dei trattati. In particolare la coalizione preme sulla revisione del Fiscal Compact. Riguardo a questo patto di bilancio europeo si tratta di decidere come proseguire un percorso già tracciato: il 7 febbraio scorso, infatti, il Parlamento (a commissioni della Camera dei Deputati riunite) si è già espresso quasi all’unanimità contrario all’inserimento del Fiscal Compact nelle Direttive Europee. Tra gli altri trattati presi in considerazione ci sono Bolkestein (libera circolazione dei servizi tra i Paesi UE) e Regolamento di Dublino (che regola il sistema delle richieste d’asilo degli extracomunitari). Il primo a dicembre ha già ottenuto alla Camera un rinvio al 2020 e quindi non necessita di un intervento in tempi brevi. Immigrazione Fratelli d’Italia propone l’espulsione immediata per gli stranieri che delinquono e per regolare i flussi prevede accordi con gli Stati del Nord Africa (contestualmente aiutati con investimenti internazionali che limitino la spinta all’emigrazione) sul controllo delle frontiere. Circa 500.000 sarebbero gli

immigrati irregolari individuati, la maggior parte dei quali però richiedenti asilo: per questi il rimpatrio violerebbe le convenzioni internazionali. Anche per questo motivo in ambito accoglienza la volontà è quella di abolire la concessione «indiscriminata» di protezione umanitaria e diritto d’asilo,

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per favorire i «flussi solo per nazionalità che hanno dimostrato di integrarsi e che non creano problemi di sicurezza»: non viene stilato un elenco di tali nazionalità, ma qualora potesse realmente esserci non è chiaro su quali parametri potrebbe fondarsi. Inoltre il rapporto sui CEI in Italia (2014) della Commissione diritti umani del Senato ha già dimostrato come il costo che include controllo delle frontiere e intero iter per il rimpatrio risulta troppo elevato in rapporto all’efficacia.

internazionali.

Previsioni di spesa La coalizione di Centrodestra ha come fulcro della proposta economica l’introduzione della Flat Tax, per la quale stima una perdita di 30-40 mld circa. Se anche fosse affidabile la stima del recupero di circa 100 mld dall’evasione fiscale, l’intero programma potrebbe comunque risultare difficilmente sostenibile. Per quanto riguarda gli stanziamenti per la Difesa, ad esempio, l’aumento di 0,7% corrisponde secondo la stima di Roberto Perotti (La Repubblica) a 13 mld l’anno. Sulla questione rimpatri invece l’ipotesi di costi particolarmente elevati è suffragata dal rapporto sui CEI sopracitato, su cui leggiamo una cifra di poco inferiore ai 2 mld di spesa nell’arco temporale 20052012 per la gestione di solo il 35% degli irregolari. Non è possibile una stima economica del “Piano Marshall per l’Africa”, per il quale non sono state fornite per ora ulteriori informazioni.

Politica estera La politica estera pone al centro i principi dell’autodeterminazione dei popoli, nell’accezione più specifica della non ingerenza negli affari interni dei singoli Stati, e del multilateralismo, intensificando le relazioni economiche e diplomatiche considerate strategiche. Dal punto di vista strettamente nozionistico, i due concetti sembrano essere inconciliabili, dal momento che l’interazione in un mondo sempre più globalizzato comporta inevitabilmente un’apertura alle questioni interne.

A cura di Lorenzo Gilardetti

MOVIMENTO 5 STELLE Il Movimento guidato da Luigi Di Maio presenta un programma votato dagli iscritti, con l’assenza del referendum no-euro ed una maggiore incisività del Paese all’interno delle organizzazioni 8 • MSOI the Post

Unione Europea L’assenza di un referendum noeuro esprime la non rinnovata intenzione di abbandonare la moneta unica. Di Maio chiarisce che il referendum potrebbe essere una extrema ratio per rivendicare una posizione più influente in Europa. La ragione di tale inversione di marcia sembra essere l’indebolimento dell’asse franco-tedesco, che avrebbe messo in ombra le prerogative italiane all’interno dell’Unione. Immigrazione Per quanto riguarda l’Unione Europea e la questione migratoria, il fulcro centrale del programma è la corretta applicazione del regolamento di Dublino per assicurare un

omogeneo ricollocamento dei rifugiati tra gli Stati Membri. Tale punto risulta contraddittorio rispetto al voto contrario espresso nel novembre 2017 dagli eurodeputati del M5S al mandato negoziale al Consiglio europeo sulla riforma del sistema d’asilo dell’UE, la quale alleggerirebbe i Paesi di primo accesso dal sovraccarico di richiedenti asilo. Il Movimento mira a smussare l’intensità degli sbarchi anche tramite della un rafforzamento cooperazione allo sviluppo, puntando ad una maggiore trasparenza nella distribuzione dei fondi, da incanalare in progetti di microcredito piuttosto che in grandi opere. Previsioni di spesa Il Movimento individua una copertura di 79 miliardi per l’attuazione del programma, ricavabili tramite un piano di spending review, l’eliminazione di agevolazioni fiscali ed un aumento del deficit annuo. Sul tema della sicurezza, il taglio dell’impegno italiano nelle missioni internazionali coprirebbe un incremento delle forze di polizia. Tuttavia l’economista Roberto Perotti, in un articolo del 13 febbraio de La Repubblica, ha stimato che il costo si attesterebbe sui 105 miliardi, a fronte dei 78,5 calcolati dal M5S. Inoltre, le fonti da cui trarre le coperture permetterebbero di ottenere 45 dei 79 miliardi preventivati, a causa di sottostime e di aggiustamenti necessari ad attuare il programma. A cura di Daniele Baldo e Federica De Lollis


EUROPA CONFERENZA DI MONACO SULLA SICUREZZA 2018 “To the Brink – and Back?”: un quesito irrisolto

Di Giuliana Cristauro La Conferenza sulla sicurezza è un appuntamento annuale che si svolge a Monaco di Baviera dal 1963. Si tratta del più importante evento di scambio di opinioni internazionali sulla sicurezza e sulle politiche di difesa a livello mondiale. Quest’anno l’incontro si è svolto dal 16 al 18 febbraio, è stato presieduto da Wolfgang Ischinger e vi hanno preso parte i capi di Stato di 21 Paesi, più di 80 Ministri degli Esteri e della Difesa e decine di capi della sicurezza. Il segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha inaugurato la Conferenza, introducendone i temi salienti, ha tracciato il deterioramento delle relazioni tra gli Stati per ricordare ai leader militari e politici che “la riscoperta di un rispetto basato sull’unità di propositi è la sola possibilità per evitare una grave conflagrazione internazionale”. Il 2017 è stato un anno segnato dalla continua erosione dell’ordine internazionale liberale e da una politica estera statunitense sempre più imprevedibile. Sono accresciute le tensioni in molte parti del mondo, a partire dal rapporto sempre più conflittuale tra Stati Uniti e Corea del Nord, ma anche la spaccatura nel Golfo è

aumentata e non solo tra Arabia Saudita e Iran. La Conferenza, intitolata “To the Brink – and Back?”, ha offerto una panoramica dei principali problemi relativi alla politica di sicurezza. La parola dalla quale sono scaturiti tutti i temi principali affrontati è una soltanto: erosione, intesa come un generale sgretolamento degli equilibri. Il quesito principale alla base delle discussioni è stato: l’ordine internazionale è sull’orlo del declino (To the Brink) o è ancora possibile arrestare questo processo di “erosione” attraverso un ritorno agli equilibri (and Back)? Nelle sessioni successive si sono sviluppati molti temi importanti tra i quali l’impatto del primo anno della presidenza Trump, l’influenza della Brexit nella politica di difesa europea e gli sforzi globali di disarmo nucleare. Fra le altre cose, i partecipanti hanno concordato all’unanimità la necessità di continuare a opporre resistenza al jihadismo. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha colto l’occasione per mostrare il frammento di un drone iraniano penetrato nel territorio di Israele e ha diffuso un severo avvertimento all’Iran affermando che la sua nazione è pronta al con-

flitto qualora gli iraniani dovessero continuare a mettere alla prova le linee rosse israeliane. Un altro tema importante è stato quello della sicurezza informatica. Molte compagnie mondiali hanno manifestato seria preoccupazione per le fake news e altri mezzi di manipolazione, tra i quali Facebook e Google. Su iniziativa di Siemens, è stata firmata la Charter of Trust con norme e standard per incrementare il livello di fiducia nella sicurezza informatica. Wolfgang Ischinger ad apertura della Conferenza aveva sperato che il punto interrogativo iniziale “To the Brink – and Back?”, potesse essere cancellato; tuttavia, quando l’incontro si è concluso, ha confessato di “non essere sicuro di poter rimuovere quel punto di domanda”. I partecipanti hanno identificato le nuove sfide da affrontare ma non hanno proposto le strategie da utilizzare per affrontarle. Tuttavia è necessario che s’impegnino concretamente per la risoluzione delle crisi che non sono ancora venute a capo perché altrimenti – come emerge dal Munich Security Report 2018 – alcune questioni potrebbero avere gravissime conseguenze. MSOI the Post • 9


EUROPA ASSEGNAZIONE EMA: AMSTERDAM IMPREPARATA, MILANO FA RICORSO

Il Comune e il Governo Italiano fanno sperano in un rinvio del voto fissato per il 14 marzo

Di Edoardo Schiesari Prosegue il dibattito riguardo al trasferimento dell’EMA, l’Agenzia Europea per i Medicinali. Il 20 novembre 2017 il Consiglio Europeo, a seguito di sorteggio favorevole dopo che al terzo turno le votazioni si erano concluse in parità, ha deliberato il trasferimento della sede principale dell’Agenzia da Londra ad Amsterdam, ma la decisione è stata contestata dal Governo Italiano e dal Comune di Milano, sconfitti proprio al sorteggio finale. L’EMA ha lo scopo di proteggere e promuovere la salute dei cittadini e degli animali garantendo la valutazione scientifica, la supervisione e il controllo della sicurezza dei medicinali per uso e umano e umanitario all’interno dell’Unione Europea. In pratica, deve facilitare lo sviluppo e l’accesso ai medicinali, monitorandone la sicurezza durante il loro intero arco di vita, valutando quali possano essere immessi in commercio e mantenendo un legame solido con pazienti ed enti di ricerca. Istituita nel 1995, vanta ben 897 dipendenti, ed è attualmente diretta da un italiano, Guido Rosi, che in quanto direttore esecutivo è responsabile di tutti gli aspetti operativi. È governata da 10 • MSOI the Post

un consiglio di amministrazione di 36 membri, non rappresentativi di alcun Governo, e deve operare in modo “indipendente, aperto e trasparente” in stretta cooperazione con l’ECDC (Centro Europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) e l’EFSA (autorità europea per la sicurezza alimentare). Nelle scorse settimane, tramite l’Avvocatura dello Stato Italiano il Governo e il Comune di Milano hanno presentato, separatamente, due ricorsi al Tribunale dell’Unione Europea richiedendo di sospendere immediatamente l’aggiudicazione. Vengono contestate: la modalità del sorteggio, l’effettuazione del sorteggio e la violazione dei principi di trasparenza e buon funzionamento della pubblica amministrazione. La città di Amsterdam è accusata di non aver fornito ai cittadini europei tutte le informazioni necessarie per valutare appieno l’opportunità dell’assegnazione della sede provvisoria, impedendo così di giungere alla valutazione della migliore scelta possibile. Le informazioni rese note dall’Olanda agli Stati membri sarebbero, infatti, incomplete. Da un lato, si sono allungati i tempi necessari al trasferimen-

to: Amsterdam aveva garantito di essere in grado di renderlo disponibile entro il 2019, mentre dall’ultima riunione del board dell’EMA svoltasi a Londra, l’inizio dei lavori è stato fissato solo per luglio 2018, e si prevede che questi non possano concludersi prima del novembre 2019. Inoltre, si sono ampiamente dilatate le spese previste per il contratto di locazione: Amsterdam aveva preventivato una spesa 10 milioni, oggi inspiegabilmente incrementata di più di 3 milioni a seguito di “spese di installazione” non ben specificate nel progetto iniziale. Infine, la Città aveva inizialmente offerto due edifici, il Tripolis e l’Infinity Business Centre, per ospitare temporaneamente l’EMA in attesa della costruzione della sede definitiva: entrambi gli impianti, però, si sono rivelati inadeguati. L’Olanda ha così individuato una terza costruzione, lo Sparkling Building, che però non era presente nel dossier della prima offerta. Il 14 marzo il Parlamento Europeo sarà chiamato a votare l’atto definitivo di trasferimento. La speranza per l’Italia è che il voto venga rimandato in attesa che il Tribunale di Lussemburgo si pronunci sui due ricorsi.


NORD AMERICA PEACE IN PIECES

Il futuro del peacekeeping nell’era Trump

Di Alessandro Dalpasso È passato poco più di un anno da quando Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca. Una delle sue prime nomine è stata quella di Nikki Haley, ex Governatore della Carolina del Sud, come Rappresentante Permanente presso il Palazzo di Vetro. L’allora candidato Trump aveva promesso significativi cambiamenti nel rapporto UN-US e, quando è arrivato il momento, il Presidente e l’Ambasciatrice sono arrivati alle Nazioni Unite determinati a rivoluzione il budget dell’organizzazione, soprattutto tenuto conto l’apporto che gli Stati Uniti hanno sempre portato alla stessa. Il numero di soldati americani ad aver servito in operazioni a guida ONU è sempre stato molto basso. Negli anni post Guerra Fredda (con l’unica eccezione del periodo novembre 1992-marzo 1996), dopo la morte di 18 soldati in Somalia e le difficoltà operazionali della missione hanno portato ad un deciso cambiamento di rotta da parte delle varie amministrazioni e dalla Presidential Decision Directive 25, firmata da Clinton, la media di soldati americani che servono sotto la bandiera dell’Organizzazione è costantemente rimasta, ogni anno, sotto il centinaio. Nonostante ciò, gli Stati Uni-

ti hanno sempre supportato gli sforzi nel peacekeeping degli altri T/PCCs (Troops/Police Contributing Countries), a partire dalla Global Peace Operation Initiative, che ha preso il via nel 2004, programma tramite il quale il governo a stelle e strisce spende 115$ milioni l’anno per addestrare truppe provenienti da altri Paesi, passando per equipaggiamenti, veicoli, istruttori e generi di prima necessità. Grazie a programmi come il GPOI, inoltre, gli Stati Uniti finanziano progetti per implementare il mandato delle missioni, dall’addestramento dei civili ai principi base della protezione dei civili. Lamentando disfunzioni e fondi mal utilizzati, e non potendo limitare ulteriormente il numero dei militari presenti nelle missioni di peacekeeping, Trump ha prima minacciato e poi realizzato dei tagli in questo secondo tipo di realtà. Il casus belli è stato il notorio voto sull’Ambasciata statunitense a Gerusalemme: l’Assemblea Generale ha votato 1289 contro la decisione e Haley ha dipinto la decisione dell’Organo deliberativo come un referendum sulla politica estera statunitense. Accuratamente però, la Rappresentante non ha diminuito il dialogo con la leadership dell’ONU sulla riforma dell’Organizzazione e la minaccia dei tagli al bilancio generale e del

peacekeeping rimangono delle carte molto potenti, soprattutto perché nelle mani di chi dei tagli a delle Agenzie sono già stati fatti. Nonostante le iniziali premesse, le promesse, soprattutto per quanto riguarda il peacekeeping, sembrano non essere state mantenute. Ci sono stati dei tagli, ma solamente per quanto riguarda i finanziamenti volontari che, in quanto tali, non sono né vincolanti né ammontano a somme ingenti. Quello che preoccupa, però, è la strategia di fondo dietro a questo ragionamento: una totale assenza di programmazione e attenzione al lungo periodo (si parla di un tetto alle contribuzioni USA al 25% del budget totale dal prossimo anno), unitamente ad una totale mancanza di visione e concretezza nel rapporto esistente fra gli Stati Uniti e l’Organizzazione. Come diceva il secondo Segretario Generale, lo svedese Dag Hammarskjöld, “Le Nazioni Unite avranno finalmente il loro ruolo nel mondo quando gli stati capiranno che non si tratta di uno strano Picasso ma di un dipinto che hanno fatto loro stesse”. Una politica da parte di Trump che cercasse capri espiatori altrove lo aiuterebbe sicuramente a riportare gli USA in una posizione di leadership globale. MSOI the Post • 11


NORD AMERICA PETROLIO VS. AMBIENTALISMO

La proposta di potenziamento della Trans Mountain Pipeline spacca a metà la società e la politica canadese

Di Leonardo Veneziani Nel 1947 fu scoperta, in Alberta, Canada, una grossa fonte di petrolio non ancora utilizzata. Negli anni ’50 si decise così di costruire un oleodotto dal nome Trans Mountain Pipeline, che avrebbe portato, dall’Alberta alla British Columbia, il petrolio appena scoperto verso le coste occidentali canadesi, potendo così raggiungere i porti per l’export di tale prodotto. L’oleodotto, ultimato solamente nel 2008, ha così la capacità di trasportare circa 40.000 barili di petrolio al giorno. Cinque anni dopo il suo completamento, l’azienda Kinder Morgan, che deteneva la proprietà della Trans Mountain Pipeline, propose al National Energy Board, responsabile delle valutazioni sul merito di progetti infrastrutturali energetici, di costruire un altro oleodotto, parallelo alla precedente pipeline, che trasportasse però bitume diluito. Il potenziamento infrastrutturale porterebbe la capacità di trasporto della pipeline a circa 890.000 barili al giorno. Nel 2016, il governo della British Columbia affermò la propria contrarietà al potenziamento infrastrutturale 12 • MSOI the Post

dell’oleodotto, facendo così infuriare il governo dell’Alberta, in quanto Kinder Morgan non aveva fornito sufficienti dati e rassicurazioni relative all’eventuale impatto ambientale e sociologico che tale progetto avrebbe comportato, nonché la mancata presentazione di un piano adeguato per rispondere a una possibile perdita o falla nelle tubature. La società civile canadese, nonché la comunità accademicoscientifica e l’élite politica ed economica del paese, si sono divise su tale progetto. L’annuncio della volontà di espandere ulteriormente l’infrastruttura ha causato forti proteste su più fronti: il sindaco della città di Vancouver e di Burnaby, i gruppi delle “Prime Nazioni” rappresentanti le comunità indigene nell’assetto politico-istituzionale canadese, nonché numerosi professori di ecologia ambientale, hanno fatto sentire la propria voce contraria all’espansione di tale progetto. Difatti, asseriscono, un’eventuale e possibile perdita di bitume diluito potrebbe facilmente inquinare non solo il terreno, ma anche le falde acquifere, da cui viene prelevata l’acqua potabile utilizzata nei centri urbani della

zona. Il Ministro dello Sviluppo economico dell’Alberta, d’altro canto, ha messo in guardia dalla perdita in termini di posti di lavoro e investimenti che ci sarebbero nel caso in cui l’ampliamento della pipeline non fosse portato avanti. David Schindler, professore emerito di ecologia presso l’Università dell’Alberta, nonostante la forte posizione a favore del governo della sua regione, ha espresso comprensione per le preoccupazioni del governo della British Columbia, citando uno studio del 2015 della Royal Society of Canada relativo all’imprevedibilità dei danni causato da un’eventuale perdita di bitume diluito. Affermò, difatti, che il governo dell’Alberta stesse deliberatamente “[…] ignorando la scienza”. Un recente sondaggio dell’Angus Reid Institute ha anche confermato statisticamente la spaccatura della società canadese relativa all’ampliamento del Trans Mountain Pipeline: i canadesi si dividono esattamente 50/50 quando viene loro posta la domanda “Sei a favore o contro l’ampliamento del Trans Mountain Pipeline?”


MEDIO ORIENTE L’AGNELLO SACRIFICALE

Le responsabilità condivise dell’arresto di Ahed Tamimi

Di Clarissa Rossetti E’ controversa la vicenda di Ahed Tamimi, giovanissima attivista palestinese in carcere da circa due mesi per aver colpito due soldati israeliani fuori dalla sua abitazione di Nabi Saleh, villaggio occupato della Cisgiordania. Pochi giorni dopo, la diciassettenne è stata arrestata durante la notte con ben dodici capi d’accusa. Nonostante le condanne della comunità internazionale e le proteste delle organizzazioni per i diritti umani, la detenzione di Ahed Tamimi è stata prolungata e dura ancora fino ad oggi. Il video che la incrimina, diventato virale, mostra la ragazza nel tentativo di allontanare a calci t e schiaffi dalla proprie à di famiglia gli uomini delle forze israeliane, apparentemente pacati e immobili di fronte ai colpi della ragazzina. E’ un gesto spesso decontestualizzato quello di Ahed, in realtà reazione al proiettile di gomma sparato dalle forze israeliane sul cugino Mohammad Fadl di soli quattordici anni, sopravvissuto al coma, ma anche simbolo della ribellione di una comunità oppressa da decenni, di cui si è fatta spesso portavoce la famiglia Tamimi.

Il loro nome, infatti, non è nuovo né ai giornalisti, né alle forze IDF. Il capofamiglia, Bassem Tamimi, è un noto attivista incarcerato più volte per il suo impegno nella resistenza all’occupazione nel proprio villaggio, dove organizza regolarmente attività di protesta. La figlia Ahed era già stata sotto i riflettori per sue apparizioni precedenti, in particolare una foto che la ritrae mentre agita il pugno di fronte a un soldato israeliano in seguito all’arresto del fratello nel 2012, a soli 12 anni, che gli valse il premio Handala per il coraggio consegnatole dalla municipalità di Istanbul con grande apprezzamento dello stesso premier turco Erdogan. In Turchia, a 13 anni, Ahed aveva anche inaugurato una mostra d’arte intitolata Being a Child in Palestine e nel 2016 era stata invitata a tenere uno speaking tour negli Stati Uniti, programma poi saltato per il diniego del suo visto. Sebbene Ahed abbia dimostrato indubbia maturità e intraprendenza, il dibattito innescato dal suo gesto ha evidenziato l’impossibilità della ragazza di sottrarsi a quel destino che l’ha resa il volto della resistenza palestinese acclamato dal mondo intero ma dietro le sbarre, a un’età in cui le pietre e le prote-

ste non dovrebbero sostituirsi ai libri di scuola. Ben oltre i battibecchi politici e le discussioni sui metodi scelti dalla resistenza palestinese, il caso di Ahed Tamimi ci mostra un mondo cieco di fronte alla violazione dei diritti di una delle categorie più vulnerabili della popolazione: i bambini. E non è solo il regime israeliano a perpetrare l’abuso, con l’incarcerazione di una minorenne che così si unisce alle migliaia di palestinesi sotto i diciotto anni reclusi nelle carceri israeliane per reati minori o, spesso, mai commessi. La comunità di Nabi Saleh e la famiglia Tamimi godono al momento di una grande fama internazionale che contribuisce ad amplificare la voce della resistenza palestinese; Ahed, coi suoi riccioli biondi, è diventata ormai l’emblema della sua comunità, fiero germoglio prematuro di ribellione. (Quasi) nessuno si chiede se Ahed, alla sua età, avrebbe mai dovuto trovarsi in mezzo alle proteste; (quasi) nessuno si chiede se Ahed, alla sua età, abbia scelto consapevolmente la strada della resistenza; (quasi) nessuno si chiede se, sotto la voce tonante di Nabi Saleh, ci sia anche quella di Ahed bambina. MSOI the Post • 13


MEDIO ORIENTE USA E IL GIOCO DELLA SEDIA

Ancora non assegnato un nuovo Ambasciatore USA in Amman

Di Martina Terraglia

passo falso del 2015.

Il Regno Hashemita di Giordania è da quasi un anno privo di un Ambasciatore USA. Cosa significa questo per il Paese?

Nel Maggio 2015 My Kali Magazine e alcuni attivisti LGBT organizzano un incontro per discutere le sfide sociali ed economiche affrontate dalla comunità LGBT in Giordania. Tra i partecipanti figura anche l’ambasciatrice Wells, la quale esprime così il supporto degli Stati Uniti alla comunità LGBT; segue la condanna dal Fronte d’Azione Islamico, il braccio politico dei Fratelli Musulmani in Giordania. La reputazione della Wells è compromessa, e a poco sembrano giovare altre iniziative, inclusa l’advocacy contro un disegno di legge che avrebbe reso più difficile la registrazione di ONG nel Paese. Gioca a sfavore della Wells anche l’accordo nucleare USA-Iran: la Giordania, infatti, è uno storico alleato dell’Arabia Saudita, e non vede di buon occhio una mossa che potrebbe favorire una crescita di influenza di Teheran sulla regione.

Ricapitoliamo come si è giunti a questo punto. Settembre 2014: in piena presidenza Obama, viene nominata Ambasciatrice per la Giordania Alice G. Wells, una figura con una brillante carriera diplomatica alle spalle, considerata però esperta di relazioni USA-Russia e, soprattutto, al primo incarico come Ambasciatore. Nonostante le lodi tessute da Daoud Kuttab sul Jordan Times e da vari diplomatici statunitensi su diverse testate, l’esperienza della Wells in Giordania presenta delle zone d’ombra alquanto rilevanti. Secondo quanto scrive Kuttab, “l’ex-Ambasciatrice avrebbe dimostrato una spiccata tendenza a partecipare in prima persona alla sfera pubblica del regno”: se da un lato un simile atteggiamento ha garantito alla Giordania maggiore visibilità e un aumento dei fondi umanitari e per lo sviluppo dagli Stati Uniti (donazioni per il valore di $1.7 miliardi nel 2016, ingenti investimenti privati, sussidi militari, progetti di scambio per studenti, etc.), dall’altro ha causato il 14 • MSOI the Post

2017: Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti a cui re Abdullah II indirizza il proprio disappunto nei confronti della Wells. Nel mese di marzo, Alice G. Wells viene deposta, con largo anticipo sul termine previsto per il suo mandato. Secondo Foreign Policy, la decisione di

Trump rappresenta un raro caso di diretta ingerenza di un governo nella deposizione di un Ambasciatore. Sempre secondo FP, la questione sarebbe stata “semplice per Trump. Il re ha chiesto, e lui aveva il potere di dire sì. Per quel che lo riguardava, si trattava di un Ambasciatore di Obama”. Trump non ha ancora nominato il nuovo Ambasciatore per la Giordania. Eppure, il Regno Hashemita ha una grande importanza strategica: insieme all’Egitto, è l’unico Paese arabo ad aver firmato una tregua con Israele, e ricopre un ruolo cruciale nella risposta alle crisi umanitarie che affliggono la regione. Oltre 650.000 sono i rifugiati siriani registrati dall’UNHCR in Giordania, ma le stime UN parlano di altrettanti rifugiati non registrati, che si sommano a quelli provenienti da Iraq, Palestina e Paesi africani. Inoltre, il Paese rappresenta il principale centro logistico per ONG, governi e forze militari impegnati in operazioni in Siria, Iraq e Yemen. La presenza di un Ambasciatore è pertanto fondamentale per gli USA, al fine di garantirsi influenza sulla regione. Influenza che gli USA stanno perdendo al suono di America first.


RUSSIA E BALCANI LE RIVOLUZIONI COLORATE

Strumenti di lotta pacifica all’indomani della dissoluzione dell’URSS

Di Ilaria Di Donato “Rivoluzioni colorate” è l’appellativo con cui viene ricordata una serie di manifestazioni svoltasi principalmente nei Paesi dell’ex blocco sovietico. Scoppiate tra il 2003 e il 2008 e caratterizzate dalla declinazione non violenta delle proteste, le rivoluzioni colorate si diffusero in diverse regioni canalizzando il malcontento delle popolazioni locali che reclamavano l’affermazione di una reale democrazia ed emancipazione dall’URSS. L’arancione è il colore della rivoluzione ucraina, di cui erano tinte le bandiere sventolanti durante i sit- in di protesta contro l’elezione di Yanukovich e a sostegno del suo sfidante, Yuschenko. La resistenza dei manifestanti ebbe il risultato sperato: la Corte Suprema ucraina invalidò il risultato elettorale indicendo nuove elezioni, dalle quali lo stesso Yuschenko uscì vincitore. Allo stesso risultato condusse la cosiddetta rivoluzione dei tulipani, che trovò genesi e sviluppo nel contesto geopolitico del Kirghizistan. Nel 2005, l’alto tasso di corruzione e le condizioni di povertà estrema in cui versava il Paese indussero

la popolazione a manifestare ad oltranza fino all’ottenimento delle dimissioni del presidente Akayev, al potere dal 1991. Anche la Georgia mise in scena la propria rivoluzione colorata, meglio nota con il nome di rivoluzione delle rose. Per le sue peculiarità geografiche e storiche, le proteste sviluppatesi in tale Paese ebbero una risonanza maggiore rispetto a quelle dei suoi “vicini”. Innanzitutto, la Georgia, all’interno dell’Unione Sovietica, aveva un ruolo differente rispetto ad altre Repubbliche: la provenienza di alcuni leader dell’URSS – tra cui lo stesso Stalin – dalla Georgia e le colture agricole di cui il Paese abbondava in virtù del clima mite, le permisero di ricevere un trattamento di riguardo anche durante il periodo di dominazione sovietica. Per tali motivi, il collasso del sistema sovietico agli inizi degli anni ‘90 fu avvertito in maniera più traumatica dalla Georgia. Ottenuta l’indipendenza nell’anno di dissoluzione dell’URSS, Tbilisi riuscì a dotarsi di una nuova Costituzione solo nel 1995 e nello stesso anno le consultazioni elettorali videro la vittoria di Shevardnadze, che accentrò sempre di più il potere nelle sue mani.

Il sentimento di sfiducia e incertezza dilagante nella società civile portò alla ribalta un gruppo di politici, definiti “Giovani riformisti”, tra cui spiccava per personalità Saakashvili. Le azioni dei Giovani riformisti non giunsero a uno scontro diretto con l’establishment almeno fino al 2001, anno in cui il Governo tentò di bloccare le trasmissioni dell’emittente Rustavi 2. La popolazione scese in piazza non solo per dimostrare la propria solidarietà ai giornalisti, ma anche per protestare contro il governo e la corruzione dilagante. L’episodio fu il preludio della rivoluzione delle rose, scoppiata a seguito dei brogli elettorali del 2003, che determinarono la conferma di Shevardnadze alla carica di Capo dello Stato. Il giorno successivo alla proclamazione dei risultati elettorali iniziarono una serie di sfilate che reclamarono l’annullamento delle elezioni. I manifestanti riuscirono a penetrare nel Parlamento portando una rosa in mano, segno della rivoluzione non violenta georgiana. Costretto dai protestanti, Shevardnadze diede le dimissioni e nel 2004 i georgiani elessero, con percentuali plebiscitarie, Saakashvili nuovo Presidente della Repubblica.

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RUSSIA E BALCANI STRAGE SILENZIOSA DI BAMBINE MAI NATE Costrette a morire perché del sesso sbagliato

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia Nel 1990 il filosofo indiano Amartya Sen denunciò che al mondo mancavano oltre 100 milioni di donne. È il risultato degli aborti selettivi, una pratica diffusa da molti secoli in diverse aree mondiali, in particolar modo nel sud est asiatico. Con aborto selettivo s’intende la decisione d’interrompere la gravidanza a causa del sesso dell’embrione, nella maggior parte dei casi si tratta di aborto selettivo femminile. La cultura dello scarto delle bambine non è un fenomeno riconducibile solo a paesi come India e Cina, ma anche a diversi stati dell’Europa orientale. In Armenia oltre il 10% degli aborti sono degli aborti selettivi. In Albania, tra il 2000 e il 2014, ci sono stati oltre 15.000 aborti selettivi. Oltre 7500 in Kosovo, oltre 2500 in Bosnia, Macedonia e Serbia. Il rapporto mondiale tra i sessi alla nascita, il sex-ratio at birth, è biologicamente di 105 a 100, ma a causa degli aborti selettivi raggiunge 130 maschi per 100 femmine. Alcuni studiosi ritengono che sia in atto “gendercide”. In India una delle motivazioni per cui si ricorre all’aborto se16 • MSOI the Post

lettivo è dovuto al pagamento delle doti alle figli. Si tratta dell’insieme dei beni che, al momento del matrimonio, la famiglia della sposa deve donare allo sposo; alla figlia femmina viene imposto il ruolo di impoverire la famiglia d’origine per arricchire quella del marito. In Cina, invece, una delle cause principali è quella della politica del figlio unico. Per quanto riguarda i paesi dei Balcani e del Caucaso non vi sono cause religiose né di tradizione, poiché quello degli aborti selettivi è un fenomeno relativamente recente che si è sviluppato negli anni Novanta. Secondo l’attivista e studiosa Ani Jilozian, vi sono tre principali cause: le donne hanno un ruolo marginale nella società e non garantiscono, a differenza degli uomini, sicurezza per la famiglia; lo sviluppo tecnologico applicato alla diagnostica prenatale per stabilire il sesso del feto; la bassa fertilità riduce la possibilità di avere un figlio maschio e aumenta gli aborti. In tutti i paesi dei Balcani la legge stabilisce che non si può abortire dopo la dodicesima settimana di gravidanza. Ma non si può conoscere il sesso del feto nel primo trimestre, gli aborti selettivi sono illegali e rischiosi. Un dato allarmante è che solo il

57% delle donne che si sottopone all’intervento è consapevole dei rischi. Per la studiosa Doris Stump questa selezione prenatale del sesso del nascituro trova le sue radici nell’ineguaglianza di genere e rinforza il clima di violenze contro le donne, evidenziando come queste ultime sono marginalizzate ed emancipate. Si tratta di una strage silenziosa perché né le autorità né i politici prendono posizione per combattere il fenomeno. Ogni anno vengono uccise centinaia di future bambine la cui unica colpa è quella di appartenere al “sesso sbagliato”. Le conseguenze degli aborti selettivi sulla società sono molteplici e spesso sono anche dannose: lo squilibrio demografico tra i sessi crea tensione per la stabilità della sicurezza sociale; inoltre, l’impossibilità di trovare moglie ha generato il bride trafficking, ovvero la tratta delle spose. Si creano società dove le donne vengono sempre più discriminate, accusate di non poter dare alla luce figli maschi, le bambine concepite vengono discriminate ancora prima di nascere e coloro che si sposano vengono abbandonate dai mariti.


ORIENTE LA CINA CONTINUA LA LOTTA ALLA CORRUZIONE L’intolleranza colpisce anche esponenti del Partito

Di Alessandro Fornaroli Nel 2012 la Repubblica Popolare cinese, in ottica di massimizzazione dell’efficienza e riduzione degli sprechi in materia di bilancio pubblico, al termine del diciottesimo Congresso Nazionale del Partito Comunista, ha varato una campagna anti-corruzione di ampia portata. Tale manovra, portata avanti dal segretario generale Xi Jinping, costituisce lo sforzo più grande in questo senso nella storia cinese. Lo scopo ultimo è quello di depurare la società da condotte illecite, rinforzando al contempo l’unità partitica. Proprio la lotta al clientelismo è diventata negli anni uno degli aspetti caratterizzanti del marchio politico dell’attuale Presidente. All’inizio del suo mandato, il leader aveva dichiarato di voler abbattere le “tigri e i moscerini”, ossia i funzionari di alto livello e i semplici cittadini, tra civili e militari. Le imputazioni rivolte al quadro dirigenziale comprendono soprattutto situazioni di corruzione e abuso di potere, nonostante le accuse presentino uno spettro molto più ampio. A partire dal 2016, questa “battaglia” ha raggiunto più di 100.000

persone e 120 amministratori di alto rango, tra cui una dozzina di ufficiali militari, imprese nazionali e cinque capi politici. Dal 2012 al 2017, le attività investigative sono state portate avanti dalla Commissione Centrale per la Disciplina e l’Ispezione (CCPI) sotto la guida del suo segretario Wang Qishan, coadiuvato inoltre da organi militari e giuridici. La loro azione, oltre a fonctionnaire in carica, ha anche incriminato ex rappresentanti nazionali, similarmente a quanto avvenuto per i membri del Politburo come Zhou Yongkang e i generali Xu Caihou e Guo Boxiong. Queste investigazioni, hanno violato la tacita regola del Comitato Permanente di “immunità criminale”, in vigore dalla fine della Rivoluzione Culturale. Nell’era della digitalizzazione, anche lo scambio di favori ha cambiato aspetto. Il contesto è quello delle feste nazionali, mentre lo strumento sono app di messaggistica istantanea attraverso cui è possibile effettuare transazioni di denaro. Nella tradizione cinese, è consuetudine, durante eventi importanti, donare ai propri parenti, specie quelli più

giovani come figli o nipoti, delle buste rosse contenenti denaro. A partire dal 2014 è possibile effettuare tali donazioni tramite la piattaforma WeChat, di proprietà dell’azienda Tencent. Al pari di sistemi come Alipay di Alibaba, si possono elargire buste virtuali durante i principali festival, approfittando dello straordinario traffico di donazioni per ridurre il rischio di essere intercettati. La guerra trasparente di Xi ha coinvolto anche personaggi che hanno ricoperto le più alte cariche dello stato. Un caso in tal senso emblematico è quello di Wen Jiabao, primo ministro dal 2003 al 2013. L’ex premier, fu al tempo oggetto di un’inchiesta, condotta dal New York Times, che evidenziava la natura illecita di alcuni immobili per un valore di 2.3 miliardi di dollari, gestiti dall’imprenditrice Duan Weihong. L’articolo, che si aggiudicò il premio Pulitzer, mostrò inoltre un collegamento tra Duan e Sun Zhengchai, ex membro del Politburo. Il signor Sun, prima del suo declino, era un alto funzionario della provincia di Chongqing ed era visto come uno dei possibili successori del primo ministro Li Keqiang. MSOI the Post • 17


ORIENTE NON SI ACCETTANO RIFUGIATI

Tokyo stringe la morsa: probabilità di successo della domanda d’asilo allo 0,1%

Di Francesca Galletto Il Giappone nel 2017 ha ricevuto 19.628 domande d’asilo. Di queste solo 20 sono state accettate. La politica del Paese sull’accettazione delle richieste d’asilo si è dimostrata rigidissima, con una percentuale di rifiuto del 99%. Martedì 13 febbraio il Ministro della Giustizia giapponese ha pubblicato un rapporto preliminare che mostrava un’impennata dell’80% nel numero di domande d’asilo all’anno dal 2016 al 2017. L’aumento del numero di domande non ha però corrisposto ad un aumento delle accettazioni che è al contrario diminuita. Il Ministero si è giustificato affermando di aver operato in conformità alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, secondo la quale, lo status di rifugiato va riconosciuto a tutti coloro che possano fondatamente temere persecuzioni a causa della loro religione, razza, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale. “Il sistema giapponese che ha salvato solo 20 individui nel 2017 sta perdendo il significato della sua esistenza”: Saburo Takizawa, direttore dell’associazione del Giappone per l’Al-

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to Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ha così criticato il l’operato del governo, lanciando un appello per la revisione del particolare approccio interpretativo letterale della Convenzione posto a fondamento delle politiche di non accoglienza. Secondo il governo Giapponese, gran parte dei richiedenti asilo lascia il proprio Paese in fuga dai debiti e per ragioni economiche, così che, arrivati in Giappone, non farebbero che approfittare del tempo necessario alla processazione della domanda d’asilo per trovarsi un lavoro. Il grande volume di richieste d’asilo infondate, inoltre, ostacolerebbe gli sforzi per proteggere i veri rifugiati bisognosi. Molti lavoratori stranieri, provenienti soprattutto dalle Filippine e dal Vietnam, entrano a lavorare in Giappone attraverso il programma di tirocinio tecnico, creato in risposta alla mancanza di manodopera per lavori di basso livello. Questi ultimi, secondo l’ufficio per il riconoscimento dei rifugiati in Giappone, richiederebbero poi lo status di rifugiato una volta scaduto il loro visto, senza possederne i requisiti. Per queste ragioni, Tokyo ha introdotto meccanismi per l’individuazione dei falsi rifugia-

ti. A partire dal 15 gennaio, sono stati limitati i permessi di lavoro per i richiedenti asilo, che saranno d’ora in avanti rilasciati secondo una nuova classificazione, basata sul grado di probabilità che la richiesta abbia successo o meno. Inoltre, coloro che nella domanda di prima istanza richiedono il riconoscimento dello status di rifugiato senza soddisfare i criteri specificati dalla Convenzione, dovranno affrontare la deportazione forzata non appena sarà scaduto il loro visto temporaneo. In precedenza, invece, solo il terzo rifiuto consecutivo della richiesta d’asilo fatta su basi infondate poteva comportare la detenzione e la deportazione. Dal rapporto del Ministero della Giustizia è emerso che, già nei primi 15 giorni di efficacia delle novelle, si è avuto un calo del 50% delle richieste giornaliere rispetto al mese di dicembre. Secondo la ripartizione delle domande per nazionalità, la maggior parte delle richieste deriva dalla regione dell’Asia-Pacifico e solo una percentuale minima (1%) da zone di conflitto in Medio Oriente e Africa. I cittadini filippini sono in cima alla lista, seguiti da quelli di Vietnam, Sri Lanka e Indonesia.


AFRICA LUNGA VITA AL PRESIDENTE Un nuovo corso per il Sud Africa?

Di Guglielmo Fasana Una delle ultime misure prese in Sud Africa sotto la presidenza di Jacob Zuma, il 13 marzo scorso, è stata la dichiarazione dello stato di calamità naturale nelle aree meridionali e occidentali del Paese, colpite dalla peggiore siccità finora registrata: una crisi annunciata da tempo da agricoltori e allevatori che va dunque ad aggiungersi a una lunga lista di problematiche. Il giorno seguente, il controverso Capo di Stato ha infatti annunciato le sue dimissioni dopo 9 anni di governo in un discorso televisivo alla Nazione, di fatto contraddicendo quanto affermato poche ore prima in un un’intervista rilasciata alla televisione di Stato SABC, nella quale ribadiva la propria volontà di restare in carica fino alla scadenza naturale del mandato. Il successore ad interim, designato per acclamazione dall’African National Congress (ANC) per mettere un freno al calo di popolarità del partito, delegittimato da numerosi scandali finanziari e di corruzione, è Cyril Ramaphosa. Ma chi è di preciso l’uomo che dovrà traghettare il Sud Africa fino alle prossime consultazioni elettorali? Fino ad ora, egli ha cambiato molte volte di volto.

Originario degli slums di Johannesburg, culla della lotta anti apartheid, il nuovo Presidente è stato un militante politico fin dai tempi in cui frequentava la facoltà di legge; nel 1982 ha fondato il sindacato dei minatori, oggi divenuto uno dei più influenti del Paese. Dopo la fine dell’apartheid, Ramaphosa è diventato un parlamentare, ma dopo la delusione della sconfittaalle elezioni presidenziali del 1999 contro il candidato supportato da Nelson Mandela si è dedicato agli affari, diventando il simbolo della rivincita degli imprenditori neri. Più recentemente è stato il vicepresidente del Sud Africa, prima di assumere l’incarico di Presidente dell’ANC nel dicembre del 2017. Ora ha raggiunto il suo obiettivo, quello di diventare Presidente, a quasi 10 anni di distanza dal primo tentativo. Di fronte a lui si delinea un cammino tortuoso, al termine del quale tutti si attendono di veder finalmente realizzate le potenzialità di un Paese che avrebbe tutte le carte in regola per assumersi un ruolo di leader regionale. Con tutta probabilità, l’orientamento di Ramaphosa coniugherà il liberalismo in materia di politica e il liberismo in economia, come d’altronde ci si aspetterebbe da un uomo

che da un lato è cresciuto nella povertà ma che dall’altro è stato capace di accumulare un patrimonio personale di mezzo miliardo di dollari. Tra le misure che vedranno la luce in Sud Africa nel futuro prossimo figurano una riduzione della spesa pubblica e, contestualmente, un pacchetto di misure di stimolo per la crescita economica. Condizione necessaria perché queste abbiano successo è l’abbandono di numerose società statali che attualmente versano in cattive acque, aprendo maggiormente diversi settori alla concorrenza e, di conseguenza, agli investimenti dall’estero. In materia di politiche sociali, già da tempo Ramaphosa appoggia la gratuità dell’istruzione universitaria per tutti gli studenti, sebbene questo ponga un problema non di poco conto in materia di finanziamento. D’atra parte si attende ancora la pubblicazione della nuova legge di bilancio, prevista per il 21 febbraio, che dovrà rassicurare i mercati finanziari sulla rinnovata stabilità fiscale del Paese. Anche se è senza dubbio troppo presto per dare giudizi sul suo operato, Ramaphosa rappresenta, pur con qualche ombra, un’alternativa valida per il Sud Africa. MSOI the Post • 19


AFRICA IN FUGA DALLA NIGERIA

I profughi nigeriani rappresentano la nazionalità più numerosa nelle nostre città italiane: ci siamo mai chiesti il perché?

Di Jessica Prieto Nelle ultime settimane, dopo l’atto terroristico avvenuto nella città marchigiana di Macerata, l’opinione pubblica e la politica sono tornate a discutere su temi come “sicurezza nazionale” e “crisi migratoria”, che da tempo erano passati in secondo piano rispetto le grandi promesse elettorali. Il raid xenofobo compiuto da Luca Traini il 3 febbraio ha causato sei feriti, tutti migranti, provenienti in particolare da Ghana e Nigeria. Nei giorni successivi, e tutt’ora, si discute sull’accaduto: chi schierandosi in una folle difesa dell’uomo, con dichiarazioni come “è il risultato di un’invasione senza controllo”, chi in difesa dei migranti, condannando senza pietà questo atto di violenza. Al centro dei litiganti sempre loro: i migranti. Per questo motivo essi saranno al centro del mio articolo. In particolare, la situazione del Paese da cui proviene la maggior parte dei profughi che oggi si trovano nelle nostre città italiane: la Nigeria. Questo perché, prima di schierarsi da una parte o dall’altra del dibattito politico, è necessario andare alla ricerca delle cause del fenomeno, capendo le motivazioni che spingono quasi 17.000 nigeriani a lasciare il 20 • MSOI the Post

loro Paese per arrivare nei nostri porti, attraverso un “corridoio”, che dal Golfo di Guinea giunge a Catania,Augusta, Pozzallo, Lampedusa e Reggio Calabria. La Nigeria è stata più volte definita come un “gigante dai piedi di argilla”. Un Paese che sulla carta avrebbe enormi potenzialità, grazie alla sua posizione strategica sul Golfo di Guinea e alle sue grandi risorse di greggio, e dove, a differenza di altri Paesi africani, non si consuma un vero e proprio conflitto armato. Tuttavia, migliaia di persone scappano: perché? La motivazione risiede nell’“argilla” sopracitata, che rimanda all’idea di un Paese caratterizzato da una forte instabilità geopolitica, con situazioni di violenza diffusa, tensioni sociali e altre criticità assimilabili ad una vera e propria guerra. La maggior parte dei profughi che raggiungono il nostro Paese chiedono protezione umanitaria per motivazioni differenti: rischio di abusi, trattamenti disumani, persecuzioni di motivazione sessuale o religiosa, o per difesa del diritto alla salute. La Nigeria è anche un Paese dove domina la sperequazione sociale, diviso tra pochi ricchissimi e la grande povertà, il diffuso analfabetismo e livelli sanitari da paese del terzo mondo.

Molti ragazzi, uomini e donne, che vivono nel Centro-Sud del Paese, affrontano situazioni di precarietà socio-economica, dovuta alla difficoltà d’accesso a occupazioni adeguatamente remunerate e a servizi pubblici essenziali; il tutto, spesso durante situazioni di emergenza ambientale, come la stagione delle piogge. A tutto ciò si aggiungono scontri religiosi ed etnici tra il Nord del Paese prevalentemente musulmano, che diede alla luce l’organizzazione terroristica di Boko Haram, e un Sud cristiano. Per la maggior parte delle persone che vivono in Nigeria l’Europa rappresenta quindi un ideale di successo, libertà e pace. Per questo motivo, vi è un’unica risposta alla domanda “non scappano da nessuna guerra […] per quale ragione dobbiamo mantenere migliaia di nigeriani che sono qui a fare la bella vita a spese dei contribuenti?”. La Nigeria è un Paese “matrioska”, in cui ogni bambola è una sfaccettatura della sua società: corruzione, terrorismo, crescita demografica incontrollata, emergenza ambientale e infine, al centro, la più piccola, quella dei giovani, la cui unica colpa è la ricerca di un po’ di speranza dall’altra parte del Mediterraneo, rischiando la vita nei famosi viaggi della morte.


AMERICA LATINA SOSPESI I NEGOZIATI CON L’ELN

Un attacco terroristico rivendicato dai guerriglieri porta il Governo a ritirarsi

Di Tommaso Ellena Il presidente della Colombia Juan Manuel Santos ha dichiarato in conferenza stampa la sospensione del quinto ciclo di negoziati con l’Ejército de Liberación Nacional; il dialogo potrà riprendere quando il gruppo dimostrerà maggior coerenza tra intenzioni e azioni. La decisioneè stata presa a seguito dell’attentato rivendicato dall’Eln dello scorso 27 gennaio nella stazione di polizia di Barranquilla che ha causato la morte di cinque poliziotti e il ferimento di quattordici civili. Il gruppo paramilitare è nato nel 1964 ed è costituito da circa 1500 combattenti, che operano soprattutto nella zona al confine col Venezuela proclamando la lotta armata come mezzo di denuncia e intervento contro il malcontento della popolazione, causato dalle ingiustizie di una democrazia debole e corrotta. Il processo di pacificazione, ora interrotto, aveva portato a risultati tangibili come il cessate il fuoco tra le due parti firmato il 4 settembre 2017, entrato in vigore nell’ottobre dello stesso anno e durato fino al 12 gennaio 2018. Il presidente Santos

non ha escluso la riapertura dei negoziati, ma solo a patto che le azioni dell’Eln saranno compatibili “con l’esigenza di pace del popolo colombiano e della comunità internazionale”. A seguito dell’attacco e delle dichiarazioni governative, la tensione nel Paese è tornata a crescere e, in segno di protesta, l’Eln ha indetto un paro armado (sciopero armato) durato dal 10 al 14 febbraio; nelle zone in cui l’Ejército ha pieno controllo è stata vietata la normale circolazione della popolazione nelle strade. Davanti al paro il presidente Santos si è mostrato tranquillo, dichiarando che “l’Eln non ha la capacità per portare a termine un golpe militare.Può solamente organizzare atti di terrorismo che colpiscono la popolazione civile che lo stesso Eln sostiene di difendere”.

que sia la sua forma”. Anche il Presidente del Congresso Efraín Cepeda si è mostrato a favore della fine dei negoziati, auspicando che lo Stato “perseguiti con fermezza chiunque commetta atti terroristici”.

La decisione del Governo colombiano ha ricevuto appoggio da diversi leader d’opinione del Paese. Bruce Mac Master, presidente dell’Asociación Nacional de Empresarios de Colombia (ANDI), ha dichiarato che la sospensione del dialogo “riflette il sentimento della gran maggioranza dei colombiani che non accettano il terrorismo,qualun-

Nonostante il consenso verso la decisione del Governo sia unanime, il disaccordo riguardo alle condizioni di pace e reinserimento sociale dei guerriglieri continua a esercitare il suo peso all’interno di tutte le parti coinvolte, lasciando nell’incertezza l’esito dei negoziati e del futuro rapporto tra Governo e guerriglieri.

Per alcuni, la sospensione è una risposta parziale davanti alla storia dell’Eln. Secondo il senatore Armando Benedetti, per esempio, bisognerebbe “abbandonare completamente il tavolo dei negoziati”. C’è anche chi auspica che questa presa di posizione, necessaria davanti all’escalation di violenza dell’ultimo periodo, sia solo temporanea: la candidata alla presidenza Piedad Córdoba sostiene, infatti, che la sospensione debba servire proprio per “ricostruirei negoziati”.

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AMERICA LATINA LA CANDIDATA NON POTRA’ PARTECIPARE ALLE PRESIDENZIALI IN MESSICO

Maria de Jesus Patricio Martinez avrebbe dovuto rappresentare l’EZLN e le comunità indigene nelle prossime elezioni

Di Elisa Zamuner Il 1° luglio 2018 si terranno in Messico le elezioni presidenziali per eleggere il nuovo Presidente. Insieme al Partido Revolucionario Institucional (PRI) e al Movimiento Regeneración Nacional (Morena), rappresentati, rispettivamente, da José Antonio Meade Kuribreña e Andrés Manuel López Obrador, avrebbe dovuto concorrere, indirettamente e per la prima volta, anche l’Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN), che ha dato il suo sostegno alla candidata indipendente Maria de Jesus Patricio Martinez. Patricio Martinez, conosciuta anche come Marichuy, 57 anni, e portavoce del Consiglio Indigeno per il Governo (CIG), avrebbe dovuto rappresentare sia gli zapatisti sia le comunità indigene originarie. Tutto ciò a patto di ottenere le firme richieste per poter correre come candidata indipendente alle elezioni; il sistema di raccolta delle firme, però, si basa su un’applicazione per smartphones a cui gran parte dell’elettorato di Marichuy non ha accesso perché appartenente alle fasce più 22 • MSOI the Post

povere della popolazione. La candidata non è riuscita a ottenere il numero di firme richiesto, restando così esclusa dalla corsa elettorale. La comparsa di Patricio Martinez sulla scena politica e l’attenzione che le viene riservata costituiscono comunque un dato importante per la storia del Paese e soprattutto per quella del EZLN. È la prima volta, infatti, che questo movimento ricopre un ruolo politico così attivo; l’Ejército Zapatista de Liberación Nacional, fin dalle sue origini, si è sempre caratterizzato per una posizione di protesta rispetto alle istituzioni e alle loro politiche di globalizzazione. L’EZLN ha cominciato ad avere rilievo pubblico nel 1994, quando il Governo messicano firmò con Canada e Stati Uniti il North American Free Trade Agreement (NAFTA), per favorire il commercio tra i tre Stati; in segno di protesta il movimento zapatista organizzò una rivolta contadina e indigena nello Stato del Chiapas, nel sudest del Messico vicino al confine col Guatemala. Nel corso degli anni, l’Ejército Zapatista ha richiesto maggiori

autonomie, alcune delle quali nel corso degli anni sono state concesse; questa organizzazione ha pian piano abbandonato le armi e si è fatta voce delle comunità più deboli del Paese, ottenendo sempre più consensi in tutto il Messico federale. La scelta dell’EZLN di appoggiare una candidata al ruolo di Presidente non ha solo segnato un punto di svolta per questo movimento ma ha anche aperto un dibattito intorno al nuovo rapporto che intende instaurare nei confronti del potere. In un articolo pubblicato sul giornale online Revista Anfibia, Victoria Darling sottolinea come gli zapatisti non abbiano mai rappresentato una forza politica nel senso tecnico del termine ma piuttosto una forza sociale, interessata alle basi della società più che ai suoi vertici. Un altro aspetto interessante di questa candidatura è che la scelta sia ricaduta su una donna, simbolo quindi della lotta alle disuguaglianze che sia il CIG sia l’EZLN intendono portare avanti, dando più spazio a ogni tipo di minoranza.


ECONOMIA OLTRE LA SIRIA

Il conflitto siriano sta ridisegnando le alleanze nella regione, ma l’arbitro è la Russia

Di Michelangelo Inverso Mentre la guerra in Siria entra nel suo settimo anno, le fratture da essa causata stanno rimescolando le carte in Medio Oriente, ma il peso degli attori è ben diverso dal 2011. A questo punto occorre fare alcune considerazioni generali. Gli attori in gioco hanno tutti obiettivi diversi. L’Iran, uscito a testa alta dalle prime fasi del conflitto, intende capitalizzare il successo diplomatico e militare tra Iraq, Siria e Libano, realizzando la Mezzaluna Sciita. La Turchia, avendo perso le prime fasi della guerra, intende almeno evitare di perdere pezzi del proprio territorio e quindi gioca d’anticipo, invadendo le aree controllate dalle SDF. Israele, invece, cerca di tutelarsi dal rischio di perdere la supremazia militare nella regione, innescando un’escalation contro Siria e Libano in funzione anti-iraniana. Gli Stati Uniti continuano il loro programma di aggressione contro il governo e non intendono rinunciare alla partizione della Siria, ma in questo sono ormai messi spalle al muro dalla Turchia, che possiede il secondo esercito della NATO. Infine, la Russia, finora la vera vincitrice del conflitto, che ha ogni interesse nel vedere rea-

lizzata la transazione tra Curdi e Assad per tutelare gli interessi di Mosca, Ankara, Teheran e Damasco. Infatti, è altamente probabile che la Turchia accetti di ritirarsi dal Nord della Siria nell’eventualità che i Curdi accettino il trasferimento dei poteri politici a Damasco. Ma la Siria non vale tutto il Medio Oriente e Putin guarda già oltre. Come asserito da Sputnik News, è possibile che la Russia si impegni per un sostegno militare al Libano, per dissuadere Israele dal tentare un assalto nel prossimo futuro, innescando una nuova guerra che vanificherebbe gli sforzi compiuti finora. La guerra lascerebbe sul campo, oltre che le numerosissime vittime reali, anche quelle simboliche: USA, Israele, Curdi, Turchia e Arabia Saudita. Non solo ne uscirebbero divisi, ma anche rivali economicamente parlando. Infatti, dietro lo scacchiere siro-iraqeno si giocano altre partite egemoniche e le potenze regionali sono tutte in fermento. Anzitutto, l’Arabia Saudita, che ha speso, secondo numerose fonti, centinaia di miliardi di dollari per sostenere la ribellione in Siria e Iraq, sta ristrutturando il proprio potere politico ed economico attraverso l’ascesa al potere del Princi-

pe Bin Salman. Per affrontare le perdite subite si sta persino pensando a una privatizzazione della Aramco, la compagnia energetica saudita. Questi movimenti hanno, inoltre, mutato le vecchie alleanze: il Qatar, solido e vecchio alleato dei Saud, è stato bruscamente isolato diplomaticamente dai Paesi del Golfo e dall’Egitto in quanto finanziatore dei Fratelli Musulmani, partito panarabista bandito in quasi tutto il Medio Oriente. Il Paese si è tuttavia salvato da una fine certa grazie ad Ankara. Erdogan, infatti, oltre ad essere politicamente vicino ai Fratelli Musulmani, ha nel Qatar un partner economico fondamentale nella sua politica dei gasdotti. Infine, anche l’Egitto ha iniziato a intessere nuove alleanze, principalmente con la Russia, con cui sono stati siglati diversi accordi nel settore energetico e per le forniture di armamenti pesanti. L’Egitto è, tuttavia, ostile ai sauditi, anche se alleati di comodo contro il Qatar. Solo l’UE sembra non avere alcuna strategia nell’area, benché i numerosi problemi spesso richiamati, come l’approvvigionamento energetico, richiederebbero quantomeno una politica unitaria. MSOI the Post • 23


ECONOMIA E-MOBILITY: UNA SVOLTA SEMPRE PIÙ NECESSARIA L’ECF prevede un risparmio di 49 miliardi con l’addio al petrolio

Di Alberto Mirimin Il 20 febbraio la European Climate Foundation ha presentato al Parlamento Europeo uno studio intitolato ‘Fuelling Europe’s Future: How the transition from oil strengthens the economy’, con cui ha puntato a dimostrare come un’ipotetica transizione da un sistema di mobilità connotato essenzialmente dall’importazione di petrolio a un modello incentrato sulle energie rinnovabili, potrebbe apportare non solo vantaggi sul piano ambientale e della salute, ma certamente anche su quello economico. A questo studio hanno preso parte numerose organizzazioni legate alla mobilità europea: dalle case automobilistiche fino alle associazioni industriali e ai sindacati. Volgendo lo sguardo verso la situazione attuale, a oggi l’UE importa l’89% del greggio circolante, la maggior parte del quale viene utilizzato per il carburante dei mezzi di trasporto. Inoltre, secondo un documento Total riportato da Borsa Italiana, entro il 2040 la domanda di petrolio dovrebbe crescere ancora del 10,8%, soprattutto per quanto concerne il settore dei trasporti: l’aumento dei chilometri percorsi ogni giorno, 24 • MSOI the Post

calcolato tra il 3 e il 4% annuo, comporterà, solo per il trasporto individuale, un incremento di 2 milioni di barili al giorno, a cui vanno aggiunti altri 6 milioni per il trasporto stradale, 6 milioni per quello marittimo e 4 milioni per il trasporto aereo. Secondo queste analisi, quindi, si prospetterebbe nel prossimo futuro uno scenario di difficile sostenibilità, che solo un netto passaggio all’e-mobility (mobilità a emissioni zero) potrebbe attenuare. Da un punto di vista economico, lo studio ha concretamente messo in luce che un taglio relativo all’importazione di petrolio e derivati significherà un risparmio complessivo sulla bolletta energetica europea di 49 miliardi di euro già nel 2030. Di conseguenza, lo stesso PIL reale europeo potrà significativamente aumentare, al punto tale da creare entro lo stesso anno 206.000 nuovi posti di lavoro. In particolare, l’analisi spiega che il passaggio all’e-mobility comporterà un aumento del PIL europeo dello 0,1% solo grazie all’adeguamento alle normative previste dall’Europa 2020, un altro +0,2% giungerà dal raggiungimento degli obiettivi fissati per il 2030 e un altro +0,5% da quelli per il 2050.

Dal punto di vista ambientale, lo studio ha messo in luce che l’e-mobility potrà ridurre le emissioni di CO2 dell’88% entro il 2050, mentre le tonnellate di ossidi di azoto emesse dalle automobili diminuiranno da 1,3 milioni a 70.000 tonnellate all’anno, evitando in tal modo almeno 467.000 morti premature causate da patologie legate alle sostanze inquinanti che contaminano l’ambiente. Infine, lo studio ha infine specificato che, sebbene a oggi i veicoli basati su fonti alternative di energia siano più costosi delle auto a diesel o benzina, nei prossimi anni questa differenza è destinata ad assottigliarsi sempre di più. Comprensibilmente, questo passaggio non potrà esser compiuto dall’oggi al domani. Infatti, affinché esso possa realizzarsi, entro il 2030 saranno necessari, secondo quanto stimato dal gruppo di ricerca, 23 miliardi di euro di investimenti in infrastrutture per l’e-mobility: reti di distribuzione, stazioni e colonnine di ricarica facilmente accessibili, sia in aree urbane sia extraurbane, su strade statali, superstrade e autostrade. Che sia davvero giunta l’ora di una ‘rivoluzione energetica’?


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO PROFILI GIURIDICI DEL DIESELGATE E DEI TEST NEL SETTORE AUTOMOBILISTICO La Germania al centro delle polemiche per l’uso di cavie umane

Di Chiara Montano Un dossier del New York Times pubblicato a gennaio ha rivelato che nel 2014 gli scienziati del laboratorio di Albuquerque, in New Mexico, si sono serviti di alcune scimmie come cavie per i test sulla nocività dei gas di scarico. Secondo il NYT, l’esperimento prevedeva che per alcune ore le scimmie inalassero fumi emessi da un Maggiolino Volkswagen diesel, mentre venivano intrattenute con i cartoni animati. Sembra che alcuni noti costruttori di auto tedeschi abbiano finanziato l’esperimento al fine di provare che i veicoli diesel con la più recente tecnologia siano meno inquinanti dei modelli più vecchi. Nel 2012 uno studio dell’organizzazione mondiale della sanità aveva insinuato che i gas di scarico delle auto fossero cancerogeni; i colossi del settore automobilistico cominciarono allora ad effettuare dei test specifici che condussero agli esperimenti sulle scimmie nel laboratorio del New Mexico. Le case automobilistiche coinvolte dal dossier del New York Times hanno subito preso le distanze dall’accaduto, sostenendo di non essere al corrente dei test sugli animali.

Secondo il dossier del New York Times, gli scienziati del laboratorio appena citato avrebbero paventato agli ingegneri tedeschi l’ipotesi di utilizzare delle cavie umane volontarie, ma le case automobilistiche rifiutarono e Michael Spalleck, il direttore generale della fondazione tedesca per l’ambiente, stroncò l’idea sul nascere. Oggi, però, la questione è stata riaperta da due colossi dell’informazione tedeschi che sostengono che i test abbiano coinvolto 25 esseri umani che si sarebbero volontariamente sottoposti all’inalazione di aria inquinata da biossido di azoto (componente comune degli scarichi diesel) a diversi livelli, durante sessioni di svariate ore, per alcune settimane. Gli esperimenti clinici sugli esseri umani sono regolati dalla legislazione europea che si basa su uno standard internazionale di etica e qualità (il Good Clinical Practice). La legge vieta le sperimentazioni su cavie umane con sostanze tossiche o nocive. I test effettuati in Germania, però, non possono essere definiti né esperimenti né studi clinici. Non è la prima volta che l’industria automobilistica viene coinvolta in uno scandalo relati-

vo ai test. Quelli sulle scimmie, infatti, sarebbero avvenuti nel 2014: un anno prima dello scoppio del Dieselgate. Il Dieselgate era stato scatenato dopo che Volkswagen aveva manipolato i motori di alcune vetture per superare i test di omologazione, dichiarando emissioni diverse da quelle reali. Sembra che l’automobile utilizzata per i test sulle scimmie fosse stata anch’essa manipolata per produrre livelli di inquinamento inferiori nel laboratorio rispetto a quelli emessi su strada. Attualmente è in corso una classaction, la cui ammissibilità è stata confermata lo scorso novembre dalla Corte d’Appello di Venezia, che mira ad ottenere un risarcimento di una parte del prezzo d’acquisto delle auto coinvolte. Il presupposto su cui si fonda l’azione ex articolo 140 codice del consumo è l’omogeneità dei diritti soggettivi al risarcimento del danno che in questo caso derivano dallo stesso fatto: la pratica commerciale ingannevole ai sensi degli articoli 20 e 23 del codice del consumo, che è stata posta in essere dal gruppo tedesco. Dalla manipolazione delle vetture all’utilizzo di cavie umane il passo è stato breve…

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO NON SI ANNEGA SOLO IN MARE

Le enclave spagnole di Ceuta e Melilla e il sogno europeo

Di Stella Spatafora

confronti dei migranti.

Il Marocco, affascinante terra africana al di là del Mediterraneo, racchiude al suo interno un pezzetto d’Europa. Lungo la costa mediterranea si trovano infatti le città autonome di Ceuta e Melilla, possedimenti spagnoli derivanti dal periodo coloniale d’Occidente. La posizione strategica di queste enclave spagnole ha assunto un ruolo sempre più rilevante nel sogno europeo di numerosi migranti africani, creando l’illusione di poter avere l’Europa a un passo, senza dover intraprendere la pericolosa rotta via mare. Tuttavia, avere l’Europa “a portata di mano” non sembra così plausibile, essendo il passaggio di frontiera fisicamente ostacolato da una doppia recinzione alta sei metri e lunga qualche chilometro, spesso definita come “Grande muraglia d’Europa”. Essa si estende dalla costa fino al mare ed è sorvegliata giorno e notte dalle milizie spagnole e marocchine. Simbolo di un forte separatismo etnico e socio-economico tra il continente europeo e quello africano, è un muro che annichilisce il ponte Marocco-Spagna-Unione Europea confermando forti sintomi di disagio e stigmi pregiudizievoli nei

Eppure, coloro che fuggono da povertà, conflitti, situazioni estreme per cui il viaggio migratorio sembra essere l’unica alternativa, vedono il muro come un ostacolo da superare. “I saltatori” è il termine con cui spesso si identificano i migliaia di migranti che non hanno potuto permettersi il percorso alternativo attraverso il deserto, la Libia e poi il mare. Essi scappano dalla miseria, raggiungono il bosco di Gourougou, alle spalle di Melilla, aspettando nascosti il momento ideale per scavalcare le cinta. Il salto è pericoloso e comporta la probabilità di essere scoperti dalla polizia. Pertanto, seppur non vi sia l’ostacolo del mare, si rischia comunque di “annegare” nei respingimenti collettivi operati dalle polizie di frontiera, come quelli attuati dal Governo spagnolo. La Corte europea dei diritti dell’uomo li ha definiti “respingimenti a caldo” (app.n. 8675/15 e n. 8697/15) pronunciandosi contro la Spagna per l’espulsione immediata verso il Marocco di due cittadini rispettivamente del Mali e della Costa d’Avorio. I fatti risalgono al 13 agosto 2014, quando i due, dopo aver

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scavalcato, e quindi raggiunto il territorio spagnolo, sono stati immediatamente riconsegnati dagli agenti spagnoli alle forze di polizia marocchina, senza averli prima identificati né avendo valutato la probabilità di unarichiesta di protezione internazionale, negando altresì loro la possibilità di ricevere il supporto di un avvocato o di un interprete,come previsto sia dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati che dalla legge-quadro spagnolasullo status degli stranieri (Ley de Extranjería). É la prima volta che i giudici di Strasburgo si pronunciano contro i respingimenti collettivi effettuati dalla Spagna a Melilla. Il caso crea dunque un importante precedente legale, ponendo in rilievo le diffuse violenze di frontiera nelle enclave spagnole ed estendendo così la problematica relativa ai controlli dei confini al di là dei contorni immediatamente tangibili dell’Unione europea. Ebbene, la tendenza a issare muri e barricare le frontiere è ovviamente legata a un’esigenza di sicurezza sempre più forte; si tratta di un obiettivo lecito che però corre il rischio di tramutarsi in una prassi sempre più automatizzata e inumana.


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