Msoi thePost Numero 95

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Luca Bolzanin, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


SPECIALE ELEZIONI: DOPO IL 5 MARZO L’Italia nell’incertezza

Le elezioni politche del 4 marzo hanno prodotto più dubbi che chiari risultati, tanto a livello nazionale, quanto internazionale. Esito della consultazione è la chiara assenza di una maggioranza in seno a Camera e Senato, mentre è evidente la presenza di due grandi, quanto inattesi nei numeri, vincitori: la lista del M5S e la coalizione di centrodestra, guidata dalla schiacciante vittoria del partito di Matteo Salvini. In attesa del 23 marzo, l’elettorato attivo come quello passivo, seguito dalla stampa e dalla comunità internazionale, discute di governi futuri e si esercita nelle speculazioni.

I POSSIBILI SCENARI DI GOVERNO M5S + centrodestra Seggi M5S: Camera 221, Senato 112 Seggi centrodestra: Camera 260, Senato 135 Pur non essendo uscita dalle urne una maggioranza, M5S e centrodestra si presentano come le due principali forze politiche in campo. Il M5S ha raggiunto il maggior numero di voti in

qualità di partito, superato, tuttavia, dalla coalizione nel suo complesso. Alla luce dei risultati, questo primo scenario di governo rispetterebbe particolarmente la volontà elettorale e darebbe luogo ad una maggioranza ben strutturata nei numeri, ma con forti divergenze su alcuni dei principali punti presentati nei programmi elettorali. Entrambe le forze politiche si considerano legittime destinatarie dell’incarico di formazione di governo; un nodo che verrà rimesso alla scelta del presidente Mattarella. Tuttavia, nelle dichiarazioni rilasciate dai due principali esponenti dei poli, si possono intravedere posizioni diametralmente opposte: il leader leghista, Matteo Salvini, ha escluso una collaborazione simile a quella appena presentata, contrapponendosi alla posizione più aperta assunta dai pentastellati, pronti al dialogo con ogni altra forza politica intenzionata ad appoggiare i loro principali punti programmatici.

più ristretta. Inoltre, durante la prima conferenza stampa postelettorale, Matteo Renzi ha dichiarato di voler rispettare il voto popolare e, di conseguenza, porre il proprio partito all’opposizione parlamentare. Una scelta che potrebbe essere non solo fonte di un profondo attrito interno, ma anche di una vera e propria scissione partitica in grado di creare nuovi possibili scenari di intese. In questo contesto si inserirebbe il possibile ruolo, marginale ma strategico, dei pochi parlamentari LeU, (Seggi Camera 14, Senato 5) il cui capo politico, Grasso, non ha mai rifiutato esplicitamente una convergenza con il M5S.

M5S + PD Seggi M5S: Camera 221, Senato 112 Seggi PD: Camera 86, Senato 53 Un simile scenario escluderebbe dalla compagine governativa la coalizione vincitrice di centrodestra e porterebbe al raggiungimento di una maggioranza numericamente

Seggi centrodestra: Camera 260, Senato 135 Seggi PD: Camera 86, Senato 53 Questo scenario risulta altamente improbabile, perché escluderebbe dalla formazione del nuovo governo il partito di fatto vincitore. Inoltre, “Antieuropeismo, antipolitica e odio verbale contro coloro che

Centrodestra + PD

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hanno militato tra le file del Partito Democratico”, sono le principali incompatibilità tra il PD e l’ormai partito leader della coalizione di centrodestra. Definendole forze estremiste e antisistema, Matteo Renzi ha, dunque, escluso ogni possibilità di dialogo con le file della Lega Nord. Anche in questo caso le dichiarazioni rese accentuano l’incertezza degli scenari attuabili; Matteo Salvini, confermando la netta contrapposizione con il M5S, si è rivolto con disponibilità a eventuali membri del Partito Democratico interessati a larghe intese. Governo di scopo Considerate le instabilità proprie di tutti questi scenari, che difficilmente potrebbero garantire governabilità e stabilità al Paese, non si può escludere come soluzione di ultima istanza quella di un governo di larghe intese finalizzato alla modifica dell’attuale legge elettorale. Scopo principale di questa strategia sarebbe un tempestivo ritorno alle urne muniti di un meccanismo elettorale alternativo e più funzionale nell’ottica della stabilità. Per molte forze politiche, la risultante situazione di stallo sarebbe imputabile ai meccanismi dell’attuale legge elettorale. Un primo banco di prova per le trattative che porteranno alla formazione del nuovo governo sarà la convocazione delle Camere prevista per il 23 marzo. In questa occasione l’elezione dei rispettivi Presidenti manifesterà un primo e parziale assetto politico. Di Erica Ambroggio e Luca Rebolino LE REAZIONI DI COMUNITA’ INTERNAZIONALE E STAMPA ESTERA Il populismo, l’instabilità governativa, il ruolo dell’i m m i g r a z i o n e 4 • MSOI the Post

sull’esito delle votazioni e l’euroscetticismo sono i temi più dibattuti da opinione pubblica e politica estera all’indomani delle elezioni italiane. Russia

Anche al Cremlino c’è soddisfazione per la vittoria delle forze euroscettiche, vista come un ulteriore avvicinamento tra Roma e Mosca. Il pensiero degli esperti va subito alle sanzioni comminate a seguito dell’annessione della Crimea e del sostegno militare ai separatisti del Donbass. Il deputato e presidente della Commissione Esteri della Duma, Slutsky, vede nel nuovo governo italiano la fine delle sanzioni da parte di Bruxelles, mentre il suo omologo al Senato Kosachyov guarda con cautela al voto italiano, dal momento che il nuovo governo dovrà cercare di inserirsi ed emergere in Europa, prima di guardare alla Russia. Il direttore del Centro Carnegie di Mosca, Dmitri Trenin, sottolinea che, nonostante le intense relazioni tra i due Paesi, l’Italia difficilmente si discosterà dalle posizioni dei maggiori Paesi europei, per via dei forti vincoli ai quali è legata, quali l’Unione Europea e la NATO. Stati Uniti Dagli Stati Uniti, Charles Kupchan - ex direttore dell’Ufficio Europeo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale - definisce la situazione post-elettorale un “terremoto”, in quanto l’Italia è l’unico Paese europeo in cui i partiti di centro non sono riusciti a contenere l’espansione della Destra e del populismo, a differenza delle recenti esperienze francese e tedesca.

Tuttavia, l’amministrazione Trump vede di buon grado la vittoria dei movimenti antiestablishment, purché vengano confermati gli impegni assunti con gli Stati Uniti, quali lotta al terrorismo, stabilizzazione in Libia e sostegno alla NATO. Tra i due vincitori, la Lega Nord appare più vicina alla linea seguita da Trump, data la comunanza di idee su immigrazione ed economia. Un punto a sfavore del M5S, inoltre, è la volontà di riformare radicalmente il Patto Atlantico. Di tutt’altro parere è Steve Bannon, ex stratega di Trump, il quale prevede un crollo della moneta europea per mano delle ondate populiste e sovraniste presenti in tutto il Vecchio Continente. Europa Nel momento in cui i membri della SPD approvavano la GroKo con la CDU di Merkel e Macron annunciava “buone notizie per l’Europa”, in Italia le ambizioni europeiste del Presidente francese venivano disilluse a colpi di voto. Nel momento in cui l’Unione Europea sembrava riprendere vigore dopo Brexit e lo scampato pericolo alle elezioni francesi l’anno scorso, in Italia le forze populiste e antieuropeiste hanno ottenuto più della metà dei voti. La stampa francese (Le Monde) e inglese (The Guardian) prevede già futuri ostacoli per i piani di Macron e Merkel, nonché un lungo periodo di incertezza politica per il Bel Paese, come pronosticato tempo fa da Junker. Dal momento che nessun partito ha raggiunto la maggioranza, l’Italia si ritrova a fare i conti con un “parlamento orrendamente sospeso”, per utilizzare le parole de The Guardian. Le elezioni italiane hanno tuttavia suscitato reazioni positive da parte dell’UKIP inglese e da Madame Le Pen del FN francese, la quale si congratula con il leader della Lega Matteo


Salvini. Il 17% totalizzato da quest’ultimo partito sia alla Camera sia al Senato solleva numerose preoccupazioni all’estero: l’avanzata della destra populista ed euroscettica in Europa sembra destinata a non fermarsi. Secondo Le Monde, l’Italia in particolare è entrata in una fase di “eurodelusione” in risposta ad un sentimento di abbandono nella gestione della questione migratoria. Un voto che riflette dunque una vera e propria “vendetta elettorale”, secondo El Pais, contro l’Europa e contro il sistema. Da tutte le testate internazionali, il Movimento 5 Stelle viene indicato come il vero vincitore di queste elezioni. Malgrado la loro denominazione di movimento “populista”, dovuta, secondo Le Monde, alla loro organizzazione orizzontale e ad un programma confuso, i 5Stelle sono stati in grado di attirare elettori sia di destra sia di sinistra, riporta il New York Times, soprattutto grazie “alla loro abilità di moderare le posizioni più dure su temi controversi”. Artefice di questo cambiamento, per il Wall Street Journal, è stato Luigi Di Maio, “una delle figure più moderate del movimento”, che “ha lavorato per rimuovere l’immagine di forza politica ostile all’imprenditoria e all’Eurozona”. L’altro vincitore evidente è Matteo Salvini: per il NYT, “fan entusiasta di Le Pen e Trump, ha alimentato le fiamme del nazionalismo, dell’etnocentrismo e della xenofobia”. Tuttavia, “non è Trump: commette raramente delle gaffe e rispetta attentamente il suo copione”. Oltre alle posizioni contro l’immigrazione, viene citato per il suo programma euroscettico e per la sua simpatia verso Putin. Infine, la stampa internazionale dedica spazio anche alla disfatta del Partito Democratico di Matteo Renzi. Per il New York Times, il risultato del PD si

colloca all’interno del collasso della sinistra europea, mentre il francese Libération indica alcune colpe individuali di Renzi: una personalità spesso arrogante e autoritaria, il tradimento di alcune promesse fatte e la creazione del cosiddetto “Giglio magico”. Di Micol Bertolini, Federica De Lollis, Lorenzo Gilardetti e Vladimiro Labate ECONOMIA Il trionfo del Movimento 5 Stelle e della Lega Nord è collegato geograficamente a due tematiche: immigrazione e

disoccupazione. La Lega Nord è uscita vincente nelle regioni del Nord in cui vi è stato un maggiore afflusso di migranti, mentre il M5S ha fatto bene al Sud, tanto che Paolo Bricco, de Il Sole 24 Ore, giunge a considerare “il Sud dei Cinque Stelle come l’Ohio di Trump”. Data l’incertezza sulla composizione del prossimo governo, si richiameranno brevemente i principali punti dei programmi economici dei vincitori di questa tornata elettorale, per poi esaminare le reazioni dei mercati. Movimento 5 Stelle Il programma del partito guidato da Luigi Di Maio, invece, prevede un aumento della spesa pubblica nell’educazione e nella sanità, 10.000 nuove assunzioni nelle forze dell’ordine e nelle Commissioni territoriali per il diritto di asilo, superamento della Legge Fornero, reddito di

cittadinanza, riduzione delle aliquote IRPEF e dell’IRAP e, infine, esenzioni fiscali per i redditi più bassi. Nel complesso, l’obiettivo di tagliare del 40% il rapporto debito/PIL in 10 anni, senza rinunciare agli investimenti, secondo Perotti su La Repubblica, non disporrebbe delle coperture necessarie, portando a un disavanzo di 63 miliardi di euro. Lega Nord Il programma economico del partito di Matteo Salvini annovera l’adeguamento degli stanziamenti per la Difesa, un Piano Marshall per l’Africa, della Legge l’abolizione Fornero e una nuova riforma previdenziale, l’introduzione di una flat tax per famiglie e imprese, stimoli per gli investimenti e per l’occupazione e il pagamento dei debiti della PA tramite l’emissione di mini-BOT. Sempre secondo Perotti, a fronte di spese per 310 miliardi di euro, le coperture equivarrebbero a soli 10 miliardi, con un disavanzo di 300 miliardi. I mercati Nonostante la situazione incerta, i mercati europei hanno reagito bene, più stimolati dalla prospettiva della creazione della Grosse Koalition che intimoriti dal rischio politico italiano. Piazza Affari ha aperto in negativo, con lo spread BTPBund a 10 anni che è salito dall’1,42% all’1,46%, ma non ci sono stati ulteriori contraccolpi a livello continentale. Un eventuale governo di centrodestra, secondo le previsioni di Unicredit, farebbe balzare lo spread BTP-Bund fino a quota 200, mentre un governo pentastellato lo farebbe salire oltre quota 210. Meno doloroso per i mercati, in teoria, sarebbe un ritorno alle urne in tempi brevi e con una nuova legge elettorale che garantisca maggiore stabilità al Paese. Di Luca Bolzanin MSOI the Post • 5


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole BELGIO 7 marzo. La Commissione Europea è allarmata per la prospettiva dei dazi americani su acciaio e alluminio annunciata da Donald Trump. Gary Cohn, consigliere economico del Presidente americano, ha espresso contrarietà ai dazi decidendo di dimettersi. GERMANIA 4 marzo. La SPD ha votato favorevolmente alla Grosse Koalition con CDU-CSU con il 66,02 per cento dei voti validi espressi. 7 marzo. Una delegazione della destra populista (AFD) si è recata in visita a Damasco per verificare le condizioni per rimpatriare i profughi attualmente in Germania. L’iniziativa ha destato polemiche e una dura condanna da parte del governo tedesco che ha definito il comportamento “disgustoso”. ITALIA 4 marzo. In seguito alle elezioni politiche nessuna forza politica o coalizione ha raggiunto la maggioranza dei seggi. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, procederà alle consultazioni per valutare se e con quale maggioranza un esponente politico sarà in grado di formare un governo con una maggioranza. In caso di mancata intesa ci sarà un ritorno alle urne. LUSSEMBURGO 7 marzo. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha presentato il documento contenente le linee guida europee per i negoziati, che dovrà essere approvato dai 27 paesi membri. Data la posizione di Theresa May, ha dichiarato che la Brexit porterà inevitabilmente 6 • MSOI the Post

UE UNITA CONTRO I NUOVI DAZI USA SULL’IMPORT

La politica di Trump mette a rischio economia e relazioni commerciali

Di Rosalia Mazza Il 1 marzo 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, durante una riunione con alti rappresentanti di corporazioni e aziende statunitensi, ha annunciato l’imposizione di dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio importati negli USA. Tale decisione sarebbe in linea con la volontà – già espressa in campagna elettorale – di proteggere l’industria siderurgica degli Stati Uniti, attività che compete principalmente con le esportazioni di Canada, Cina e Unione Europea. Nonostante tali dichiarazioni abbiano raccolto importanti consensi, varie società della corporate America hanno espresso riserve, lamentando che azioni eccessivamente protezionistiche, rivelatesi fallimentari sotto la presidenza Bush, intaccherebbero l’intera economia statunitense, indebolendo settori che vanno dall’alimentare all’aerospaziale. Le stesse riserve sono state espresse dal governatore del Consiglio della Federal Reserve Jerome Powell e dal consigliere economico Gary Cohn, che evidenziano i vantaggi globali del libero scambio. Dello stesso avviso è il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio Roberto Azevedo, che individua in una guerra commerciale globale la possi-

bile deriva di una simile manovra. Le reazioni dell’Unione Europea non si sono fatte attendere. La cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron hanno espresso preoccupazione e reclamato un’azione decisa e tempestiva dell’UE. Il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha fatto presente che una delle contromisure potrebbe essere la prossima tassazione dei prodotti esportati dagli USA, che causerebbe un ingente danno economico agli Stati Uniti. La maggiore critica mossa al presidente Trump è di voler imporre dazi generalizzati: secondo vari esponenti europei, infatti, il presidente statunitense non terrebbe conto della sovrapproduzione globale creata da terzi, mettendo così a rischio le relazioni economiche con un partner commerciale come l’Unione Europea che, sebbene non fosse inizialmente inclusa in modo esplicito nelle dichiarazioni del presidente USA, starebbe già vagliando la possibilità di concludere accordi con altri partner economici in modo da imporre una tassazione congiunta dei prodotti statunitensi. La decisione finale è stata rimandata al collegio dei Commissari che, in ogni caso, si atterrà alle direttive dell’OMC.


EUROPA a frizioni tra Ue e Regno Unito. REGNO UNITO 2 marzo. Theresa May, nel suo discorso alla Mansion House sulla Brexit, ha evocato la necessità di un “meccanismo arbitrato” terzo per dirimere future dispute commerciali con l’UE e ha aggiunto che anche “la libertà di movimento delle persone deve finire”. 5 marzo. Alcuni studenti ebrei inglese hanno lanciato la campagna #Don’tSettleForThis, contro il piano adottato dal governo israeliano per la costruzione di case riservate agli israeliani che occupano la Cisgiordania. L’attuazione del piano prevede la demolizione delle residenze esistenti, l’allontanamento dei loro inquilini e, dunque, una violazione dei diritti umani fondamentali. SPAGNA 4 marzo. Circa 15.000 persone hanno manifestato a Barcellona contro il processo secessionista catalano. La protesta è stata organizzata dall’organizzazione Plataforma por Tabarnia, il cui obiettivo è sganciarsi dal movimento secessionista catalano e costituire una comunità autonoma dentro la Spagna. SLOVACCHIA 4 marzo. Il presidente slovacco Andrej Kiska ha chiesto un rimpasto di governo o il voto anticipato per far fronte alla “crisi di fiducia” della popolazione, avvenuta a seguito dell’omicidio del giornalista Jan Kuciak. A cura di Giuliana Cristauro

ELETTORI DELL’SPD APPROVANO LA GRANDE COALIZIONE

Angela Merkel si avvia a guidare il suo quarto Governo

Di Alessio Vernetti Domenica 4 marzo il 66% degli iscritti al Partito Socialdemocratico Tedesco ha dato il via libera alla nascita della terza Große Koalition con la CDU/CSU di Angela Merkel. La nascita di un quarto esecutivo guidato Merkel è ormai certa, nonostante le grandi difficoltà che ne hanno segnato la formazione: dopo che, alle elezioni dello scorso 24 settembre, non si era delineata una maggioranza chiara al Bundestag, il leader dell’SPD Schulz aveva negato il suo sostegno a una nuova grande coalizione, salvo poi fare marcia indietro in seguito al fallimento delle trattative per una Jamaika Koalition tra CDU/CSU, liberaldemocratici e verdi. Così, lo scorso 7 febbraio, dopo una maratona di quasi 30 ore, Merkel e Schulz hanno raggiunto un accordo su governo e programma, che è stato poi sottoposto ai 463.723 iscritti dell’SPD. Ora che il semaforo verde è arrivato dalla base socialdemocratica, la nascita del quarto Governo Merkel è prevista per il 14 marzo prossimo, quando il presidente federale Frank-Walter Steinmeier indicherà la leader cristiano-democratica per la carica di Cancelliera e poi

tale proposta sarà votata dal Bundestag. Dal momento che CDU/CSU e SPDdispongono di 399 seggi su 709, l’esito è scontato. Quanto al Governo, il travagliato accordo raggiunto dai principali partiti tedeschi ha assegnato i tre ministeri chiave di Esteri, Lavoro e Finanze ai socialdemocratici, con Schulz che ha lasciato la guida del partito e ha rinunciato al ministero degli Esteri. La leadership dell’SPD è stata assunta ad interim da Olaf Scholz fino al Congresso di aprile, quando Andrea Nahles sarà nominata, molto probabilmente, alla guida del Partito. La bavarese CSU, partito gemello dell’Unione CristianoDemocratica, incassa il Ministero dell’Interno, che va al suo leader Horst Seehofer, mentre la CDU ottiene, oltre alla Cancelleria, i dicasteri chiave dell’Economia e della Difesa. Se il primo sarà guidato da Peter Altmaier, fedelissimo di Angela Merkel, il secondo resta in mano a Ursula von derLeyen, per una necessità di continuità in un periodo di rapida ridefinizione della Difesa europea dopo l’accordo sulla PeSCo. Tuttavia, con la recente nomina di Annegret KrampKarrenbauer alla Segreteria della CDU, Merkel ha anche indicato la volontà di rinnovare il suo Partito.

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NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

TRUMP DICHIARA GUERRA A CANADA E MESSICO

La guerra economica di Trump ai prodotti canadesi e messicani. L’Europa è la prossima?

STATI UNITI 2 marzo. Trump ha annunciato di voler imporre entro una settimana dazi doganali sulle importazioni di acciaio e alluminio dall’estero. Nello specifico si tratta di una tassa rispettivamente del 25% e del 10%. Questa misura è indirizzata principalmente verso le importazioni dalla Cina. 6 marzo. In occasione dell’incontro tra Kim Jong-un e una delegazione sudcoreana ci sono state importanti aperture verso gli Stati Uniti. La Corea del Nord infatti vuole stabilire un dialogo diretto con gli Usa e si dichiara disponibile a cessare le sue attività nucleari se la sicurezza del regime sarà garantita. 7 marzo. Gary Cohon, il principale consigliere economico di Trump, nonché uno degli artefici della riforma fiscale, si è dimesso in risposta ai dazi protezionistici del Presidente. 7 marzo. Sono in arrivo nuove sanzioni nei confronti della Corea del Nord. Infatti il dipartimento di Stato ha rilevato di essere in possesso di prove relative all’avvelenamento con gas corvino di Kim Jong-nam, il fratellastro del dittatore. L’assassinio era avvenuto il 13 febbraio 2017 all’aeroporto di Kuala Lumpur. La Corea del Nord è accusata di aver violato le norme internazionali sull’utilizzo di armi chimiche. CANADA 8 • MSOI the Post

Di Alessandro Dalpasso “We are not backing down”, nessuna Marcia indietro. Questo è il messaggio che il presidente Trump ha voluto far passare lunedì scorso, dando il via a quella che si prospetta essere l’inizio di una vera e propria guerra commerciale. Durante una conferenza stampa organizzata lo scorso 5 marzo, Trump ha infatti affermato che la sua idea di imporre maggiori dazi sull’importazione di alcune materie prime colpirà anche alcuni dei partner più influenti sulla bilancia commerciale statunitense, ovvero Canada e Messico. “We have had a very bad deal with Mexico; we have had a very bad deal with Canada. It’s called NAFTA” ha dichiarato come nota conclusiva del suo intervento, in cui ha fatto sapere che i dazi saranno aumentati del 25 e del 10%, rispettivamente per quanto riguarda acciaio e alluminio. La decisione arriva in seguito a una campagna elettorale svolta all’insegna della promessa dell’abolizione degli accordi commerciali ritenuti svantaggiosi dall’attuale inquilino della Casa Bianca – il ritiro degli Stati Uniti dal TPP, per esempio, è stato uno dei primi atti ufficiali della sua presidenza. Decisione che è stata in seguito corroborata da un supporto interno bipartisan, da parte di alcuni esponenti del

partito e dell’esecutivo, come il Segretario al Commercio Wilbur Ross e il Consigliere per il Commercio Peter Navarro, a cui si sono uniti anche rappresentanti Democratici e sindacalisti della Rust Belt. L’opposizione interna guidata da Mattis e dallo Speaker della Camera Ryan non ha sortito alcun effetto, se non le dimissioni del Consigliere per gli affari economici Gary Cohn, completamente in disaccordo con le scelte di Trump. A suo modo di vedere, infatti, la scelta di penalizzare oltremodo i partner commerciali degli USA non creerebbe l’inversione di tendenza sperata dal Presidente – che vorrebbe invertire il trend negativo della bilancia commerciale statunitense –, ma avrebbe bensì l’effetto opposto e minerebbe alla base i benefici, ritenuti probabili, del piano di riforma fiscale. Le reazioni dei diretti interessati non si sono fatte attendere. Nonostante una chiamata distensiva con il suo omologo statunitense, il premier Justin Trudeau ha definito il piano “assolutamente inaccettabile”. Anche l’Unione Europea, vittima per il momento indiretta, per voce del presidente della Commissione Juncker ha fatto sapere che i 27 potrebbero rispondere tassando prodotti come bourbon, blue jeans e motociclette importati dagli USA.


NORD AMERICA 5 marzo. Il Canada, così come il Messico, potrebbe essere escluso dai dazi degli USA se si troverà un accordo nelle negoziazioni per riformare il Nafta, in corso dal 25 febbraio. Trump ha dichiarato che il Canada deve infatti “trattare molto meglio” gli agricoltori statunitensi e che i dazi cadranno solo se raggiungeranno un “nuovo e giusto accordo” dato che ora l’economia statunitense ha grandi deficit commerciali con gli altri due partner. 7 marzo. La “Bank of Canada” ha deciso di non alzare i tassi di interesse, fermi al 1,25%. La decisione è stata presa per le incertezze commerciali che si sono sollevate dopo le recenti misure protezionistiche di Trump. A cura di Luca Rebolino

FUOCO E FIAMME

Continua il rapporto conflittuale del Presidente degli Stati Uniti con i suoi più importanti consiglieri

Di Leonardo Veneziani Gary Cohn, consigliere economico dell’amministrazione Trump, il 7 marzo scorso ha dato le proprie dimissioni. L’ex Presidente di Goldman Sachs, una delle più importanti banche d’affari al mondo, ha pertanto deciso di dimettersi a seguito di un forte scontro con il Presidente e la sua politica commerciale fortemente protezionista. La decisione, secondo quanto riportato da diversi media, è stata presa in seguito all’annuncio dell’imposizione di nuovi e importanti dazi, da parte del Presidente, sulle importazioni di prodotti di alluminio e di acciaio, mossa peraltro duramente contestata dai partner commerciali statunitensi. Donald Trump perde così un altro importante tassello della sua amministrazione. Cohn, infatti, è solamente l’ultimo collaboratore di Trump ad aver terminato ogni rapporto con la sua amministrazione. Tra gli altri, difatti, ricordiamo Steve Bannon, Anthony Scaramucci, Hope Hicks, Sally Yates, Sean Spicer, Reince Priebus, Michael Flynn e, appunto, Gary Cohn. Le personalità citate, le cui dimissioni hanno spesso causato forti imbarazzi presso la Casa Bianca, hanno lasciato il proprio

ruolo istituzionale per i motivi più diversi. Steve Bannon, esponente della cosiddetta alt-right statunitense, è stato sollevato dal suo incarico di capo stratega, secondo speculazioni giornalistiche, per aver contraddetto il Presidente durante un’intervista sulla questione coreana. Uno degli allontanamenti che ha fatto più clamore è quello di Michael Flynn: ex generale, è stato costretto a lasciare il suo ruolo di Consigliere per la Sicurezza Nazionale nell’ambito dell’inchiesta sulle influenze russe nella campagna presidenziale del 2016. Hope Hicks, invece, Direttrice delle Comunicazioni, ha lasciato dopo aver dichiarato che le fu richiesto di mentire nel suo lavoro. Sally Yates, acting Attorney General, è stata invece allontanata per via della sua opposizione al Travel Ban. Sean Spicer, fedelissimo di Trump e suo primo Direttore Stampa, ha invece deciso di licenziarsi appena saputo che il Presidente aveva intenzione di sostituirlo con Anthony Scaramucci. Scaramucci, ex finanziere di Wall Street, dal canto suo, è durato solamente dieci giorni come direttore delle comunicazioni, ed è stato velocemente allontanato per via di alcuni contrasti con Reince Priebus. Quest’ultimo, Capo dello Staff, ha lasciato anche lui per via degli alterchi proprio con Scaramucci concernenti il Russia Gate.

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MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole EGITTO 6 marzo. Da una settimana a Helwan 2.300 operai stanno protestando contro il dimezzamento dei salari. Si tratta dei lavoratori della National Cement Company, in forte crisi dal novembre scorso a causa di gravi perdite (11 mln di deficit): aperta un’indagine interna poiché tra le cause potrebbe esserci una latente corruzione. IRAN 3 marzo. Allontanate dallo stadio di Teheran 35 donne, entrate nonostante il divieto. Le attiviste, trattenute e rilasciate solo dopo il termine dell’evento sportivo, hanno scelto la data del 28 febbraio poiché era presente la più alta carica della FIFA, Gianni Infantino. L’obiettivo era sensibilizzare l’opinione pubblica fuori dai confini riguardo la legge che dal 1979 impedisce alle donne di entrare allo stadio per assistere a eventi sportivi. PALESTINA 7 marzo. Diversi giornalisti hanno protestato con un presidio a Gaza contro Facebook. L’accusa è di un controllo serrato e di censura nei confronti degli attivisti pro-palestina, che negli ultimi tempi avrebbero visto sparire i proprio profili social. SIRIA 5 marzo. Prosegue l’operazione Ramo d’Ulivo di Ankara nel nord contro i curdi-siriani dell’area di Afrin. La cittadina di Jinderese è stata colpita dall’aviazione e le conseguenti vittime hanno portato a 200 il bilancio dei civili morti da gennaio in seguito a raid turchi. 10 • MSOI the Post

UN CONTINGENTE MISTERIOSO

Perché 1000 soldati pakistani si trovano in Arabia Saudita

Di Jean Marie Reure Quando, lo scorso febbraio, il Ministro della Difesa pakistano, Dastgir-Khan, annunciò alla sua Camera Alta che un numero imprecisato di soldati avrebbe svolto una missione altresì imprecisata in Arabia Saudita, in seno all’assemblea si scatenò una putiferio. Il breve annuncio non soddisfò nessuno dei suoi eletti che, appena tre anni fa, all’unanimità, votarono contro la compartecipazione del Pakistan alla guerra in Yemen. La rassicurazione del Ministro sul fatto che il contingente non sarebbe stato impiegato al di fuori dei confini dell’Arabia non sembrava soddisfare nessuno. Il governo di Islamabad, difatti, aveva deciso di rimanere neutrale nella proxy war che oppone casa Saud all’Iran, nella speranza di stringere qualche accordo commerciale in più e per evitare di lanciarsi in una guerra giudicata da molti lunga e dispendiosa nonostante le rassicurazioni del plenipotenziario saudita M.B.S. Inoltre, secondo numerose stime, 1600 militari si trovavano già in Arabia in via semiufficiale. Si è poi scoperto che il contingente consta di 1000 uomini, ma le ragioni della missione rimangono ancora ignote. Le fonti ufficiali parlano di una missione di training delle

truppe saudite sulle tecniche di contro-insorgenza, ma c’è chi sostiene che costituiscano la guardia reale del principe MBS preoccupato per la sua incolumità, vista la campagna anticorruzione che gli ha permesso di eliminare numerosi rivali politici ed economici. Il mistero aleggia. Nondimeno se si guarda un po’ più in là si nota la visita diplomatica del premier indiano Modi in Iran, assai lucrosa grazie agli accordi conclusi. Se si pensa poi che Washington ha ridotto considerevolmente gli aiuti alla sicurezza destinati ad Islamabad e inserito il Pakistan nella lista degli Stati finanziatori del terrorismo, allora si potrebbe ipotizzare che, alla fine, i potenti si accontentano sempre, quale che sia la ragione. Il regno saudita, infatti, non si limita a bombardare, da tre anni ininterrottamente, lo Yemen, avendo così creato la “peggiore crisi umanitaria degli ultimi 50 anni”: pensa anche a ridisegnare il proprio ruolo nella penisola arabica e non solo. Il suo potere economico, in declino ma certo non scomparso, la sua rinnovata assertività in politica e le tensioni sempre più forti con l’Iran hanno creato un pericoloso clima di scontro. E fra due litiganti si prende, sempre discretamente, le parti di qualcuno.


MEDIO ORIENTE 6 marzo. Mentre l’esercito governativo continua l’avanzata a Ghouta est (solo 2.000 i civili che hanno lasciato la città attraverso i corridoi umanitari), il ministro della Difesa russo ha proposto alle milizie antiAssad l’immunità e l’uscita in sicurezza dal sobborgo di Damasco.

ANCORA ABUSI NEL SETTORE UMANITARIO Quanti lupi travestiti da agnelli?

Di Clarissa Rossetti

6 marzo. L’ONU ha dichiarato di far pervenire giovedì 8 marzo la seconda parte degli aiuti umanitari a Duma, nella Ghouta, dopo che il primo convoglio giunto martedì 6 marzo è stato interrotto dopo 9 ore in mancanza delle condizioni di sicurezza necessarie per le squadre umanitarie, che dichiarano di aver trovato una situazione disperata. TURCHIA 5 marzo. Ad Ankara repressa la manifestazione che vedeva le donne protagoniste: in vista dell’08 marzo, la marcia era volta alla sensibilizzazione contro i femminicidi nel Paese (47 vittime nel solo mese di febbraio), si è conclusa con lancio di lacrimogeni e 15 arresti. A cura di Lorenzo Gilardetti

Un altro scandalo travolge il settore umanitario. Il rapporto Voices from Syria 2018 di UNFPA, the United Nations Population Fund, ha (ri)messo in luce una realtà purtroppo già nota agli operatori del settore e alla comunità internazionale: la prostituzione in cambio di aiuti umanitari. Il documento si sofferma, tra le altre tipologie di violenza di genere, anche sul trattamento riservato a molte donne e bambine da parte degli operatori umanitari – gli stessi impiegati per assistere la comunità vulnerabile dalle ONG presenti sul territorio e dalle agenzie ONU per la risposta umanitaria e lo sviluppo. Le richieste di favori sessuali in cambio di cibo, contanti, ricariche telefoniche e la promessa di maggiore accesso agli aiuti sembrano essere diventate una prassi comune in Siria, al punto che sono sempre di più le donne giunte a definire i campi e le stazioni di distribuzione di aiuto ‘luoghi non sicuri, dominati da uomini’. Donne sfollate divorziate o vedove con molti figli a carico sono un bersaglio facile per i predatori sessuali all’interno del settore, considerata l’assenza di una figura protettiva maschile e per la particolare vulnerabilità sociale ed economica.

Nel rapporto emerge la mancanza di adeguati spazi e procedure dove riportare episodi di violenza in modo sicuro e con l’assistenza di esperti. Non è la prima volta che le Nazioni Unite si trovano a fronteggiare simili accuse, sostenute da testimonianze e dati concreti; già qualche anno fa, l’International Rescue Committee aveva presentato gli stessi fatti alle agenzie di aiuti dell’ONU, suscitando un’immediata reazione per lo sviluppo di procedure di controllo più severe che apparentemente però non si è mai tramutata in azione. Nel 2011 l’Inter-Agency Standing Committee, forum di partner umanitari ONU e non, aveva creato una task force per lo sviluppo e il monitoraggio di meccanismi di protezione dallo sfruttamento sessuale e l’abuso nel settore umanitario, Protection from Sexual Exploitation and Sexual Abuse. La missione dei firmatari del PSEA sarebbe l’impegno per la sensibilizzazione alla problematica, la prevenzione e la totale eliminazione di episodi di abuso, nonché l’apertura di canali per le comunità assistite per riportare gli abusi e ricevere assistenza. Tuttavia, in nessuno dei numerosi rapporti, documenti e strumenti sviluppati dalla rete PSEA si trovano dati concreti che provino l’impatto delle misure adottate.

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RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole AZERBAIJAN 2 marzo. Un incendio ha ucciso a Baku 24 persone che si trovavano in uno dei pochi centri di riabilitazione azeri. Secondo quanto diffuso dalle autorità, l’incendio è stato causato da un corto circuito occorso poco prima dell’alba nel piccolo edificio. I soccorritori sono riusciti comunque a trarre in salvo 31 persone.

BALCANI 8 marzo. La giornata internazionale della donna ha visto migliaia di donne scendere in piazza a protestare per i loro diritti in diversi stati dei Balcani. Le marce sono state organizzate da diverse organizzazioni per i diritti delle donne di Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Romania, Bulgaria e Kosovo. MACEDONIA 4 marzo. Oltre 10.000 macedoni si sono nuovamente riuniti a Skopje per protestare contro la possibilità che venga modificato il nome del Paese per risolvere l’annosa disputa con la Grecia. I manifestanti si sono riuniti attorno alla statua di Alessandro Magno, detto anche Alessandro il Macedone, scandendo la frase “Noi siamo macedoni”. La marcia è stata organizzata dal movimento OurNameIsOur Right (“Il nostro nome è nostro diritto”). RUSSIA 4 marzo.

Sergei

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Skripal,

ex

UN NUOVO PRESIDENTE, MA PIU’ DEBOLE Cosa aspettarsi in Armenia dopo un’elezione più importante sulla carta che nei fatti

Di Davide Bonapersona Armen Sarkissian, ex professore a Cambridge, ex Primo Ministro dell’Armenia (in carica da novembre 1996 a marzo 1997) e attuale ambasciatore dell’Armenia in Inghilterra, diventerà, a partire dal 9 aprile 2018, Presidente della Repubblica di Armenia. Così ha deciso il Parlamento del paese, il 2 marzo, dopo che la sua candidatura era stata appoggiata dal presidente uscente, Serzh Sargsyan. Alla vigilia della sua elezione, Sarkissian ha indicato quali fossero i principali problemi sui quali avrebbe voluto concentrare gli sforzi nel corso del suo mandato. Tra questi, ha annoverato la stratificazione sociale, sottolineando come tale problema si fosse acuito dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica, nel 1991. Egli ha poi rimarcato la grave crisi economica nella quale il Paese versa, affermando che l’unica soluzione è la lotta alla corruzione nell’apparato burocratico e della giustizia. Infine, Sarkissian ha ricordato la necessità di un ammodernamento del sistema educativo del Paese. A causa di una riforma costituzionale approvata tramite referendum, nel dicembre 2015, questa elezione è destinata ad avere un riverbero minore sull’effettivo stato del Paese. In primo luogo, tale riforma ha stabilito che il Presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento

e non più dalla popolazione, e, in secondo luogo, ha fortemente ridimensionato i poteri presidenziali, in favore del Primo Ministro. Per questo motivo, oggi, il Presidente della Repubblica risulta avere solo dei poteri rappresentativi e cerimoniali. Tuttavia, la vera criticità di questa riforma è il sospetto che essa sia parte di un piano dell’attuale Presidente, Serzh Sargsyan, per continuare a mantenere il potere, candidandosi successivamente alla carica di Primo Ministro. Va comunque segnalato che il Presidente uscente ha dichiarato di volere restare politicamente attivo, ma non ha espresso la volontà di candidarsi alla carica di Primo Ministro. Ciò nonostante, con l’inasprirsi dei rapporti con l’Azerbaijan nell’ambito del conflitto del Nagorno-Karabakh, Serzh Sargsyan è ritenuto da molti la persona più idonea per il ruolo di Primo Ministro, dato che, in passato, ha mostrato buone capacità di negoziazione. Non va poi dimenticato Karen Karapetyan, attuale Primo Ministro e compagno di partito di Sargsyan. Molti elettori lo ritengono, l’unico in grado di risolvere la corruzione e la crisi economica, è quindi difficile immaginare che si faccia da parte senza opporre resistenza. Per il momento in Armenia tutto procede come al solito, ma il futuro è all’insegna del dubbio e dell’incertezza.


RUSSIA E BALCANI agente segreto russo, e sua figlia Yulia Skripal, si trovano in ospedale in gravi condizioni dopo essere stati avvelenati a Salisbury, in Gran Bretagna. Dalle prime rilevazioni parrebbe che entrambe le vittime siano state avvelenate con un gas nervino particolarmente raro. Sono ancora ignoti gli artefici e le motivazioni del gesto. 1° marzo. Vladimir Putin ha annunciato al mondo di aver introdotto “nuove armi nucleari invincibili” nell’arsenale militare russo. Secondo quando dichiarato, infatti, l’arma sarebbe collegata a un missile cruise in grado di raggiungere ogni angolo del pianeta; sarebbe inoltre dotato di un sistema che permette una navigazione basata su tragitti imprevedibili, in grado perciò di bypassare gli attuali sistemi di difesa aerea e missilistica. SERBIA 7 marzo. Secondo la ENTSOE (European Network of Transmission System Operators for Electricity), che organizza e sincronizza le reti elettriche della maggior parte dei Paesi europei, la Serbia è tenuta a offrire energia elettrica al Kosovo qualora questo non riesca ad essere autosufficiente. Tuttavia, poiché la Serbia si è rifiutata di offrire aiuto quando il Kosovo era in difficoltà, il rallentamento della fornitura elettrica europea causato dalla decisione della Serbia ha determinato un ritardo di 6 minuti sugli orologi elettronici europei da metà gennaio a oggi. A cura di Elisa Todesco

UNA NUOVA CORSA AL NUCLEARE?

I nuovi missili presentati da Putin aprono la strada a nuove tensioni tra Russia e NATO

Di Vladimiro Labate Giovedì 1 marzo, durante l’annuale discorso alla nazione, il presidente russo Vladimir Putin ha presentato una serie di nuovi armamenti atomici. Secondo gli osservatori, l’intervento di Putin, il quale si è candidato alle elezioni presidenziali del 18 marzo per guidare la Russia per altri 6 anni, è stato uno dei più bellicosi degli ultimi anni. Il Presidente russo si è dilungato nella descrizione, accompagnato da video, degli avanzamenti tecnologici dell’ultimo sistema missilistico: in particolare, un nuovo missile intercontinentale a lungo raggio, un missile nucleare sottomarino e un motore a energia nucleare applicabile a testate nucleari. Putin ha comunque sottolineato il carattere difensivo di questi nuovi armamenti. “Non sono riusciti a fermare la Russia” ha detto rivolto alla vasta platea, “ora devono tenere conto della nuova realtà e comprendere che ogni cosa che ho detto oggi non è un bluff”. Riferendosi all’ombrello difensivo della NATO, Putin ha previsto che, “da un punto di vista militare, diventerà del e tutto inefficac ” a causa dei miglioramenti russi. “Nessuno ci ha ascoltato finora. Adesso ci ascolteranno”, ha concluso il Presidente tra gli applausi. Una condanna forte e decisa del discorso è venuta dalla NATO. La portavoce dell’Alleanza Atlantica Oana Lungescu,

ha affermato in una nota che “le minacce russe sono inaccettabili e controproducenti”, precisando poi che la NATO “non vuole una nuova Guerra Fredda o una nuova corsa agli armamenti. Il nostro sistema missilistico di difesa non è progettato né diretto contro la Russia”. Contro questa mossa di Putin si sono rivolti anche i maggiori leader europei. In una nota del governo tedesco, la cancelliera Angela Merkel e il presidente americano Donald Trump hanno convenuto che i nuovi missili potrebbero avere un effetto negativo sugli sforzi internazionali di controllo degli armamenti. Secondo la Casa Bianca, inoltre, il presidente francese Macron e lo stesso Trump “condividono serie preoccupazioni” riguardo alle affermazioni di Putin. Rimangono, tuttavia, forti dubbi sull’effettivo valore delle armi presentate, portando a considerare questo discorso come un semplice, seppur pericoloso, intervento da campagna elettorale: l’obiettivo di voler sottolineare il ritrovato ruolo della Russia come attore centrale dello scacchiere internazionale e la volontà di fornire un’immagine dura di Putin come politico sembrano prevalere su qualsiasi altro aspetto. L’utilizzo di toni violenti e la messa in discussione dei trattati di non-proliferazione atomica, tuttavia, sono segnali preoccupanti di una tensione mai sopita tra i due schieramenti. MSOI the Post • 13


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole AUSTRALIA 7 marzo. L’Australia firma, presso la sede delle Nazioni Unite, il trattato sul confine permanente nel mare di Timor, ponendo così fine ad una disputa decennale per i diritti sulle riserve di gas e di petrolio con Timor Est. Il trattato stabilisce il confine marittimo nel punto intermedio tra i paesi. L’Australia perderà così la sua giurisdizione nei giacimenti petroliferi attualmente condivisi. CINA 5 marzo. Il secondo plenum del 19° Congresso del Partito Comunista Cinese è iniziato lunedì. L’incontro annuale del Congresso Nazionale del popolo (NPC) e la riunione del Comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (CPPCC) hanno lo scopo di eleggere la prossima amministrazione operando all’interno delle linee guida stabilite da Xi Jinping. Si prevede una revisione della costituzione nazionale cinese con l’abolizione del limite del doppio mandato. COREA DEL SUD 5 marzo. La delegazione speciale del presidente sud coreano Moon Jae-in è partita per Pyongyang con l’obiettivo di programmare il mantenimento e miglioramento del dialogo tra le due Coree. L’intenzione è anche quella di convincere la Corea del Nord a riprendere il confronto sulla denuclearizzazione con gli Stati Uniti e la comunità internazionale. 7 marzo. I funzionari sudcoreani tornati dagli incontri di Pyongyang affermano di aver ottenuto una risposta positiva da parte della Corea del Nord. 14 • MSOI the Post

RELAZIONI PERICOLOSE TRA PYONGYANG E DAMASCO

Armi chimiche dalla Corea del Nord alla Siria: delegittimate le sanzioni internazionali

Di Gaia Airulo Dietro gli attacchi chimici del regime siriano di Bashar-Al Assad, rivela il New York Times, potrebbe esserci l’assistenza della Corea del Nord. Il 27 febbraio, il quotidiano statunitense ha pubblicato l’analisi di un rapporto inedito delle Nazioni Unite che denuncerebbe l’esportazione illegale di materiale nordcoreano destinato alla fabbricazione di armi chimiche in Siria. L’inchiesta è stata condotta da un Panel di esperti che indaga sui canali indiretti utilizzati da Pyongyang per aggirare le sanzioni dell’ONU, finalizzate a disincentivare il programma nucleare del Paese. Il rapporto, la cui data di pubblicazione è ancora incerta, proverebbe che dal 2012 al 2017 la Corea del Nord avrebbe indirizzato al regime siriano più di 40 consegne di componenti missilistiche e materiali a doppio uso civile e militare, come pannelli, termometri o valvole resistenti alla corrosione. Sarebbero, inoltre, stati individuati in Siria alcuni tecnici nordcoreani associati a strutture impiegate nella fabbricazione di armi chimiche. La presunta relazione militare tra Pyongyang e Damasco, evidenzierebbe una falla nel sistema delle sanzioni internazionali, dalle quali i due Paesi sono riusciti ripetutamente a sottrarsi. Come confermato dall’organiz-

zazione non governativa Human Rights Watch, infatti, il regime di Assad continua a sferrare attacchi chimici contro la popolazione civile, nonostante la ratifica della Convenzione sulle Armi Chimiche nel 2013 abbia imposto alla Siria di distruggere il proprio arsenale. Di natura simile sembrerebbero essere anche gli attacchi avvenuti nell’area del Ghouta orientale, lo scorso 25 febbraio. Per quanto riguarda la Corea del Nord, invece, un rapporto pubblicato il 5 settembre 2017 dal Panel di esperti dell’ONU, conferma che il Paese abbia ripetutamente aggirato le misure restrittive, quali l’embargo sulla vendita di armi, le limitazioni finanziarie e i divieti di esportazione. Il commercio di materiale illegale con stati terzi avrebbe garantito profitti pari a $270 milioni dal 2016 al settembre 2017. Paesi come Cina, Russia e Myanmar, sembrano non aver rinunciato al commercio con Pyongyang, nonostante gli embarghi imposti. Il sottrarsi di alcuni membri dagli accordi presi tra i Paesi sanzionatori, apre vie secondarie, commerciali e finanziarie, che permettono ai sanzionati di sfuggire alle restrizioni. Di conseguenza i regimi che infrangono la legge si rafforzano, mentre rallenta la lotta mondiale contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa.


ORIENTE Un vertice inter-coreano avrà luogo in Corea del Sud nel villaggio di Panmunjeom ad aprile.

RAFFORZATA LA COLLABORAZIONE TRA INDIA E VIETNAM

Nuovi accordi firmati in occasione della visita del Presidente vietnamita in India

8 marzo. La delegazione sudcoreana riparte per gli Stati Uniti per riferire a Trump gli esiti dell’incontro con il leader nordcoreano Kim Jong-un. PAKISTAN 3 marzo. Krishna Kumari è stata eletta al senato. Seconda donna indù e prima della casta conosciuta in India come Dalit a diventare senatrice. La sua elezione è storica per la comunità Dalit, considerata inferiore e soggetta a violenze e discriminazioni in Asia meridionale. Kumari, come senatrice, vuole lavorare sull’arretratezza educativa e sanitaria della sua zona e migliorare la situazione delle minoranze in Pakistan. Si prefigge anche l’obiettivo di intervenire sulle discriminazioni di genere. SRI LANKA 6 marzo. Nella giornata di martedì è stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale in seguito a rivolte contro i musulmani che la polizia non è riuscita a controllare. Concentrate soprattutto nel comune di Kandy, hanno comportato due morti ed edifici in fiamme. I social media sono stati bloccati. Zeid Ra’ad al-Hussein, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo, ha espresso preoccupazione per le ricorrenti violenze contro minoranze etniche e religiose nel paese. cura di Francesca Galletto

A

Di Virginia Orsili India e Vietnam hanno confermato e rafforzato la collaborazione su temi diversi, attraverso la firma di accordi sull’energia nucleare, sul commercio, sull’agricoltura e sulla pesca. Da diverso tempo i due Paesi si sono trovati uniti da una serie crescente di interessi e impegni convergenti.

dente vietnamita hanno ribadito “l’importanza della realizzazione di una regione indo-pacifica caratterizzata da pace e prosperità, dove la sovranità e la legge internazionale, la libertà di navigazione e sorvolo, lo sviluppo sostenibile, un commercio libero, equo e aperto e un sistema di investimenti siano rispettati”.

La dichiarazione si inserisce in un clima di timore nei conLe dichiarazioni relative agli ac- fronti della politica egemocordi sono state inserite in un nica della Cina nelle acque del comunicato congiunto rilascia- Mare Meridionale. In quest’otto sabato 3 marzo, in occasione tica si spiega anche l’avvicinadella visita ufficiale del presi mento diplomatico del Vietnam dente della Repubblica sociali- agli Stati Uniti, suggellato simsta del Vietnam Tran Đại Quang bolicamente dall’attracco del al presidente della Repubblica portaerei statunitense USS Carl indiana Ram Nath Kovind. Tran Vinson a Da Nang. è stato accompagnato da una È stato inoltre firmato delegazione ufficiale di alto li dal segretario indiano del vello, tra cui spiccano le figure Dipartimento dell’Energia Atodel Primo Ministro e del Ministro mica (DAE) Sekhar Basu e dal degli Affari Esteri, una delega- vice-ministro degli Affari Esteri zione per il mondo dell’industria vietnamita Dang Dinh Quy un e altri leader territoriali. Gli in- Protocollo di Intesa che mira contri si sono svolti in un clima a consolidare la cooperazione di intesa tra i due Stati, già san- sulla gestione dell’energia atocita nel 2016 con la visita del mica. Lo scopo principale del primo ministro indiano Modi in partenariato è la promozione di Vietnam e con la nascita di un un “utilizzo pacifico dell’energia Partenariato Strategico Globa- atomica”. le. Centrale è la conferma del Sulla base delle eccellenti relasupporto congiunto alla libe- zioni, i Capi di Stato si sono detra navigazione nel Mare Ci- ti d’accordo nel proseguire con nese Meridionale, su cui il Vie- visite regolari e nel tenere una tnam avanza, con altri, pretese riunione congiunta tra i ministri territoriali. degli Affari Esteri per una revisione delle aree di cooperaInserendo la loro dichiarazione zione e di implementazione in un programma più ampio, il del Partenariato Strategico, tra Primo Ministro indiano e il Presi- il 2018 e il 2020.

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AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

OUAGADOUGOU SOTTO ATTACCO

I miliziani prendono d’assalto il centro della città

Di Guglielmo Fasana BURKINA FASO 2 marzo. Nella mattinata, la capitale Ouagadougou è stata teatro di un duplice attacco terroristico che ha colpito simultaneamente la sede dell’Ambasciata Francese e lo Stato Maggiore delle Forze Armate. Il bilancio è di 8 militari burkini e 8 assalitori, oltre che 61 feriti tra le forze di sicurezza e 24 tra i civili. Gli assalitori potrebbero far parte del gruppo estremistajihadista di matrice Qaedista GSIM, Gruppo per il supporto dell’Islam e dei Musulmani, attivo nella regione da circa un anno. MALI 1° marzo. La situazione nella città di Gao, nord del Paese, è sempre più tesa. I rapporti tra la popolazione araba e l’etnia Songhai sono stati pacifici fino al 28 febbraio scorso, quando due ragazzi di origine araba sono stati trovati morti. Questo ha scatenato disordini ed accuse reciproche tra le due comunità ed ora le autorità temono un’ennesima escalation di violenze. 2 marzo. L’ONU teme per il Paese, lo dice nel rapporto pubblicato venerdì scorso. 16 • MSOI the Post

Dopo gli attacchi terroristici perpetrati a Parigi e Nizza dagli affiliati di Daesh, il Paese torna nuovamente nel mirino dell’estremismo di matrice jihadista. Questa volta, l’obiettivo non è più la Métropole bensì le sue propaggini nel mondo e, più precisamente, l’ambasciata e l’equivalente di un istituto di cultura a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Sebbene non ci siano state vittime tra il personale diplomatico francese, il bilancio per le forze di sicurezza burkinabé è comunque pesante: 8 morti e 12 feriti in gravi condizioni. Poco prima delle 11 ora locale del 2 marzo scorso, l’ambasciatore francese ha postato un messaggio su Twitter esortando chiunque si trovasse nelle vicinanze dell’edificio a restare nascosto. Gli assalitori del GSIM (Gruppo di Sostegno dell’Islam e dei Musulmani), che hanno rivendicato l’azione, hanno agito nell’intento di vendicare i loro affiliati uccisi dall’esercito francese in Mali. L’attacco è durato circa due ore, prima che le forze speciali di stanza nella città riprendessero il controllo della situazione. Il potenziale dell’attacco è stato in parte smorzato dalle misure di sicurezza dispiegate nel quar-

tiere, lo stesso dove si trovano varie sedi delle istituzioni locali. Alcuni media francesi riportano di come, con tutta probabilità, gli attentatori abbiano sfruttato la complicità di alcune guardie per penetrare anche all’interno dell’edificio dello Stato maggiore dell’esercito. Una falla nel sistema di sicurezza che andrà al più presto sanata per evitare che in futuro gli uomini in servizio, come successo in questo caso, si dileguino senza opporre resistenza. Un evento del genere non arriva come un fulmine a ciel sereno, dal momento che il Burkina Faso è membro, insieme a Mali, Ciad, Niger e Mauritania, del così detto G5 Sahel. Tale quadro istituzionale di cooperazione rappresenta una sfida verso tutta la galassia di formazioni terroristiche che popolano quest’area desertica del Continente Africano; la Francia rappresenta anch’essa, in quanto partner privilegiato dei governi di questi paesi, un obiettivo di prim’ordine, visto anche il suo impegno militare nell’Operazione Barkhane. D’altra parte, la stessa città di Ouagadougou era stata presa di mira già nel 2016, quando 30 persone erano rimaste uccise in un attentato nella zona frequentata da occidentali.


AFRICA Nel 2015 vari gruppi militanti avevano firmato un accordo di pace, ma oggi la maggior parte dei firmatari hanno perso di forza e autorità: i gruppi più grandi sono frammentati, mentre tutto il territorio è oggetto di combattimenti, soprattutto nel centro.

NON SOTTOVALUTARE IL NIGER Le potenze mondiali mettono in atto una corsa alla militarizzazione del Paese dell’Africa occidentale

Di Jessica Prieto

SIERRA LEONE 7 marzo. Dopo due mandati e un decennio di governo, l’ex presidente Ernest Bai Koroma si prepara ad abbandonare la guida del Paese. I principali candidati alle elezioni sono: Samura Kamara, il successore designato dell’ex Presidente, e Julius Maada Bio, leader dell’opposizione. Vi sono poi molti candidati outsider, tra cui un ex funzionario delle Nazioni Unite, Kandeh Yumkella. Le sfide per il nuovo Presidente saranno molteplici: dal progresso economico alla creazione di un sistema di welfare che possa scongiurare altre epidemie come quella di Ebola che ha colpito il Paese nel 2015. A cura di Francesco Tosco

Molto spesso dimenticato e confuso con la prossima Nigeria; il Niger è un Paese dell’Africa occidentale che negli ultimi anni ha attirato l’attenzione delle grandi potenze mondiali. Questo perché il Paese è da tempo uno dei principali speculatori nel traffico dei migranti. La maggior parte della popolazione, infatti, dovendo affrontare una grave crisi economica dovuta alla chiusura di molti siti di sfruttamento dell’uranio e miniere d’oro, ha trovato riparo in un’“industria della migrazione”, che secondo l’Istituto per le Relazioni Internazionali di Clingendael ha offerto impieghi diretti a più di 6000 persone. Molti si sono reinventati traghettatori, gestori delle “foyers” (case di transito per i migranti in cammino) o venditori ambulanti d’acqua o di benzina. Insomma, veri e propri commercianti di tutto ciò che i migranti necessitano per affrontare i loro difficili viaggi. Per porre un freno a questo traffico illegale di migranti, già nel 2015, l’Assemblea Nazionale del Niger votò la cosiddetta legge 36, volta a criminalizzare tutti gli attori della catena migratoria. Tale legge si inseriva nell’impegno preso dallo Stato

africano con l’Unione Europea per frenare le rotte nigerine che dalla capitale Niamey giungevano nel Vecchio Continente. Tuttavia, tali misure hanno generato un forte malcontento tra la popolazione, tradottosi di una dura ostilità nei confronti del Governo centrale, additato come “traditore” dei propri cittadini; poiché pronto ad accordarsi con i “bianchi” europei per intascare i loro finanziamenti continuando comunque a sfruttare la centralità migratoria del Paese. Questa ostilità nei confronti dell’Unione è dovuta anche a un incremento massiccio di forze armate provenienti dai Paesi occidentali per contrastare il terrorismo islamico. In particolare, la società civile critica il forte militarismo francese, in parte per risentimenti dovuti al periodo coloniale e in parte perché non si crede che questa lotta al terrorismo condotta dall’esterno possa veramente portare ad una fine dei conflitti, ma piuttosto ad una maggiore instabilità politica. In conclusione, mentre i Paesi occidentali sembrano compatti nella lotta contro il terrorismo e verso la criminalizzazione delle migrazioni irregolari, la popolazione nigerina si chiede: lo fanno per noi o per loro interessi?

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AMERICA LATINA 7 Giorni in 300 Parole ARGENTINA 7 marzo. L’ex dittatore Reynaldo Bignone è morto per un’insufficienza cardiaca all’età di 90 anni a Buenos Aires. Bignone stava scontando la pena dell’ergastolo per crimini contro i diritti umani in carcere ed era stato trasferito in un ospedale militare qualche giorno prima per essere ricoverato a causa di una frattura all’anca.

GUATEMALA 2 marzo. Un giudice ha stabilito che l’ex presidente Álvaro Colom dovrà essere processato con l’accusa di frode e appropriazione indebita; in particolare, Colom avrebbe defraudato lo Stato concedendo illegalmente circa 35 milioni di dollari all’ Asociación de Empresas de Autobuses. L’ex Presidente era stato arrestato in via cautelare già il 13 febbraio. 5 marzo. Dopo gli Stati Uniti, anche il Guatemala ha annunciato di voler spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Il presidente guatemalteco Jimmy Morales, durante un suo intervento a Washington, dinanzi all’Aipac, la commissione israelo-americana per gli affari pubblici, ha dichiarato che il trasferimento dovrebbe avvenire il 16 maggio. HONDURAS 2 marzo. Il presidente dell’impresa idroelettrica Desa, David Castillo Mejía, è stato arrestato con l’accusa di essere 18 • MSOI the Post

IL CAMBIAMENTO POLITICO CUBANO Raúl Castro si ritira dalle elezioni parlamentari e apre il cammino a nuovi leader

Di Tommaso Ellena Dieci anni dopo il passaggio di consegne da Fidel a Raúl Castro, sembra che per Cuba si prospetti una nuova transizione di potere. Il 19 aprile, infatti, si svolgeranno le elezioni dell’Assemblea generale, i cui deputati dovranno eleggere le principali cariche governative del Paese, incluse quelle di Presidente e Vicepresidente. Secondo la dichiarazione, Castro cederà l’incarico di Presidente ma non quello di primo segretario del Partito Comunista Cubano (PCC), manifestando l’intenzione di guidare il suo “delfino” fino al Congresso dell’organizzazione, previsto per il 2021, quando Raúl avrà 90 anni. Sono pochi i dubbi riguardo a chi sarà il nuovo Presidente: Miguel Díaz Canel, numero due del Governo, è il successore designato. Nato a Placetas il 20 aprile 1960, ha occupato ruoli poco rilevanti nella provincia cubana fino a quando proprio Raúl lo integra nel Buró Político del Partito comunista. Dal 2009, ha fatto parte del Governo, inizialmente come Ministro dell’Educazione e, dal 2013, come Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, con un ruolo di supervisore in settori quali educazione, scienza, sport e cultura. È inoltreil sostituto di Castro in caso di malattia, viaggi istituzionali o altri impedimenti. Negli ultimi anni DíazCanel ha assunto un ruolo sempre più rilevante, e in particolare nel

settore estero, dov’è diventato figura di primo piano nella rappresentanza del Paese. Uno dei suoi incarichi più rilevanti è stato, a marzo del 2016, la visita ufficiale in Venezuela per la celebrazione in occasione del terzo anniversario della morte di Chávez. A detta degli osservatori e della stampa internazionale, non è facile prevedere quale sarà la linea politica e decisionale di Díaz Canel, soprattutto perché nel corso degli anni ha mantenuto un profilo basso, così come richiesto dal suo ruolo di Vice, guadagnandosi la fama di “uomo semplice” e “buon ascoltatore”. Quel che non è passato inosservato, sia durante il suo mandato di Ministro sia di Vicepresidente, è la sua apertura verso nuove idee: ha affrontato e accettato i cambiamenti imposti dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie. Lo dimostrerebbe la sua attenzione verso il web e i social media in particolare, data la sua attività su Facebook e Twitter. A tal proposito ha anche dichiarato che i cubani dovrebbero “lanciarsi nella rete”. Questo il profilo che al momento è possibile delineare del grande favorito, ma sarà necessario attendere aprile con le elezioni dell’Assemblea Generale e quelle delle cariche governative, e quindi la designazione ufficiale per esser certi che Díaz Canel, e non un altro membro del PCC, sarà il prossimo Presidente di Cuba.


AMERICA LATINA uno degli ideatori dell’omicidio dell’attivista Berta Cáceres. La donna, uccisa nel marzo 2016, si batteva per la difesa delle comunità indigene e nei giorni precedenti alla sua morte, aveva protestato contro il progetto della Desa di costruire una diga idroelettrica, sostenendo che essa avrebbe avuto delle conseguenze negative per il territorio dei popoli nativi.

VENEZUELA, IL GOVERNO APRE ALL’OPPOSIZIONE E POSTICIPA LE ELEZIONI Elezioni posticipate: opposizione spaccata, MUD verso il boicottaggio

Di Riccardo Gemma

PERU’ 2 marzo. Kenji Fujimori, deputato peruviano, ha abbandonato Fuerza Popular, il partito guidato dalla sorella Keiko. La decisione è stata presa in seguito alle dichiarazioni di Jorge Barata, ex rappresentante della compagnia brasiliana Obredecht, il quale sostiene che il partito avrebbe accettato dei fondi da parte del gruppo edile durante la campagna presidenziale di Keiko. Il fratello Kenji ha motivato la sua scelta sostenendo che Fuerza Popular abbia perso credibilità. VENEZUELA 6 marzo. Nell’ambito di un convegno dal titolo “Venezuela no se rinde”, diversi esponenti dell’opposizione al governo Maduro si sono riuniti per discutere e dare vita al Frente Nacional Amplio. Durante questo dibattito è stato redatto un documento nel quale si invitano le varie forze politiche a lavorare insieme per ripristinare la piena validità della Costituzione. A cura di Elisa Zamuner

Già posticipato al 22 aprile, il voto per le elezioni presidenziali in Venezuela è stato ancora una volta rimandato. Come annunciato dal Consiglio Nazionale Elettorale, attraverso le parole della presidente Tibisay Lucena, i cittadini andranno alle urne per esprimere la propria preferenza il 20 maggio. Un giorno importante per la politica del Paese: le presidenziali si riuniranno in una “mega-elezione” che rinnova consigli legislativi regionali e comunali. Un mese extra per organizzare la campagna elettorale, ottenuto nelle trattative tra il presidente Maduro e quella parte dell’opposizione, ridotta e frazionata, che si sottrae al boicottaggio delle elezioni. Una piccola concessione da parte del Presidente che potrebbe essere motivata dal secondo fine di creare tensioni e divisioni tra i partiti dell’opposizione. La Mesa de Unidad Démocratica (MUD), il principale gruppo di partiti che si oppongono al chavismo, non ha preso parte ai negoziati e, tuttora, dopo il nuovo posticipo, nessuno dei suoi membri risulta iscritto alla corsa presidenziale. I leader

della coalizione si sono espressi chiaramente in numerose occasioni, definendo “farsesche” queste elezioni: ritardarle di un mese non soddisferebbe i requisiti – rivendicati – per delle votazioni regolari e trasparenti. Si tratterebbe di vedersi garantita la presenza di osservatori internazionali indipendenti delle Nazioni Unite, la nomina di una Commissione elettorale equilibrata, l’estensione del diritto di votare ai cittadini venezuelani residenti all’estero e l’accesso equo ai media. Chi, al contrario, ha deciso di raccogliere la sfida al voto firmando l’accordo con Maduro, è il membro espulso del MUD Henri Falcon. Se si considera che a Leopoldo López es Henríquez Capriles del MUD è interdetta la candidatura, Falcón col suo partito Avanzada Progresista diventano di fatto il principale candidato delle opposizioni. Per quanto ancora non si possano fare previsioni su quel che ha in mente Falcón, una sua intervista alla BBC potrebbe dare un indizio sulla strategia che pensa di adottare: “Il chavismo può essere sconfitto solo portando alle urne il maggior numero di persone [...] bisogna massificare il voto”.

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ECONOMIA GLI ULTIMI NEMICI DI PUTIN

Possibile resa dei conti in Russia fra nazionalisti e liberali nel prossimo futuro

Di Michelangelo Inverso Il prossimo 18 marzo si consumeranno le elezioni presidenziali della Russia. Un copione, per molti osservatori, già scritto e che vedrebbe come unico scenario plausibile una larga rielezione del presidente Vladimir Putin. Ma quali sono gli argomenti forti della campagna elettorale? In politica estera, la Russia ha ormai adottato, a partire dalla Guerra in Georgia, una chiara presa di posizione sullo scacchiere internazionale. Dopo aver ripreso a difendere i propri interessi strategici in Georgia, Crimea e Siria, Putin aspira ormai apertamente a divenire arbitro nelle contese tra Occidente e Paesi terzi, a partire dal Medio Oriente. Riguardo l’economia interna, invece, il futuro è decisamente più incerto, anche se è possibile tracciare un quadro generale. Nel 2017, il PIL della Russia è finalmente tornato a crescere, registrando un +1,8%, mentre il tasso di inflazione si attesta al 4%. Anche la composizione delle esportazioni è cambiata, grazie al crollo del prezzo del petrolio e alle sanzioni occidentali. Nel 2016-17, infatti, per la prima volta nella storia della Russia, il 51% dell’export è stato di prodotti manifattu-

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rieri anziché energetici. Le sanzioni, in effetti, si sono dimostrate efficaci solo nel breve tempo. Nel lungo periodo, stanno permettendo alla Russia di specializzare la propria produzione interna, spingendo al rialzo il PIL. La guerra in Siria, inoltre, si è trasformata da spesa in guadagno grazie alle commesse militari e, ora, alla ricostruzione del Paese. Questi successi fanno certamente piacere al Cremlino, ma non possono celare le notevoli difficoltà sistemiche della Russia. È lo stesso Putin a evidenziare, nel suo ‘discorso del Maneggio’, la sottocapitalizzazione delle imprese private, l’obsolescenza delle infrastrutture, la debolezza del settore bancario, la dipendenza dai prodotti energetici, e, soprattutto, l’ancora diffusa povertà in tutta il Paese. In verità, è proprio su quest’ultimo punto che la campagna elettorale si fa più difficile per l’uomo forte di Mosca. Pur essendo riuscito, dal 2000 ad oggi, a recuperare molto sul terreno sociale rispetto allo sfascio ereditato dal suo predecessore, Boris Eltsin, le pensioni e i salari medi restano troppo bassi, rispettivamente tra 200 e 600 euro. Il partito di Putin (Russia Unita)

è stato spesso collegato proprio ai grandi oligarchi del Paese e alle élite liberali e filooccidentali molto malviste dalla maggioranza del popolo russo dopo la disastrosa shock-economy promossa proprio dalle formazioni cui si ispirano. Referente di quest’area pare essere Ksenia Sobchak, ex presentatrice del Grande Fratello russo ed erede politica di ‘Mr. 1%’ Alexei Navalny, la quale potrebbe ricevere sostegno dalla borghesia urbana che proprio Putin ha contribuito a formare. La mossa di Vladimir Putin di candidarsi come indipendente anziché con Russia Unita entrerebbe in questa chiave di lettura: liquidare l’asse neoliberale e filo-occidentale ancora radicato nelle istituzioni statali e intraprendere una via economica più simile a quella cinese che a quella europea. Sebbene i commentatori siano divisi su questo punto, tale lettura è corroborata da alcuni fatti, in modo particolare dall’arresto del liberale ministro dell’Economia Ulyukayev, una mossa di cui il Cremlino doveva certamente essere a conoscenza. Quale che sia la verità, la scopriremo solo dopo il 18 marzo, presumibilmente l’ultimo mandato per Putin.


ECONOMIA L’UE VUOLE ACCELERARE SULLA WEB TAX

Ministri europei scrivono al G20 per la tassa sui colossi tecnologici

Di Alberto Mirimin “È urgentemente necessaria una risposta globale alle sfide fiscali sollevate dall’economia digitale. Le norme attuali portano a carenze fiscali in Paesi in cui le multinazionali conducono attività significative e generano profitti in gran parte basati sul contributo degli utenti di prodotti e servizi digitali, creando così distorsioni del mercato e minando la sostenibilità dell’imposta sulle società che governano il sistema.” Queste le parole cruciali contenute nella lunga lettera congiunta stilata da 5 Ministri delle Finanze europei, fra cui l’italiano Pier Carlo Padoan, e i suoi omologhi dei governi spagnolo, francese, tedesco, britannico, con il supporto della Commissione europea, e inviata al ministro argentino dell’economia Dujovne, il quale si occuperà della direzione dei lavori del G20 (meeting dei 20 Paesi industrializzati) in programma a Buenos Aires tra il 19 ed il 20 marzo 2018. Oltre alle nazioni già citate, si sono schierati al fianco di questa proposta altri Paesi, quali: Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania.

Infatti, nel corso dell’ultima riunione dell’ECOFIN (Consiglio Economia e Finanza, composto dai Ministri delle Finanze degli Stati membri) tenutosi a Tallinn nel settembre scorso, è emersa un’idea comune circa la necessarietà di porre un argine al settore digitale che, in ragione della sua crescita esponenziale, travalica i confini nazionali e richiede una certa specificità per “governare il nesso tra territorio e allocazione degli utili”. Nel corso dello stesso vertice è stato, per l’appunto, messo in luce che le prime 5 imprese digitali per capitalizzazione (Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook, i cosiddetti GAFAM) realizzano il 60% delle vendite e dei profitti fuori dagli Stati Uniti, lasciandovi solo il 10% delle tasse pagate. Esse, invero, vengono accusate da parte degli Stati dell’UE di dirottare i profitti delle attività economiche svolte in Unione Europea verso Paesi con regimi fiscali favorevoli, come per esempio l’Irlanda e il Lussemburgo. In vista di quanto detto, l’intenzione europea è quella di introdurre una web tax, ovvero una tassa sul fatturato, e non sul profitto, dei colossi

tecnologici, in modo tale da rendere l’Unione Europea un vero e proprio mercato comune. Nella pratica, si tratterebbe di un’aliquota compresa fra il 2% e il 6% del fatturato di quelle imprese estere che operano in un determinato mercato, o territorio “europeo”, senza avere una stabile organizzazione nello stesso, capaci di realizzare un ricavo globale almeno pari a 750 milioni di euro. Tuttavia, per stessa ammissione del ministro francese delle Finanze, Le Maire, la percentuale per il momento sarà valutata al ribasso, in quanto si preferirà punto di stabilire “un partenza, una tassa applicabile molto velocemente rispetto a trattative interminabili”. Infine, il Presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, ha voluto sottolineare che l’introduzione della web tax, oltre alla sua esplicita funzione e alla sua appurata e condivisa necessarietà, potrebbe anche essere utilizzata per generare nuove risorse, da destinare al prossimo bilancio pluriennale dell’Unione Europea, che possano andare a finanziare azioni che sostengano la crescita e l’occupazione nel Vecchio continente. MSOI the Post • 21


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO INVISIBILE IL DRAMMA DEGLI ESULI ROHINGYA La strage infinita dei Rohingya

Di Debora Cavallo Così recita la ​Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio ratificata il 9 Dicembre 1948 a New York: “Nella presente convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con ​ l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccidere membri del gruppo; b) causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo; c) sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) imporre misure dirette a impedire nascite all’interno del gruppo”. I Rohingya​sono una minoranza musulmana del Myanmar. Almeno ​6.700 Rohingya sono stati uccisi lo scorso agosto, da parte dell’esercito birmano nello Stato di Rakhine. Tra le vittime 730 bambini sotto i cinque anni. Si tratta del terzo esodo di massa dei Rohingya dopo quelli del 1978 e del 1991-1992. Tali azioni possono sembrare confarsi al termine di genocidio, eppure Aung San Suu Kyi respinge le accuse di pulizia 22 • MSOI the Post

etnica ai danni della minoranza Rohingya in Birmania. La comunità internazionale non sembra d’accordo con tale dichiarazione, chiedendo, infatti, il ritiro del Nobel per la Pace ad Aung San Suu Kyi stessa, la quale, da quando è stata liberata e in seguito salita al potere, non ha mai speso una parola in favore dei Rohingya. Anzi.

moschee, confiscato terre, commesso stupri etnici e omicidi, ha bruciato sistematicamente le case di molti Rohingya, costringendoli a scappare: è stato il più rapido spostamento di un gruppo etnico dai tempi del genocidio nel Ruanda del 1994.

Dalle violenze di agosto sono oltre 645.000 i Rohingya ​fuggiti in Bangladesh. É possibile un esodo ancor La decisione per il loro rimpatrio oggi nonostante le convenzioni è stata ufficializzata al termine internazionali che dovrebbero di una riunione tenuta nella evitare simili stragi? Correva capitale del Myanmar, Naypyidaw, l’anno 1948 quando fu emanata alla quale hanno partecipato la D ​ichiarazione universale il Segretario Generale del dei diritti dell’uomo​, il cui Ministero bengalese degli Affari articolo 1 definisce che: “tutti Esteri, Mohammed Shahidul gli esseri umani nascono Haque, e il suo omologo birmano liberi ed uguali in dignità e Myint Thu. Le parti si sono diritti”. Eppure la situazione in impegnate a portare a termine Birmania getta un velo d’ombra l’operazione entro l’inizio del sulla presente convenzione. I​ 2020. Rohingya n ​on hanno diritto​ Ora il Governo del Myanmar alla proprietà privata, n ​on dovrà fornire un rendiconto possono concepire più di sulle violazioni e il rispetto dei due figli, vivono per lo più diritti della minoranza Rohingya. rinchiusi in campi profughi. Lunedì 12 marzo, la commissione Sono stati privati della di inchiesta organizzata dal nazionalità birmana, non Consiglio dei Diritti Umani, dall’ex procuratore sono stati riconosciuti come guidata uno dei 135 gruppi etnici che generale indonesiano, Marzuki vivono all’interno del paese e Darusman, dovrà esporre i accertamenti basati fatti oggetto di una campagna primi sulle interviste dei rifugiati in persecutoria. L’esercito birmano ha distrutto Bangladesh.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO L’ACCORDO TRA L’UE E IL MAROCCO: IL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI La CGUE nello scontro tra il Fronte Polisario e il Marocco

Di Pierre Clément Mingozzi Pur se sorretti dalla Comunità internazionale e dal chiaro intervento dell’inviato speciale H. Kohler, i tentativi diretti ad un negoziato di pace tra il Marocco e il Fronte Polisario sono tutt’ora in stallo. La controversia principale trova origine dal momento in cui il Marocco, successivamente alla fine del dominio spagnolo, impose il controllo su quasi due terzi del Sahara Occidentale, territorio situato sulla costa nord-occidentale dell’Africa. Il medesimo territorio, tuttavia, è oggetto di rivendicazioni da parte del Fronte Polisario, il quale lotta per la sua indipendenza sin dal 1975, auspicando un referendum popolare che ne sancisca definitivamente il diritto all’autodeterminazione. In tale contesto, rilevante è stato il recente intervento della Corte di giustizia dell’UE. Quest’ultima, infatti, tramite la sentenza C-266/16 ha avuto modo di chiarire alcuni aspetti dell’Accordo di pesca concluso tra l’UE e il Marocco, arrivando di fatto alla conclusione che quest’ultimo “enfreindrait plus ieurs règles du droit international, notamment le principe d’autodétermination” includendo il territorio del Sahara occidentale nell’Accordo.

Il rinvio pregiudiziale proposto dalla Hight Court of Justice (Queen’s Bench, Administrative Division) si basava sugli atti aventi in causa la Western Sahara Campaign UK – organizzazione indipendente a difesa dell’autodeterminazione del popolo Sahrawi – e il Ministero dell’Ambiente, dell’Alimentazione e degli affari Agricoli del Regno Unito. Il ricorrente, rivendicando svariate violazioni del diritto internazionale, lamentava in via principale l’indeterminatezza geografica dell’Accordo, ritenendo dunque quest’ultimo lesivo degli interessi sovrani del Sahara Occidentale. La Corte inglese, sospendendo il procedimento, ha chiesto così alla Corte di Lussemburgo se l’Accordo fosse o meno conforme al diritto dell’Unione. La risposta, non si è fatta attendere. La Corte, partendo dal quadro giuridico stabilito dalla Carta delle Nazione Unite (art. 1.2, 1945), richiamando la parte V (artt. 55/56) della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, 1982) riguardante la nozione di “Zona Economica Esclusiva” e anche la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969) è giunta alla conclusione che l’inclusione del territorio del Saha-

ra occidentale e delle sue acque adiacenti nell’Accordo in esame sarebbe “manifestement incompatible avec le droit international et, plus précisément, avec le droit à l’autodétermination, l’article 73 de la Charte des Nations Unies”. Inoltre, la Corte, ripartendo dal precedente Polisario case, ha successivamente evidenziato che includere nell’Accordo tra il Marocco e l’Unione Europea il territorio del Sahara occidentale – e di conseguenza il suo spazio marittimo – sarebbe anche contrario ad alcune norme di diritto internazionale dal valore generale quali il principio di autodeterminazione dei popoli – in quanto il Sahara occidentale si trova ancora oggi di fatto nell’elenco delle Nazioni Unite come “non-self-governing territories” –, e anche del principio pactatertiisnequenocentnequeiuvant, dal momento che il Sahara occidentale non ha preso parte diretta ai negoziati del medesimo. L’intervento della CGUE in una questione così dibattuta, pur non essendo il primo, ha sicuramente il merito di riportare alla ribalta un tema sensibile come l’autodeterminazione dei popoli, essendo sì quest’ultimo, spesso e volentieri, “dimenticato” da molti Stati.

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