Msoi thePost Numero 97

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Luca Bolzanin, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole

SLOVACCHIA: PELLEGRINI PREMIER DOPO LE DIMISSIONI DI FICO I cittadini slovacchi chiedono elezioni anticipate

Di Giuliana Cristauro FRANCIA 21 marzo. Indagato l’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, con l’accusa di corruzione passiva, finanziamento illecito di campagna elettorale e appropriazione indebita di fondi pubblici della Libia. I fatti risalirebbero alla campagna elettorale francese del 2007, che lo vide vincitore. Secondo l’accusa, Sarkozy avrebbe ricevuto del denaro non dichiarato da parte dell’ex presidente libico Muammar Gheddafi. L’ex Presidente, che nega tutto, è stato interrogato della polizia giudiziaria di Nanterre. GRAN BRETAGNA 20 marzo. 23 diplomatici russi sono stati espulsi dal Regno Unito in segno di ritorsione a seguito all’attacco all’ex spia russa Serghei Skripal e sua figlia Yulia con un’agente nervino. Come già anticipato dalla prima ministra britannica Theresa May, l’accusa è quella di essere agenti dell’intelligence russa sotto copertura diplomatica. A tale espulsione ne corrisponderà una della stessa portata da parte di Mosca. GRECIA 21 marzo. Maria Efimova, fonte significativa della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia - assassinata nell’ottobre del 2017 - si trova in stato di fer-

L’uccisione del giornalista Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová, avvenuta tra il 22 e il 25 febbraio, ha suscitato sgomento e incredulità, portando alla crisi del governo slovacco. Si tratterebbe del primo caso nel Paese di un giornalista ucciso a causa delle proprie inchieste. Secondo le ricostruzioni fatte finora, il giornalista di Aktuality.sk stava indagando su una possibile connessione tra Governo e criminalità organizzata calabrese in relazione alla gestione dei fondi strutturali dell’Unione Europea. Migliaia di cittadini slovacchi sono scesi in piazza a Bratislava e in molte altre città per contestare lo scandalo e per chiedere un radicale cambio di guida nell’esecutivo. Il presidente della Repubblica Andrej Kiska ha imposto alla maggioranza di scegliere tra il rimpasto o il voto anticipato. La vicenda ha portato dapprima alle dimissioni di due stretti collaboratori del premier Robert Fico. Di seguito, si è dimesso il ministro dell’Interno Robert Kaliňák. Infine, anche il premier Fico ha annunciato le proprie dimissioni, ponendo come condizione che la presidenza della Repubblica permettesse al partito del Premier, Direzione-

Socialdemocrazia, di nominare un successore alla guida del Governo rispettando così il risultato delle ultime elezioni. Kiska ha accettato le dimissioni e ha designato il successore proposto, Peter Pellegrini, attuale Vice Premier. Questa soluzione ha però destato la rabbia di migliaia di persone, che hanno nuovamente manifestato per chiedere elezioni anticipate, contestando il fatto che Fico continuerebbe ad avere una forte influenza sul Governo, in quanto capo dello stesso partito di Pellegrini. Il caso ha suscitato le reazioni di molte istituzioni internazionali che si pongono a difesa della libertà di espressione. Index for Censorship Per l’omicidio di Kuciak rivela un problema di sicurezza del giornalismo professionale all’interno dei confini dell’UE e va collegato a quello della maltese Daphe Caruana Galizia. Anche l’European Federation of Journalists (EFJ) ha inevitabilmente riscontrato “un segnale molto preoccupante per il giornalismo dell’UE”. Il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha definito la vicenda un “nuovo, inaccettabile, attacco alla libertà di stampa, valore fondante della nostra democrazia, a pochi mesi dal tragico assassinio della giornalista maltese”. MSOI the Post • 3


EUROPA mo ad Atene. La cittadina russa ed ex dipendente della filiale maltese della Pilatus Bank, l’istituto di credito al centro delle rivelazioni clamorose della Galizia, ha a suo carico un mandato di cattura internazionale spiccato da Malta per il reato di appropriazione indebita per la cifra di soli 2 mila euro.

BREXIT: THERESA MAY VAGLIA IL “MODELLO CANADA” Il Governo britannico ha scelto il CETA come modello per i futuri rapporti EU-UK

Di Edoardo Schiesari

POLONIA 20 marzo. Il ministro degli esteri polacco, Jacek Czaputowicz, ha riaffermato la volontà della Polonia di riformare la giustizia “come meglio crede”, deplorando il possibile ricorso dell’Unione europea a misure punitive contro la Varsavia, ai sensi dell’articolo 7 del trattato UE. In risposta alle preoccupazioni dei partner europei nessun cambiamento significativo è stato annunciato all’interno delle contestate riforme previste. SLOVACCHIA 22 marzo. Il presidente slovacco, Andrej Kiska, ha nominato come nuovo primo ministro Peter Pellegrini, appartenente ai democratici sociali di Smer. Pellegrini, ex vicepremier, andrà a sostituire il dimissionario Robert Fico, che ha lasciato il suo incarico la settimana scorsa in seguito all’omicidio del giornalista investigativo Jan Kuciak e della fidanzata. Il nuovo governo slovacco avrà 30 giorni a disposizione per chiedere la fiducia del Parlamento. A cura di Giulia Marzinotto 4 • MSOI the Post

Il 21 settembre 2017 è entrato in vigore in via provvisoria, il CETA, Comprehensive Economic and TradeAgreeement, accordo commerciale firmato tra Bruxelles e Ottawa nel 2016 dopo cinque anni di negoziazioni. Il testo, approvato dal Parlamento europeo nel febbraio dello scorso anno, dovrà essere ratificato dai singoli Parlamenti dei membri interni dell’Unione. L’accordo consiste sostanzialmente nell’abolizione delle barriere doganali tra Unione Europea e Canada, nel mutuo riconoscimento della certificazione per una vasta gamma di prodotti, e nella possibilità per le imprese europee di accedere agli appalti pubblici canadesi. Il CETA sta assumendo una rilevanza fondamentale non solo per quel che riguarda le relazioni tra Canada e Unione, ma soprattutto perché è stato assunto come modello di riferimento per il nuovo rapporto che incorrerà tra Bruxelles e Londra, dopo che la Brexit sarà divenuta ufficiale ed efficace a tutti gli effetti, a partire dal 29 marzo. L’avvio dei negoziati è alle porte e il caponegoziatore di Londra, David Davis, ha indicato l’accordo come possibile punto di partenza, eventualmente

arricchendolo di una serie di vincoli ulteriori che servirebbero a lasciare aperto il mercato dei servizi dell’Unione anche per le aziende britanniche, a protezione di un introito di quasi 14 miliardi di sterline l’anno. Il Governo britannico spera, inoltre, di mantenere le agevolazioni sul piano tariffario legato allo scambio di beni, liberandosi dall’obbligo, che nel CETA invece è previsto, di rispettare i vincoli sulla produzione locale. La posizione del Labour Party sull’accordo però non è univoca. James Corbyn insiste sulla necessità di dover creare un’unione doganale con l’UE, pretendendo inoltre la possibilità di esprimere il proprio parere sui futuri accordi dell’Unione. La fronda dei remainers, guidata dal cancelliere Phillip Hammond, insiste su una totale aderenza alle regole comunitarie almeno per quel che riguarda il settore chimico e della produzione automobilistica, allineandosi così nella tutela dei consumatori e perseguendo il comune obiettivo di miglioramento delle condizioni ambientali. All’opposto, i 62 parlamentari individuati come hard brexiteers, spingono per la totale recisione dei legami politico-economici con Bruxelles e minacciano di votare contro la maggioranza, in caso di “mancanza di intransigenza verso il negoziatore europeo”.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole STATI UNITI 16 marzo. Il vice segretario di Stato americano John J. Sullivan ha incontrato, nella città di Washington, il ministro degli Esteri della Corea del Sud Kang Kyung-wha. Rimarcata la centralità dell’alleanza tra i due Paesi quale principale fonte di sicurezza dell’area coreana 17 marzo. Nuovo licenziamento targato Donald Trump. Questa volta è il turno di Andrew McCabe, ormai ex vicedirettore dell’Fbi, accusato di mancata “onestà e professionalità” in diverse occasioni. “Vogliono indebolire le indagini sul Russiagate”, ha dichiarato, in propria difesa, McCabe. 20 marzo. Il principe saudita, Mohammed bin Salman, è stato ricevuto da Donald Trump presso la Casa Bianca. Rapporti con l’Iran e ruolo statunitense nella campagna militare in Yemen, sono state le principali tematiche affrontate durante l’incontro. 20 marzo. Telefonata di congratulazioni da parte di Donald Trump verso Vladimir Putin, vincitore delle recenti elezioni. “Ci sarà un incontro nel breve termine”, ha dichiarato il Presidente statunitense. 21 marzo. Morto suicida il giovane Mark Anthony Conditt, il presunto autore delle 5 esplosioni che hanno colpito la città di Austin, Texas, nell’ultimo mese. Le autorità non hanno ancora fornito dettagli sul possibile movente alla base degli attacchi. 21 marzo. Facebook e Cambridge Analytica nel mirino della prima class action statunitense, avviata legalmente nello Stato della California. Le accuse riguarda-

FIRED!

Nuovo licenziamento alla Casa Bianca?

Di Martina Santi Dopo i recenti cambi di vertice, la Casa Bianca si prepara alla rimozione di un altro membro dello staff presidenziale. Fonti del Washington Post affermano che il presidente Trump sarebbe in procinto di sollevare dall’incarico Herbert R. McMaster, l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale. McMaster è un generale dell’esercito statunitense, nonché il 26° National Security Adviser degli Stati Uniti (terzo nella storia del Paese a conservare contemporaneamente il rango militare e ricoprire tale ruolo nell’amministrazione). Nel marzo 2017, dopo il coinvolgimento nel Russiagate di Michael Flynn,che ne aveva causato le dimissioni, il presidente Trump scelse il generale come suo successore. Un articolo di Business Insider riporta, tuttavia, che, fin dal principio, si sono avvertiti forti attriti fra l’ala conservatrice della Casa Bianca e McMaster. Il generale, ideologicamente schierato su posizioni più moderate, è stato infatti oggetto di ripetuti attacchi mediatici da parte di alcuni think tank di estrema destra, che hanno definito il suo operato un tentativo di sabotaggio dell’agenda di Trump. Anche la relazione con lo stesso Presidente è stata spesso compromessa da una

profonda divergenza di opinioni fra i due. McMaster è stato, infatti, un aperto sostenitore dell’accordo sul nucleare con l’Iran, malvisto da Trump, il quale lo aveva sconfessato già in campagna elettorale, per poi confermare la sua posizione una volta giunto alla Casa Bianca. Non è da escludere, dunque, che l’idea di una nuova nomina stia balenando nella mente del tycoon americano, malgrado la notizia arrivi a pochi giorni dall’allontanamento di Rex Tillerson – il Segretario di Stato è stato licenziato dal Presidente ‘a colpi di tweet’, appena la scorsa settimana. Da parte sua, Trump ha dichiarato: “I want to algose different ideas”, come riporta il Washington Post. Tuttavia, la strategia del Presidente sembra, piuttosto, difenderei cambiamenti contestuali nell’esigenza di una maggiore convergenza di pareri all’interno del suo gabinetto. La dichiarazione assume, dunque, una piega contraddittoria, a meno di escludere tutte quelle idee che mal si conciliano con quelle dell’ex imprenditore. La scia di licenziamenti che hanno investito la Casa Bianca dal principio di questa amministrazione sembrerebbe, insomma, avvalorare l’ipotesi che dietro le mosse del tycoon si celi un’unica ambizione: creare una cerchia di fedelissimi che non ne ostacolino la presidenza.

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NORD AMERICA no l’improprio utilizzo dei dati personali di oltre 50 milioni di utenti. 22 marzo. Atteso l’annuncio di nuove sanzioni commerciali contro la Cina per un valore superiore ai 50 milioni di dollari. Il presidente Trump, nella mattinata, ha programmato la firma di un memorandum sul punto, definendo le ultime attività cinesi come “un’aggressione economica”.

NUOVE SANZIONI CONTRO LA RUSSIA: SALE LA TENSIONE Washington accusa la Russia per cyber-attacchi e interferenze nelle elezioni 2016

Di Jennifer Sguazzin

L’amministrazione Trump ha emanato nuove sanzioni contro la Russia in risposta alle accertate interferenze nelle elezioni del 2016, nonché per un attacco informatico ad ampio 22 marzo. Dimissioni annunciate raggio agli impianti energetici, da John M. Dowd, principale leidrici e alle centrali nucleari gale del presidente Trump nelle statunitensi ed europee. indagini sul Russiagate. CANADA 19 marzo. Il ministro della Difesa Nazionale canadese, Harjit Sajjan, ha confermato l’invio di elicotteri militari e sostegno medico nello Stato occidentale africano del Mali. Entro la fine dell’anno il Canada prenderà, così, parte alla missione ONU finalizzata alla stabilizzazione della pace locale.

“L’amministrazione sta rispondendo all’ostile attività cibernetica russa, comprendente il tentativo di interferire nelle elezioni statunitensi, cyber-attacchi distruttivi e intrusioni che hanno preso di mira infrastrutture di importanza critica”, ha dichiarato il segretario al Tesoro Steven Mnuchin.

Gli Stati Uniti hanno bloccato i conti, congelato i beni e interdetto i viaggi di 19 individui e di 5 organizzazioni di nazionalità russa. Il principale elemento di novità sono, tuttavia, le accuse mosse anche ai servizi segreti russi e all’Internet Research Agency di San Pietroburgo, la quale ha operato durante le presidenziali A cura di Erica Ambroggio del 2016.

20 marzo. Celebrata la Giornata Internazionale della Francofonia. “Il Canada continuerà ad impegnarsi nella protezione e promozione della lingua francese e della diversità culturale e linguistica”, ha dichiarato Justin Trudeau.

Secondo Washington, le sanzioni sarebbero la risposta più significativa alle intromissioni di Mosca nelle elezioni che hanno portato alla Casa Bianca Donald Trump. Ed è per questo motivo che il procuratore Mueller ha chiesto al Presidente tutta la documentazione relativa agli affari condotti a Mosca per indagare su potenziali atti illeciti. 6 • MSOI the Post

Alle accuse mosse al Cremlino di aver interferito nelle scorse elezioni, si aggiungono ora nuove imputazioni, che vedono Mosca come responsabile per la distribuzione del malware NotPetya, che dall’Ucraina si è diffuso ai sistemi finanziari occidentali causando danni per miliardi di dollari in tutto il mondo e che, per questa ragione, secondo la Casa Bianca, può essere annoverato come uno dei più dannosi attacchi informatici rilevati fino ad oggi. Le nuove sanzioni emanate dal governo statunitense vanno a sommarsi alla crisi tra il Cremlino e Londra per quanto accaduto a Salisbury, alimentando ulteriormente l’attuale clima di forte tensione diplomatica. Infatti, agli avvenimenti di Salisbury sono seguite immediatamente dichiarazioni congiunte di condanna da parte di USA, Francia, Gran Bretagna e Germania contro Mosca, nonché l’espulsione di 23 diplomatici russi dal Regno Unito. In particolare, la Russia è accusata di aver condotto in Europa il primo uso offensivo di gas nervino dalla Seconda guerra mondiale, costituendo, dunque, una violazione del diritto internazionale e, nella fattispecie, della Convenzione sulle armi chimiche. Un intreccio che ora vede il ministro degli Esteri Lavrov rispondere alle misure intraprese contro la Russia con l’espulsione di diplomatici britannici.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole EGITTO

LO YEMEN RICOMINCIA A SPERARE

Incontri diplomatici tra sauditi e Houthi potrebbero far intraprendere la strada per la pace

16 marzo. Si aprono le urne per gli egiziani all’estero. La vittoria del generale Al Sisi è data per certa da numerosi elettori. 17 marzo. Nonostante l’invito a boicottare le elezioni da parte dell’opposizione, sono numerosi i cittadini egiziani all’estero a recarsi alle urne. 20 marzo. Il presidente del Sudan Omar al-Bashir incontra al Cairo Al Sisi. “Coopereremo per la costruzione della diga sul Nilo” , la dichiarazione congiunta dei due leader. IRAQ 21 marzo. Ritrovati i corpi dei 39 indiani rapiti nel 2014. Identità confermate dal test del DNA. ISRAELE - PALESTINA 16 marzo. Due soldati israeliani uccisi da un veicolo nella città di Yabed, a Jenin. L’attacco avviene nel contesto delle proteste che continuano ormai da 100 giorni a seguito della dichiarazione di Trump sullo spostamento dell’ambasciata USA presso Gerusalemme. 17 marzo. Raid israeliano nel villaggio di Bartaa dove viveva l’assalitore, sospesi più di 67 permessi di lavoro e 26 permessi commerciali ai membri della sua famiglia a titolo di rappresaglia. 18 marzo. Detenuto dallo Shin Bet il francese Franck Romain per traffico internazionale di armi. In carcere da metà febbraio la notizia è stata fatta trapelare solo adesso. 22 marzo. 12 palestinesi con residenza a Gerusalemme sono stati deportati nella striscia di Gaza per “legami con il terrorismo”.

Di Lorenzo Gilardetti In Yemen è in corso, da inizio 2015, una guerra civile con coinvolgimento di forze internazionali che ha causato una grave crisi umanitaria. La speranza che finalmente si possa intraprendere la via per la tregua si è però riaccesa, e passa per il vicino Stato dell’Oman. L’agenzia di stampa internazionale Reuters ha incontrato alcune importanti figure della diplomazia e dell’esercito yemeniti. Gli intervistati, mantenendo l’anonimato, hanno rivelato la continuità da due mesi a questa parte di incontri in terra omanita tra Houthi e sauditi. Tali negoziazioni costituirebbero un fattore eccezionale poiché già due volte i tentativi condotti dall’ONU in Svizzera (2015, quando i sauditi neanche presero parte) e Kuwait (2016) si conclusero con un nulla di fatto. Nonostante non si registrino dichiarazioni ufficiali (neanche smentite), la tempestività lascia pensare a colloqui svolti in preparazione al lavoro del nuovo incaricato ONU, Martin Griffiths, giunto in Yemen nei giorni scorsi per intavolare un accordo inizialmente di tregua, ma che possa poi mirare alla pace. Difficile individuare le cause che avrebbero portato i sauditi

(a capo della coalizione araba in difesa del presidente sunnita esiliatoHadi)aldialogoclandestino con i ribelli Houthi (yemeniti che sostengono l’ex presidente sciita Saleh, appoggiati da Iran e Hezbollah). Sembra però centrale il ruolo del principe ereditario Mohammed bin Salman, il quale, secondo le fonti di Reuters, si starebbe tenendo in stretto contatto con i suoi emissari. La guerra in Yemen è costata molto a Riyad sia economicamente, sia a livello di immagine in campo internazionale, dove, nonostante la corresponsabilità di USA e Paesi UE come Francia e Gran Bretagna (ma indirettamente anche dell’Italia attraverso la fornitura bellica), la sola Arabia Saudita è stata accusata dalle Nazioni Unite di crimini contro l’umanità. L’accusa deriva dal lancio di bombe inerti sui civili a Sana’a nel settembre 2016. Se parallelamente è già stato ratificato un accordo che porterà 2 miliardi di dollari da Ryad alla Banca Centrale yemenita per salvaguardare la valuta, la nazione ormai distrutta da guerra, carestia e epidemia di colera, vive la più grave crisi umanitaria attuale nel mondo: il 75% della popolazione necessita di aiuti umanitari, 16 milioni le persone senza accesso all’acqua potabile e 11,3 milioni i bambini a rischio sopravvivenza. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE MOHAMMED BIN SALMAN VOLA NEGLI STATI UNITI

MAROCCO 19 marzo. Il reame si è candidato ad ospitare la FIFA World Cup nel 2026.

Il principe discute di accordi militari con Trump e di riforme sociali

QATAR 19 marzo. L’ufficio delle comunicazioni di Doha ha depositato una causa presso il tribunale di New York contro una “campagna di diffamazione” promossa sul web. SIRIA 16 marzo. A seguito dei bombardamenti del governo sulla città di Ghouta, che in un giorno hanno causato più di 46 vittime, migliaia di persone fuggono dalla città. 18 marzo. 30 nuove vittime di un bombardamento aereo sulla città di Ghouta 19 marzo. Visita trionfale di Bashar Assad a Ghouta. Ai suoi soldati: “con ogni vostro proiettile che ha ucciso un terrorista avete contribuito a cambiare l’equilibrio mondiale”. TURCHIA 18 marzo. Fonti ufficiali smentiscono il bombardamento di un ospedale civile ad Afrin. “Vili accuse delle YPG”. 18 marzo. L’armata Libera Siriana dichiara di aver conquistato la città di Afrin, gli scontri, tuttavia, continuano all’interno dell’abitato. YEMEN 19 marzo. Epidemia di difterite: “il segno che il sistema sanitario è ormai collassato”. 1300 gli infetti, più di 70 i morti, secondo OMC.

A cura di Jean-Marie Reure 8 • MSOI the Post

Di Martina Scarnato Il principe saudita Mohammed bin Salman è partito per un viaggio di circa tre settimane negli Stati Uniti, durante il quale, il 20 marzo, si è tenuto un incontro con il presidente Donald Trump alla Casa Bianca. Durante il meeting, i due leader hanno principalmente discusso di futuri investimenti sauditi negli Stati Uniti e di accordi militari. In particolare, secondo quanto riportato dalla CNBC, il presidente Trump avrebbe evidenziato l’importanza degli acquisti di armi da parte della monarchia, che, solo ad ora, avrebbero un valore di circa $12,5 miliardi. Entrambi i leader hanno poi sottolineato come l’alleanza tra i due Paesi sia forte e duratura nel tempo, soprattutto per quanto concerne la questione iraniana. La settimana scorsa, il principe aveva affermato che, se l’Iran si fosse dotato della bomba atomica, l’Arabia Saudita avrebbe intrapreso la stessa strada. Dunque, uno degli obiettivi del principe sarebbe quello di convincere il presidente Trump a concedergli il diritto di arricchirsi di uranio in cambio di grandi investimenti nella tecnologia militare americana. Tuttavia

l’incontro

con

il

presidente americano non sarebbe l’unico motivo del viaggio dell’erede al trono: uno degli scopi sarebbe, infatti, quello di riabilitare l’immagine dell’Arabia Saudita agli occhi dei cittadini americani. Durante un’intervista rilasciata alla CBS News, il principe ha esplicitamente dichiarato di credere nell’uguaglianza dei generi e in una versione più moderata dell’Islam. Inoltre, nei prossimi giorni, dovrà incontrare le più importanti compagnie statunitensi con l’obiettivo di stringere accordi con i leader del settore petrolifero e tecnologico, ma anche finanziario, con il fine di differenziare l’economia saudita attualmente dipendente dalla produzione e dal commercio di petrolio. L’intenzione di Mohammed bin Salman è dunque quella di presentarsi come un riformatore, sia per quanto concerne la società sia l’economia. Se da una parte tali intenzioni sembrano sostenute dalle sue recenti azioni intraprese in politica interna, con la recente concessione di maggiori diritti alle donne e la lotta alla corruzione, non mancano dall’altra parte le contestazioni per la politica estera, soprattutto per quanto concerne l’aggressiva campagna militare in Yemen, dove è in corso una crisi umanitaria.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole GEORGIA 19 marzo. Il giorno dopo le elezioni presidenziali russe, l’esercito russo ha cominciato un’esercitazione militare su larga scala nelle regioni separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. L’esercitazione si svolgerà anche nella parte meridionale della Russia al confine con la Georgia e in Crimea. KAZAKISTAN 15 marzo. I rappresentanti di Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan hanno tenuto un summit ad Astana. L’incontro aveva l’obiettivo di gettare le basi per futuri accordi su molti temi, tra i quali la condivisione delle risorse idriche e l’intensificazione del commercio regionale. Il meeting si è svolto dopo anni di silenzio dovuti alla presenza divisiva del presidente uzbeko Islam Karimov, morto nel 2016. KOSOVO 21 marzo. L’Assemblea del Kosovo ha ratificato il Trattato sulla demarcazione dei confini con il Montenegro. Al terzo tentativo in aula, il Parlamento è riuscito a ratificare l’accordo, per il quale serviva il consenso di due terzi dell’Assemblea, che aveva tenuto in stallo la politica kosovara per tre anni. I deputati del partito di opposizione Vetëvendosje hanno utilizzato bombolette lacrimogene durante la seduta al fine di impedire la votazione. Alcuni di loro, dopo l’irruzione in aula della polizia, sono stati arrestati. MOLDAVIA 20 marzo. A pochi mesi dal suo richiamo in patria, l’ambasciatore moldavo a Mosca

STESSO RISULTATO, ALTRA ELEZIONE Nuova tornata elettorale in Russia, ma nessuna novità

Di Davide Bonapersona Dalle elezioni russe, senza grandi sorprese, Vladimir Putin è uscito vincitore. L’ex Presidente raccoglie oltre il 76% dei voti, con un ampio margine di vantaggio sugli avversari e registra il migliore risultato di sempre nelle elezioni della Russia moderna. Anche se la vittoria è stata netta, vi sono alcuni elementi che lasciano dei dubbi sul reale consenso popolare del “nuovo” Presidente. Innanzitutto, c’è il tema brogli. Molti osservatori hanno infatti denunciato irregolarità nello svolgimento delle elezioni. Tra i principali casi documentati vi sono episodi di minacce nei confronti degli osservatori, espedienti più o meno legali per invogliare la gente ad andare a votare come sconti o buoni acquisto e video di persone che inseriscono più schede nelle urne. Tuttavia, la Commissione elettorale centrale ha dichiarato che, pur avendo registrato casi di sospette irregolarità, “non si sarebbero verificate gravi violazioni”. C’è poi il tema affluenza. Alla vigilia delle elezioni Putin si auspicava di raggiungere il 70%, tuttavia si sono recati alle urne solo il 67% degli aventi diritto. Molti hanno individuato come ragione principale di questo insuccesso l’appello di Alexei Navalny di boicottare le elezioni, non andando a votare. Ciò nonostante va segnalato che

il 67% è un dato comunque superiore alle ultime elezioni. In molti si sono chiesti se Putin abbia vinto perché non vi erano reali alternative. Non è un mistero che Navalny fosse l’unico vero avversario e che, dal momento della sua esclusione, non ci fossero dubbi su chi avrebbe vinto le elezioni. Allo stesso tempo non si può ignorare che, al di là della durata globale del suo mandato e di una politica non propriamente moderata in termini di libertà essenziali e diritti umani, Putin gode di una larga approvazione in Russia. I motivi sono facilmente individuabili: egli è stato in grado di ridare uno slancio ad una nazione economicamente distrutta e ridarle forza sul palcoscenico mondiale. Quindi, anche se Navalny fosse stato in corsa, quasi sicuramente Putin avrebbe vinto, anche se è verosimile immaginare che non avrebbe avuto un margine così largo. Infine, va ricordato che il giorno delle elezioni (18 marzo) è coinciso con il quarto anniversario dell’annessione della Crimea da parte della Russia e per la prima volta gli abitanti della Crimea hanno avuto la possibilità di votare per le elezioni russe. È interessante notare come, in tale regione, Putin ha ottenuto un vero e proprio plebiscito, raccogliendo oltre il 90% dei consensi. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI verrà presto fatto ritornare in Russia. I due Paesi aveva avuto un forte scontro diplomatico, l’anno scontro, in seguito all’intimidazione di alcuni politici e ufficiali moldavi da parte delle autorità russe, che aveva portato alla reciproca espulsione di alcuni diplomatici.

CRONACHE DAL FRONTE SUD

Storie di ordinaria amministrazione coloniale del Dagestan

Di Elisa Todesco

RUSSIA 18 marzo. Il presidente uscente Vladimir Putin ha vinto con il 75,9% dei voti le elezioni presidenziali. Questo si appresta ad essere il suo quarto mandato alla presidenza, il secondo consecutivo. Putin resterà alla guida della Russia fino al 2024, quando avrà ormai 71 anni. 20 marzo. 23 membri del corpo diplomatico russo nel Regno Unito hanno lasciato Londra in seguito all’espulsione ordinata dalla premier britannica Theresa May. La decisione rientra all’interno del duro scontro diplomatico in corso tra Regno Unito e Russia, relativamente all’attacco con gas nervino di cui sono state vittime Sergei Skripal, ex-spia russa, e sua figlia, nella cittadina inglese di Salisbury. In risposta a ciò, la Russia, che nega ogni coinvolgimento nella vicenda, ha concesso, a 23 diplomatici britannici stanziati a Mosca, una settimana di tempo per lasciare la città. Chiuso anche il British Council presente nel Paese. A cura di Vladimiro Labate 10 • MSOI the Post

Era il 3 ottobre 2017 quando il Cremlino diramò il comunicato stampa che avrebbe cambiato l’amministrazione del Dagestan, situata nel Caucaso Settentrionale. Infatti, il presidente Vladimir Putin accettò le dimissioni dell’ex presidente della Repubblica del Dagestan, Ramazan Abdulatipov, nativo del territorio, assegnando l’incarico ad interim al generale della polizia di Mosca Vladimir Vasilyev di etnia russa e senza alcuna relazione con il Dagestan. Già l’imposizione da Mosca di un Presidente di etnia russa aveva generato malcontento tra la popolazione locale. Infatti, il Dagestan ha un tessuto sociale molto complesso: con una popolazione composta da dozzine di diversi gruppi etnici, il processo elettorale stesso per l’elezione del Concilio di Stato non porta all’elezione di un governatore come nelle altre repubbliche, ma si basa su un delicato equilibrio che dia rappresentatività a tutti i gruppi etnici. Tuttavia, le sorprese per la popolazione locale non sono finite con un nuovo presidente completamente scorporato dalla società locale e dalle sue complessità etniche. Partendo dall’implementazione delle nuove norme volte a contra-

stare la corruzione dilagante nelle repubbliche della Federazione Russa, a partire dal 2018 Vasilyev ha iniziato una dura politica di contrasto e rimozione nei confronti dei dirigenti dagestani accusati di corruzione per andare a intaccare e la cosiddetta “aristocrazia dei clan”. Il primo grande caduto di questa azione è stato l’ormai ex primo ministro del Dagestan, Abdusamad Hamidov, e due suoi deputati, sostituito con un altro ufficiale che non aveva alcuna pregressa relazione col territorio, Artem Zdunov. Venne poi il momento della caduta dell’ex sindaco di Makhachkala, la capitale del Dagestan, e di altri alti ufficiali ed esponenti della politica del territorio, tutti alacremente sostituiti con personale in arrivo direttamente da Mosca. Tuttavia, i problemi non tarderanno ad arrivare: in primo luogo, Vasilyev potrebbe perdere a breve il supporto popolare per due ragioni. In primo luogo, non impiegando personale locale rischia di danneggiare troppo i clan, precipitando nel caos il precario equilibrio etnico della repubblica. In secondo luogo, cominciando a toccare con la sua politica di epurazione i principali esponenti religiosi musulmani, potrebbe aspettarsi a breve di dover fronteggiare una popolazione arrabbiata.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole AUSTRALIA 16 marzo. Il primo ministro Malcolm Turnbull ha accolto a Sidney i nove leader dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). Obiettivo del vertice, il primo in Australia, lo sviluppo di “sicurezza e prosperità” nella regione. Gli accordi principali riguardano la cooperazione nella lotta al terrorismo internazionale e il libero commercio. 18 marzo. Nel cuore della città di Sidney, centinaia di persone hanno manifestato contro la leader del Myanmar, Aung San Suu Kyi, in ragione della mancata risoluzione della crisi dei Rohingya. La protesta si è, inoltre, schierata contro il primo ministro cambogiano, Hun Sen, accusato di violazione di diritti umani. In molti hanno criticato la marginalità della questione dei diritti umani nel corso del vertice.

CINA 17 marzo. Xi Jinping è stato eletto, per la seconda volta, presidente della Repubblica Popolare. Incarico conferito all’unanimità da parte dei circa tremila deputati riuniti in seduta plenaria. 17 marzo. L’Assemblea nazionale del popolo ha eletto Wang Qishan come vice-presidente della Repubblica Popolare. Si tratta del braccio destro del presidente Xi Jinping, nonché “zar anti-

LE FILIPPINE DI DUTERTE IN FUGA DALLA GIUSTIZIA

Indagini sulle violenze del governo filippino: il Paese annuncia il ritiro dalla CPI

Di Gaia Airulo Lo scorso 14 marzo, il presidente Rodrigo Duterte ha dichiarato di voler annullare con effetto immediato la ratifica del Trattato di Roma, avvenuta nel 2011. Il documento diede vita nel 1998 alla Corte Penale internazionale (CPI), che da allora esercita una giurisdizione sovranazionale su individui responsabili di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità. Accuse simili potrebbero presto essere rivolte anche al Presidente filippino, che da quasi due anni porta avanti una sanguinosa campagna anti droga. Appena un mese fa, infatti, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, ha annunciato l’intenzione di avviare delle analisi preliminari per approfondire la situazione del Paese, le quali potrebbero condurre all’apertura di un’inchiesta. Il ritiro dalla Corte risulterà effettiva solo tra un anno; questa potrà peraltro continuare ad indagare anche successivamente sui crimini commessi nel periodo in cui il Paese ne è stato membro. Duterte si è immediatamente scagliato contro la CPI, accusandola di non poter esercitare alcuna giurisdizione nei suoi confronti. Egli sostiene che il trattato, non essendo mai stato pubblicato dalla stampa uf-

ficiale, Official Gazette, non possa essere considerato valido. Lo studio legale filippino Center Law ha però smentito la dichiarazione, sottolineando come l’argomentazione risulti pretestuosa e giuridicamente infondata. Con l’aumentare delle vittime della “guerra alla droga”, che oggi sarebbero oltre 12.000, è cresciuta anche l’attenzione della comunità internazionale e delle ONG. Un rapporto pubblicato da Human Rights Watch nel marzo 2017, ha denunciato un chiaro modus operandi utilizzato da parte della polizia, che dopo le esecuzioni avrebbe posizionato accanto ai cadaveri tracce di droga e armi per far sembrare legittimi gli omicidi extragiudiziari. Secondo Amnesty International, inoltre, numerosi killer sarebbero stati pagati da ufficiali di polizia per eliminare individui i cui nomi comparivano su liste di proscrizione stilate da funzionari del governo. Per rispondere alle critiche, interne ed esterne al Paese, nel gennaio 2018, Duterte ha introdotto nuove linee guida per la campagna anti spaccio, finalizzate a renderla meno violenta. Saranno le indagini condotte dalla CPI a dimostrare la responsabilità effettiva del Presidente nelle stragi passate.

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ORIENTE corrotti” del suo primo mandato presidenziale. Tra le priorità in agenda: politica economica, lotta alla corruzione e la delicata relazione commerciale con gli Stati Uniti.

LA LACRIMA DELL’INDIA NON TROVA PACE Ancora violenze nello Sri Lanka tra Buddisti e Musulmani

FILIPPINE 19 marzo. La Camera dei rappresentanti approva, in terza lettura, il disegno di legge sul divorzio, portando il Paese vicino alla sua legalizzazione. La legge dovrà, tuttavia, essere approvata dal presidente Duterte, il quale potrebbe opporre il proprio veto. MALDIVE 22 marzo. Il presidente Abdulla Yameen ha sospeso lo stato di emergenza. Durante i 45 giorni di applicazione, la capitale Male è stata invasa da manifestazioni di protesta, in occasioni delle quali più di 140 persone sono state arrestate. MYANMAR 21 marzo. Il presidente Htin Kyaw annuncia le sue dimissioni. In carica dal 2016, Htin Kyaw è stato il primo civile ad essere eletto dopo anni di dittatura militare. In attesa di nuove elezioni, che dovrebbero aver luogo entro 7 giorni, l’incarico verrà assunto dal vice-presidente Myint Swe. A cura di Virginia Orsili

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Di Micol Bertolini Vecchie ferite si riaprono nell’isola di Ceylon, che si trova a sud-est dell’India, ancora una volta teatro di scontri tra la maggioranza buddista singalese, che corrisponde al 70% della popolazione, e la minoranza a religione islamica (9%). Violenti rivolte anti-musulmane sono scoppiate all’inizio di marzo nel dipartimento di Kandy, in seguito alla morte di un individuo singalese per mano di un gruppo appartenente alla minoranza in questione. Il governo Srilankese è intervenuto con forza per pacificare i disordini ed impedire la propagazione delle violenze ad altri distretti del Paese, arrivando addirittura a reintrodurre lo stato di emergenza, non più in vigore dal 2011. Si è voluto così evitare una degenerazione delle rivolte tale da far ripiombare lo Sri Lanka nell’orrore della guerra civile, durata 25 anni, tra due distinti gruppi etnici, i Tamil ed i Singalesi, e conclusasi solo nel 2009. Esattamente al termine di quest’ultima, i rapporti, dapprima pacifici, tra buddisti e musulmani hanno cominciato a deteriorarsi. Al centro delle tensioni post-guerra c’è il Bodu Bala Sena (BBS), organizzazione nazionalista buddista singalese, la quale, fin dalla sua formazione nel 2011, attacca

in modo aggressivo i principi religiosi su cui si basa la vita della minoranza musulmana. Dalla campagna contro la carne Halal nel 2013, fino alle rivolte anti-musulmane nel 2014, il BBS alimenta un sentimento di insofferenza nei confronti dei musulmani, soprattutto tramite i social networks. Il governo Srilankese ha accusato Facebook di non aver impedito adeguatamente il diffondersi di questa retorica d’odio, reagendo in maniera eccessivamente lenta nella rimozione di post incitanti alla violenza. È stato dunque imposto un blocco dei social networks nel tentativo di evitare un’escalation. Solo qualche giorno prima, l’ONU aveva affermato che il ruolo di Facebook fosse stato determinante nella diffusione di sentimenti d’odio contro la popolazione dei Rohingya in Myanmar, contribuendo così a quello che è stato definito dall’Alto Commissario per i diritti umani come un possibile genocidio. Per quanto gli avvenimenti delle scorse settimane mostrino ancora una mancata pacificazione del Paese, non bisogna trascurare le dimostrazioni di solidarietà nei confronti della popolazione musulmana da parte di centinaia di monaci buddisti, i quali hanno manifestato a Colombo contro le violenze che stanno mettendo in pericolo l’unità della nazione.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

ANGOLA: VERSO LA RIVOLUZIONE ECONOMICA? Urge diversificare per salvare un Paese da troppo dipendente dalle esportazioni di greggio

Di Valentina Rizzo KENYA 20 marzo. Sudan, l’ultimo esemplare maschio di rinoceront e bianco settentrionale al mondo, è morto nella riserva naturale di Ol Pejeta. Gli sopravvivono la sorella e la nipote, per le quali si pensa di procedere all’inseminazione artificiale al fine di garantire la sopravvivenza della specie. NIGERIA 19 marzo. Muhammadu Buhari, Presidente della Nigeria, ha comunicato che non parteciperà al summit straordinario dell’Unione Africana previsto per questa settimana. Il tema centrale dell’evento sarà l’istituzione di un mercato unico africano, ispirato al modello comunitario europeo. 20 marzo. Amnesty International ha accusato l’esercito nigeriano di aver ignorato i ripetuti avvertimenti inerenti un probabile ed imminente attacco di Boko Haram nella cittadina di Dapchi, dove sono state rapite 110 studentesse lo scorso 19 febbraio. 21 marzo. 101 delle 110 ragazze rapite a febbraio nella cittadina di Dapchi sono state

Il 17 marzo scorso l’ENI ha avviato un nuovo punto di produzione del petrolio nelle acque dell’Angola, congiuntamente alla Sonangol, la compagnia petrolifera locale. Dal 1980, ENI è attiva in Angola nel settore Exploration & Production; il governo, da fine anni 70, ha aperto la ricerca di idrocarburi alle compagnie petrolifere straniere. L’Angola, Paese in cui quasi metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, è il secondo produttore africano di petrolio, subito dopo la Nigeria. Secondo l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) circa il 45% del prodotto interno lordo dell’Angola proverrebbe dal settore del petrolio e del gas, che rappresenterebbe più del 95% delle esportazioni (un’altra proficua esportazione sono i diamanti). Mentre dai primi anni 2000 fino al 2014 l’Angola ha potuto enormemente beneficiare degli alti prezzi del petrolio (circa 100 dollari a barile), raggiungendo una crescita annua media del PIL pari al 10,3%, da quattro anni a questa parte la situazione è molto diversa, con un incremento del PIL che nel 2017 si è posizionato all’1,5%. Da fine 2014, ha avuto inizio,

infatti, una recessione economica dovuta ad una graduale diminuzione del prezzo dell’oro nero: ad inizio 2016, il prezzo del petrolio è sceso sotto i 30 dollari al barile, per poi raggiungere di recente i 62 dollari circa. Inoltre, nonostante l’enorme potenziale agroalimentare (circa 53 milioni di ettari di terre coltivabili), il settore agricolo nel 2017 ha rappresentato solo l’11% del PIL, costringendo il Paese ad importare gran parte del proprio fabbisogno alimentare. Ciò è dovuto principalmente alla mancanza di infrastrutture e competenze specifiche nonchè ad un impianto legislativo che non incoraggia gli investimenti privati in settori diversi da quello petrolifero. Nell’agosto del 2017, infine, le elezioni presidenziali hanno portato ad un cambio di leadership: Josè Eduardo dos Santos, al potere dell’ex colonia portoghese dal 1979, ha ceduto il posto a João Lourenço, mantenendo quindi al potere il Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola, partito di cui entrambi fanno parte. La scommessa economica dell’Angola, dunque, si gioca su queste decisive sfide: ridurre la dipendenza dal petrolio, diversificare l’economia, sviluppare le infrastrutture e migliorare la gestione delle finanze pubbliche.

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AFRICA liberate dai miliziani di Boko Haram. Il governo ha negato di aver pagato un riscatto.

L’ “INCONCEPIBILE” MISSIONE ITALIANA NEL SAHEL L’improvviso voltagabbana del governo Nigerino

RWANDA 21 marzo. 44 Stati membri dell’Unione Africana hanno firmato l’AfCFTA, accordo commerciale intra-africano, avente come oggetto l’istituzione di un unico mercato continentale. L’AfCFTA, con l’obiettivo di liberalizzare il commercio tra gli Stati africani, entrerà in vigore tra sei mesi. SUDAFRICA 16 marzo. Jacob Zuma, ex Presidente del Sudafrica, è stato formalmente accusato di corruzione, abuso d’ufficio, associazione a delinquere e di riciclaggio di denaro sporco. I capi di imputazione si fondano sui rapporti intrattenuti da Zuma con la società francese e produttrice di armi, Thales, nel corso della riforma degli anni Novanti relativa al settore della difesa nazionale. ZIMBABWE 15 marzo. Dopo quattro mesi di silenzio mediatico, Robert Mugabe ha definito il golpe di velluto che lo ha deposto, nel novembre 2017, come “illegale e incostituzionale”. Nella stessa intervista ha, inoltre, dichiarato che lo Zimbabwe non si meriterebbe un tale crimine, esortando al suo annullamento. A cura di Barbara Polin

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Di Francesco Tosco Dall’Italia, il Niger si aspettava esperti, non soldati: questo è quanto le parole del Ministro dell’Interno di Niamey hanno fatto intendere nel corso di un’esclusiva di Rai News datata 9 marzo. Mohamed Bazoum ha infatti giudicato “inconcepibile” lo stanziamento di militari italiani sul suolo nigerino e, inoltre, ha affermato che il governo di Niamey è venuto a conoscenza del lancio della missione italiana nel mese di gennaio tramite i media, mentre non ci sono mai stati contatti i ufficial tra i rispettivi Governi. Queste affermazioni creano non poca confusione. Dagli i atti ufficial risulta che il 26 settembre scorso la ministra della Difesa Roberta Pinotti abbia incontrato il suo corrispettivo nigerino Kalla Moutari per discutere di un’eventuale impiego di forze militari nel Paese. In seguito, due lettere sono pervenute al Parlamento italiano: la prima a novembre 2017 e la seconda a gennaio 2018. Con esse le autorità del Niger chiedevano all’Italia una cooperazione sotto forma di “addestramento per il controllo dei confini”. Il 17 gennaio il Parlamento italiano, sulla scorta di tale richiesta, ha votato a maggioranza l’approvazione del dispiegamento di forze nel Paese africano, con l’intenzione di contribuire alla lotta al

terrorismo e di contrastare il i traffico di migrant nella turbolenta e strategica regione del Sahel. Il contingente militare approvato dalla Camera dovrebbe contare 470 soldati, più svariati mezzi militari, per un costo complessivo di 50 milioni di euro nel 2018. Le truppe italiane si sarebbero dovute stanziare in parte minore nella capitale, Niamey, e in parte maggiore in un remoto fortino della regione settentrionale di Agadez, a 100 chilometri dal confine sud della Libia. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano, già a febbraio, aveva chiarito che, dopo l’approvazione del Parlamento italiano, non restava che attendere il via libera di quello nigerino. Inatteso, invece, è sopraggiunto quello che alcuni hanno considerato un repentino cambio di opinione del governo di Niamey, così improvviso e radicale da far sorgere sospetti su presunte pressioni di Parigi per impedire la missione italiana. I militari sarebbero comunque dovuti sbarcare nella regione come subalterni rispetto ai 4.000 militari francesi già presenti nell’area, inviati a difendere i propri interessi nel Paese, a partire dall’uranio, al quale attinge la società francese Areva nel coprire il 30% del fabbisogno per il funzionamento delle centrali nucleari di tutta la Francia.


AMERICA LATINA 7 Giorni in 300 Parole BRASILE 21 marzo. Norsk Hydro, compagnia norvegese accusata di aver contaminato il fiume Para attraverso le emissioni della fabbrica di alluminio situata nel nord del Brasile, porge le proprie scuse. Ammesse le responsabilità per l’accaduto anche dallo stesso amministratore delegato, Svein Richard Brandtzæg. BOLIVIA- CILE 15 marzo. I delegati dei due Paesi si sono incontrati davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. L’obiettivo della Bolivia sarebbe quello di ottenere uno sbocco sul mare, del quale è priva dal 1884, anno in cui venne sconfitta dal Cile nella Guerra del Pacifico. I delegati dei due Paesi avranno modo di far valere le proprie ragioni nelle settimane a venire. COLOMBIA 15 marzo. Il governo colombiano ha lanciato un progetto per togliere tre zeri dal Peso colombiano. 1000 pesos verranno convertiti in 1 peso. “Faciliterà la vita a tutti. Sarà più facile la contabilità per le imprese e i prezzi sui menù per i turisti saranno più chiari”, dichiara il ministro Mauricio Cárdenas. Se il Parlamento dovesse approvarlo, entrerebbe in vigore, gradualmente, a partire dal 1 gennaio 2019.

MESSICO 19 marzo. Amnesty International ha dichiarato che “il modo in cui vengono portate avanti le indagini penali in Messico deve essere riformato con urgenza”. La dichiarazione della ONG segue

ARGENTINA: INVESTIMENTI E CRISI IN VENEZUELA SUI BANCHI DEL G20 In agenda discussioni su lavoro, investimenti e la crisi in Venezuela

Di Riccardo Gemma Ha aperto il 19 marzo a Buenos Aires il G20 finanziario, due intensi giorni di riunione degli esponenti delle maggiori economie del mondo per discutere dei più importanti argomenti in materia di tassazione e investimenti. Si sono ritrovati in Argentina Ministri ed esperti di finanza per trattare le sfide e le problematiche più pressanti del momento: lavoro e infrastrutture, ma anche criptovalute, web-tax e il libero commercio, in particolar modo dopo l’annuncio del presidente americano Trump di imporre pesanti dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio. L’Argentina, dopo anni di relativa chiusura ai mercati esteri, attraversa un delicato periodo di riforme proiettate a liberalizzare l’economia e riguadagnare la fiducia degli investitori e degli economisti. D’altro canto però, la politica promossa dal presidente Macri ha creato attriti e preoccupazioni entro i confini. La riforma del lavoro voluta dal Governo, mirata ad abbassare il costo delle prestazioni lavorative e attrarre così maggiori investimenti esteri, è da molti vista come un attacco a quei benefici che sono alla base di

un sistema di welfare, comegli indennizzi in caso di incidenti sul lavoro. Dal punto di vista delle infrastrutture, tema fondamentale al G20 in quanto investimenti dal solido ritorno, la situazione in Argentina è legata a doppio filo con la condizione delle reti di trasporto e di distribuzione dell’energia. Il Tesoro argentino intende investire nel 2018 circa l’1,9% del PIL in progetti a partecipazione pubblico-privata (PPP), tra cui la creazione di oltre 5000 km di strade e la costruzione della centrale a energia solare Cauchari, la più grande centrale fotovoltaica dell’America Latina. In seno alle discussioni tenute al G20, è stata poi trattata la questione della crisi economica in Venezuela: una decina di Paesi si è accordata per richiedere al Fondo Monetario Internazionale di provvedere assistenza agli oltre due milioni di venezuelani che hanno lasciato lo Stato per via delle difficili condizioni di vita. I soldi stanziati dovrebbero essere direttamente devoluti ai Paesi che accolgono gli emigrati,in primis la Colombia che da sola ha registrato oltre 340.000 ingressi.

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AMERICA LATINA il rapporto dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani, nel quale si afferma la loro violazione durante delle indagini portate avanti nel 2014. In quell’occasione, ricordata come “la strage di Iguala” a seguito di un attacco della polizia, si decretò la scomparsa di 43 studenti della scuola di Ayotzinapa e l’uccisione di altre 6 persone tra studenti e soggetti presenti sul posto.

L’ASSASSINIO DI MARIELLE FRANCO SCUOTE IL BRASILE La morte della consigliera comunale mette in luce le problematiche della sicurezza del Paese

Di Elisa Zamuner

PERÙ 21 marzo. Pedro Pablo Kuczynski ha presentato le sue dimissioni dalla presidenza del Paese, anticipando di un giorno la mozione di sfiducia. Sarebbe stata votata il 22 marzo dal Parlamento. La causa sarebbe riconducibile al coinvolgimento del Presidente nello scandalo Odebrecht, la più grande indagine per corruzione nella storia dell’America Latina, che congela da mesi l’economia peruviana. VENEZUELA 20 marzo. Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che vieta agli Stati Uniti e ai suoi cittadini di comprare e vendere il Petro. Il Dipartimento del Tesoro statunitense ha, infatti, dichiarato che il Petro, la criptomoneta voluta da Maduro, sarebbe illegale, in quanto non approvata dal Parlamento venezuelano e sarebbe finalizzata ad evitare le sanzioni commerciali. A cura di Davide Mina 16 • MSOI the Post

Giovedì 15 marzo è stata uccisa Marielle Franco, consigliera comunale di Rio de Janeiro, famosa per il suo ruolo di attivista per i diritti umani e per le sue battaglie contro le ingiustizie sociali e le discriminazioni razziali e di genere. La donna, esponente del Partido Socialismo y Libertad (PSOL) stava tornando a casa insieme al suo autista quando sono stati assassinati con dei colpi di pistola provenienti da un’auto in corsa. Marielle Franco è nata e cresciuta a Marè, una favela a nord di Rio particolarmente colpita dalla recessione del Paese e nota per l’alto tasso di povertà e criminalità: sovente avvengono scontri tra polizia e gang locali. La consigliera conosceva bene tali problematiche e le aveva portate al centro della sua agenda politica. In particolare, aveva sempre criticato gli interventi dei poliziotti locali e aveva espresso le sue preoccupazioni riguardo l’impiego dell’esercito nelle strade da parte del presidente Temer. Secondo Marielle questa scelta non faceva altro che alimentare le grandi tensioni all’interno della città. Due giorni prima la sua morte

aveva pubblicato un tweet in cui denunciava la morte di un parroco del quartiere, ucciso dalle forze di polizia. La notizia ha avuto un forte impatto sulla popolazione brasiliana, con migliaia di persone che sono scese in strada per esprimere il loro rammarico e denunciare l’escalation di violenza nel Paese. Il numero di omicidi, molto spesso impuniti, è aumentato negli ultimi anni; solo nel mese di gennaio, infatti, sono state uccise circa 50 persone note per le loro polemiche verso le forze armate. Diversi partiti del Paese si sono uniti nel condannare con fermezza il gesto efferato e l’ex presidente Lula ha invitato l’esercito a dare delle spiegazioni riguardo la vicenda. Anche El Globo, giornale di stampo conservatore, ha espresso la necessità di aprire un dialogo riguardo quanto avvenuto, in modo da poter ripristinare lo stato di diritto nel Paese. Infine, non sono mancate delle forti reazioni anche dalla comunità internazionale; Amnesty International ha parlato di “omicidio mirato” e ha chiesto al Governo brasiliano di condurre delle indagini serie e adeguate.


ECONOMIA IL G20 SI SCHIERA CONTRO I DAZI

Il commercio internazionale al centro del 13° Forum dei ministri

Di Alberto Mirimin Si è tenuto a Buenos Aires, lo scorso 20 marzo, il 1° meeting del G20 2018, ossia il forum annuale dei Ministri delle Finanze e dei Governatori delle banche centrali, che si pone l’obiettivo di “favorire l’internazionalità economica e la concertazione tenendo conto delle nuove economie in sviluppo”. Tale convegno si è svolto in un momento cruciale per i leader mondiali, poiché antecedente di soli 3 giorni all’entrata in vigore delle tariffe statunitensi sulle importazioni di alluminio (10%) e acciaio (25%) imposte da Donald Trump. Data l’estrema rilevanza della questione, l’argomento principale dell’incontro è stato proprio il commercio internazionale, sebbene nessuno abbia voluto citare direttamente la decisione statunitense di avviare una politica protezionistica. Fra gli esponenti europei, a prendere la parola è stato soprattutto il Commissario Europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, il quale ha affermato che le politiche protezionistiche sono il rischio maggiore per le prospettive economiche e per la crescita globale, cercando poi di creare un clima disteso sottolineando che “tutti stanno

cercando un modo per colmare le differenze e trovare un terreno comune, specialmente sul fronte commerciale”. Particolarmente significative sono state poi le parole del Direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, che ha definito inutili le barriere commerciali, ribadendo il bisogno di “evitare la tentazione di politiche pensate per fare bene solo all’interno di una nazione ma, piuttosto, lavorare insieme per risolvere i disaccordi commerciali senza ritornare a misure eccezionali”. In generale, comunque, i Ministri delle Finanze e i banchieri delle 20 principali economie al mondo hanno ribadito all’unanimità l’impegno nella lotta contro il protezionismo e riconosciuto la necessità di ulteriore dialogo e più interventi sul commercio. Il punto di vista statunitense è stato, invece, rappresentato dal Segretario del Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin, il quale non ha lasciato alcun varco per un’ipotetica trattativa in merito ai dazi sulle importazioni. Al contrario, egli ha affermato la necessarietà di azioni nell’interesse degli USA in vista di un commercio giusto e reciproco, precisando inoltre che il go-

verno statunitense non sta cercando di essere protezionista e non ha paura di una guerra commerciale, sebbene non sia quello il loro obiettivo. Nel corso del meeting, tuttavia, i discorsi non si sono esauriti con quanto appena descritto. Infatti, i leader internazionali hanno anche discusso approfonditamente circa l’introduzione di una tassa sui proventi dei colossi tecnologici (web tax), impegnandosi a trovare una soluzione efficace entro il 2020. Per scongiurare ‘malumori’ americani, i proponenti (perlopiù europei) hanno comunque voluto precisare che si tratta di una manovra che considera i giganti digitali nel loro insieme, a prescindere dalla loro nazionalità. Infine, un altro argomento importante è stato quello delle criptovalute, le quali, secondo quanto affermato dai rappresentanti internazionali, non realizzano le funzioni chiave di una moneta sovrana, oltre a implicare rischi per la stabilità finanziaria. I ministri, quindi, hanno congiuntamente invitato le istituzioni del settore a “continuare a monitorare le cripto-attività e i loro rischi e a valutare una risposta multilaterale, se necessario”. MSOI the Post • 17


ECONOMIA I FERROVIERI FRANCESI SI OPPONGONO ALLA RIFORMA DELLA SNCF

I francesi sono divisi sul futuro che il governo intende riservare alle ferrovie

Di Giacomo Robasto Sebbene Emmanuel Macron abbia riscosso, il 20 marzo scorso, un consenso notevole presentando il ‘Grand plan pour la Francophonie’, che mira a dare nuovo impulso alla francofonia nel mondo, i prossimi giorni potrebbero essere tra i più complicati del suo mandato. Il presidente francese, infatti, nei mesi scorsi si è reso promotore di una riforma radicale della SNCF (Société nationale des chemins de fer), gruppo pubblico al 100% che gestisce il sistema ferroviario francese in regime di monopolio sin dal 1937. Della necessità di un cambiamento per il colosso francese delle ferrovie si è molto dibattuto in passato, ma con Macron sembra che la questione sia finalmente a un punto di svolta. Le ragioni della riforma si riconducono principalmente al forte indebitamento, la cui origine risale già agli anni Novanta del secolo scorso e che è aumentato a dismisura negli ultimi anni, attestandosi a 54,5 miliardi di euro nel 2017. A partire dal 1981, quando fu inaugurata la linea ad alta velocità tra Parigi e Lione, lo Stato ha promosso la costruzione di numerose linee ad alta velocità (tra cui la

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Parigi-Bordeaux, inaugurata a luglio 2017), che hanno portato la Francia a vantare oltre 2750 km di binari veloci, formando la rete più estesa d’Europa. Tali investimenti, uniti all’acquisto del materiale rotabile, pur avendo giovato all’economia rendendo i collegamenti rapidi ed efficienti, nel lungo termine hanno anche aumentato il debito del gruppo, poiché SNCF Réseau (società del gruppo che possiede e gestisce l’infrastruttura ferroviaria) non riesce puntualmente a coprire totalmente i costi di esercizio e manutenzione della rete, accollandosi 41 miliardi di debiti sul totale. In tal senso, la riforma del gruppo ferroviario intende, da un lato trasformare la SNCF da ente pubblico speciale in una società per azioni, imponendo vincoli più stretti riguardo all’indebitamento. Dall’altro, intende abolire il cosiddetto ‘Statut des cheminots’ per i nuovi dipendenti, motivo per cui ieri e oggi (23 marzo, ndr) è previsto uno sciopero generale dei lavoratori del settore, con una partecipazione attesa a livelli altissimi. Lo statuto degli cheminots (i ferrovieri francesi), concepito

nel 1938, è il complesso di norme che regola le condizioni di lavoro dei dipendenti SNCF, vero oggetto del dibattito attuale, poiché ritenuto da molti anacronistico e portatore di privilegi ingiustificati, che nel settore privato sono ormai scomparsi da decenni. Esso, a due anni dall’assunzione del dipendente, prevede un contratto di lavoro a vita, scatti di anzianità automatici nel corso della carriera, età di pensionamento tra i 52 e i 57 anni, e un regime pensionistico retributivo, calcolato cioè sul salario percepito negli ultimi 6 mesi e in parte sovvenzionato dallo Stato. Oltre a biglietti ferroviari gratuiti (o quasi) a beneficio del dipendente e dei suoi familiari. Se si pensa che in Italia il sistema pensionistico retributivo è stato abbandonato nel 1995, quando la riforma delle pensioni promossa da Lamberto Dini lo soppresse, si coglie l’urgenza di un aggiornamento normativo per le ferrovie francesi, che portino la SNCF non solo ad affrontare le sfide del terzo millennio, ma anche a essere più competitiva in vista del 2019, quando il trasporto ferroviario ad alta velocità sarà liberalizzato e, di fatto, aperto alla concorrenza.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LE FILIPPINE ANNUNCIANO IL RITIRO DALLO STATUTO DI ROMA Quali ripercussioni sulla CPI e sulla popolazione dell’arcipelago?

Di Elena Carente Lo scorso 14 marzo il Presidente filippino Rodrigo Duterte ha annunciato il ritiro delle Filippine dal Trattato di Roma, trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale. Questa decisione è conseguenza dell’inchiesta, avviata a febbraio dal tribunale dell’Aja, sulla campagna contro la droga e i trafficanti di Duterte. Il Presidente, sin dalla sua elezione nel 2016, aveva infatti promesso di sradicare la piaga della droga dall’arcipelago. Tuttavia, questa sua battaglia sembra aver causato più di 4.000 vittime tra trafficanti e tossicodipendenti uccisi dalla polizia. Si tratta di un bilancio che, secondo le ONG a tutela dei diritti umani, sarebbe in realtà molto più alto. L’esame preliminare avviato dalla Corte ha lo scopo di determinare se la stessa CPI ha giurisdizione sui fatti addebitati al Presidente Duterte. Alla fine di questa fase, la Corte dovrà decidere se aprire un’indagine (o archiviare il caso) e, in seguito, valutare se i crimini commessi nelle Filippine sono crimini contro l’umanità o crimini di

guerra. Il Presidente, accusato di aver appoggiato e incoraggiato il massacro, ha fortemente contestato la scelta del Tribunale di mettere le Filippine sotto esame preliminare. Secondo Duterte, la CPI viene utilizzata come strumento politico contro le Filippine, in particolare contro il suo Governo e la sua persona, e ritiene che le presunte azioni a suo carico non costituiscano genocidio né crimini di guerra in quanto le morti sono avvenute durante operazioni di polizia legali e non premeditate. Il presidente dell’Assemblea degli Stati parte alla CPI, O-GonKwon, ha espresso la sua preoccupazione in risposta all’annuncio di Duterte di ritirare le Filippine dal Trattato di Roma. Secondo Kwon, la CPI ha bisogno del forte sostegno della comunità internazionale per garantire l’efficacia del suo funzionamento e il ritiro di uno Stato parte dallo statuto di Roma avrebbe, al contrario, un impatto negativo sugli sforzi collettivi per combattere l’impunità. Kwon ha inoltre ricordato che le Filippine hanno partecipato attivamente all’Assemblea degli Stati parte alla CPI sin da quando hanno ratificato lo statuto di

Roma nel 2011, e che nel dicembre 2017 hanno pubblicamente riaffermato il loro sostegno ai principi dello Statuto e della Corte. Durante la seconda guerra mondiale le Filippine sono state teatro di crimini di guerra e di numerose altre atrocità. La popolazione ha assistito ad orribili barbarie anche in seguito alla dittatura e al conflitto armato interno. Non sorprende, dunque, che i filippini e le filippine abbiano difeso il paese e abbiano partecipato attivamente alla negoziazione e all’adozione dello statuto di Roma. Tuttavia, l’attuale mossa del presidente Duterte di ritirare il paese dalla CPI infrange le speranze di giustizia e responsabilità del popolo filippino. Così, il diritto di condannare i responsabili di violazioni dei diritti umani rischia di essere offuscato dalla mancata assunzione di responsabilità del presidente filippino. Va comunque sottolineato che ritiro di Duterte dallo Statuto della CPI non lo scagiona dalle accuse e dalle responsabilità, dal momento che il ritiro non sarà immediato. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LA STRATEGIA ISOLAZIONISTA AMERICANA

La “guerra dei dazi” di Trump e i suoi effetti sulla politica interna ed estera

Di Federica Sanna Il 23 marzo entreranno in vigore i dazi doganali annunciati dal presidente americano Trump: la misura prevede l’introduzione di una tassa del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% su quelle di alluminio. Se la decisione da un lato dimostra la coerenza del Presidente nel mettere in atto le politiche annunciate in campagna elettorale, dall’altra evidenzia la scarsa considerazione americana nei confronti del sistema commerciale internazionale e una miope visione economica e geopolitica del mondo. La decisione è stata assunta pensando agli effetti negativi sul mercato americano dell’importazione cinese, ma non è in realtà completamente chiaro chi siano i destinatari della misura: il Presidente ha annunciato flessibilità verso i Paesi alleati che sono disposti a trattare. Canada e Messico saranno esentati dall’introduzione dei dazi purché continuino i negoziati di riforma del NAFTA. Ai paesi della NATO, invece,non si applicheranno i dazi serispetteranno l’impegno di investire il 2% del PIL nella difesa. L’UE ha incontrato la delegazione americana per chiedere l’esenzione dalle misure protezionistiche,

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ma il fallimento del negoziato è stato dichiarato da Trump, il quale annuncia di essere disposto a far cadere le barriere doganali a patto che l’Europa faccia lo stesso con quelle sulle merci americane. L’introduzione dei dazi minaccia un equilibrio multilaterale faticosamente costruito nei decenni passati: la conclusione di accordi commerciali a livello internazionale forse non è stata capace di assicurare una piena ed equa crescita economica globale, ma ha contribuito in larga misura al mantenimento della governance democratica e della pace mondiale. La strategia di Trump rischia di compromettere questo risultato perché favorisce una politica di minacce, ritorsioni e rappresaglie invece di affidare la risoluzione dei problemi economici agli appositi forum internazionali, quali il WTO. Non si tratta in realtà della prima volta in cui gli Stati Uniti decidono di introdurre dazi doganali, ma esiste una sostanziale differenza nella politica di Trump rispetto ai presidenti precedenti: l’utilizzo della retorica “win at all costs”, secondo la quale la politica internazionale è un gioco a somma zero che prevede che gli altri paesi si arrendano alla supremazia americana.

La decisione non è inoltre esente da conseguenze a livello interno. L’obiettivo è proteggere le aziende e i lavoratori nazionali dall’eccesso di capacità produttiva globale, dovuta all’utilizzo dei sussidi statali e causa di situazioni di dumping che necessitano di misure di sollievo temporaneo. L’analisi non può dirsi errata nei suoi principi: la globalizzazione non ha avuto sempre un’influenza positiva sulla classe operaia ed è necessario riequilibrare le situazioni di concorrenza sleale. Alla prova dei fatti, però, il protezionismo si rivela dannoso per i nazionali: se le poche imprese che producono acciaio e alluminio incrementeranno la produzione e assumeranno personale, la maggior parte delle industrie americane, che non producono ma utilizzano i due elementi, spesso di importazione, sarà al contrario danneggiata dall’aumento dei costi della materia. Si stima che la misura creerà circa 33.500 impieghi nella siderurgia ma causerà la perdita di 179.300 posti di lavoro negli altri settori coinvolti. Ancora una volta, le conseguenze delle guerre commerciali internazionali in nome del protezionismo cadono soltanto sugli ultimi.


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