MSOI thePost Numero 91

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

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N u m e r o

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EUROPA DE WEVER E LA STRETTA DELL’ESTREMA DESTRA BELGA SUI MIGRANTI Il leader dell’estrema destra N-VA pone un “aut aut” al governo belga

Di Simone Massarenti Il dibattito politico in Belgio circa la questione migranti si fa sempre più aspro. Le dichiarazioni del leader della New Flemish Alliance (N-VA), Bart De Wever, hanno infatti alimentato le polemiche sulla questione dell’accoglienza dei migranti, da mesi al centro del dibattito politico. De Wever ha affidato alle pagine del De Morgen, quotidiano in lingua fiamminga, la sua riflessione e critica circa la politica di accoglienza adottata dalla sinistra, da lui definita una “sottile forma di ricatto”, che potrebbe portare al totale degrado del benessere del Paese. Il richiamo ai politici è chiaro: l’interesse dei cittadini deve prevalere sulla coscienza personale. La posizione del leader, considerato tra i più influenti del Paese, è stata ribadita dal ministro Jan Jambon, appartenente al medesimo partito, il quale ha affermato ai microfoni di RTBF che “la presenza dei migranti non è un problema, ma coloro i quali scelgono di vivere illegalmente si”. Queste dichiarazioni si ricollegano, in particolare, alle

azioni di controllo operate dalla polizia, che a quanto pare sarebbero state autorizzate proprio da Jambon, contro i migranti senza documenti. A proposito di tale avvenimento, la fuga di notizie circa i piani del Ministro di attuare azioni di intercettazione dei migranti per degli interrogatori, trapelate lo scorso venerdì, ha provocato la dura reazione della piattaforma dei cittadini per l’accoglienza dei migranti che, nella giornata di domenica, hanno organizzato un cordone umano di circa 3.000 persone nella zona di Maximilien Park e della Gare du Nord. La polizia, nella giornata di domenica, ha comunque condotto l’operazione a Bruxelles effettuando controlli nelle stazioni e sui treni da e per la capitale. Il Brussels Time riporta di 17 persone fermate e interrogate, 4 delle quali portate in un centro di detenzione. La polizia, inoltre, ha aperto un’indagine interna per individuare gli artefici di tale fuga di notizie, in quanto, come riporta sempre il quotidiano belga, “gli agenti sono legati al segreto professionale”, secondo le dichiarazioni dello stesso Jambon. Durissime

reazioni

sono

sopraggiunte da parte delle opposizioni; la Ligue des droits de l’Homme, tra le righe del quotidiano Le Soir, ha denunciato la “logica binaria” assunta da Bart De Wever, la quale alimenta lo spettro della paura. Alexis Deswaef, presidente della Lega, ha affermato come De Wever utilizzi la questione migratoria come slogan politico, definendo impossibile la comparazione della situazione di Calais con quella di Bruxelles, essendo le cifre imparagonabili. Tali dichiarazioni sono state inoltre confermate e seguite dalle dichiarazioni di Mehdi Kassou, portavoce della piattaforma dei cittadini a sostegno dei rifugiati, il quale ha affermato che “Bart De Wever è prigioniero di una visione monomaniaca della questione migratoria, ma si renda conto che, al giorno d’oggi, il vento è cambiato e non ha più seguito”. A ciò, inoltre, si aggiunge la presentazione, da parte di Medici del Mondo, di molte testimonianze di migranti vittime di brutali violenze da parte della polizia, notizia naturalmente smentita da Jambon il quale ha dichiarato che è già stata aperta un’indagine sul caso. MSOI the Post • 3


EUROPA IL BUNDESTAG VERSO UNA GERMANIA EUROPEA I delegati del SPD sono favorevoli alla terza GroKo

Di Rosalia Mazza Il 24 settembre 2017 gli elettori tedeschi hanno votato per il nuovo Parlamento. I risultati hanno visto prevalere l’Unione CDU/CSU (246 seggi). A seguire, SPD (153 seggi), AfD (94 seggi), FDP (80 seggi), La Sinistra (69 seggi) e i Verdi (67 seggi). Angela Merkel, leader dell’Unione CristianoDemocratica (CDU), è stata riconfermata cancelliera per la quarta volta, ma nonostante l’Unione CDU/CSU abbia prevalso, si tratta del risultato più basso ottenuto negli ultimi 60 anni. Ha stupito, invece, il risultato ottenuto dal partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD), che in soli 4 anni è diventato il terzo partito tedesco. Neanche per il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) i risultati sono stati confortanti, poiché ha perso 40 seggi rispetto alle elezioni del 2013. In seguito alle elezioni, la cancelliera Merkel, decisa ad ottenere un governo di maggioranza per garantire stabilità alla Germania, ha proposto la cosiddetta “Coalizione Giamaica”, che prende questo nome dai colori dei partiti che avrebbero dovuto 4 • MSOI the Post

farne parte, gli stessi della bandiera giamaicana: il nero dell’Unione CDU/CSU, il giallo del Partito Democratico Libero (FDP) e il verde dei Verdi. Tale coalizione si è resa necessaria in seguito alla defezione del SPD dalla cosiddetta “GroKo” (Grosse Koalition), la “grande coalizione” tra l’Unione e il Partito Socialdemocratico Tedesco che aveva reso possibile un governo di maggioranza in seguito alle elezioni del 2005 e del 2013. Il 19 novembre 2017 Christian Lindner, leader del partito liberale, ha dichiarato che il suo partito non avrebbe fatto parte della Coalizione Giamaica. Esistono di fatto divergenze significative, riguardanti soprattutto l’immigrazione e la gestione dell’industria energetica, tra i membri della potenziale alleanza. In seguito al fallimento della Coalizione Giamaica, si sono riaperte le trattative con il SPD. Raggiunto un pre-accordo tra l’Unione e Martin Schulz, leader dei socialdemocratici, i delegati di partito del SPD si sono riuniti in un congresso straordinario a Bonn il 21 gennaio 2018 e la maggioranza ha votato a favore di una terza GroKo. Sebbene i socialdemocratici abbiano ottenuto importanti risultati riguardo alle pensioni e alla sanità, hanno

dovuto però cedere riguardo a un altro tema fondamentale: il tetto sui migranti, che il leader Schulz avrebbe voluto eliminare. Il SPD non ha dunque ottenuto tutte quelle concessioni che gli elettori si aspettavano: nonostante il partito abbia perso terreno proprio a causa delle precedenti coalizioni con l’Unione, ideologicamente avverso, dal punto di vista dei socialdemocratici la situazione non sembra essere variata, al punto da giustificare un’ennesima Grosse Koalition. Le ragioni alla base di questa inaspettata nuova grande coalizione sembrano avere radici più europee che nazionali. Come confermato dallo stesso Schulz, il presidente francese Emmanuel Macron ha espresso sollecitazioni in tal senso. I partiti di appartenenza di questi leader sono vicini al PSE (Partito Socialista Europeo) e il presidente francese Macron ha più volte sottolineato che un’ennesima GroKo avrebbe potuto condurre a una vicinanza maggiore tra Francia e Germania, nell’intento di innovare e rafforzare l’Europa. Bisogna però ancora attendere il risultato del referendum proposto ai tesserati del SPD, che si erano invece mostrati favorevoli all’idea di un partito di opposizione.


NORD AMERICA IL GOVERNO USA COSTRETTO A SOSPENDERE LE ATTIVITÀ STATALI PER TRE GIORNI La legge sui fondi governativi è stata bloccata dall’ostruzionismo democratico al Senato

Di Luca Rebolino Alla mezzanotte di venerdì 19 gennaio è iniziato lo “Shutdown” del governo federale statunitense. Tale evento ha significato la chiusura della maggior parte delle attività federali, le quali sono state sospese per mancanza di fondi. Al Senato, infatti, non è stata rinnovata l’apposita legge che stabilisce le destinazioni del budget per le spese governative, ora esaurito. L’ultima legge era scaduta lo scorso settembre, ma negli ultimi mesi al Congresso sono state votate una serie di proroghe temporanee, per cercare di arrivare ad un accordo risolutivo. Dopo alcune giornate di trattative, lunedì 22 gennaio si è arrivati ad un compromesso. Un’ulteriore legge di proroga per il finanziamento dei servizi pubblici è stata approvata e durerà fino all’8 febbraio. Ci saranno quindi tre settimane per trovare una soluzione definitiva. Nonostante i Repubblicani abbiano la maggioranza in entrambi i rami del parlamento, la legge è stata bloccata al Senato, dove è molto difficile ottenerne l’approvazione. Infatti, questa votazione richiede 60 senatori a favore, mentre i Repubblicani,

attualmente, occupano solo 51 seggi: il raggiungimento di un compromesso con i Democratici risulta quindi inevitabile, ma particolarmente arduo da ottenere. La situazione di forte polarizzazione, in cui si trova il Congresso, è dovuta alla questione relativa alla tutela dei Dreamers: sono circa 700.000 gli immigrati irregolari arrivati negli USA da bambini, che ora sono a rischio di espulsione, dopo l’abolizione da parte di Trump del DACA. In cambio della loro protezione, Trump chiede però misure più severe sull’immigrazione, tra cui nuovi fondi per la costruzione di una parte del muro lungo il confine messicano. Entrambi gli schieramenti, in questi giorni, hanno accusato la controparte di essere colpevole di eccessiva intransigenza. La forte opposizione del Partito Democratico è stata mal gradita da molti cittadini, perché ha portato alla paralisi totale di servizi e attività governative. Solo enti essenziali, come la Difesa e la Sicurezza Interna, hanno continuato a lavorare. Molte altre attività pubbliche, tra cui parchi nazionali, musei e biblioteche, invece sono rimaste chiuse per tre giorni. Agli occhi dell’elettorato è risul-

tato, quindi, che i Democratici si siano esposti troppo e abbiano tenuto in ostaggio l’intero apparato governativo, per fare pressione sul Partito Repubblicano. Trump li ha definiti “perdenti ostruzionisti”, che preferiscono aiutare gli immigrati clandestini invece di sostenere le forze di sicurezza che lavorano alla “pericolosa frontiera meridionale”. Ha anche minacciato di cambiare il regolamento con una “opzione nucleare”, in modo tale da rendere necessaria per l’approvazione della legge la sola maggioranza semplice dei senatori. Alla luce di quanto esposto, bisogna evidenziare che il merito di questa soluzione temporanea va attribuito ad una delegazione bipartisan, formata dai più moderati di entrambi i partiti. In questa condizione di particolare tensione si è aperta, quindi, una possibilità di negoziazione tra i due schieramenti. I Repubblicani hanno promesso di tenere in considerazione il reinserimento del DACA, in cambio di nuovi fondi per il controllo dell’immigrazione. La soluzione definitiva, da trovare in queste settimane, sarà molto complicata da raggiungere, ma non più rimandabile. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA COSTITUZIONE E IMMIGRAZIONE

Continua la battaglia della società civile contro i travel ban dell’Amministrazione Trump

Di Leonardo Veneziani Uno degli punti principali e più gettonati della campagna elettorale di Donald Trump era lo stop all’immigrazione clandestina. Di tale proposta facevano parte, tra le altre promesse, la costruzione del famoso muro al confine con il Messico e, soprattutto, il Travel Ban. Quest’ultimo, varato dall’Amministrazione Trump nel gennaio del 2017, impediva ai cittadini di Iraq, Siria, Iran, Yemen, Somalia, Sudan e Libia l’ingresso negli Stati Uniti per 90 giorni, oltre ad proibire indefinitamente l’ingresso ai rifugiati siriani. Appena varato, l’ordine esecutivo scatenò numerose proteste e confusione generale negli aeroporti statunitensi. Successivamente, il travel ban fu poi bloccato dalla Corte Suprema. Due mesi dopo fu emanato un nuovo ordine revisionato da cui sparì l’Iraq e il divieto per i rifugiati siriani, e fu lasciato in parte in vigore dalla Corte Suprema, in attesa di giudizio. Inoltre, a tale ordine furono ag-

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giunti i cittadini nord coreani e zioni politiche e sociali. L’Amealcuni ufficiali del governo vene rican Civil Liberties Union zuelano per via dei tesi rapporti afferma però che, al contrario, bilaterali con questi due Paesi. trattandosi di un atto discrimiLa Corte si è riservata di decide- natorio, dovrebbe essere annulre successivamente della validi- lato e che debba perciò termità legale di quest’ultimo trave nare “il tentativo del Presidente lban rivisto in giugno, accoglien- Trump di violare legaranzie do quindi l’appello del Presi- costituzionali di uguaglianza dente contro la decisione che religiosa e i principi base delle lo accusava di aver abusato dei nostre leggi sull’immigrazione”. suoi poteri. I detrattori di tale misura, difatti, affermano che il La Corte Suprema, con la noPresidente sia andato oltre i mina a giudice di Neil Gorsuch, poteri che la Costituzione gli presenta ora una maggioranza conferisce, che tale misura sia di orientamento conservatore, discriminatoria e che, pertan- che alza ulteriormente le proto, debba essere considerata babilità che l’ordine esecutivo nulla dalla Corte Suprema. venga dichiarato legale dalla Corte, e che pertanto rimanga in L’Amministrazione si è però giu- vigore. Tale sentenza, di consestificata affermando che l’ul- guenza, potrebbe sistemare una tima versione, ossia quella di volta per tutte l’aspetto legale di settembre, fu messa in atto dopo tale decisione. uno scrupoloso processo di Il presidente Trump, tramite analisi di ogni Paese compiu- il suo portavoce Raj Shah, si è to da alti ufficiali ed esperti di detto “soddisfatto” della desicurezza, e che, pertanto, può e cisione della Corte Suprema, deve essere considerata valida, affermando di “essere convinto in quanto lascia al Dipartimento che la Corte supporterà l’azione della Sicurezza Nazionale la di- legale e necessaria del Presiscrezionalità di aggiungere o dente per mantenere in sicurezrimuovere importanti restrizioni za i cittadini statunitensi”. in base al mutare delle condi-


MEDIO ORIENTE L’IRAN SCENDE IN PIAZZA

Il rischio di una rivoluzione sembra scongiurato, ma il Paese necessita riforme

Di Martina Scarnato L’anno nuovo per l’Iran è cominciato all’insegna delle proteste: già a partire dal 28 dicembre a Mashad, la seconda città più grande del Paese, migliaia di persone sono scese in piazza per esprimere il loro malcontento riguardo l’aumento del carovita e l’alto tasso di disoccupazione. Nei giorni successivi le manifestazioni si sono diffuse anche nelle altre città, fino alla capitale Teheran, assumendo un tono decisamente più politico: non sono mancati slogan che incitavano alla “morte a Khamenei” e atti di vilipendio ai simboli della Repubblica Islamica. Nonostante i ripetuti inviti delle autorità a non prendere parte a quelli che vengono ritenuti “raduni illegali”, le Guardie della Rivoluzione (Islamic Revolutionary Guard Corps, IRGC) hanno annunciato che i disordini erano stati completamente sedati soltanto domenica 7 gennaio. Secondo i dati sone sarebbero state arrestate. Un membro del Parlamento di Teheran, Mahmoud Sadeghi, ha però dichiarato che gli arresti sarebbero stati circa 3700 e che vi sarebbero circa 21 vittime. La Guida Suprema Ali Khamenei ha puntato il dito contro

quelli che, secondo lui, sarebbero i nemici della nazione, una sorta di “triangolo” formato da un lato da Israele e dagli Stati Uniti, accusati di aver fomentato le proteste via social network, dall’altro dai Paesi del Golfo e infine dai Mojahedin-e Khalq (MEK), un movimento di opposizione alla Repubblica Islamica attualmente guidato da Maryam Rajavi, la quale ha supportato le proteste. Non è la prima volta che la gente scende in piazza per protestare contro il governo: tra le proteste più recenti figurano quelle del 2009, a seguito della rielezione del presidente in carica Mahmud Ahmadinezhad. Le recenti proteste sono le più grandi e violente verificatesi da allora. È difficile prevedere che cosa accadrà ora, ma alla luce dei fatti sembra improbabile che tali proteste possano assumere il volto di una vera e propria rivoluzione. ufficiali, 450 per Nel 2009 il detonatore delle proteste era stata la presenza di brogli elettorali che avevano favorito Ahmadinezhad.Esse erano state organizzate dai sostenitori dei riformisti schierati dietro a dei leader precisi, come il candidato riformatore Mir Hossein Mousavi.

Le proteste di dicembre, invece, appaiono più indefinite, poiché non sono emersi dei veri e propri leader capaci di guidarle in maniera organizzata. Oltre alla mancanza di una leadership politica ben definita, è mancato il coinvolgimento delle classi medie, dato che la maggior parte dei manifestanti apparteneva ai ceti più indigenti. Inoltre, al centro degli slogan è figurato anche il presidente riformatore Rouhani, accusato di aver implementato una politica fiscale restrittiva, controbilanciata da un aumento dei fondi destinati alle IRGC e all’esercito. Per concludere, se ancora è presto per parlare di rivoluzione, è però auspicabile che il governo non ignori del tutto le proteste. Il presidente Rouhani dovrà essere capace di convincere la Guida Suprema di permettergli di implementare un vero e proprio “intervento chirurgico” per rilanciare un’economia che fino ad ora non ha soddisfatto le aspettative del Paese, poiché oppressa, tra le altre cose, da un sistema bancario inefficiente, investimenti inadeguati, corruzione diffusa e disoccupazione alta (circa al 12,4%), mentre si riaffaccia lo spettro di nuove possibili sanzioni americane. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE #OPOLIVEBRANCH

Side game sullo scacchiere siriano

Di Martina Terraglia Una delle maggiori preoccupazioni degli osservatori internazionali in Siria era rappresentata dal post-Daesh: cosa accadrà? Uno dei punti chiave della discussione è rappresentato dal Rojava, e pare che la resa dei conti non sia lontana. Il 20 dicembre la Turchia ha lanciato l’offensiva Olive Branch nella regione di Afrin, nella Siria nord-occidentale, contro le forze curde dell’YPG, al fine di “preservare la sicurezza della Turchia e l’integrità della Siria”, secondo quanto riportato da Associated Press. Background note: l’YPG è il braccio armato del siriano Partito dell’Unione Democratica (PYD), di matrice curda. All’YPG appartengono la maggior parte delle forze del movimento multietnico e multi-confessionale SDF, le Forze di Difesa Siriane. YPG, SDF e PKK (il partito curdo attivo in Turchia) sono da anni impegnati nella lotta al sedicente Stato Islamico in Siria, dove sono riusciti a riconquistare l’enclave del Rojava, che comprende 3 cantoni non territorialmente collegati, tra cui Afrin. Se la comunità internazionale riconosce il PKK come partito terrorista, la Turchia si spinge oltre, accomunando al PKK 8 • MSOI the Post

anche le altre forze curde citate, e si oppone alla possibilità di indipendenza del Rojava. Le forze internazionali appartenenti alle coalizioni anti-Daesh si sono espresse contro l’intervento turco a Afrin. Perchè l’attacco turco è così controverso? Innanzitutto, pare che la Turchia abbia mentito sui veri motivi dell’attacco: una delle ragioni addotte da Erdoğan, infatti, era la lotta al sedicente Stato Islamico. Ma la zona di Afrin è stata già liberata, il che renderebbe l’intervento turco un diretto attacco ai Curdi. Non va poi dimenticato che YPG e SDF rappresentano le principali forze locali nella lotta a Daesh, al punto di ricevere supporto economico, logistico e tattico dagli Stati Uniti. Le forze curde sono riuscite a creare un’area relativamente sicura, che rischia di essere nuovamente destabilizzata da questi attacchi. Un ulteriore problema è rappresentato dal coinvolgimento della Russia. Mosca ha sempre appoggiato il presidente Assad, ma al tempo stesso ha espresso simpatie per l’YPG, nonostante le critiche della Turchia. Se da un lato il conflitto ha rappresentato un terreno fertile per un riavvicinamento tra Turchia e Russia, è anche vero che YPG

e Russia avevano raggiunto un accordo per un monitoraggio pacifico della regione di Afrin. Relazioni positive con le forze curde potevano essere intese come volte a diminuire l’influenza americana sulla regione, ma potrebbero essersi deteriorate: PYD e SDF accusano la Russia di non aver fatto nulla per impedire le azioni dell’Operazione Olive Branch, incolpandola di fatto degli eventi. Sebbene la Russia abbia cercato di distogliere l’attenzione dal suo ruolo incolpando gli Stati Uniti di essere le vere fonti di instabilità, è innegabile che osservatori russi erano presenti ad Afrin e non sono intervenuti. Nuovi confini e aree di influenza si stanno delineando sulle ceneri del sedicente Stato Islamico. La questione curda è uno dei punti di discussione più caldi, ma sembra che i Curdi non siano realmente parte di questa discussione. Chi lo è realmente? Gli Stati Uniti stanno diventando sempre meno influenti, mentre l’Europa ancora non lo è abbastanza. Rimangono Russia e Turchia, i cui interessi a volte sembrano coincidere, ma non sempre. Bisognerà attendere ancora per poter avere un’idea più chiara del futuro della Siria e dei suoi confine.


RUSSIA E BALCANI UN OMICIDIO CHE COMPROMETTE IL FUTURO DI PRISHTINA L’esponente della minoranza serba ucciso in Kosovo vicino alla sua abitazione

Di Andrea Bertazzoni Martedì 16 gennaio Oliver Ivanović, leader serbokosovaro di visioni moderate, è stato brutalmente assassinato con quattro colpi di pistola provenienti da una Opel Astra, trovata poco distante dal luogo dell’omicidio in fiamme e senza targhe.

dirimere la controversia. Anche la comunità schipetara sicuramente non amava Ivanović, condannato dalla Corte europea per l’omicidio di 10 albanesi nel 2014. La sentenza era stata poi ribaltata dai magistrati kosovari che avevano fissato un nuovo processo.

L’uccisione è avvenuta a Mitrovica Nord, in pieno territorio kosovaro, dove risiede però una numerosa comunità serba. Ivanović è stato colpito a pochi passi dall’ufficio del suo partito, vicino a quel ponte dove era solito riunirsi con i suoi sostenitori per denunciare la condizione dei serbi in Kosovo e per promuovere un dialogo con la componente albanese, verso la quale ha sempre manifestato rispetto e considerazione.

La sua morte non solo rappresenta la scomparsa di un attivissimo mediatore nella contesa Repubblica e di uno dei pochi serbi a conoscere la lingua albanese, ma ha causato inoltre l’interruzione dei colloqui tra Prishtina e Belgrado in merito alla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi, portati avanti a Bruxelles sotto l’egida dell’Unione Europea. Proprio il direttore dell’ufficio per il Kosovo e Metohija e capo della delegazione serba Marko Đurić ha annunciato la sospensione dei negoziati.

I responsabili dell’omicidio dell’“uomo del ponte”, secondo alcuni osservatori, non sarebbero però rappresentanti della compagine albanese in Kosovo, ma potrebbe trattarsi di un attacco di matrice serba. Ivanović, infatti, era ultimamente più inviso ai suoi connazionali, anche a causa delle ripetute critiche mosse all’indirizzo del governo di Belgrado in merito alle posizioni sulla questione kosovara e dei suoi tentativi di

L’accaduto complica non poco i piani delle istituzioni europee, sempre più convinte che solo l’allargamento dell’Unione verso l’aerea dell’ex Jugoslavia potrebbe garantire la possibilità di combattere le disuguaglianze, la criminalità e la corruzione nell’area balcanica. In questo senso, la presidenza in seno alla Commissione Europea del governo bulgaro, insediatosi il 1° gennaio, costituisce una mossa importante sulla

scacchiera est-europea, le cui pedine stanno diventando però sempre più fragili. Il commissario responsabile del processo di allargamento Johannes Hahn ha ripetuto più volte che l’auspicio di Bruxelles è quello di vedere Serbia e Montenegro entrare a far parte della famiglia europea entro il 2025, sottolineando che “è ora di finire il lavoro iniziato nel 1989”. In questo scenario ricoprono un ruolo importante anche il crescente euroscetticismo, soprattutto nella zona Euro, che non può non influire sulle speranze dei Paesi balcanici, oggi non più molto convinti di voler diventare membri della Comunità Europea, così come i mal di pancia legati all’allargamento della NATO, fenomeno che la Serbia, molto legata alla Russia di Putin e che ancora ricorda i bombardamenti degli anni ’90, non sembra voler tollerare. Dietro le quinte, intanto, si sono avviate le indagini per trovare l’assassino di Ivanović. Serbia e Kosovo hanno trovato un’intesa per condurre le ricerche di concerto e scambiarsi le informazioni, anche se, secondo molti commentatori, l’omicidio rimarrà impunito e la stagione delle nuove faide inter-etniche kosovare sarebbe già iniziata. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI ATENE-SKOPJE: VERSO UN ACCORDO? Primi passi di disgelo sul nome della Macedonia

Di Elisa Todesco Sebbene sui media italiani la notizia abbia avuto una scarsissima risonanza, questa e la prossima settimana verranno ricordate come date importanti per lo sblocco di una situazione che da 25 anni a questa parte ha impedito lo svolgersi di serene relazioni bilaterali e multilaterali in Europa. Per la prima volta, infatti, sono stati compiuti dei progressi nel tentativo di dirimere la questione riguardante il nome ufficiale della Macedoni . a Il problema è sorto nel 1991, quando il Paese dichiarò la sua indipendenza, con il nome Repubblica di Macedonia. Immediato fu il blocco della Grecia: poiché la popolazione discende in larga parte delle tribù slave che si stabilirono nella regione, non vi sarebbe alcun diritto a reclamare il nome “Macedonia” (legato a doppio filo con le gesta di Alessandro Magno, noto anche come Alessandro il Macedone e, sopratutto, eroe storico rivendicato dalla costruzione identitaria ellenica). A fianco alle questioni identitarie, tuttavia, il blocco greco ha anche ragioni squisitamente contemporanee e geopolitiche. La regione settentrionale della

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penisola greca, quella che confina con la Repubblica di Macedonia, si chiama anch’essa Macedonia. Atene temeva, perciò, che autorizzare il nome Macedonia per il neo-Stato potesse dare il via libera a future rivendicazioni territoriali per il dominio sulla Macedonia ellenica. Pesanti sono state le conseguenze di 25 anni di blocco ellenico. In primo luogo, la Macedonia deve convivere con una doppia denominazione, che rende indubbiamente tutte le relazioni con Paesi terzi più complicate. Ad esempio, la Macedonia ha potuto aderire ufficialmente all’ONU solamente 18 mesi dopo la sua indipendenza e accettando il nome temporaneo “Former Yugoslav Republic of Macedonia” (FYROM), prerequisito richiesto dalla Grecia per approvare l’ingresso macedone nell’organizzazione. Tuttavia, se FYROM è il nome con cui si interagisce con la Macedonia nella cornice ONU, molti Stati membri hanno adottato la denominazione “costituzionale” Repubblica di Macedonia per la conduzione delle loro relazioni bilaterali con lo Stato balcanico. Ma ancora più pesanti sono state le conseguenze dell’assenza di un nome ufficiale definitivo per quanto riguarda le relazioni

con l’Unione Europea. Infatti, dopo un processo d’indipendenza relativamente pacifico, se confrontato con gli altri Paesi balcanici, l’élite macedone nel 1991 si aspettava una transizione piuttosto semplice verso l’adesione all’UE. Tuttavia, nonostante nel 2005 la Macedonia sia diventata ufficialmente uno Stato candidato per l’adesione all’UE, la Grecia ha bloccato per 4 volte consecutive i negoziati di adesione sfruttando il proprio diritto di veto. Questa opposizione serrata ha portato Bruxelles a decretare che il processo di adesione verrà sbloccato solo dopo la risoluzione della disputa per il nome. Eppure, un barlume di speranza è tornato a brillare nelle scorse settimane. Mercoledì Atene e Skopje si sono sedute di fronte a un tavolo dell’ONU, intenzionate a scendere a compromessi per risolvere la questione del nome. Positivo era anche il mediatore ONU, Matthew Nimetz, il quale ha confermato il clima costruttivo dell’incontro. Cauto tuttavia il governo di Atene, anche a causa delle dimostrazioni che si sono svolte domenica contro l’apertura verso la Macedonia. La questione comunque è rinviata a Davos, dove è programmato un incontro fra Tsipras e Zaev.


ORIENTE FILIPPINE: APPELLO PER LA LIBERTÀ DI STAMPA Il portale indipendente Rappler rischia la chiusura

Di Virginia Orsili Lunedì 15 gennaio la Security and Exchange Commision (SEC) ha annunciato di voler revocare la licenza operativa al sito indipendente di informazione Rappler, accusato di aver violato la Costituzione filippina e il regolamento della SEC. Rappler è un portale di informazione online fondato nel 2012 dall’ex giornalista della CNN, Maria Ressa. Si tratta di una delle maggiori testate in lingua inglese nel Paese. Nell’ultimo periodo, Rappler si è distinto nel giornalismo d’inchiesta, utilizzando un approccio critico nei confronti di Duterte. I dissapori tra il sito e il Presidente si fondano soprattutto sulla critica alla Giyera Kontra Droga, letteralmente ‘guerra contro la droga’, intrapresa il 30 giugno 2016 dal leader filippino. Questa, secondo Human Rights Watch, avrebbe provocato l’uccisione di oltre 12.000 persone, sospettate di possesso o consumo di stupefacenti. Inoltre, Rappler ha pubblicato un’inchiesta secondo cui Duterte avrebbe utilizzato troll e hacker per diffondere notizie false sui social media. La Security and Exchange Commision è un’agenzia governativa che si occupa delle operazioni finanziarie nelle Filippine. Secondo

i suoi funzionari, Rappler avrebbe violato la clausola costituzionale che stabilisce che solamente cittadini filippini possano possedere e controllare i mezzi di informazione nel Paese. La SEC ha accusato il portale di aver “venduto il controllo agli stranieri”, facendo riferimento alla North Base Media, un collettivo statunitense guidato da ex giornalisti, e all’Omydar Network, una fondazione filantropica fondata da Pierre Omydar, creatore di eBay. Le allegazioni hanno suscitato qualche perplessità, dal momento che Rappler si è sempre dichiarato un portale completamente indipendente. Il segretario della SEC Armando Pan ha comunque precisato che la decisione non è ancora definitiva, e che il sito potrà continuare ad essere operativo in attesa del ricorso. Rappler, dal canto proprio, ha fatto presente che gli investimenti nei Certificati di Deposito delle Filippine (PDR) non sottintendono proprietà o controllo. L’amministrazione della testata ha definito la decisione una “pura e semplice molestia” e Maria Ressa ha dichiarato di voler “combattere il più possibile e il più a lungo possibile”, sfruttando la possibilità di adire le vie legali, a partire dal ricorso contro la decisione della SEC. La fondatrice ha inoltre

richiamato l’attenzione sul fatto che la misura costituirebbe una violazione della libertà di stampa e di espressione. Il presidente Duterte ha subito voluto far notare che non si tratta di una decisione politica, dal momento che solamente un membro del comitato ha legami diretti col Presidente. Va ricordato però che solo lo scorso luglio Duterte si era già pronunciato rispetto alla proprietà del portale, secondo lui incontrovertibilmente nelle mani degli Stati Uniti. C’è chi, tuttavia, inquadra il provvedimento del SEC in un più grande processo di censura. Secondo la BBC, le Filippine sono uno dei Paesi più pericolosi per un reporter. Dal 1986, 176 giornalisti sono stati uccisi e, volendo ascoltare Duterte, molti di questi lo meritavano. Il senatore Benigno Aquino IV, cugino del precedente Capo di governo, sostiene che la scelta rappresenti “una vittoria per le fake news e una sconfitta per la libertà d’opinione”. Human Rights Watch ha dichiarato: “Se Duterte dovesse riuscire a far tacere Rappler ci sarebbero conseguenze agghiaccianti per i media nelle Filippine, in un momento in cui la stampa libera è più che mai una necessità”. MSOI the Post • 11


ORIENTE AUSTRALIA E GIAPPONE: NUOVA LEADERSHIP NEL PACIFICO Malcolm Turnbull a Tokyo per definire un’intesa bilaterale in campo militare

Di Tiziano Traversa Giovedì 18 gennaio, il Primo Ministro australiano si è recato a Tokyo per una giornata di dialogo con Shinzo Abe sul tema cruciale della cooperazione militare. I due leader hanno raggiunto un’intesa per un partenariato militare fortemente voluto da entrambe le parti. L’accordo raggiunto tra le due nazioni prevede l’esecuzione di esercitazioni militari congiunte sia navali sia aeronautiche, allo scopo di consolidare le strategie difensive dei rispettivi Paesi. È previsto, inoltre, un importante lavoro di squadra per rendere efficiente lo scambio di informazioni, con cooperazioni strettissime nell’industria delle tecnologie militari. Il cambio di rotta è stato deciso sostanzialmente per tre ragioni. In primo luogo, per fare fronte comune alla minaccia di Pyongyang; secondariamente dal fatto che la Cina ha rafforzato massicciamente la sua presenza militare nel mar cinese meridionale; infine dalla sempre meno assertiva presenza statunitense nell’area del Pacifico. Turnbull e Abe, per l’appunto, mirano invece a stabilire un legame abbastanza resistente 12 • MSOI the Post

da poter assicurare stabilità politica nelle acque che li dividono. Come affermato dal Premier australiano, “Gli obbiettivi sono dettati dagli interessi comuni di creare un’area più democratica e di libera navigazione” tra gli oceani Indiano e Pacifico. Shinzo Abe, seppur convinto che il suo Paese debba giocare un ruolo decisivo nel rafforzamento della zona Indo-Pacifica, chiarisce che la partnership con Canberra non vuole essere una minaccia per altri Stati e si dice pronto a collaborare con Pechino e con qualunque altro Paese che mostri interesse per il progetto. Per quel che riguarda la questione Pyongyang, i due Presidenti hanno convenuto di continuare a puntare sull’inasprimento del regime sanzionatorio, nella speranza di frustrare le possibilità nordcoreane di sviluppare gli armamenti. È insomma indispensabile, per il benessere della regione, scongiurare l’incremento delle capacità balistiche della Corea. L’accordo Tokyo-Canberra arriva in un momento economico particolarmente delicato per l’area. Gli Stati Uniti sono usciti dall’Accordo del Trans-Pacifico (TPP) e i due Paesi, da sempre legati all’influenza economica

di Washington, sanno che gli USA stanno rinunciando al loro ruolo di superpotenza e sono consapevoli che Pechino è prontissima a prenderne il posto. A chi sosteneva che i rapporti tra Giappone e Australia fossero storicamente freddi e ammantati di indifferenza, Abe ha risposto, durante la conferenza stampa che ha seguito l’incontro, che le relazioni sono, in realtà, strette da molto tempo, ricordando gli ottimi successi bilaterali in campo commerciale e di difesa comune. Il progetto di una difesa comune con l’Australia, infatti, era partito già nel 2007, ma, vista anche la forte presenza degli USA nella regione, non si era mai tradotto in un’autentica collaborazione militare. Infine, nel 2015, durante uno dei primi incontri ufficiali Abe e Turnbull avevano nuovamente lanciato l’idea di un partenariato strategico nell’ottica di consolidare la pace e l’economia della regione attraverso canali diplomatici. I due Paesi avrebbero l’intenzione di coinvolgere altri Stati della regione per creare un gruppo unito che possa lavorare ispirato da principi condivisi.


AFRICA LE VIE DELLA DROGA

L’Africa: cinghia di trasmissione del traffico di cocaina tra Colombia ed

Di Jessica Prieto Quando si parla oggi di traffico di droga vengon subito in mente Stati sudamericani come Colombia, Perù e Bolivia, ritratti sul piccolo schermo da serie come “Narcos” e, oggi come ieri, tra i maggiori produttori ed esportatori di cocaina. Tuttavia, se la serie targata Netflix fosse ambientata nel 2018, dovremmo aggiungere un nuovo attore protagonista: l’Africa occidentale. Negli ultimi anni il Continente africano è diventato un punto strategico nel traffico illegale di droga, che dal Sudamerica giunge nel Vecchio Continente. Da decenni ormai, Paesi come Burkina Faso, Libia, Ghana e Liberia sono diventati la principale porta di entrata del 30% della cocaina che giunge dalla Colombia verso l’Europa. Su questa tratta africana, la Guinea Bissau in particolare si è ritrovata a ospitare varie organizzazioni criminali provenienti da Messico e Colombia, cui man mano si sostituiscono nuovi gruppi criminali di matrice locale. Primo effetto indiretto di questi traffici, infatti, è il diffondersi e il radicarsi di organizzazioni mafiose, che anno dopo anno aumentano la loro infiltrazione nei governi locali, cancellan-

do la supremazia della politica e trasformando questi Stati in Stati falliti. Le mafie hanno potuto proliferare facendo leva sulla debolezza politica di questi Paesi. In alcuni casi, sono andate a fondersi con l’apparato istituzionale, assumendo ruoli di governo e amministrazione, ma in altri hanno costruito uno Stato nello Stato, minando l’autorità politica del Governo ufficiale. Tutto questo ha determinato innanzitutto un incremento del consumo di cocaina in Africa, che qualche anno fa era quasi nullo, in concomitanza con l’aumento della corruzione negli apparati statali. Inoltre, gruppi paramilitari e forze ribelli hanno spesso aiutato i narcotrafficanti a ottenere vantaggi economici per investire in conflitti locali, creando così un pericoloso intreccio di relazioni tra terroristi e trafficanti. Per questo suo nuovo ruolo, l’Africa è diventata un importante partner commerciale dell’Ndrangheta. Il novembre scorso, la polizia italiana ha svelato la stretta relazione che intercorre tra il clan calabrese Commisso e alcune organizzazioni criminali della Costa d’Avorio. Nella capitale di questo Paese, Abidjan, come in altre città, vengono stoccate temporaneamente grandi quantità di cocaina,

Europa.

che vengono poi caricate su navi dirette in Italia per essere infine esportate verso l’Europa dalle organizzazioni criminali nostrane. Questo nuovo scalo è fondamentale per i narcos, poiché le navi provenienti dall’Africa occidentale destano meno sospetti di quelle Sudamericane. Oltre al trasporto via mare, particolarmente attivo risulta essere anche quello aereo. Le rotte aeree sono gestite da organizzazioni prettamente nigeriane e ghanesi, che spediscono la cocaina da Senegal, Costa d’Avorio, Benin, Nigeria, Ghana e Mali, utilizzando come scali di transito Tunisi, Tripoli, Il Cairo, Istanbul e Dakar, da cui poi partono i voli verso gli aeroporti internazionali europei. Per contrastare questi movimenti illegali, nel corso degli anni le Nazioni Unite hanno elaborato iniziative e gruppi di lavoro e risoluzioni tramite l’Assemblea Generale, per evidenziare il pericolo che queste nuove vie della droga rappresentano per la pace internazionale e la sicurezza dell’intero continente africano. Tuttavia, come spesso accade, i fatti contano più delle parole e il giro di affari intorno al traffico illegale di droga produce 500 miliardi di dollari all’anno: un mercato sommerso che sembra ancora impossibile da distruggere.

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AFRICA KENYA: UN PROGETTO DI SVILUPPO PER IL CONTINENTE La porta commerciale per l’Africa Centrale, una nuova via della seta

Di Francesco Tosco Il Kenya negli ultimi anni è stato protagonista di un intenso programma di sviluppo iniziato nel 2012 dall’ancora presidente Uhuru Kenyatta. Il progetto comprende la realizzazione, entro il 2030, di un enorme apparato di infrastrutture che avrebbero fatto del Paese la via d’accesso per l’Africa Orientale. I lavori prevedono la costruzione di un porto, di strade, ferrovie, centri turistici ed oleodotti. Come sempre in questi casi, i fondi provengono in gran parte dall’estero ed in particolare modo dalla Cina. Il programma di sviluppo si articola su base nazionale e regionale con il progetto “Lapsset”, che andrà a sua volta ad integrarsi sul piano pan-africano con lo sviluppo del “Great Equatorial Land bridge”. Il “Lamu Port-South Sudan & Ethiopia Transport Corridor”, o “Lapsset”, consiste nella costruzione del Porto di Lamu, situato sull’Oceano Indiano, a Nord del Kenya. La conclusione dei lavori è prevista per quest’anno e il porto, per la quantità di ormeggi ed attrezzatura, è destinato a diventare il più importante scalo commerciale di tutto il continente Africano. Oltre al porto, Lapsset servirà 14 • MSOI the Post

a creare un vero proprio corridoio commerciale di strade, ferrovie ed infrastrutture. Una direttrice principale partirà dalla città di Lamu verso la città di Isiolo, nel centro del Paese, dopodiché si biforcherà in due direzioni, fino ad arrivare, a Nord-est, alla capitale etiopica di Addis Abeba e, a Nord-ovest, passando per l’Uganda, alla capitale del Sud-Sudan, Juba. Lamu diventerà inoltre sede di un aeroporto e di una raffineria per il petrolio, mentre nel corridoio commerciale è altresì compresa la costruzione di un oleodotto che permetterà lo sbocco diretto al mare a Sud-Sudan, Etiopia ed Uganda. Il progetto pan-africano del “Great Equatorial Land Bridge”, invece, ha come obiettivo quello di unire la costa dell’Oceano Indiano del Kenya con la costa atlantica di Douala, nel Camerun, passando attraverso Sud-Sudan e Repubblica Centrafricana. A lavori ultimati una rete di strade, autostrade, ferrovie e cavi in fibra ottica per la comunicazione collegheranno questi Paesi facilitando i movimenti ed i rapporti economici e sociali dell’intero continente. Le opportunità di sviluppo per i Paesi coinvolti saranno molteplici.

Il Kenya punta ad aumentare il proprio PIL del 3% grazie al consistente prospettato incremento di scambi commerciali che seguirà. Arrivarci non sarà però così semplice: le strade e le ferrovie progettate, come anche altre infrastrutture, passano, sulla carta, sopra territori spesso selvaggi ed incontaminati. Oltre ai danni ambientali che si potrebbero causare, si dà il caso che questi terreni, perlopiù adibiti all’agricoltura o alla pastorizia di sussistenza, siano da decenni oggetto di contesa tra alcune tribù nomadi. Inoltre dall’avvio del progetto, nel 2012, il fenomeno del land-grabbing è aumentato, soprattutto a beneficio della Cina, che del resto saprà certo trar vantaggio anche dalla maggior parte degli appalti. Soltanto per il porto di Lamu, 3 ditte su 5 sono cinesi e la presenza di investitori cinesi nella regione è aumentata esponenzialmente. La rampante superpotenza asiatica sta investendo in quello che diventerà per lei, il principale partner commerciale africano. Grazie alle nuove strade ed infrastrutture, il Kenya si candida incontrastato a diventare la porta del continente per una versione africana della via della seta.


SUD AMERICA L’ASCESA DI ANDRES MANUEL LOPEZ OBRADOR

A sei mesi dalle elezioni in Messico, il candidato socialista è dato per vincente

Di Elena Amici Le elezioni generali del Messico si terranno il prossimo 1° luglio, posta in gioco 500 seggi alla Camera dei Deputati, 128 al Senato e la stessa Presidenza del Paese, al momento in mano al centrista Enrique Peña Nieto. I tre partiti principali del Paese sono il Partido Revolucionario Institucional (PRI) di Peña Nieto, il conservatore Partido Acción Nacional (PAN) e il Movimiento Regeneración Nacional (MORENA), la fazione più a sinistra. Al momento quest’ultimo è in considerevole vantaggio, grazie principalmente al messaggio anti-establishment del leader Andres Manuel Lopez Obrador, arrivato secondo sia nel 2006 sia nel 2012. L’ascesa di Lopez Obrador può essere attribuita sia a fattori interni sia internazionali. PAN e PRI sono in declino, considerati dalla popolazione messicana inefficienti e corrotti. In particolare, il PRI è al centro di vari scandali, dopo che un piano sventato per sottrarre 13 milioni di dollari dai fondi elettorali ha coinvolto diversi collaboratori del candidato Jose

Antonio Meade. Un’altra causa della popolarità di Lopez Obrador è il suo messaggio di orgoglio nazionale, esacerbato dalla retorica anti-messicana del Presidente USA Trump. Lopez Obrador, paragonato dai suoi detrattori all’ex presidente venezuelano Hugo Chavez, si è però trovato al centro di alcune controversie sulla scena internazionale, accusato di populismo e di avere legami con il Cremlino. Recentemente, infatti, il consigliere USA per la sicurezza H.R. McMaster, echeggiato da rappresentati del PRI, ha annunciato il rischio di un’interferenza russa nelle elezioni messicane: Mosca si sarebbe schierata a favore di Lopez Obrador, con lo scopo di indebolire la regione e il rapporti del Messico con gli USA. La notizia è stata immediatamente smentita tanto dal governo russo quanto dagli addetti stampa del MORENA, ma è comunque probabile che una sua vittoria porterebbe al ridimensionamento delle relazioni fra il Messico e gli Stati Uniti. Lopez Obrador, infatti, si è det-

to pronto a ritirare il Messico dal NAFTA, l’accordo nordamericano per il libero scambio con Canada e USA, e i suoi continui successi nei sondaggi hanno portato alla svalutazione del suo peso sui mercati internazionali negli ultimi mesi. D’altronde, Lopez Obrador, considerato una “prospettiva poco buona” dal Segretario USA per la sicurezza nazionale John F. Kelly, ha osservato il sostegno alla sua candidatura salire ad ogni critica contro la Cassa Bianca. A sei mesi dalle elezioni, a meno di sconvolgimenti nel panorama elettorale, non sembra irrealistico ipotizzare un Messico avviato verso una presidenza drasticamente differente dai precedenti governi dell’era pluri-partitica. Il primo governo spiccatamente di sinistra potrebbe portare a nuove intese per il Messico e ad un ruolo diverso nelle dinamiche della regione. A livello di politica interna, le promesse di lotta alla corruzione di Lopez Obrador prevedono la creazione di una Guardia Nazionale, ma rimane da vedere se un piano così ambizioso potrà essere realizzato. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA LA VISITA DI PAPA FRANCESCO IN CILE E PERU’ Le difficoltà e gli attacchi alla Chiesa Cattolica in America Latina

Di Sveva Morgigni È il 22° viaggio del pontificato di Francesco, il sesto a toccare Paesi dell’America Latina. Sulla carta, quello iniziato lo scorso 15 gennaio, doveva essere un sereno ritorno del Papa nella “sua” America Latina. Al contrario, si è rivelato un viaggio difficile e pieno di contestazioni: attacchi incendiari nelle chiese e negli edifici di culto, segnali di un malessere profondo della popolazione. In realtà, negli ultimi 25 anni, ci sono stati altri episodi nei quali sono stati “aggrediti” o bruciati i luoghi di culto cileni. Finora non ci sono mai state rivendicazioni ufficiali, anche se si ipotizza la colpevolezza dei Mapuche, una delle minoranze indigene più numerose dell’America Latina. Tale gruppo da diversi anni chiede al governo la legittimazione di uno Stato binazionale e la restituzione delle terre sottratte nel corso di cinque secoli. I Mapuche, di per sé non ostili alla Chiesa, che spesso li ha difesi, vorrebbero quindi ottenere maggiore visibilità con tali azioni. 16 • MSOI the Post

Bisogna comunque ricordare anche il profondo risentimento della società cilena verso le istituzioni cattoliche per i numerosi i casi di pedofilia. La Chiesa cilena, che al tempo della dittatura di Pinochet si distingueva per le coraggiose denunce in difesa della giustizia e dei diritti umani, oggi ha perso credibilità davanti all’opinione pubblica a causa delle vicende di abusi sui minori, come quelle perpetrate dall’influente sacerdote Fernando Karadima, riconosciuto colpevole anche dalla Santa Sede. Nonostante tali difficoltà, Papa Francesco ha chiuso il suo ultimo viaggio in America Latina con una celebrazione spettacolare a Lima: qui ha riunito, secondo i dati forniti delle stesse Autorità, 1.000.000 di persone, dimostrando che il cattolicesimo è ancora forte e radicato nel Paese. In Perù si sono potute affrontare tematiche che toccano l’America Latina in modo più ampio. Il Pontefice ha, infatti, inviato un messaggio sulla crisi politica che sta vivendo l’intero continente, divorato dalla corruzione. “La crisi non è solo in Perù, è

un problema che soffre tutta l’America Latina” ha dichiarato il Pontefice e ha chiesto ai vescovi di fare il possibile per recuperare il valore dell’onestà. Oltre ai problemi economici, Papa Francesco ha toccato temi quali la deforestazione, le miniere illegali ed il traffico di esseri umani. Francesco ha fortemente contestato anche la sterilizzazione forzata delle donne, uno dei crimini per cui fu processato Fujimori. “Non lasciamoci confondere dal colonialismo mascherato da progresso”, ha detto il Papa, contestando i piani di controllo delle nascite di alcune organizzazioni internazionali. Quello che emerge, dunque, è che l’America Latina è un continente di cruciale importanza per il futuro del cattolicesimo, ma presenta numerose sfide interne. La religione non dovrebbe più essere strumentalizzata dalla politica ma dovrebbe essere in grado di dare risposta alle esigenze della popolazione, accompagnandola nei profondi cambiamenti sociali che da 10 anni stanno attraversando il Sud America.


ECONOMIA AMERICA FIRST

Trump punta tutto sulla reindustrializzazione e apre una nuova fase nel commercio mondiale

Di Michelangelo Inverso Donald Trump sta senza dubbio rispettando la promessa elettorale di riportare al centro l’America, anche a scapito di partner e pratiche commerciali consolidate. È di questi giorni la notizia che il Presidente statunitense avrebbe deciso di imporre pesanti dazi (circa il 30% del valore finale dei beni) sulle importazioni di alcuni beni tecnologici durevoli, andando a colpire sia Paesi alleati come la Corea del Sud sia Paesi commercialmente rivali come la Cina.

amministrazione, la globalizzazione non è più conveniente. Si è preso atto che il vuoto lasciato dal settore secondario non è colmabile dal terziario. Fin dalla sua campagna elettorale, Trump ha promesso la fine di tutti quegli accordi commerciali, di stampo liberista, che compromettevano la produzione statunitense e ha vinto proprio per questo.

Le reazioni non si sono fatte attendere: la Merkel, appena uscita vincitrice dall’accordo di governo con la SPD, ha lanciato pesanti moniti all’indirizzo di Washington contro politiche protezioniste, evocando addirittura spettri di guerra. Questo genere di dichiarazioni sono, ovviamente, strumentali e non disinteressate. La Germania si sente punta nel vivo da questi dazi, essendo il maggior esportatore mondiale di beni durevoli e di alta qualità. Risulta ovvio, dunque, che la Cancelliera voglia un mercato internazionale il più deregolamentato possibile per poter mantenere in positivo la propria bilancia commerciale.

Già nei primi mesi della sua presidenza, aveva ritirato gli Stati Uniti dal TPP, un accordo multilaterale di libero scambio nell’area del Pacifico. Poi era stata la volta dell’accordo sul clima di Parigi, che rappresentava costi aggiuntivi per la produzione nazionale, dal momento che limitava l’uso di tecnologie inquinanti. Anche la riforma fiscale e lo scudo fiscale introdotti recentemente sarebbero da leggere in questo senso, riducendo di un terzo la tassazione sui redditi delle imprese e favorendo investimenti infrastrutturali per il settore secondario. Proprio in questi giorni, inoltre, si discute in Canada se ritirare gli USA dal NAFTA, trattato stipulato negli anni Novanta tra Canada, Messico e USA che segnò l’inizio dei trattati multilaterali che poi ebbero come prodotto la globalizzazione stessa.

Ma dal punto di vista statunitense e, soprattutto dell’attuale

La reindustrializzazione del Paese è, dunque, il dichiarato

obiettivo strategico e politico che The Donald ha promesso e persegue. Ritirarsi da questi accordi, aumentare i dazi, diminuire le tasse alle imprese, sono politiche che mirano alla creazione di posti di lavoro attraverso investimenti nella produzione nazionale con vantaggio per salari, stipendi e punti di PIL. Insomma, soddisferebbe sia l’elettorato imprenditoriale sia quello operaio se riuscisse in questa operazione di politica interna. Chi invece non è affatto contento di questo genere di politiche protezioniste sono ovviamente i partner storici, come l’UE e gli asiatici, che vedono ridurre i propri stock di esportazioni dirette verso gli USA con maggior danno per le loro economie. In patria, invece, l’Amministrazione deve guardarsi da quei settori che del mercato aperto hanno fatto la propria bandiera, in particolare i colossi dell’elettronica e dell’informatica, come Facebook e Google, che infatti appoggiarono apertamente Hillary Clinton durante la campagna elettorale, più vicina alle loro posizioni economiche. Comunque lo si veda, America First sta divenendo la dura realtà con cui fare i conti. Letteralmente. MSOI the Post • 17


ECONOMIA AMAZON GO: IL SUPERMARKET DEL FUTURO Nessuna cassa per pagare, l’e-commerce fa un salto nella realtà

Di Alberto Mirimin Il 22 gennaio Amazon ha aperto il primo negozio Amazon Go a Seattle, città dove il colosso statunitense ha il suo quartier generale. Si tratta di un supermercato avveniristico, in cui non ci sono casse: il cliente entra passando attraverso dei tornelli tecnologici, sui quali è posizionato un QR code da scansionare con il proprio smartphone attraverso un’apposita app collegata al proprio account Amazon. Da questo momento in poi, il cliente non dovrà fare altro che prendere i prodotti desiderati dagli scaffali, metterli in borsa e uscire, senza dover passare da nessuna cassa. Qualche minuto dopo arriverà direttamente sullo smartphone la ricevuta degli acquisti, da pagare con la stessa carta di credito registrata sul portale Amazon. Questo innovativo supermercato funziona grazie ad un sistema di centinaia di telecamere e sensori, unito ad un meccanismo di machine learning, posizionati dentro il punto vendita. Essi tengono traccia di tutti i movimenti dei clienti: se qualcuno prende un prodotto dallo scaffale, ma poi cambia idea e lo rimette al suo posto, il sistema lo noterà ed eliminerà il prodot18 • MSOI the Post

to dalla lista degli acquisti. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, rubare è assai difficile: anche quando si tenta di prendere un prodotto nascondendolo in qualche modo, esso verrà comunque addebitato. Amazon è il simbolo più evidente dell’inarrestabile espansione dell’e-commerce: lanciata nel 1995, ha concluso il 2016 con un fatturato pari a 136 miliardi di dollari e da più di anno si trova saldamente nella top 10 dei distributori mondiali. Da qualche tempo, la dirigenza ha avviato un piano di espansione fisica della società, con l’acquisizione di negozi tradizionali usati in alcuni casi come magazzini, altre volte mettendo a disposizione la propria piattaforma per incentivare il commercio online. Ultima importante acquisizione è stata quella della catena Whole Foods Market, che conta più di 450 punti vendita negli Stati Uniti. In senso più generale, l’incontrastabile ascesa dello shopping online ha invaso ormai tutti i settori: i dati statistici del 2016 parlavano di 1,6 miliardi di utenti in tutto il mondo che hanno acquistato prodotti online, spendendo quasi 2 bilioni di dollari, che entro il 2020

potrebbero ulteriormente raddoppiare. Secondo l’Omnichannel Selling Guide fornita da BigCommerce, la categoria con il più alto tasso di vendite online negli Stati Uniti (2017) è rappresentata dall’intrattenimento (44%) seguito dall’abbigliamento (43%), l’elettronica (34%) xe infine dai prodotti per la bellezza e cura della persona (29%). Di conseguenza, l’apertura di Amazon Go potrebbe rappresentare un cambiamento epocale nel commercio. Sarà da capire, infatti, se il colosso di Jeff Bezos vorrà sfruttare la tecnologia solo per sé, introducendola in tutti i suoi negozi fisici esistenti ed ampliando la catena Amazon Go, oppure deciderà di venderla a peso d’oro alla concorrenza. Sicuramente, in caso di funzionamento, potrà spingere ancora più in alto il commercio online, peraltro in un settore, quello dei generi alimentari, che fino ad oggi era rimasto più legato alla vendita tradizionale. Che sia il primo passo verso il declino del commercio tradizionale è forse esagerato pensarlo, ma quello che è certo, è che Amazon si è dimostrata ancora una volta un passo avanti rispetto alla concorrenza.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO RESPINGIMENTI COLLETTIVI E CEDU: QUALE FRONTIERA PER I DIRITTI?

La Corte di Strasburgo torna su un tema estremamente sensibile, non senza difficoltà

Di Pierre Clément Mingozzi Con la sentenza N.D. e N.T. c. Spagna (app. 8675/15 e 8697/15) la terza sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha affrontato un argomento di estrema – e crescente – importanza nel contesto migratorio attuale, ovvero il tentativo di raggiungere i Paesi europei da parte di migranti e il loro successivo respingimento, come nel caso in oggetto, in maniera collettiva. La sentenza riguarda il ricorso portato avanti da due rifugiati del Mali e della Costa d’Avorio i quali, nel tentativo di superare la frontiera delle città di Ceuta e Melilla, vennero respinti dalle autorità spagnole senza alcun tipo di possibilità di spiegare la loro situazione personale, di avere accesso ad un avvocato, ad un interprete né tantomeno a cure mediche. La Corte, riuscendo a smontare l’assunto addotto dalla Spagna a sua difesa, ha rigettato il concetto di “frontiera operazionale” con il quale il Paese iberico puntava a dimostrare l’assenza della sua giurisdizione – e dunque responsabilità – per i respingimenti avvenuti a Ceuta e Melilla. Il regime giuridico di queste due città è alquanto particolare. Infatti, pur trovandosi sul territorio marocchino, sono tutt’ora enclaves spagnole e fanno parte

dello spazio Schengen. Ciononostante, data la loro posizione, la Spagna le ha da sempre poste sotto un regime specifico di fatto rafforzando i controlli alle loro frontiere. Secondo la Corte, il governo spagnolo “ne peut se retrancher derrière l’absence d’identification lorsqu’il en est lui-même responsable” come motivo per l’assenza delle qualità di vittima dei ricorrenti. È stata proprio l’azione della Guardia Civil spagnola a far sì che ciò avvenisse, comportando così una violazione del sistema Convenzionale. Riprendendo il famoso caso Hirsi c. Italia, la Corte ha superato di nuovo l’approccio puramente territoriale della giurisdizione dello Stato, evidenziando che “à partir du moment où les requérant s’étaient descendus des clôtures frontalières, ils se trouvaient sous le contrôle continu et exclusif, aumoins de facto, des autorités espagnoles”. Questa presa di posizione ha un valore estremamente forte. Ancora una volta, la Corte ha ribadito che la “frontiera dei diritti” si estende al di là delle mere frontiere territoriali di uno Stato e riguarda anche i nuovi tentativi da parte di molti Paesi di respingere i migranti al limite dei loro territori nazionali. A riguardo, la Spagna è stata ritenuta responsabile della viola-

zione dell’art. 4, protocollo n. 4, che proibisce le espulsioni collettive applicando un approccio per la prima volta extraterritoriale di tale articolo anche per le pratiche di respingimenti collettivi effettuati con una frontiera terrestre. In aggiunta, è stata confermata anche la violazione dell’articolo 13 della Convenzione. Oltre all’espulsione collettiva, infatti, i ricorrenti non hanno avuto accesso ad alcun tipo di ricorso effettivo a livello interno, essendo stati immediatamente respinti e trasferiti in Marocco dopo il loro tentativo di superare il confine spagnolo. La lettura ed il tenore di questa sentenza sembrano dunque sancire una volta per tutte il divieto per la Spagna di continuare con la pratica dei respingimenti collettivi pur essendo, quest’ultimi, praticati da lunga data. Inoltre, taluni studiosi hanno evidenziato anche che tale pronuncia potrebbe influenzare positivamente il ricorso di incostituzionalità promosso da una cinquantina di parlamentari spagnoli contro la legge organica 4/2015 del 30 marzo 2015 relativa alla protezione della sicurezza cittadina. Tale legge, creerebbe di fatto “un regime speciale” per le città di Melilla e Ceuta nel quale sarebbe permesso il respingimento dei migranti senza alcuna garanzia procedurale concreta.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LA COOPERAZIONE RAFFORZATA NEL CAMPO DELLA DIFESA, UN PASSO VERSO L’INTEGRAZIONE POLITICA DELL’UNIONE

Gli stati membri dell’UE danno vita alla PESCO, progetto “ambizioso ed inclusivo” per la costruzione di una difesa comune europea

Di Federica Sanna A quasi dieci anni dalla firma del Trattato di Lisbona, l’UE riscopre gli Artt. 42 e 46 del TUE, i quali prevedono lo sviluppo di una politica di sicurezza e di difesa comune come parte integrante della politica estera dell’Unione. I Ministri europei della difesa e degli affari esteri di 25 Stati membri hanno infatti firmato a dicembre il documento che avvia la PESCO (Permanent Structured Cooperation), progetto di cooperazione strutturata e permanente nell’ambito della difesa. Diversamente da iniziative precedenti non si tratta di una semplice presa di posizione politica ma di un progetto istituzionale e vincolante, sebbene a carattere volontario. L’obiettivo della PESCO è la creazione di un sistema coordinato di sviluppo e messa in comune di capacità militari, il quale si realizzerà su due diversi livelli: sul piano politico, il Consiglio avrà il compito di fornire gli indirizzi politici tramite decisioni assunte all’unanimità; sul piano tecnico, gli Stati lavoreranno in diversi programmi specifici di cooperazione. Trattandosi di un progetto istituzionale dell’UE la PESCO è inserita in un contesto più ampio e dovrà inevitabilmente interagire con altre iniziative 20 • MSOI the Post

avviate e nascenti nell’ambito della difesa comune. Tra queste, parte quest’anno la Revisione Coordinata Annuale sulla Difesa (nota come CARD), già prevista dalla EU Global Strategy del 2016 e gestita dall’ EDA (European Defence Agency). Il progetto è volto a migliorare la gestione delle risorse e dei piani nazionali con l’obiettivo di identificare eventuali possibilità di collaborazione tra Stati. Accanto alla CARD, strumento indispensabile per il lavoro della PESCO è la creazione del Fondo Europeo per la Difesa (EDF), il quale fornirà incentivi finanziari ai progetti cooperativi di sviluppo che prevedono la partecipazione di più Stati membri. Il sostegno del fondo si realizzerà in due differenti sezioni: nell’ambito della ricerca e dello sviluppo e nell’operativa acquisizione di capacità militari. L’azione dell’EDF potrebbe nel tempo portare i governi ad abbandonare la tradizionale politica di gelosia nei confronti dei beni nazionali, data anche da giuste ragioni occupazionali, e superare quindi l’attuale frammentazione dell’industria europea della difesa in favore di una maggiore armonizzazione del sistema. La realizzazione della PESCO avrà inoltre conseguenze sul rapporto tra l’UE e la NATO: nonostante la presenza di accor-

di già esistenti in cui si promuove la cooperazione tra le due istituzioni, le relazioni si sono nel tempo “arrugginite” a causa del succedersi degli eventi storici e della progressiva diminuzione di quantità e di efficienza delle capacità militari europee. Lo sviluppo della PESCO potrà quindi essere l’occasione per dare un nuovo slancio alla collaborazione con la NATO e rendere l’Europa nuovamente protagonista sul piano della difesa e della tutela della sicurezza. Il nuovo framework istituzionale, integrato con le citate iniziative collaterali, rappresenta sicuramente un notevole passo avanti nell’integrazione europea, reso possibile anche dal previsto allontanamento di Londra, da sempre contraria ad ogni iniziativa in tal senso. L’obiettivo della costruzione di un vero esercito europeo è sicuramente ancora lontano, in primo luogo perché il potere decisionale rimane fortemente nelle mani dei governi degli Stati membri, come dimostrano la volontarietà dell’adesione al progetto e la necessità di raggiungere l’unanimità nelle decisioni del Consiglio. La strada intrapresa, però, è la giusta direzione verso la completa realizzazione di quanto previsto dai trattati: la costruzione di un effettivo pilastro europeo per la difesa comune.


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