MSOI thePost N117

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clément Mingozzi, Luca Imperatore, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci Redattori Federica Allasia, Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Giulia Capriotti, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso,Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Sabrina Di Dio,Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Kevin Ferri, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Efrem Moiso, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso,Daniele Ruffino , Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Viola Serena Stefanello, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Martina Unali, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zuniga Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole FRANCIA 3 ottobre. Il presidente francese Emmanuel Macron ha accettato, dopo un primo rifiuto, le dimissioni del ministro dell’Interno Gérard Collomb affidando l’incarico ad interim al premier Edouard Philippe “fino a quando non sarà nominato un successore”.

GERMANIA 29 settembre. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si è recato in visita ufficiale nella città di Colonia per prendere parte all’inaugurazione della moschea Ditib, una delle più grandi d’Europa. Nel corso della giornata ci sono state numerose proteste messe in atto da parte dell’opposizione turca di sinistra e dai curdi. 1 ottobre. In Sassonia e in Baviera sono stati arrestati sei neonazisti tra i 27 e i 30 anni, accusati di aver fondato un gruppo terroristico di nome “Rivoluzione Chemnitz”. Il gruppo pianificava attentati contro stranieri e politici di orientamenti diversi dal proprio. 2 ottobre. Le forze di coalizione di governo Csu-Cdu e Spd hanno raggiunto un accordo riguardante la nuova legge sull’immigrazione, tesa principalmente ad attrarre nuova forza lavoro qualificata da Paesi che non fanno parte dell’Unione europea.

ITALIA: IL CONSIGLIO DEI MINISTRI APPROVA DEF

Ma quel 2,4% fa rischiare bocciatura da parte dell’UE

Di Rosalia Mazza Il 27 settembre 2018 i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno presentato la cosiddetta “NaDef”, la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza per il 2019, che è stata approvata dal Consiglio dei Ministri. Immediatamente successiva è stata la telefonata del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al capo di Stato Sergio Mattarella: quest’ultimo aveva chiesto in precedenza delle correzioni al documento. La manovra include il reddito di cittadinanza, la flat tax al 15% per le imprese e la riduzione del numero delle aliquote IRPEF (una del 23% fino a 75.000 euro di reddito e una del 33% per redditi superiori); non vengono previsti aumenti dell’IVA. Tale manovra non ha incontrato il consenso del ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria, che aveva chiesto un rapporto debito/PIL non superiore al 2%. È proprio lo sforamento di tale percentuale, stabilita al 2,4%, a scatenare le polemiche: la stessa UE aveva annunciato che la Legge di Bilancio avrebbe rischiato una bocciatura qualora tale rapporto avesse superato il 2%. Le reazioni delle opposizioni non si sono fatte attendere. La preoccupazione maggiore sta

nella programmazione di politiche economiche d’espansione in un Paese che presenta un forte debito pubblico, e che perciò potrebbe rischiare di tramutarsi in un Paese insolvente nel prossimo futuro: la manovra non prevede, infatti, un aumento delle tasse tale da poter incrementare il gettito fiscale, che pertanto non potrebbe compensare tali politiche. Il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha dichiarato che le disposizioni contenute nella DEF non sembrano rispettare il Patto di Stabilità e Crescita dell’UE, mentre il Commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, ha dichiarato che – con questa Legge di Bilancio – l’Italia potrebbe rivelarsi l’unico caso in cui un Paese altamente indebitato tenta di sostenere una politica economica espansiva. Molto più dure sono state le parole del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, il quale ha dichiarato che qualunque concessione fatta all’Italia dovrebbe essere fatta a qualunque altro Paese UE, e che questo porterebbe alla fine dell’euro.

Si profila dunque un periodo di forti tensioni e un’ulteriore crisi tra UE e Italia, ma bisognerà attendere il prossimo 15 ottobre, giorno in cui il documento di bilancio verrà presentato alla Commissione europea. MSOI the Post • 3


EUROPA GRECIA 30 settembre. In Macedonia si è svolto il referendum riguardante l’accordo con la Grecia concernente il nuovo nome del Paese ex jugoslavo (Macedonia del nord). L’affluenza alle urne non ha, tuttavia, raggiunto il quorum necessario del 50% più uno. Il primo ministro Zoran Zaev si è pronunciato sulla possibilità di elezioni anticipate.

SPAGNA 30 settembre. Il servizio marittimo spagnolo ha salvato 466 migranti partiti dal Nord Africa che tentavano raggiungere l’Europa del Nord attraversando il mar Mediterraneo a bordo di 10 barconi, intercettati a est dello Stretto di Gibilterra. 1 ottobre. A distanza di 1 anno dal referendum indipendentista disconosciuto da Madrid, in molte città della Catalogna si sono svolte manifestazioni messe in atto da parte dei separatisti catalani. Il presidente della Generalitat, Quim Torra, ha esortato i separatisti a proseguire nella loro battaglia appellandosi alla “coscienza collettiva dei catalani”. Il bilancio delle proteste è stato stimato a 32 agenti feriti e 43 feriti lievi. SVEZIA 2 ottobre. Dopo le elezioni politiche del 9 settembre e la crisi dei socialdemocratici è stato assegnato ad Ulf Kristersson, leader di Alliance, il compito di provare a formare il nuovo governo. Sono previsti 144 seggi per i socialdemocratici, 143 per Alliance e 62 seggi per i Democratici Svedesi, di estrema destra.

A cura di Giuliana Cristauro 4 • MSOI the Post

LA CONTROVERSA VISITA DI ERDOGAN IN GERMANIA Prove tecniche di distensione dopo un biennio di tensioni

Di Alessio Vernetti La visita di Stato del presidente turco Recep Tayyip Erdogan in Germania ha suscitato non poche controversie. L’inaugurazione a Colonia della più grande moschea tedesca, avvenuta sabato scorso, ha segnato il culmine di una visita di Stato di tre giorni volta a riparare i legami interrotti con Berlino dopo due anni di tensioni. I legami tra i due paesi della NATO si erano infatti inaspriti dopo che Berlino aveva criticato il giro di vite portato avanti dal Governo di Ankara nei confronti degli oppositori a seguito del fallito colpo di Stato del 2016. Le tensioni si erano poi allentate, dopo la recente scarcerazione di diversi oppositori. Durante il proprio soggiorno a Berlino, Erdogan ha incontrato due volte la cancelliera Angela Merkel, ed entrambi i leader hanno mostrato interesse per un riavvicinamento cauto, nonostante si siano comunque trovati in disaccordo su un’ampia varietà di questioni: la Cancelliera, in particolare, ha sottolineato che “profonde divergenze” sono rimaste in tema di diritti civili e su altre questioni, mentre Erdogan ha accusato la Germania di ospitare terroristi. Dal canto suo, Angela Merkel, conscia del fatto chei turchi si-

ano la minoranza straniera più cospicua in Germania, ha evidenziato la necessità di un dialogo per superare i disaccordi, ma ha anche sottolineato l’interesse della Germania per una Turchia stabile, per contribuire a regolare e contenere il flusso di rifugiati verso l’Europa. Anche Erdogan, alla ricerca di alleati internazionali dovendo fronteggiare il Presidente statunitense Trump e la svalutazione della lira turca, ha mostrato un tono conciliante. Prima di tornare ad Ankara, Erdogan si è recato nella città di Colonia, dove diverse migliaia di oppositori e critici hanno protestato contro la legislazione turca in materia di diritti umani, libertà di stampa e trattamento della minoranza curda. Nel frattempo, i sostenitori di Erdogan si sono radunati vicino alla nuova moschea centrale di Colonia inneggiando al Presidente turco. Sia il sindaco di Colonia sia il Capo del Governo del Nordreno-Vestfalia hanno disertato la cerimonia di apertura della moschea. Queste assenze hanno riecheggiato l’accoglienza tiepida che il leader turco aveva già ricevuto in una cena di Stato organizzata venerdì scorso dal presidente federale Steinmeier, disertata sia da Angela Merkel, sia da vari esponenti dell’opposizione.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole STATI UNITI

28 settembre. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha preso parte ad un incontro con la presidente lituana, Dalia Grybauskaitė ed Erna Solberg, premier norvegese. Il meeting, avvenuto a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha avuto come oggetto di discussione la ricerca di una maggiore collaborazione nel settore della sicurezza energetica. 30 settembre. Raggiunta, nella notte, l’intesa sul nuovo testo del NAFTA. Dopo settimane di attesa, l’esito dell’ultima negoziazione tra Donald Trump e la delegazione canadese ha raggiunto un punto di incontro, salvaguardando la trilateralità del Trattato. Il Congresso avrà a disposizione 60 giorni per approvare il nuovo accordo, denominato United StatesMexico-Canada Agreement -USMCA. 2 ottobre. Mike Pompeo incontrerà Kim Jong-un, a Pyongyang, nella giornata di domenica 7 ottobre. La notizia è stata resa nota dal Dipartimento di Stato americano. L’itinerario previsto porterà il Segretario americano a visitare anche Cina, Corea del Sud e Giappone. 3 ottobre. Il New York Times ha avviato un’inchiesta sull’evoluzione finanziaria di Donald Trump. Secondo la testata, il Presidente avrebbe, eludendo il fisco, ereditato dal padre 413 milioni di dollari. Lo Stato di New York ha aperto le indagini.

2018 QUÉBEC PROVINCIAL ELECTIONS MAKE HISTORY 50 years later the nationalists are back to power

By Kevin Ferri It was June 5th, 1966 when the Union Nationale won the legislative assembly elections against the Québec Liberal Party. Since then, social democrats would never obtain power in the province. However, things changed on Monday. The 2011-founded Coalition Avenir Québec (CAQ), led by cabinet minister François Legault and businessman Charles Sirois, managed to win the provincial elections. In fact, the CAQ won a majority of seats in the National Assembly of Québec. A surprising 74 out of 125 seats have been secured. This indicates a gain of 52 seats, compared to the 2014 elections. These elections revealed that the dominant political issue in Québec is not separatism anymore. In his victory speech, Legault said “There are many Québecers who put aside a debate that has divided us for 50 years. There are many Québecers who demonstrated that it’s possible for opponents to work together for tomorrow’s Québec.” So what is Québec’s new dominant political issue? It would seem as though the passe-partout argument to win elections in contemporary de-

mocracies is “no or less immigrants.” As a matter of fact, this is exactly what the CAQ proposed during the electoral campaign. Legault’s being in favor of a stricter immigration policy also earned him praise from his French counter-part, MarineLe Pen who immediately tweeted “Québecers voted for less immigration.” Even though immigration is the top of the list issue that the party promised to address, there are several others. These measures, if implemented would mark a significant change with other previous administrations. First, the Montreal City Council is too large and should be reduced. Clearly, the CAQ would like to see the center-leftist majority component of it to be shrunk down. Second, marijuana consumption is legal, but the minimum age limit would go from 18 to 21. Third, a massive CAD 10-bilioninvestment in public infrastructures project has been drafted. Lastly, a so-called ‘secularism charter’ will be implemented that should ban public employees from wearing conspicuous religious symbols at work. Having an absolute majority in the Assembly, it will be difficult for the opposition to stand up against some of the populist provisions. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA 4 ottobre. Giunte al termine le indagini sul candidato alla Corte Suprema, Brett Kavanaugh. Sulla base del rapporto stilato dall’FBI, Donald Trump si aspetta che si giunga ad una votazione entro la fine della settimana.

RAGGIUNTA L’INTESA TRA WASHINGTON E OTTAWA SUL NAFTA

Lo United States-Mexico-Canada Agreement sostituirà l’accordo del 1994

CANADA

1 ottobre. Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, si è espresso in difesa dell’accordo raggiunto sul NAFTA, definendolo “un buon affare”. Il fronte conservatore ha, infatti, accusato l’amministrazione in carica di aver effettuato “eccessive concessioni” in settori chiave per lo Stato canadese. “Avremmo dovuto cercare un accordo migliore”, ha dichiarato il leader dell’opposizione Andrew Scheer. 2 ottobre. Annunciato un investimento di 40 miliardi di dollari (C$) per l’avvio del progetto LNG CANADA. La provincia della Columbia Britannica vedrà la costruzione di un imponente impianto di esportazione di gas naturale liquefatto. Stimata la creazione di 10.000 posti di lavoro. 3 ottobre. La canadese Donna Strickland, 59 anni e docente presso l’Università di Waterloo, è la vincitrice del Premio Nobel per la Fisica 2018, insieme all’americano Arthur Ashkin e al francese Gérard Mourou. Il premio è stato assegnato sulla base delle significative scoperte effettuate nel campo dei laser con numerose implicazioni nel campo della medicina e dell’industria. A cura di Erica Ambroggio 6 • MSOI the Post

Di Martina Santi

Paesi interessati.

Come riporta il sito del Dipartimento di Stato USA “President Donald J. Trump secureda modern, rebalanced trade agreement with Canada and Mexico”. Lunedì 1° ottobre, il presidente Trump ha, infatti, rilasciato un comunicato stampa in cui ha annunciato la conclusione dei lavori di revisione del NAFTA e il suo superamento con un nuovo accordo, denominato USMCA.

Tra i suoi punti più significativi, l’USMSA garantisce al Messico la proprietà esclusiva dei giacimenti di idrocarburi nel suo sottosuolo. Il trattato andrà, poi, a favorire l’industria automobilistica nordamericana, prevedendo che il 75% delle forniture per la produzione di automobili provenga dal Nord America. Inoltre, con la recente intesa è stata abolita la Class 7, un programma canadese che favoriva il mantenimento di prezzi ridotti sull’industria lattiero casearia, a scapito di quella statunitense, che vedeva così svalutati i propri prodotti. L’USMSA prevede, al contrario, che il mercato canadese garantisca maggiore accesso alle forniture statunitensi di tali prodotti. Questa particolare clausola del trattato ha, tuttavia, suscitato qualche critica. Alcuni, tra l’opinione pubblica canadese, hanno infatti espresso la propria disapprovazione verso un accordo che, sancendo l’apertura ai prodotti lattieri statunitensi, segna una perdita di mercato per l’industria casearia canadese e ne aumenta la competizione. Ciò, nonostante il governo canadese abbia espresso tutta l’intenzione di offrire una compensazione a quei produttori che vedranno ridurre la propria domanda a causa della nuova intesa commerciale.

Il trattato trilaterale è stato definito dal Presidente statunitense come un passo cruciale nella storia degli Stati Uniti. La sua approvazione è, infatti, una diretta risposta alle promesse elettorali di revisione del NAFTA, giudicato antiquato e non più in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze del mercato e del commercio odierni. Fino ad agosto scorso, un’intesa preliminare era stata raggiunta solo fra Stati Uniti e Messico, mentre alcune perplessità del Canada su precisi aspetti del nuovo accordo ne avevano ritardato l’adesione. Dopo settimane di tensione, anche il primo ministro Trudeau ha, tuttavia, firmato l’USMSA, che dovrebbe garantire la creazione di nuovi posti di lavoro e un rafforzamento della classe media nei


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole ARABIA SAUDITA 28 settembre. La Mecca investita da importati blackout, eccezionalmente colpita da 4 giorni di forte tempesta. Le forti piogge hanno causato numerosi disagi nella città santa.

TRE CONDANNE A MORTE: RISPOSTA DELL’IRAN ALLA CRISI

La recente crisi economica ha portato a Corti Speciali contro corruzione e reati finanziari

EGITTO

Di Maria Francesca Bottura Una situazione drammatica quella iraniana, con una crisi che sembra non avere una fine facile. E come per ogni crisi della storia mondiale, si è avviato un macchinoso processo al fine di identificare dei colpevoli. 29 settembre. Multata e condannata a 2 anni di carcere per aver diffuso delle fake news. L’attivista per i diritti delle donne, Amal Fathy, aveva postato un video di denuncia in cui mostrava le molestie subite da una donna, denunciando il lassismo del governo. IRAQ 29 settembre. Gli Stati Uniti hanno annunciano la chiusura del proprio consolato nella città di Basra per “motivi di sicurezza”. La decisione sarebbe arrivata dopo che razzi iraniani sarebbero stati sparati in direzione della città irachena, come riportato dal Dipartimento di Stato americano. 30 settembre, Si chiudono le urne delle elezioni regionali in Kurdistan. Con un’affluenza bassa, sono dati in testa il Partito Democratico Curdo (KDP) e l’Unione Patriottica Curda (PUK).

Di trentadue cittadini processati per corruzione e reati finanziari dai tribunali speciali recentemente istituiti, tre sono stati condannati a morte, secondo quanto riportato dalla televisione di Stato il 30 settembre scorso. Per i più ‘fortunati’ la condanna per corruzione può arrivare fino a venti anni di reclusione; condanne severe che seguono la scia della nuova campagna dell’ayatollah Ali Khamenei e che vorrebbe mirare proprio all’estirpazione della corruzione tramite “azioni legali rapide e giuste”. Tale reato, infatti, è considerato punibile con la morte secondo la sharia, poiché la corruzione è comportamento vietato. Ai tre condannati, sempre secondo il portavoce della magistratura Gholamhossein Mohseni Ejei, è stata data la possibilità di ricorrere in appello. Cinque anni fa la magistratura iraniana aveva già condannato

a morte quattro persone per lo stesso capo di imputazione e che è rimasta, tutt’oggi nella storia dell’Iran, la più grave delle truffe. Le ragioni di questa crisi sono l’uscita degli molteplici: Stati Uniti dall’accordo sul nucleare; il crollo del Rial (oggi valutato contro il dollaro a 1:90.000) e una disoccupazione del 12,3% destinata ad aumentare fino al 20% entro la fine del 2018. Inoltre, molti si sono accaniti contro l’attuale presidente Hassan Rouhani, il cui fratello, solo l’anno scorso, era stato arrestato con l’accusa di aver commesso reati finanziari, gli stessi crimini che sono sotto la lente di ingrandimento negli ultimi mesi. Tale situazione ha portato alla rivalutazione dell’oro e di valute estere per effettuare scambi, portando anche ad un arresto, come nel caso di un uomo colto in possesso di ben due tonnellate di monete d’oro due mesi fa. Nel frattempo, nel resto del Paese nuove proteste insorgono contro la corruzione, mentre sul fronte economico gravano anche nuove sanzioni da parte degli Stati Uniti. Una vera e propria guerra economica e civile che rischia di portare al collasso l’Iran e il suo governo. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE ISRAELE/PALESTINA

28 settembre. Il premier israeliano Netanyahu chiede formalmente agli ispettori delle Nazioni Unite di “cercare un deposito di armi nucleari” che, a suo dire, si troverebbe in prossimità di Teheran. Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ribatte alle accuse: “inventate di sana pianta”. QUATAR 30 sett. Doha respinge fermamente le accuse di finanziamento del terrorismo mosse da Arabia Saudita e da Emirati Arabi Uniti (EAU) YEMEN

29 settembre. Trascorsi 2 anni dalla sua chiusura, l’aeroporto di Sana’a potrebbe riaprire. La comunicazione giunge dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martin Griffith. 30 settembre. Le Nazioni Unite si sono espresse, con 21 voti favorevoli, per la prosecuzione delle indagini sui possibili crimini di guerra commessi dalla coalizione a guida saudita, in quella che è stata definita “la peggiore crisi umanitaria di sempre”. A cura di Jean Marie Reure

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“GERUSALEMME NON È IN VENDITA” Abbas e Netanyahu parlano alle Nazioni Unite, ma manca il dialogo

Di Martina Scarnato “Gerusalemme non è in vendita”: ha esordito così il presidente palestinese Mahmoud Abbas davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite giovedì 27 settembre scorso. Nel corso dell’intervento, Abbas ha ribadito di volere la pace per Israele e la Palestina, ma ha anche sottolineato come questa sia attualmente impossibile a causa di diversi fattori, a partire dalla Nation-state law, che dichiara Israele come “patria del popolo ebraico” e che discriminerebbe le minoranze arabe presenti sul territorio. L’unica maniera per ottenere la pace nella regione sarebbe la “soluzione a due stati”, che comporterebbe la formazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme Est. Il presidente ha anche puntato il dito contro gli Stati Uniti, accusandoli di aver minato tale possibilità con una serie di azioni culminate con il trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Per questo motivo, Washington non sarebbe più un mediatore ideale tra i due paesi, a causa della sua evidente non neutralità. Le parole di Abbas non sono state tenute in considerazione dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che, intervenu-

to poco dopo, ha principalmente incentrato il suo discorso sull’Iran. Il premier ha poi dedicato poche parole alla questione palestinese, principalmente difendendo la Nation-state law. Il quotidiano israeliano Haaretz ha definito il discorso di Abbas come “intriso di impotenza e mancanza di strategia”. Tuttavia, neanche Hamas ha apprezzato l’intervento, poiché il Presidente è sembrato ammettere il fallimento delle proprie politiche, facendo inoltre solo un piccolo accenno al movimento della Grande marcia per il ritorno. È evidente che comunque non sono stati compiuti passi in avanti da nessuna delle due parti: se infatti da una parte il discorso di Abbas non è stato particolarmente incisivo, dall’altra parte Netanyahu ha scelto deliberatamente di non affrontare la questione palestinese in maniera approfondita poiché consapevole di non godere di un forte appoggio in tal senso alle Nazioni Unite. Inoltre, se da un lato gli Stati Uniti di Trump non sono dei mediatori neutrali, dall’altra nessuno Stato europeo sembra avere come priorità la causa palestinese. Di conseguenza, al momento nulla sembra cambiare mentre il movimento di resistenza nella Striscia di Gaza continua, facendo registrare nuove vittime quotidianamente.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole ARMENIA

2 ottobre. Decine di migliaia di persone si sono radunate di fronte al Parlamento per protestare contro l’adozione di un progetto di legge che renderebbe più difficile, per il primo ministro Nikol Pashinian, sciogliere l’assemblea e indire nuove elezioni. La proposta è stata adottata con il supporto non solo dell’opposizione, ma anche di partiti dell’alleanza di governo. Pashinian, salito al potere dopo le lunghe proteste, della scorsa primavera, contro il suo predecessore, aveva manifestato l’intensione si indire nuove elezioni nella prima metà di dicembre. BOSNIA ERZEGOVINA 30 settembre. Il presidente russo Vladimir Putin e il leader serbo-bosniaco della Repubblica Srpska, Milorad Dodik, si sono incontrati a margine del Gran Premio di Formula 1 di Sochi. Dodik, conosciuto per le sue posizioni filo-russe, è uno dei candidati per un posto nella presidenza a tre membri dello Stato balcanico alle elezioni del 7 ottobre. Putin ha augurato la vittoria al leader serbo-bosniaco. “Penso che ci sia una severa e inutile narrazione su un presunto effetto malefico della Russia nel nostro Paese e nella regione”, ha detto Dodik. KOSOVO

UZBEKISTAN, PIU’ UMANITÀ NEI CAMPI DI COTONE Meno bambini e lavoratori forzati nei campi uzbeki

Di Davide Bonapersona

all’anno.

Il Dipartimento Americano del Lavoro ha pubblicato l’annuale report sui Paesi che sfruttano il lavoro infantile e/o forzato nella raccolta del cotone per la produzione di indumenti. In questo documento, l’Uzbekistan per molti anni è stato inserito nella lista di quei Paesi che, di anno in anno, non hanno riportato alcun miglioramento. Tuttavia, grazie ai notevoli sforzi fatti negli ultimi due anni, nel report del 2017 è stato promosso nella lista dei Paesi che mostrano un “moderato miglioramento”.

La situazione ha iniziato a cambiare a fine 2016, con l’elezione dell’attuale presidente Shavkat Mirziyoev. Infatti, al momento del suo insediamento, Mirziyoev ha promesso di volersi impegnare seriamente nella lotta al lavoro forzato e infantile nei campi di cotone. Tra le misure più efficaci che sono state adottate dal governo uzbeko in questa battaglia vanno segnalate: il coinvolgimento dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e di varie ONG nell’attività di controllo dei flussi di lavoratori verso i campi, l’aumento del salario minimo da riconoscere ai lavoratori e l’introduzione di un nuovo sistema di denuncia delle attività illegali.

L’industria legata al cotone è sempre stata una delle colonne portanti dell’economia uzbeka: il paese, infatti, figura tra i maggiori produttori e esportatori di cotone al mondo. Per sostenere questo settore, fin dall’indipendenza del Paese, avvenuta nel 1991, le autorità uzbeke hanno obbligato ogni anno, durante la stagione della raccolta, centinaia di migliaia di persone (anche bambini) a lavorare nei campi di cotone. Il resto del mondo ha sempre cercato di contrastare questa pratica, imponendo sanzioni o boicottando i prodotti ottenuti con cotone uzbeko. Ciò nonostante, il numero di persone obbligate a lavorare nei campi ha continuato ad aumentare progressivamente nel corso degli anni, arrivando a superare il milione di persone

Sia l’Organizzazione Internazionale del Lavoro sia il Dipartimento Americano del Lavoro hanno elogiatole riforme realizzate dall’Uzbekistan e hanno annunciato che, nel 2017, la maggior parte dei 2.6 milioni di raccoglitori di cotone si sono impegnati volontariamente e che il ricorso al lavoro infantile nei campi è stato fortemente diminuito. Allo stesso tempo, però, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha esortato le autorità uzbeke a compiere maggiori sforzi per ridurre ulteriormente il lavoro forzato. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI 29 settembre. Migliaia di persone si sono radunate a Pristina per protestare contro il presidente Hashim Thaci. La manifestazione, organizzata dal partito di opposizione Vetevendosje, si è espressa contro le proposte di correzione dei confini del Paese in un possibile accordo con la Serbia. Albin Kurti, leader di Vetevendosje, ha detto: “questo Presidente si presenta con dolorosi compromessi, dolorosi non per la Serbia, ma per il Kosovo”. MACEDONIA 30 settembre. Il referendum consultivo sul nuovo nome dello Stato balcanico non ha raggiunto il quorum del 50%+1: l’affluenza si infatti è attestata al 36%. Più del 90% dei partecipanti ha comunque votato a favore dell’adozione del nome “Macedonia del Nord”, come stabilito negli accordi di Prespa con la Grecia. Dato importante per il primo ministro macedone Zaev, che vorrebbe concludere il percorso di inserimento della Macedonia all’interno della NATO e dell’Unione europea. RUSSIA 4 ottobre. Forti proteste, che hanno coinvolto qualche migliaio di persone, si sono tenute a Magas, capitale della regione dell’Inguscezia. I manifestanti hanno sfilato nell’area intorno al Parlamento regionale contro l’accordo di scambio di territori tra l’Iguscezia e la confinante Cecenia. Secondo alcuni video presenti sui social media, le forze di sicurezza avrebbero sparato in aria per disperdere la folla. Per gli oppositori, l’accordo consisterebbe in un abbandono dei territori a favore delle Cecenia e a spese dell’Iguscezia. A cura di Vladimiro Labate 10 • MSOI the Post

IN MACEDONIA PREVALE L’ASTENSIONISMO: NON RAGGIUNTO IL QUORUM Oltre il 90% dei votanti aveva scelto il Sì allo storico referendum

Di Mario Rafaniello Domenica 30 settembre si è tenuto in Macedonia il referendum consultivo per ratificare l’accordo di Prespa con la Grecia sul nome dello Stato balcanico. Circa il 90% dei 630.000 votanti accorsi alle urne ha votato ‘Sì’. L’affluenza al 36,8% non ha tuttavia garantito il successo della consultazione, attraverso cui si è chiesto al popolo di esprimersi sulla possibilità di aderire alla NATO e all’UE in seguito all’adozione del nome “Macedonia del Nord”. Questa condizione è richiesta dalla Grecia per rimuovere il proprio veto all’ingresso dell’attuale FYROM nelle due organizzazioni. L’esito positivo avrebbe posto fine alla lunga disputa con Atene iniziata nel 1991. A poco sono servite le visite dei vertici NATO e degli Stati membri dell’UE, tra cui la cancelliera tedesca Angela Merkel, la quale, durante una conferenza a Skopje, ha esortato i macedoni: “Non restate a casa il 30 settembre, in questo giorno storico. Cogliete l’occasione e dite chiaramente che tipo di futuro volete”. Ha funzionato la strategia del partito d’opposizione Vmro-Dpme che, senza prendere posizione, non ha risparmiato critiche al referendum. Ivo Kotevski, di-

rettore delle comunicazioni del partito, ha fatto presente come la questione proposta agli elettori sia “ingannevole”, poiché sono state proposte tre questioni (l’UE, la NATO e l’accordo con la Grecia) sulle quali il popolo in questi mesi ha avuto opinioni contrastanti. Un boicottaggio annunciato è stato quello del presidente della Repubblica Ivanov, esponente del Vmro-Dpme, che a giugno si rifiutò di firmare l’accordo di Prespa. Nonostante il flop, Zaev ha annunciato che non si dimetterà, determinato a proseguire i negoziati con Atene e il riavvicinamento all’UE, forte del parere positivo espresso dai votanti. Il premier greco Tzipras ha espresso solidarietà al collega macedone, apprezzandone l’insistenza nel tenere fede agli accordi presi. Da parte sua Zaev ha espresso l’intenzione di dialogare con le opposizioni per trovare un accordo e ottenere i 2/3 necessari per le modifiche costituzionali atte a proseguire su questa strada. L’alternativa sarebbero le elezioni anticipate, dove il Vmro-Dpme, tuttavia, potrebbe farsi forte della bocciatura appena subita dall’attuale governo. Il rischio è il ritorno dello stallo politico che due anni fa, per parecchi mesi, bloccò la formazione del governo post-elettorale.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole INDIA 27 settembre. La Corte Suprema ha emesso una storica sentenza abrogando l’articolo 497 del Codice Penale, fortemente criticato per il suo carattere discriminatorio e definito “incostituzionale”. La disposizione abrogata identificava l’adulterio come un reato punibile con la reclusione fino a 5 anni e stabiliva la possibilità, per l’uomo tradito, di denunciare il colpevole; diritto non concesso alla medesima parte femminile. “L’adulterio può essere motivato da questioni civili, incluso lo scioglimento del matrimonio, ma non può essere considerato un reato”, ha affermato il ministro della Giustizia, Dipak Misra, durante la lettura della sentenza. INDONESIA

3 ottobre. In seguito al terremoto di magnitudo 7,4 verificatosi nell’isola di Sulawesi e al conseguente tsunami che ha travolto Palu e di Donggala, la situazione nell’area si è ulteriormente aggravata, nella giornata di mercoledì, a causa dell’eruzione del vulcano Soputan, sito a 600 km da Palu. Oltre 1400, il bilancio delle vittime. Le attività di salvataggio sarebbero state ostacolate sia dalla mancanza di macchinari adeguati sia dalla scarsa presenza di vie di collegamento, danneggiate in conseguenza al disastro. Circa 66.000, le case distrutte e 200.000 le persone che necessitano di assistenza. L’Australia ha inviato aiuti medici nelle aree colpite

CINA E VATICANO SI ACCORDANO SULLA NOMINA DEI VESCOVI “Un accordo pastorale e non politico”

Di Fabrizia Candido L’accordo siglato il 22 settembre a Pechino dal sottosegretario per i rapporti della Santa Sede con gli Stati Antoine Camilleri e dal viceministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese Wang Chao arriva dopo lunghe trattative iniziate con Papa Giovanni Paolo II. Sebbene provvisorio, poiché aperto a revisioni durante il periodo di applicazione sperimentale, esso segna un importante riavvicinamento tra i due Paesi, che dal 1951 non hanno più avuto rapporti ufficiali. aLa Cina è ufficialmente ate , ma tramite l’art. 36 della Costituzione permette l’esistenza di diverse fedi religiose sotto la supervisione dell’Ufficio Statale per gli Affari Religiosi. Ciò ha comportato, finora, che la nomina dei vescovi cinesi spettasse all’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi, controllata dallo Stato, e non al Vaticano, come nel resto del mondo. Pertanto tali vescovi hanno ricevuto la scomunica ufficiale dal Papa e, contemporaneamente, quelli legittimamente nominati dalla Santa Sede, ma non riconosciuti dall’Associazione Patriottica, sono stati ritenuti ‘clandestini’. L’accordo mira alla risoluzione della controversia, prevedendo da parte della Cina il riconoscimento di Papa Francesco come capo della Chiesa Cattolica Cinese con ultima parola sulle nomine vescovili e, da parte del Vaticano, il ricono-

scimento dei 7 vescovi cinesi attualmente scomunicati. Le comunità cattoliche di USA e Hong Kong hanno accusato il Vaticano di “svendita” alla Cina, sottolineando che l’accordo dovrebbe, in primis, essere fondato sulla “tutela della libertà religiosa e sulla fine delle persecuzioni religiose”, in riferimento soprattutto alle recenti vicende riguardanti l’etnia uigura. Secondo l’analisi di The Diplomat, se la Santa Sede accettasse un accordo diplomatico con Pechino senza in cambio un concreto impegno a porre fine alle suddette persecuzioni, subite anche dalla Chiesa Cattolica Clandestina Cinese, perderebbe autorità morale e fiducia in tutto l’est asiatico. L’accordo viene poi visto con allarme da Taiwan. L’ambasciata taiwanese a Città del Vaticano è l’unica presente in Europa e, nonostante non ci sia un nunzio apostolico nell’isola, il Vaticano riconosce ufficialmente la Repubblica di Cina dal 1942: perdere tale alleato renderebbe Taiwan sempre più diplomaticamente isolata. Infine, l’accordo rafforzerebbe il soft power cinese in un periodo di forte pressione internazionale e amplierebbe il numero dei fedeli in Asia, un esempio di cooperazione win-win che si accorderebbe alle aspirazioni di due grandi potenze: Cina (1,4 miliardi di abitanti) e Chiesa (1,3 miliardi di battezzati al mondo).

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ORIENTE dalla tragedia e il Fondo di Emergenza delle Nazioni Unite ha stanziato 15 milioni di dollari di aiuti.

FIDUCIA E DISARMO NUCLEARE

La Corea del Nord richiede agli Stati Uniti una maggiore collaborazione

MALESIA

Di Emanuele Chieppa

3 ottobre. Rosmah Mansor, moglie dell’ex primo ministro malese, Najib Razak, è stata arrestata dalla Malaysian AntiCorruption Commission (MACC) con l’accusa di riciclaggio di denaro. L’arresto rappresenta l’apice di un’indagine portata avanti dalle autorità, a partire dal 2015, nei confronti di Najib, dichiaratosi non colpevole, riguardo allo scandalo della 1Malaysia Development Berhad (1MBD), società di sviluppo strategico malese, dal quale fondo sarebbero stati rubati circa 4,5 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. TAIWAN

2 ottobre. Il vicepresidente Chen Chien-jen visiterà il Vaticano il 14 ottobre. In tale occasione avrà un’udienza privata con Papa Francesco al fine di approfondire le relazioni diplomatiche tra le parti. Nonostante, quindi, il recente accordo tra Cina e Vaticano sulla nomina dei vescovi, le relazioni tra Taiwan e la Santa Sede rimangono solide. A cura di Francesca Galletto 12 • MSOI the Post

Il 25 settembre ha avuto inizio a New York la 73° Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel discorso di apertura, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ribadito la necessità della continuazione del processo di disarmo nucleare nordcoreano e dell’attuazione delle sanzioni fino al suo completamento. L’Assemblea ha fornito un’occasione al ministro degli Esteri nordcoreano Ri Yong Ho, per mettere in luce il senso di sfiducia che la Corea del Nord nutre verso gli Stati Uniti, dato che non si sono verificati, secondo il Ministro, degli sforzi concreti da parte di Washington in risposta alle azioni intraprese da Pyongyang. Nello specifico, finora la DPRK ha adottato una moratoria sui test nucleari e balistici a lungo raggio, oltre ad aver demolito l’unico sito già noto adibito a queste sperimentazioni. Kim ha promesso di distruggere altre infrastrutture dell’industria atomica nazionale, tra cui il complesso di Yongbyon, invitando esperti esterni ad assistere. Pyongyang non ha offerto però un inventario dei propri ordigni e delle riserve di carburante missilistico, come avrebbero voluto gli States, insistendo invece perché le controparti intraprendessero “misure corrispondenti” come da accordo, e in particolare affinché Washington dichiarasse la guer-

ra conclusa. È ragionevole, d’altronde, pensare che Kim Jong-Un ed i suoi saranno cauti nell’avvio di un vero e proprio processo di disarmo, che li priverebbe di un deterrente contro un attacco militare statunitense, capace di condurre all’annientamento della Corea del Nord e alla fine del regime. Il 15 settembre scorso, invece, per la terza volta in otto mesi si sono incontrati i leader delle due Coree, Moon Jae-in e Kim Jong-un. L’incontro avvenuto a Pyongyang ha visto il presidente Moon richiedere la condivisione di maggiori dettagli sul processo di disarmo intrapreso, interesse sostenuto principalmente dallo storico alleato statunitense. Durante il summit inoltre, i due leader hanno concordato il via libera a un graduale allentamento della tensione ai confini, mostrandosi inclini a voler continuare il processo di pace intrapreso. Di fatto, il 1° ottobre sono iniziate le operazioni degli artificieri dei due eserciti, al lavoro per la bonifica dei campi minati nella zona denuclearizzata tra i due Paesi, in cui permangono ordigni che risalgono alla guerra di Corea. Tra gli obiettivi vi è la costruzione di una strada e operazioni di bonifica in Panmunjom, un villaggio in cui in passato sono avvenuti violenti scontri e un luogo simbolico per il quale si auspica un ritorno al turismo da ambo le parti.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole BURUNDI 4 ottobre. Continuano le polemiche riguardo la sospensione delle attività delle ONG Internazionali, bloccate nel Paese dal 1 ottobre, con esclusione di quelle operanti in scuole e ospedali. A tutte sarebbe stato concesso un termine di 3 mesi per mettersi in regola con le nuove direttive del governo. Sarebbero richiesti, un accordo di cooperazione tra Ong e Ministero Degli Affari Esteri, un protocollo di disciplina concernente il proprio settore di intervento, l’impegno al rispetto delle normative finanziarie e l’impegno alla “correzione dello squilibrio etnico”. ETIOPIA 2 ottobre. Tra la regione di Oromia e quella di Benishangul, nell’ovest del Paese, continuano gli scontri tra comunità locali. Gli ultimi atti di violenza hanno condotto alla morte di altre 44 persone. I disordini sarebbero iniziati il 28 settembre, quando 4 dirigenti della regione di Benishangul sono stati uccisi nella regione di Oromia da uomini non identificati. L’accaduto ha riacceso i dissidi esistenti da tempo tra le due regioni spingendo, come confermato dalle Nazioni Unite, circa 70.000 persone ad abbandonare la propria abitazione per cercare riparo altrove.

MALI 30 settembre. Un villaggio nel

SCIOPERO IN ATTESA DEI SALARI

Le trattative per l’innalzamento degli stipendi minimi mettono in ginocchio la Nigeria

Di Federica De Lollis Lo scorso 26 settembre, e per i 5 giorni successivi, la Nigeria è rimasta completamente paralizzata a causa degli scioperi indetti dalle maggiori organizzazioni sindacali a seguito delle infruttuose trattative per l’innalzamento degli stipendi minimi. La decisione è stata presa dalla federazione nazionale delle organizzazioni sindacali, Nigeria Labour Congress, dopo che il governo, rappresentato dal ministro per il Lavoro e l’Impiego Chris Ngige, nell’ultimo incontro con i sindacati ha rimandato alla riunione successiva la decisione su una possibile disciplina normativa del salario minimo da sottoporre al presidente Muhammadu Buhari per l’approvazione definitiva. L’impatto della sospensione di gran parte dei servizi pubblici nel Paese più popoloso del continente non poteva che essere violento, con effetti particolarmente disagevoli per le capitali, rispettivamente amministrativa e commerciale, Abuja e Lagos. La richiesta del governo di far rientrare gli scioperi è stata accolta solo il 1° ottobre scorso, in occasione del 58° anniversario dell’indipendenza della Nigeria, al fine di evitare ten-

sioni nei giorni immediatamente precedenti l’ultimo incontro trilaterale previsto per il 4 e il 5 ottobre tra governo federale, governi statali e sindacati per discutere nuovamente su condizioni di lavoro e retribuzioni. Il National Minimum Wage Committee e le organizzazioni sindacali, riunite nel Nigeria Labour Congress, richiedono degli stipendi minimi compresi tra i 45.000 e il 65.000 naira mensili (107-154 €) contro gli attuali 18.000 naira mensili (42,60 €). Ciò che rende l’operazione particolarmente ostica è che non è mai stato fissato un limite salariale minimo prima d’ora. Altra questione spinosa, sulla quale, tuttavia, governi statali e governo centrale sembrano concordare, è la possibilità per gli Stati di fissare un proprio salario minimo. Qualora questa eventualità si realizzasse, verrebbero a crearsi profonde disparità, specialmente alla luce del fatto che molti Stati trovano già difficoltà a garantire gli stipendi ora contestati. Fino a quando non sarà garantito il salario minimo a tutti i lavoratori, i sindacati resteranno uniti nell’intento che li accomuna da quasi un anno, senza escludere nuovi possibili atti di protesta.

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AFRICA nord del Paese, vicino alla città di Ansongo, è stato attaccato nella mattinata da un gruppo di uomini armati. Dopo aver sparato ed ucciso 22 civili, si sarebbero dati alla fuga. Si tratta del 5°attacco, dal mese di luglio, avvenuto nella regione e con le medesime modalità. Come i precedenti, anche in questo caso non è giunta alcuna rivendicazione ufficialmente da parte dei gruppi armati attivi nell’area. 3 ottobre. Nella città di Mopti, al centro del Paese, il gruppo armato di etnia dogon, Danan Ambassagou, ha finalmente deposto le armi. Dopo solo 1 settimana dal cessate il fuoco, il primo ministro maliano, Soumeylou Boubeye Maiga, ha incontrato il comandante in capo del gruppo armato, Youssouf Toloba, per parlare di futuro e di pace per il Paese. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 3 ottobre. La tensione tra il governo congolese e le Nazioni Unite è sempre più alta, nonostante l’imminente arrivo di 15 membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU a Kinshasa, previsto per il 5 ottobre. SOMALIA 2 ottobre. Un convoglio appartenente alla Missione Europea di formazione militare in Somalia è stato attaccato da un’autobomba dopo essere uscito dall’edifico del Ministero della Difesa somalo. Nessuno dei militari italiani presenti sui veicoli è stato ferito, mentre le vittime tra i civili sono state 4. L’attentato è stato subito rivendicato dal gruppo jihadista al Shabaab, molto attivo nella regione. A cura di Francesco Tosco

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60 ANNI DOPO

In Guinea si festeggia l’anniversario dell’indipendenza

Di Guglielmo Fasana Sono cariche di pathos le parole pronunciate dal presidente Alpha Condé alla vigilia del Sessantesimo anniversario dell’indipendenza del suo Paese: “Dopo 60 anni di lavoro e di sacrifici, invito tutti voi a privilegiare ciò che è essenziale, vale a dire la protezione della nostra casa comune nella pace, nella coesione sociale e nell’unità nazionale”. Così il Presidente ha incoraggiato i suoi cittadini nel discorso ufficiale del 1° ottobre. Era il 2 ottobre 1958 quando la Guinea si oppose con un “no” referendario al progetto di una nuova Costituzione proposto da Charles de Gaulle, la quale prevedeva un progetto di comunità politica ed economica con la Francia. Paladino della battaglia per l’indipendenza fu Ahmed Sékou Touré, all’epoca deputato all’Assemblée Nationale francese e sindaco di Conakry, entrato negli annali politici della Guinea grazie alla celebre frase: “non può esserci dignità senza libertà; meglio essere poveri nella libertà che ricchi nella schiavitù”. Tuttavia, il risentimento scatenato dall’era del colonialismo europeo in Africa non è ancora del tutto sopito, e la retorica della rivalsa tocca nel vivo molti cittadini ed elettori guineani. In una recente intervista rilasciata in una trasmissione di TV5 Monde, Alpha Condé non ha nascosto il proprio disappunto, in particolare nei confronti

della Francia, colpevole secondo il Capo di Stato di aver “voluto annientare economicamente la Guinea”, costringendola in una posizione di “quarantena”, e di aver “fatto di tutto […] per isolare il Paese e fare in modo che la Guinea non potesse svilupparsi”. In effetti, dopo la partenza della Francia alla fine degli anni Cinquanta, la Guinea ha dovuto fare a meno del suo partner commerciale per eccellenza, pur trattandosi della potenza che l’aveva mantenuta sotto il proprio controllo coloniale. Si è dunque tentata la strada del blocco socialista e dell’economia pianificata, con scarsi risultati. Nemmeno la svolta politica liberale, a metà degli anni Ottanta, foriera di privatizzazioni e apertura dei mercati, è riuscita a innescare il cambiamento atteso da tutti. Oggi il Paese conclude scambi commerciali con Cina, India e Turchia, ma sono soprattutto i giovani che faticano a ritagliarsi uno spazio al centro dell’attività economica. Alle prese con una serie di manifestazioni tenutesi pochi giorni fa nella capitale Conakry contro la destituzione del Presidente della Corte costituzionale e anche alla luce dei trascorsi storici, Alpha Condé si è giocato la carta dell’unità nazionale nel giorno dell’indipendenza, condizione inderogabile per poter continuare a costruire una Guinea ancora giovane e in cerca di un’identità definitiva.


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole BRASILE

3 ottobre. Bolsonaro ha ricevuto un appoggio dai mercati nella fase finale della campagna elettorale. La borsa di San Paolo ha, infatti, raggiunto il picco del 4%. Ciò può essere dovuto alla promessa di nomina di Paulo Guedes come ministro dell’Economia, professore formato nella tradizione della Scuola di Chicago, il quale ha promesso una privatizzazione delle imprese pubbliche. Un cambio di rotta che stupisce, dal momento che i diversi settori imprenditoriali avevano appoggiato il candidato Geraldo Alckmin, del Partito Social Democratico Brasiliano. CILE

5 ottobre. Il presidente Sebastián Piñera inizia il suo primo “tour” internazionale in Europa. Si estenderà per 9 giorni e avrà come meta finale, il 13 ottobre, il Vaticano. Il ministro portavoce del governo, Cecilia Pérez, ha spiegato che l’obiettivo sarà quello di “incontrare i diversi leader mondiali, soprattutto per cercare alleanze, come è avvenuto con gli USA, che diano impulso e riattivino l’economia e che possano creare nuovi e migliori posti di lavoro”. Infatti, durante tutte le tappe del viaggio, il Presidente sarà accompagnato da una delegazione di imprenditori.

L’ARGENTINÀ RICEVERA DAL FMI IL MAGGIOR PRESTITO DELLA STORIA

Lo scopo di tale prestito è quello di uscire dalla crisi ed abbassare deficit ed inflazione

Di Tommaso Ellena Il Fondo Monetario Internazionale ha concordato con il governo argentino un prestito di 57,1 miliardi di dollari per intervenire rapidamente nel sanare la crisi economica che sta colpendo il Paese latinoamericano. La direttrice del FMI, Christine Lagarde, ha dichiarato di “appoggiare il piano di riforma proposto dall’Argentina”; per la fine del 2018 più del 60% del prestito totale sarà già a disposizione del governo di Macri, che potrà utilizzarlo per sanare parte del debito, per rinforzare le opere pubbliche e, come ha sottolineato la stessa Lagarde, per assicurare una solida protezione sociale a favore dei più deboli. Tale prestito sarà accompagnato da alcune variazioni nella politica monetaria: come annunciato dal presidente del Banco Central de la República Argentina, Guido Sandleris, si interromperà la stampa di banconote così da limitare l’inflazione sempre più crescente. Tale scelta è stata promossa, in primis, dal FMI, al fine di interrompere l’indebitamento, anche a costo di frenare la crescita della produzione e del commercio. L’austerity invocata da Christine Lagarde potrebbe però avere effetti negativi sulla produzione, danneggiando ulteriormente l’economia argenti-

na. Grazie a questo intervento, l’intervento del Fondo e la fiducia mostrata da Lagarde, Macri potrà concentrarsi sull’organizzazione della campagna elettorale in vista delle prossime elezioni presidenziali. Molti argentini si mostrano infatti preoccupati dell’ingombrante presenza del FMI in Argentina, che porta alla mente di molti risparmiatori ricordi poco piacevoli. Già nel 2001, il governo di Fernando de la Rúa decise di chiedere l’appoggio del Fondo per contrastare il deficit; da quel momento iniziò una crisi senza precedenti nello Stato latinoamericano, con aumento dell’inflazione e della disoccupazione. Solo nel 2006, durante il governo di Néstor Kirchner, l’Argentina riuscì a pagare interamente il debito contratto con il FMI. Il ritorno di tale organismo nell’economia argentina, per il politologo Vicente Palermo, è visto come una scelta “umiliante, terribile, come abbassarsi i pantaloni”, l’ammissione di dell’incapacità di gestire autonomamente l’ennesima crisi economica del Paese. L’appoggio del FMI a Macri potrebbe perciò finire per indebolire ulteriormente la sua posizione in vista delle presidenziali del 2019, soprattutto se nei prossimi mesi non si vedranno tangibili risvolti positivi nell’economia reale argentina.

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SUD AMERICA NICARAGUA 1 ottobre. Denis Moncada, ministro degli Esteri, ha affermato davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York che il Paese ha resistito a un “tentativo di colpo di stato”, causato dall’atteggiamento interventista degli Stati Uniti. Infatti, dallo scorso aprile, migliaia di Nicaraguensi si sono riversati nelle strade di molte città del Paese per protesta. Gli scontri hanno causato 322 morti, secondo la Commissione interamericana dei diritti umani. PANAMA 2 ottobre. Le cancellerie di Italia e Panama hanno firmato un memorandum di intesa per istituire un meccanismo per le consulte bilaterali. VENEZUELA

2 ottobre. Il Venezuela ha consegnato una nota di protesta all’ambasciatore francese, Romain Nadal, per rispondere al “gesto di inimicizia” del governo di Emmanuel Macron, il quale ha sollecitato la Corte Penale Internazionale nell’investigazione sui presunti crimini contro l’umanità commessi durante l’Amministrazione Maduro. Il governo francese è stato invitato a “non interferire negli affari interni”. 3 ottobre. “Il presidente Nicolás Maduro ha approvato un Fondo di Solidarietà finalizzato alla donazione di 10 milioni di dollari per la nostra sorella Indonesia per assistere le vittime del devastante terremoto e tsunami causa di migliaia di morti e di feriti nel Paese”, lo ha annunciato su Twitter Delcy Rodríguez, vicepresidente esecutiva. A cura di Davide Mina

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NESSUN ACCESSO AL MARE PER LA BOLIVIA La Corte Internazionale di Giustizia respinge la richiesta di rinegoziazione dei confini con il Cile

Di Elisa Zamuner La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) si è espressa sulla questione “Bolivia Mar” emanando una sentenza con la quale riconosce l’assenza di un obbligo pendente sul Cile di ridiscutere l’accesso all’oceano richiesto dalla Bolivia. La disputa tra i due Paesi si trascina da secoli. In seguito alla Guerra del Pacifico (1879-1884), il Cile estese la propria sovranità sino ai confini con il Perù, sottraendo alla Bolivia circa 400 chilometri di costa marittima, lasciandola così priva di sbocchi sull’oceano. In un trattato del 1904 il Cile riconobbe all’altro Paese il diritto al transito commerciale sul suo territorio, garantendogli libero accesso ai porti. Diversi economisti boliviani, tuttavia, sostengono che la dipendenza dai porti cileni danneggi gravemente l’economia del Paese, causando perdite economiche tra i 400 e i 1000 milioni di dollari l’anno. D’altro canto, il Cile va incontro a forti perdite per assicurare il libero transito alla Bolivia, la quale non è tenuta a pagare nessun dazio sul transito delle merci, ma sostiene unicamente i costi di trasferimento dei carichi al porto.

Da un punto di vista strettamente giuridico, la CIG ha dichiarato che non esiste alcun obbligo legale da parte del Cile di ridefinire i propri confini e quindi ridurre la propria sovranità; allo stesso tempo, essa ha invitato i due Paesi a continuare il dialogo per cercare delle possibili soluzioni. I rapporti diplomatici tra i due Paesi risultano infatti i difficoltos e non vi sono più stati incontri formali dal 1970. Il presidente boliviano Evo Morales, dopo aver assistito alla lettura della sentenza, ha dichiarato che “la Bolivia non si arrenderà mai e continuerà i suoi sforzi per ottenere ancora una volta un’uscita sovrana verso l’Oceano Pacifico”. Nonostante la sentenza sia inappellabile, il Presidente spera che ci siano le condizioni per poter lavorare ad un dialogo con il Cile. Il presidente cileno, Sebastian Piñera, ha invece accolto la decisione della Corte con entusiasmo, definendo la decisione “un trionfo storico per il Cile e per il diritto internazionale”, ed ha accusato Morales di aver creato nei suoi cittadini false aspettative. La notizia ha infatti deluso moltissimi boliviani, i quali, sperando in un esito diverso, si erano riversati per le strade di La Paz per festeggiare.


ECONOMIA

LA MANOVRA DEL POPOLO

L’approvazione del DEF tra rilancio dei consumi e perplessità europee

Di Michelangelo Inverso A una settimana dal clamoroso annuncio della maggioranza di rompere con gli impegni presi dal governo precedente di mantenere un deficit al 1,6% del PIL per il 2018, portandolo a 2,4%, numerose sono le questioni da analizzare, sia per il contenuto della ‘Manovra del Popolo’, sia per gli scenari extraeconomici, e squisitamente politici, che tali provvedimenti nazionali disegnano per tutta la UE. Anzitutto, cosa prevede il Documento di Economia e Finanza (DEF)? Molto ambiziose e dirompenti sono le principali misure previste nella manovra. Analizziamole con ordine. Il ‘reddito di cittadinanza’ si qualifica come sussidio per chi versa in stato di estrema indigenza, da finanziarsi con 10 miliardi di euro all’anno. Il governo si aspetta così una crescita dei consumi e, unitamente alla riforma dei centri per l’impiego, si attende un aumento del turn-over lavorativo, se non una diminuzione stessa della disoccupazione. La ‘quota 100’ è una misura che permette di diminuire nei fatti l’età pensionabile prevista dalla Legge Fornero (100 = età + anni di contributi). L’obiettivo è aumentare i posti di lavoro disponibili sul mercato,

favorendo così l’occupazione. È previsto anche un aumento delle pensioni minime da 450 a 780 euro mensili. Anche questa è una manovra che aumenterebbe i consumi. La flat tax al 15% sulle partite IVA (probabilmente con un tetto massimo per i redditi imponibili fino a 100.000 euro) è stata presentata come una misura per aumentare i redditi disponibili dei lavoratori autonomi, considerando che, negli anni, per effetto del Jobs Act, questa categoria di lavoratori si è noteolemente allargata, dal momento che le aziende avevano più convenienza ad assumere lavoratori formalmente autonomi non dovendo corrispondere loro i contributi pensionistici. Ora, lo spirito di questo primo DEF della ‘maggioranza gialloverde’ è chiaramente puntare a una crescita non più basata sul lato dell’offerta, vale a dire la grande imprenditoria, il settore bancario e i fondi di investimento, bensì sul lato della domanda. La platea dei beneficiari sarà certamente più ampia rispetto a quella delle precedenti manovre, essendo espansiva e non prociclica. Inoltre, i consumi sono stati troppo a lungo trascurati in Italia; basti pensare al blocco dei salari nella Pubblica Amministrazione.

Questi obiettivi possono essere raggiunti esclusivamente passando per un deficit che sia almeno pari al 2,4% per il 2018. Di per sé, un deficit di tale entità, contrariamente ad alcune dichiarazioni smaccatamente oppositive, è decisamente normale per uno Stato storicamente industriale come il nostro, quota che peraltro rispetterebbe anche il formale vincolo UE del 3% sul PIL. Sebbene quindi la manovra appaia formalmente adeguata, potrebbe tuttavia non avere gli effetti sperati, per diverse ragioni, di cui la più importante è senza dubbio la percezione degli investitori istituzionali (i ‘mercati’). Quello che davvero potrebbe portare ad aspettative negative sui mercati finanziari, con conseguenti effetti negativi sui tassi di interesse a breve termine, è la bocciatura del DEF da parte della Commissione Europea, dato che, sulla base del fatto che il debito pubblico complessivo potrebbe aumentare, esso risulta in contrasto con il Patto di Stabilità concluso dal governo Monti. Una bocciatura avrebbe, dunque, effetti devastanti sul mercato del debito italiano, ma sancirebbe una rottura definitiva tra Roma e Bruxelles, specialmente in vista delle elezioni europee 2019.

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ECONOMIA RUSSIA: APPROVATA LA CONTROVERSA RIFORMA DEL SISTEMA PENSIONISTICO La riforma, promossa dal presidente Putin, mette mano a un sistema creato da Stalin nel 1932

Di Giacomo Robasto

di vita per gli uomini è almeno pari o superiore a 76 anni, in Russia nel 2017 è stata di soli 67 anni per gli uomini e di poco superiore ai 75 anni per la componente femminile della popolazione.

Il 27 settembre, la Duma di Stato (camera bassa del parlamento federale russo) ha approvato in via definitiva la riforma delle pensioni voluta dal presidente Putin. Alla base del disegno di legge presentato a fine giugno dal primo ministro Medvedev, infatti, vi è il rinnovo del sistema previdenziale quasi immutato dal 1932, quando la Russia era da soli dieci anni parte dell’Unione Sovietica con a capo Stalin.

Ovviamente, come ha ribadito il presidente Putin nel suo discorso alla Duma, vi saranno alcune categorie professionali che saranno esentate dal cambiamento, nelle quali rientrano gli addetti ai servizi di sicurezza e i militari, oltre purtroppo all’immensa nube grigia dell’economia sommersa.

La riforma prevede innanzitutto l’innalzamento dell’età pensionabile per tutta la popolazione attiva. Se fino ad oggi, infatti, i cittadini russi sono abitualmente andati in pensione a 55 anni (donne) o 60 (uomini), dal 1 gennaio dell’anno prossimo non sarà più possibile. Tra il 2019 e il 2028 l’età minima per poter percepire la pensione d’anzianità salirà gradualmente a 63 anni per le donne e a 65 anni per gli uomini.

Ciononostante, dati demografici alla mano, è più che comprensibile l’opposizione di una larga fetta della popolazione, indipendentemente dallo strato sociale di provenienza. Secondo il centro studi Levada, istituto indipendente con sede a Mosca, oltre l’80% dei russi non è favorevole alla riforma, nonostante l’età pensionabile attuale in Russia risulti la più bassa tra tutti i Paesi membri dell’OCSE.

Novità, questa, che sembrerebbe più che sensata e al passo con i tempi in diversi Paesi europei e negli Stati Uniti, dove l’età pensionabile media è di 66 anni. Tuttavia, mentre in Europa e negli Stati Uniti l’aspettativa

Tra le ragioni che negli ultimi mesi hanno alimentato l’opposizione vi sono, oltre all’aspettativa di vita non ancora all’altezza dei Paesi occidentali, anche la qualità della vita e

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le condizioni di lavoro dei cittadini, che sono molto variabili tra gli 85 soggetti federati che compongono la Federazione Russa. Se, da un lato, moscoviti e pietroburghesi godono di una buona qualità della vita grazie alle svariate opportunità di lavoro nel settore terziario, lo stesso non vale per chi abita dal centro all’estremo oriente del Paese, da Ekatèrinburg a Vladivóstok. L’economia di svariate città lontane da Mosca, infatti, affonda le proprie radici nell’industria pesante ed estrattiva, i cui lavoratori, impiegati in lavori più duri e in difficili condizioni climatiche, si sentono sempre più trascurati dal processo decisionale del governo federale. Perciò, nell’ultimo mese si sono susseguiti centinaia di arresti nelle manifestazioni di piazza avvenute in molte città, in un clima di scontro con le autorità governative. Nonostante la recente rielezione con il 77% dei consensi, in seguito alle elezioni del 18 marzo scorso, si prospettano tempi duri per il presidente Putin. Secondo molti sondaggi, il suo gradimento è in forte caduta e i prossimi mesi saranno decisivi per stabilire le prossime mosse del governo. La grande festa di quest’estate è lontanissima.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL RAPPORTO ONU SUI ROHINGYA Cause e sviluppi di una crisi internazionale

Di Debora Cavallo Il rapporto dell’Onu reso pubblico recentemente spiega, nei crudi dettagli, la tragica situazione che si sta avverando in Myanmar nei confronti della minoranza islamica birmana Rohingya. Il rapporto è stato stilato da una commissione ad hoc, presentata in versione integrale dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, ed è un primo tentativo di raccontare gli abusi sulla minoranza musulmana per mano dell’esercito birmano, il Tatmadaw, accusato dall’Onu di genocidio. A tale proposito, nel 1948 a New York è stata ratificata la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio in cui, all’art. 2, si delinea cosa si intende per genocidio, ovvero “ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccidere membri del gruppo; b) causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo; c) sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) imporre misure dirette a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferire con la forza bambini del gruppo in un altro gruppo”.

Il Paese, però, guidato dal premio Nobel per la pace Aung San SuuKyi ha rimandato le accuse all’Onu, sostenendo che tale rapporto non sia oggettivo in quanto basato sulle testimonianze dei rifugiati e delle ONG, seppure sia stato lo stesso governo birmano a vietare l’accesso dei Commissari internazionali all’interno del Paese. Il rapporto descrive le tragedie di donne legate ad alberi e violentate, di mine nascoste sulle vie di fuga dei villaggi assediati e bombardati. Tali comportamenti consisterebbero in una violazione commessa dall’esercito birmano. Infatti, la Convenzione sulle armi classiche del 1996, nel Protocollo II, espressamente vieta l’impiego di mine, trappole ed altri dispositivi. Da anni, decine di migliaia di Rohingya cercano di scappare alle stragi che sono costretti a subire, sia via mare, verso Thailandia, Malesia ed Indonesia, dove spesso, purtroppo, vengono respinti, sia via terra, verso uno dei Paesi più poveri al mondo, il Bangladesh, che cerca di ospitarli. Le violenze hanno raggiunto l’apice nell’agosto 2017, dopo che alcuni militanti Rohingya hanno attaccato le postazioni della polizia birmana. Da quel momento, l’escalation di violenza ha portato oltre 700.000 Rohingya a fuggire in Bangladesh. Alcune

stime, seppure precarie, parlano di 10.000 persone uccise solo tra agosto e settembre 2017. “I principali generali del Myanmar, compreso il comandante in capo Min Aung Hlaing, devono essere oggetto di indagine ed essere perseguiti per genocidio nel nord dello Stato di Rakhine, come pure per crimini contro l’umanità e crimini di guerra negli Stati di Rakhine, Kachin e Shan”, è l’esortazione contenuta nel documento. Quanto ad Aung San SuuKyi e alle autorità civili in generale la commissione di fact-finding afferma: “Niente indica che abbiano partecipato direttamente alla pianificazione o all’attuazione di operazioni di sicurezza o che abbiano fatto parte della struttura di comando”, ma “con atti e omissioni le autorità civili hanno contribuito al fatto che venissero commessi crimini atroci”. Per la minoranza etnica, comunque, i timori non finiscono qui. Il Bangladesh è pronto a trasferire circa 100.000 famiglie in un’isola disabitata del Golfo del Bengala. La preoccupazione degli istituti umanitari si manifesta denunciando l’esposizione dell’isola ad inondazioni ed uragani, che renderebbero l’ambiente non consono alle necessità della popolazione. La Corte Penale Internazionale dell’Aja avvierà un’indagine preliminare su tali riscontri.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO PIÙ INTERNET PER TUTTI?

Il diritto di accesso a internet viene prima dei problemi di copyright

Di Stella Spatafora

blico e il diritto di distribuzione.

Lo scorso 12 settembre il Parlamento europeo ha approvato la proposta di una nuova Direttiva europea sul diritto d’autore, volta a tutelare i creatori di contenuti sul web. Tuttavia, il principale scetticismo sorto attorno alla Direttiva deriva dal timore che questa possa minacciare lo sviluppo di Internet mediante un controllo preventivo sul principale strumento di comunicazione del ventunesimo secolo, con tassazioni elevate sugli utenti e attraverso forti limitazioni alla circolazione delle informazioni online. I punti di maggior attrito riguardano l’Art.11, che impone alle piattaforme digitali di pagare per poter pubblicare dei link ai loro contenuti e l’Art.13, che crea loro un obbligo di filtrare tutti quei post che violano il diritto d’autore. Con la Direttiva, l’Unione europea ha fatto emergere la necessità di consentire una maggiore tutela alle opere dell’ingegno sul web, conscia del fatto che lo sviluppo delle nuove tecnologie ha comportato l’infinita duplicazione in copie di ogni tipo di opera creativa e la trasmissione delle stesse senza limiti spazio temporali, indebolendo i diritti di proprietà intellettuale come il diritto di riproduzione, il diritto di comunicazione al pub-

Nondimeno, occorre dare altrettanta rilevanza ai diritti di espressione e di informazione degli utenti, emblemi di una preziosa conquista di libertà democratica. La libertà di espressione venne consacrata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “La libertà comunicativa dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge” (Art.11). Da quel momento si diffuse il graduale riconoscimento del diritto di parola e di opinione che Internet ha progressivamente accolto. Considerare però Internet come un luogo pubblico idilliaco in cui chiunque possa trovare spazio per comunicare e trasmettere informazioni è alquanto utopistico e richiede pertanto misure adeguate per fronteggiare la circolazione di contenuti dannosi, al fine di tutelare l’utente.

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Internet rimane senza dubbio un prezioso bacino per diffondere le informazioni. Pertanto, è necessario garantire la diffusione globale della conoscenza, consentendo un più alto livello di accesso ai benefici derivanti

dalla rete. Internet deve essere considerato un bene pubblico globale da cui tutti ne possano usufruire in maniera virtuosa. Dunque, tra le legittime preoccupazioni da poco sorte nel Parlamento europeo circa la protezione dei contenuti e dei diritti online, dovrebbe tornare in auge anche quella di superare il divario tra la tecnologia avanzata dei paesi sviluppati e quella, per così dire, abbozzata degli altri. Occorre dunque spostare l’attenzione a monte della problematica, cogliendo l’esigenza di veicolare uniformemente i contenuti in rete e superare le probabilità di vere e proprie “favelas digitali”. Ciò che serve è un’adeguata politica di governance in grado di sostenere i paesi meno informatizzati e che allontani la minaccia del divario digitale, scongiurando altresì la possibilità di far divenire internet luogo di nuove ingiustizie. Occorre incentivare lo sviluppo uniforme di Internet, tutelando i diversi attori presenti online, incentivando la condivisione di idee e l’accesso universale alla conoscenza. L’era digitale dovrebbe progredire verso un’innovazione estesa e completa in cui l’accesso a Internet sia protetto e garantito ovunque.


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