Msoi thePost Numero 110

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni , Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Lucky Dalena, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Elena Amici, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolino, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Daniele Carli, Debora Cavallo, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria di Donato,Tommaso Ellena, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Lara Amelie Isai-Kopp, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Nina, Pierre Clement Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Barbara Polin, Jessica Prieto, Luca Rebolino, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Federica Sanna, Martina Santi, Martina Scarnato, Edoardo Schiesari, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner. Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA MAY PROPONE NUOVA – SOFT - BREXIT: CRISI A DOWNING STREET David Davis e Boris Johnson si dimettono

Di Rosalia Mazza Il 6 luglio 2018, la Premier Theresa May ha ottenuto il consenso dei suoi Ministri, riuniti nella residenza di Chequers, riguardo a una nuova proposta per le trattative relative alla Brexit. La nuova proposta comprende un’area di libero scambio con l’Unione Europea e la conseguente creazione di un tribunale specifico che abbia il potere di risolvere eventuali contrasti in materia commerciale, in modo da garantire autonomia giuridica al Regno Unito nei confronti dell’UE. Vi sarebbe inoltre un accordo doganale con differenti regimi tariffari sull’import (a seconda che i beni debbano raggiungere il Regno Unito o l’Unione Europea), accordo che garantirebbe al Regno Unito maggiore autonomia nei trattati commerciali con il resto del mondo, nonché una regolamentazione flessibile e autonoma relativa al settore dei servizi. Anche questa recente proposta porrebbe inoltre l’accento su questioni estremamente delicate, come la necessità di chiarire la posizione dell’Irlanda e gli accordi post-Brexit tra il governo britannico e l’Irlanda del Nord.

La “soft Brexit” ha però incontrato resistenze e ha comportato le dimissioni di vari esponenti politici nell’arco di poche ore. David Davis, ministro della Brexit, e Boris Johnson, ministro degli Esteri e tra i più agguerriti sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’UE, hanno rassegnato le dimissioni. Al posto del ministro Davis è stato nominato Dominic Raab, euroscettico e sostenitore della Brexit; la carica di Boris Johnson è invece passata a Jeremy Hunt, ex ministro della Sanità. La decisione di David Davis è stata motivata dallo stesso ex Ministro, che valuterebbe la nuova posizione della May in netto contrasto con la volontà popolare che, attraverso il referendum del 23 giugno 2016, avrebbe espresso il chiaro desiderio di una maggiore autonomia del Regno Unito rispetto all’UE, sia a livello economico-commerciale sia a livello giuridico. L’ex Ministro Johnson potrebbe invece approfittare della nuova posizione di svantaggio della premier May per aspirare alla carica di Primo Ministro. A dimettersi sono anche i ministri Steven Baker e Suella Braverman. La proposta di Theresa May – considerata la “Brexit giusta” dalla stessa Premier – mettereb-

be in forse la sua carica di Primo Ministro. Nonostante questo, secondo gran parte della stampa internazionale, non dovrebbe verificarsi la possibilità di un voto di sfiducia: anche tra i Tories, l’opzione preferibile – condivisa da gran parte delle aziende britanniche – sarebbe quella di una Brexit dalla linea più morbida, tale da non mettere a rischio l’economia del Paese. Sebbene Michel Barnier, il negoziatore per la Brexit dell’Unione Europea, si sia mostrato favorevole alla nuova proposta della Premier britannica, ponendo delle riserve sull’effettiva attuabilità delle negoziazioni, i punti sui quali Bruxelles sembri meno incline a cedere riguarderebbero in particolar modo la rinnovata inclusione del Regno Unito nel mercato dei servizi dell’Unione Europea, se accompagnata dall’autonomia richiesta dalla Premier May. Le divisioni politiche causate dalla Brexit sembrano non trovare rimedio, e la “soft Brexit” ha riaperto il dibattito sulla necessità di un nuovo referendum. La data per l’uscita effettiva del Regno Unito dall’Unione Europea – qualunque linea la Brexit assuma – sembra rimanere il 29 marzo 2019. MSOI the Post • 3


EUROPA EMERGENZA MIGRANTI IN BOSNIA: MEKTIC RISPONDE A BRUXELLES

Il Ministro della Sicurezza bosniaco respinge proposta UE di un centro di smistamento a Sarajevo

Di Edoardo Schiesari “Non siamo lʼhotspot dʼEuropa per i migranti”. Il ministro della Sicurezza bosniaco Drgan Mektic ha rigettato le proposte ventilate tra le aule del Parlamento europeo di far diventare lo Stato della Bosnia ed Erzegovina la sentinella dell’Unione Europea. La proposta consisteva nel trasformare questo Paese al confine con il territorio europeo in una sorte di Ellis Island a livello europeo, un centro cruciale per l’identificazione, lʼaccoglienza e il successivo smistamento dei profughi nei 28 Stati europei. Il Ministro ha infatti aggiunto che la Bosnia non ha “nè lʼintenzione nè la capacità di diventare un paese in cui esternalizzare l’accoglienza ai migranti”. Lungo la cosiddetta rotta balcanica, la via del Mediterraneo Orientale, tra il 2014 e il 2017 sono transitate 1.100.000 persone, numero poi drasticamente ridotto grazie alla sottoscrizione nel 2016 degli accordi tra Turchia e Unione Europea. La maggior parte dei profughi bloccati in Bosnia si trova a Bihac, paesino di circa 65.000 4 • MSOI the Post

abitanti, poco distante dal confine europeo della Croazia, verso cui si indirizza la maggior parte dei flussi migratori. A inizio giugno la Commissione Europea ha già stanziato 1,5 milioni di euro per la gestione dei migranti ammassati al confine tra la Bosnia e la Croazia, ma, parametrati allʼesigenza di sicurezza che è venuta a crearsi, non sembrano sufficienti. Nel dicembrescorso,vistounincremento migratorio del 300% nei primi 9 mesi del 2017, il governo di Sarajevo aveva deciso di creare un “organo di coordinamento”, che includesse rappresentanti del Ministero della Sicurezza, del Ministero per i diritti umani e dei Rifugiati e del Ministero degli Esteri. L’Assemblea Parlamentare bosniaca ha deciso di rafforzare i controlli lungo i 1.551 chilometri di confine tra Bosnia e Serbia-Montenegro, dispiegando 200 poliziotti in più, portando il loro numero a 1.847, con lʼobiettivo di arrivare ad avere presto altri 300 ufficiali operativi. Secondo lʼOrganizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), da gennaio i soli richiedenti asilo entrati in territorio bosniaco sarebbero più di 6.000, sei volte

più del 2017. L’ira del Ministro si è poi rivolta sia contro Grecia e Bulgaria, Paesi di primo ingresso ma dai confini troppo “permeabili”, sia contro la Serbia, il cui governo sarebbe reo di aver incrementato lʼinflusso di migranti iraniani con lʼabolizione dei visti provenienti dallʼIran. Mektic ha inoltre accusato Bruxelles di voler costruire un centro di accoglienza nelle vicinanze di Sarajevo (dove già sono stati costituiti altri due centri da poco in funzione, oltre a quello già presente nei pressi di Mostar, a sud del Paese), “in modo tale da avere centinaia di chilometri tra l’Unione Europea e i migranti”. Il fondamento di queste idee deriva dal recente rifiuto europeo di sponsorizzare la creazione di un centro di accoglienza a Velika Kladusa, villaggio a meno di 4 chilometri dal confine croato. Il rifiuto della Bosnia nel seguire le direttive di Bruxelles sulla gestione dei migranti potrebbe condizionare negativamente la candidatura di Sarajevo, presentata il 15 febbraio 2016, a diventare stato membro dellʼUnione Europea.


NORD AMERICA REALTÀ O FINZIONE?

Le ombre e gli interrogativi sulle relazioni tra Donald Trump e Kim Jong-un

Di Erica Ambroggio I quesiti in merito alla natura dei rapporti tra Stati Uniti e Corea del Nord continuano a farsi strada tra le diverse, e spesso contradditorie, dichiarazioni rilasciate dai protagonisti di quella delicata scena politica. Il vertice tra Donald Trump e Kim Jong-un, svoltosi lo scorso 12 giugno a Singapore, ha dato infatti vita a una serie di aspettative, ancora oggi oggetto di dubbi e perplessità. In particolare, il frutto dello storico incontro è un documento congiunto, redatto in 4 punti e firmato da entrambi i leader, il cui contenuto è apparso, come più volte rimarcato dalla stampa internazionale, estremamente vago. Espressioni fin troppo generiche, infatti, sarebbero la causa dell’attuale e incalzante preoccupazione, nonostante sia stata espressa, nel testo del comunicato finale, la volontà di “costruire un comune clima di pace”. Al centro delle polemiche, vi è il tema della denuclearizzazione della penisola coreana, con specifico riferimento alla strategia per una sua concreta e completa attuazione. Nonostante il leader nordcoreano si sia impegnato, in occasione

dell’incontro con Donald Trump, nel rendere effettivi tali lavori, rimane incerta l’attendibilità di tali promesse, prive di dettagli importanti. Oltre alla genericità delle espressioni utilizzate all’interno del documento congiunto, gli ulteriori negoziati menzionati nella dichiarazione, che avrebbero lo scopo di dare attuazione agli accordi raggiunti a Singapore, non sembrano proseguire come precedentemente sperato. La problematica in questione è stata oggetto dell’incontro tra il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo e il primo ministro giapponese Shinzo Abe. Durante i meeting, avvenuti sabato 7 e domenica 8 luglio nella capitale nipponica, non è stata nascosta la preoccupazione sul tema da parte del Primo Ministro giapponese, il quale si è, tuttavia, definito speranzoso e soddisfatto per “la forte leadership dimostrata dagli Stati Uniti durante i negoziati con la Corea del Nord”. Durante l’incontro con Shinzo Abe, il rappresentante statunitense ha ricordato come “ci sia ancora molto lavoro da fare”. Dichiarazione condivisibile alla luce del recente viaggio

intrapreso da Pompeo in Corea del Nord prima della tappa giapponese e con esiti che hanno attirato gli sguardi ansiosi dei leader mondiali. Dal fronte nordcoreano, infatti, le giornate di negoziato intraprese con Mike Pompeo il 4 e 5 luglio sarebbero state “deludenti”. Le pressioni operate dal rappresentante americano sul tema della denuclearizzazione sarebbero state percepite da Pyongyang come eccessive. Tali da giungere a dichiarazioni circa la possibilità, da parte della Corea del Nord, di “riconsiderare i lavori sulla denuclearizzazione”, come manifestato da un portavoce del Ministero degli Esteri nordcoreano. Un quadro poco chiaro, ma che il Segretario di Stato statunitense ha voluto riportare sotto una luce positiva, assicurando al Primo Ministro nipponico di aver compiuto progressi nelle negoziazioni. Pompeo, durante l’incontro, ha infine ricordato e confermato la centralità della questione nordcoreana per la pace e la sicurezza non solo giapponese ma mondiale. La tensione rimane, dunque, alta e le possibili evoluzioni delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord appaiono ancora oggi particolarmente incerte. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA LA SINISTRA RINASCE A NEW YORK

Alexandria Ocasio-Cortez ha sorprendentemente vinto le primarie Democratiche

Di Luca Rebolino La giovane attivista Alexandria Ocasio-Cortez ha inaspettatamente vinto le primarie del Partito Democratico, dei distretti Bronx e Queens, per la candidatura alla Camera nelle prossime elezioni di mid-term che si terranno a novembre. Ha, infatti, battuto clamorosamente Joe Crowley, membro del partito molto influente ed esperto, che era dato ampiamente per favorito, tanto da essere stato indicato come possibile successore di Nancy Pelosi, nel ruolo di capogruppo dei Democratici. Nata da madre portoricana e padre del sud del Bronx, OcasioOrtez ha 28 anni, è socialista dichiarata ed è stata un’attivista per la campagna alle primarie di Bernie Sanders. Di professione educatrice, è membro dell’organizzazione Democratic Socialists of America. Si presentava a questa sfida elettorale come una completa sconosciuta e senza adeguati mezzi economici. Basti pensare che ha speso 127.000 dollari per la sua campagna, cifra irrisoria rispetto al milione stanziato da Crowley. Ma il suo entusiasmo ha prevalso in quella che è stata definita una lotta tra “Davide e Golia”. Ocasio-Cortez 6 • MSOI the Post

ha

trovato

e

alimentato il supporto di quella stessa base, giovane, liberal, progressista ma anche antiestablishment, che già aveva sostenuto Sanders. Proprio lui, che le ha garantito ovviamente l’endorsement, aveva già aspramente contestato il vertice del Partito Democratico, considerato ormai troppo debole, esattamente come la controparte Repubblicana. Le posizioni sostenute in campagna elettorale sono state forti e radicali, soprattutto in relazione al clima politico attuale, influenzato dalle scelte del presidente Trump. La candidata ha prospettato un sistema sanitario universale e l’istruzione universitaria gratuita, nonché un piano di investimenti verdi (Green New Deal). Ha valorizzato la sua identità femminile e si è proposta di rappresentare le minoranze e gli emarginati socioeconomici. Ha condannato fermamente le recenti politiche migratorie di Trump e ha partecipato, a due giorni dal voto, a una protesta vicino al confine messicano. Infine, ha criticato Crowley per i suoi legami con Wall Street e con le grandi corporation e lo ha accusato di scollamento rispetto alla realtà locale che dovrebbe

rappresentare. Dopo l’uscita dei risultati, la neo-candidata alla Camera ha detto: “Penso che molti operai ed elettori statunitensi attendessero un candidato impenitente che si battesse per la dignità economica, sociale e razziale. Abbiamo fornito un messaggio molto diretto, un messaggio molto chiaro”. Ha continuato: “Gli elettori sapevano anche che ero l’unica candidata in gara a non prendere i soldi delle corporation in un momento in cui l’emarginazione economica è in netto aumento a New York”. La vittoria di questa giovane donna è ancor più significativa nell’attuale contesto politico occidentale, in cui si assiste a un arretramento dei partiti di progressisti. Sotto alcuni aspetti, come essere un’outsider, la sua radicalità e la rottura con l’establishment moderato del proprio partito, ricorda la fulminea, ma opposta, ascesa politica di Trump. La sua vittoria è stata accolta con grande entusiasmo e il caldo sostegno che ha raccolto una personalità così radicale sembra confermare la forza di quelle tendenze di rinnovamento interne al Partito Democratico, attualmente spaccato e indebolito.


MEDIO ORIENTE

“SE NON AMANO CIÒ CHE SEI, SI SBAGLIANO” La comunità LGBT+ in Medio Oriente: c’è speranza per il futuro?

Di Lucky Dalena Mentre a Milano, Bruxelles e Madrid le bandiere arcobaleno si stagliano contro un cielo azzurro che sa di libertà, in Medio Oriente non è così scontato poter esprimere ciò che si è, o la propria sessualità. A livello legale, la maggior parte dei Paesi arabi è rimasta legata ad un passato coloniale di restrizioni che limitano la libertà sessuale, cui fanno eccezione solo la Giordania e il Bahrain. Le relazioni sessuali sono una sorta di taboo nel quadro legislativo di molti Stati, che criminalizzano i rapporti tra persone non sposate (chiamato in arabo zina), l’adulterio, ma anche le relazioni tra persone dello stesso sesso, secondo i dettami della sharia, la legge islamica che vige in alcuni dei Paesi mediorientali. In alcuni di questi, anche i più progressisti come gli Emirati Arabi e il Libano, le relazioni omosessuali sono criminalizzate in quanto “innaturali”. Gli Emirati, insieme al Quwait e all’Oman, sono tra i pochi Stati al mondo a considerare reato anche la non-conformità al proprio genere. Il che significa, in poche parole, che per un uomo indossare una gonna – che

non sia la kandura, l’abito tradizionale – è un crimine. Il cambiamento di sesso è permesso da alcuni governi, ma solo nei casi in cui la questione abbia delle ripercussioni sulla psiche della persona, ovvero che una perizia psicologica di più esperti provi un effettivo disordine mentale in merito al proprio genere di nascita. In Libano, un promettente risultato è stato dato da una recente sentenza della Corte d’Appello (che quindi pone un precedente giuridico) per permettere ad un uomo di cambiare nome e definizione di genere nei propri documenti, anche senza aver effettuato un’operazione. La primavera araba non ha, come forse alcuni speravano, portato a politiche più aperte nei confronti della comunità LGBT+, ma ha inasprito la condanna da parte dei governi – forse, come nell’Egitto di Al-Sisi, per mantenere un certo “limite morale” e non indispettire i partiti più conservatori. I Paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) hanno più volte mostrato la loro opposizione alle istanze LGBT+: non solo osteggiando i lavori del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, uscendo dalla stanza durante le discussioni sull’orientamento sessuale e l’identità di

genere, rifiutando di cooperare sul tema, ma anche discutendo i dati di Human Rights Watch (HRW), che ha da poco rilasciato uno studio sulla questione. Ed è proprio dallo studio di HRW che emerge un problema fondamentale. Spesso, la libertà dei giovani LGBT+ è ostacolata in primis dalla propria comunità, dalla propria famiglia. In Giordania, la comunità gay è costretta nonostante tutto a incontrarsi di nascosto su Grindr, l’app di incontri, per evitare il giudizio delle proprie famiglie. In Tunisia, dove la rivoluzione sembra aver portato una ventata di libertà, c’è ancora chi si toglie la vita per sfuggire alla vergogna di un po’ di rossetto. Danno sollievo le notizie come quelle che arrivano dall’Iraq, dove la comunità LGBT+ si sta spendendo per diminuire lo stigma nei loro confronti, con un semplice ma potentissimo mezzo: l’informazione. “Ciò che facciamo non è sbagliato e se volete saperne di più, ve lo racconteremo”, dicono. L’importante, e lo sanno anche loro, è che più persone possibili si uniscano alla loro causa. Per dirla con il titolo della video-serie di HRW, l’importante è essere “No Longer Alone”. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE ERDOGAN SI RICONFERMA AL POTERE Ma ora quali sfide attendono la Turchia?

Di Martina Scarnato Domenica 24 giugno i turchi si sono recati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica e, contemporaneamente, rinnovare la composizione del Parlamento. È stata la prima volta che il popolo turco ha votato dopo l’approvazione della riforma costituzionale voluta dallo stesso Erdogan e legittimata con il referendum dell’aprile 2017. In breve, tale riforma ha previsto la trasformazione del sistema politico da parlamentare a presidenziale, permettendo la concentrazione del potere esecutivo nelle mani del Presidente della Repubblica. Tuttavia, già nel corso degli anni, Erdogan aveva cercato di guadagnarsi un potere maggiore. Recep Tayyip Erdogan ha vinto al primo turno conquistando il 52,5% dei voti, mentre il suo principale avversario, Muharrem Ince del Partito del Popolo dei Repubblicani (CHP) ha ottenuto il 30,6%.Si tratta di una vittoria non del tutto scontata, in quanto, nonostante il Presidente detenga un forte controllo sui media, le opposizioni hanno comunque condotto una campagna elettorale energica. I sondaggi facevano infatti supporre che si sarebbe dovuti andare al ballottaggio. 8 • MSOI the Post

Per quanto concerne le elezioni parlamentari, il Partito di Giustizia e Sviluppo (AKP) di Erdogan ha ottenuto sette punti percentuali in meno rispetto al 2015, riuscendo a conquistare la maggioranza assoluta solo grazie all’alleanza con il partito nazionalista MHP, rispettivamente ottenendo il 42,5% e l’11,1% dei voti. Il rieletto Presidente, il quale ha giurato lunedì 9 luglio, dovrà affrontare diverse sfide, dalla gestione della politica interna, passando per l’economia, sino a giungere alla politica internazionale. La prima azione che Erdogan ha compiuto dopo il giuramento è stata la proclamazione della fine dello stato di emergenza, duramente criticato dalle opposizioni ma anche dagli Stati Uniti e dall’Europa, in quanto avrebbe condotto alla detenzione di circa 100.000 persone. Dal punto di vista dell’economia, se con l’arrivo al potere per la prima volta di Erdogan nel 2003 l’economia turca aveva conosciuto una fase di grande crescita, da qualche anno sembrerebbe più stagnante, complici un’inflazione e una disoccupazione elevate. Inoltre, la dichiarazione del Presidente di voler aumentare il controllo dello Stato sulla banca centra-

le turca ha avuto come conseguenza un’ulteriore svalutazione della lira turca. Un’altra sfida da affrontare riguarda la politica estera, per quanto concerne i rapporti sia con la Russia sia con gli alleati occidentali, in particolare l’Unione Europea. Se fino a tre anni fa i rapporti con Mosca erano piuttosto tesi, ora è in corso un tentativo di riavvicinamento, sul tema del conflitto siriano e sui temi dell’energia e della difesa. Ankara ha infatti acquistato un sistema di difesa missilistico dalla Russia. Dal lato occidentale, Erdogan ha più di una volta utilizzato una retorica anti-europeista. Tuttavia, secondo gli analisti del Brookings Institution, a seguito dell’indebolimento dell’economia turca, il neoeletto Presidente potrebbe decidere di prendere in considerazione la cooperazione economica con Bruxelles. Rimangono tesi i rapporti con Washington, soprattutto a seguito dell’attacco alle milizie curde alleate degli Stati Uniti ad Afrin, nel nord della Siria. Tuttavia, per poter fare un bilancio vero e proprio occorrerà attendere il primo vero test che il governo di Erdogan dovrà affrontare: le elezioni municipali che si terranno a marzo 2019.


RUSSIA E BALCANI CALMA PIATTA SUL MAR CASPIO

Un accordo tra i cinque Stati costieri sembra porre fine alla controversia sul suo status giuridico

Di Vladimiro Labate Il 22 giugno scorso il governo russo ha approvato una bozza di convenzione sullo status giuridico del Mar Caspio, invitando il presidente russo Putin a firmarlo. Il testo, frutto dell’accordo tra i cinque Stati costieri Iran, Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan e, appunto, Russia, porrebbe fine a una controversia sorta al momento della disgregazione dell’Unione Sovietica. L’accordo dovrà essere firmato durante il prossimo summit tra i 5 Paesi, che si terrà agli inizi di agosto in Kazakistan. La disputa sullo status del Mar Caspio comincia quando i Paesi successori dell’URSS non riconoscono come vincolanti gli accordi sovietici relativi alla delimitazione dei settori marittimi. Nel 1994, l’Azerbaigian fa esplodere la questione, mettendo in dubbio l’applicazione del diritto marittimo al bacino salato, definendolo come lago. La questione, per quanto complessa, è importante per l’attribuzione delle acque e dei giacimenti di idrocarburi a ciascuno Stato. Se il Mar Caspio venisse considerato come un lago, i 5 Stati dovrebbero spartirsi in maniera equa le acque e le risorse naturali; se, invece, fosse definito come

mare, a ciascun Paese spetterebbe una sezione proporzionale alla lunghezza delle proprie coste. Quest’ultimo approccio, usato dagli Stati ex-sovietici per concludere accordi bilaterali tra di loro, sfavorirebbe l’Iran, a cui toccherebbe il 13% delle acque, e favorirebbe il Kazakistan, a cui ne spetterebbe il 30%. Per quanto la questione sia centrale, la bozza di convenzione sarebbe evasiva su questo punto, lasciando la soluzione a futuri accordi tra Stati “nel rispetto dei principi generalmente riconosciuti e delle norme legali”. L’accordo, però, darebbe la possibilità agli Stati di “posizionare delle pipeline sottomarine con la sola approvazione dei Paesi nelle cui acque la pipeline dovrebbe passare”. Questa misura permetterebbe di realizzare il progetto della Trans-Caspian Pipeline (TCP), un gasdotto che dovrebbe trasportare il gas turkmeno verso l’Azerbaigian. L’opera è contraria agli interessi economici della Russia e per questo da lei da sempre osteggiata. Essa aumenterebbe la concorrenza sul mercato europeo del gas: infatti, il gas turkmeno, oltre a rifornire la domanda interna azera, potrebbe rifornire l’Europa attraverso i gasdotti TANAP e TAP, ancora in costruzione, minaccian-

do il monopolio de facto del colosso russo degli idrocarburi Gazprom. Il motivo per cui la Russia abbia accettato questa soluzione non è chiaro: se può contare sui problemi tra Azerbaigian e Turkmenistan per rallentare il processo, Mosca potrebbe, inoltre, concedere ad Ashgabat i suoi gasdotti per vendere il gas nei Paesi ex-sovietici e nell’Est Europa, offrendo delle risorse immediate al governo turkmeno e evitando in questo modo la costruzione del TCP. Un’altra questione riguarda la demilitarizzazione dell’area. Secondo David O’Byrne di Eurasianet, la Russia avrebbe fatto inserire una norma che proibisce la presenza nel Mar Caspio di forze armate di Stati non-costieri, impedendo, inoltre, ai Paesi firmatari di permettere l’utilizzo del proprio territorio come base per attacchi contro un altro Stato firmatario dell’accordo. Per Zaur Shiriyev, analista dell’International Crisis Group, questo punto avrebbe fatto passare in secondo piano la questione energetica: “il gasdotto non era un tema principale per la Russia: sicurezza, non-interferenza e militarizzazione vengono prima”. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI A SCUOLA DI PATRIOTTISMO

Nazionalismo e patriottismo come politica dominante

Di Elisa Todesco Patriottismo e nazionalismo sono recentemente tornati alla ribalta in diversi Paesi. Tuttavia, in quasi nessun’altra parte del globo come in Russia, patriottismo e nazionalismo sono stati riattivati artatamente e svolgono un importante ruolo di definizione della politica estera. Questo dato è il risultato di alcuni studi condotti dal Research Council of Norway e dall’International Crisis Group. Non è un segreto che sin dalla fine della Guerra Fredda in Russia si sia assistito a una lenta ma inesorabile avanzata del nazionalismo. Questo era inizialmente legato a questioni di patriottismo puramente etniche: composta da un crogiolo di differenti etnie, la Federazione Russa ha cercato di controllare l’emergente nazionalismo dell’etnia russa (predominante sui territori), sviluppando un sistema di controllo denominato “nazionalismo imperiale”, secondo l’espressione coniata da Emil Pain. Il principale ruolo di questo tipo di nazionalismo è quello di controllare le spinte autonomiste e il razzismo interno dilagante sui territori della Federazione (quasi in nessun altro Paese al mondo si sono verificati tanti crimini d’odio come in Russia), legando il sentimento di grandezza etnica al sentimento di 10 • MSOI the Post

grandezza nazionale. Diversi sono gli strumenti impiegati a livello governativo per controllare e sfruttare a proprio vantaggio questo sentimento nazionalistico. La prima tecnica cui si fece ricorso fu una gestione della narrativa sul ruolo della Russia in Europa: vista come alternativo al modello rappresentato dall’Europa liberista guidata dal modello americano, la Russia si è presentata come un diverso tipo di Europa, basato su un mix di cultura europea e asiatica. Successivamente, a partire dal 2001, la Russia di Putin ha introdotto quattro successivi programmi quinquennali di “educazione patriottica”, volti alla “formazione e allo sviluppo di un individuo che possieda le qualità di un cittadino che è un patriota della patria e che sia in grado di compiere con successo il suo dovere civico in tempi di pace e in tempi di guerra”, come recitano i documenti del governo. Basato su tre componenti principali (cultura militare, insegnamento di valori spirituali e morali e educazione civica), nel corso degli anni l’educazione patriottica ha ridotto ha ridotto il suo campo d’azione per focalizzarsi sempre più sull’educazione di giovani e bambini. Dopo aver creato il Centro Russo per l’Educazione Civi-

le e Patriottica dei Bambini e dei Giovani, per la gestione di fondi (circa 28 milioni di dollari) e per implementare un’azione coordinata su tutto il territorio, l’educazione militare ha assunto un ruolo sempre più centrale: non solo i giovani vengono spesso affiancati da veterani, ma il servizio militare viene largamente propagandato all’interno delle scuole, con l’introduzione di un training militare per bambini da svolgere direttamente a scuola. In parallelo, la chiesa ortodossa fa da supporto all’azione laica dello Stato: supportando la politica tradizionalista già introdotta a livello statale, la chiesa insiste sul valore religioso dello Stato russo, unificato dalla fede. Questa azione combinata ha dato nuovo lustro alla casta militare dei Cosacchi, paladini religiosi usati per difendere i confini della Russia. L’interventismo russo va, quindi, letto in questa chiave di nuovo nazionalismo: la Crimea, la Siria, sono un modo per veicolare la forza esplosiva del nazionalismo russo fuori dai confini. La vera domanda è cosa succederà quando questi giovani patrioti di etnia russa rientreranno in patria e non avranno una guerra da combattere per la propria patria.


ORIENTE LA CINA APRE AGLI INVESTIMENTI ESTERI

La RPC rivede la propria politica restrittiva nei confronti degli investitori stranieri

Di Micol Bertolini Il 29 giugno la RPC ha annunciato una serie di misure volte ad aprire un certo numero di settori nel mercato cinese agli investimenti stranieri, sulla scia delle promesse fatte al forum di Boao l’aprile scorso. In quell’occasione, il presidente cinese Xi Jinping aveva dato segno di voler impegnarsi nella risoluzione dell’asimmetria vigente tra imprese straniere in Cina e imprese cinesi all’estero, ad esempio aprendo maggiormente i mercati finanziari e manifatturieri cinesi e promettendo una condotta più trasparente e più rispettosa delle regole internazionali in materia economica e commerciale. In Cina, infatti, le imprese e gli investitori non cinesi sono da sempre soggetti a particolari restrizioni, ad esempio all’obbligo di formare delle joint venture con i partner cinesi e di condividere con questi ultimi il proprio know-how e la propria tecnologia. Infine, non operano alle stesse condizioni delle loro controparti cinesi, le quali possono contare su una serie di agevolazioni. Le aziende della RPC, al contrario, siano esse SOE (imprese di Stato) o POE (imprese private), approfittano

ormai da tempo dell’apertura agli investimenti esteri delle economie occidentali, le quali in questi ultimissimi anni hanno cominciato tuttavia a rimproverare alla Cina la mancanza di reciprocità. In questo spirito, gli Stati Uniti di Donald Trump hanno deciso di rispondere al comportamento non conforme alle regole internazionali della RPC e all’incoerente free riding del gigante asiatico attraverso una guerra commerciale che prevede non sono imposizione di dazi su numerosi prodotti cinesi, ma anche la minaccia di restrizioni agli investimenti. D’altro canto, anche l’Unione Europea ha deciso a settembre 2017 di introdurre una maggiore regolamentazione degli investimenti stranieri verso i Paesi membri. In contrasto a questa tendenza di chiusura da parte delle potenze occidentali, la RPC negli ultimi mesi ha dimostrato invece una forte volontà a facilitare gli investimenti stranieri nel Paese, principalmente con l’obiettivo dichiarato di voler sostenere la propria rapida crescita economica e progresso industriale e negando di stare invece cedendo alle pressioni internazionali. Stando

alla

Commissione

Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme (NDRC), il numero di settori preclusi alle imprese non cinesi, elencati nella cosiddetta “lista negativa”, da 63 verrà ridotto a 48 a partire dal 28 luglio 2018. A essere interessati da tale apertura saranno in particolare settori come quello automobilistico, finanziario, agricolo, infrastrutturale ed anche minerario. Numerose barriere saranno eliminate, ad esempio permettendo finalmente agli stranieri di possedere una quota di maggioranza in seno alle joint venture, o ancora lasciando alle imprese estere la possibilità di espandersi in mercati per loro nuovi, come quello delle terre rare. Restano invece riservati alle imprese cinesi quei settori considerati di importanza strategica per l’economia e per la sicurezza interna del Paese. Con questo nuovo voto di apertura, la Cina si contrasta il mutato atteggiamento degli USA, proponendosi come la nuova potenza alla guida del multilateralismo e del liberalismo economico, per fornire un’alternativa nella gestione dell’ordine internazionale. Che sia giunto il momento per la RPC di sostituirsi agli Stati Uniti in qualità di responsible stakeholder? MSOI the Post • 11


ORIENTE VERSO LE ELEZIONI IN PAKISTAN: L’OMBRA DEL CASO SHARIF

Condanna a 10 anni per l’ex Primo Ministro Pakistano nell’ambito dell’inchiesta dei Panama Papers

Di Daniele Carli Lo scorso 6 luglio, l’Accountability Court, tribunale pakistano incaricato dei casi di corruzione, ha emesso una condanna a 10 anni (oltre che al pagamento di 1,25 miliardi di rupie) per l’ex primo ministro pakistano Nawaz Sharif. Il leader del Pakistan Muslim League (PML) si era dimesso dal suo incarico di Premier nel luglio 2017, quando la Corte Suprema pakistana aveva deliberato la sua destituzione in seguito alle indagini promosse dal National Accountability Bureau.

la figlia Maryam Nawaz, destinata, secondo i più, a raccogliere l’eredità politica del padre, a 7 anni di prigione per contraffazione. Ciò, unito alla vicinanza tra le elezioni politiche pakistane, non fa che alimentare per diversi giornalisti, attivisti e militanti dei partiti di sinistra, l’ipotesi secondo la quale ci si trovi di fronte ad una “sentenza politica”, volta ad allontanare gli Sharif dalla vita pubblica, affossando le speranze di vittoria del loro partito nel corso della prossima tornata elettorale.

La sentenza di condanna è connessa allo scandalo dei Panama Papers, l’inchiesta condotta dallo studio legale Mossack Fonseca che ha portato alla luce milioni di documenti contenenti informazioni dettagliate su 200.000 società offshore nel mondo. In particolare, tra i tanti nomi di leader, funzionari di governo e manager coinvolti, quello di Sharif figura in merito all’utilizzo di fondi sospetti per l’acquisto di alcuni appartamenti di lusso a Londra. L’ex Primo Ministro sembrerebbe non aver fornito ancora prove utili a scagionare lui e i suoi collaboratori.

Il grande errore commesso dall’ex Primo Ministro - riflette Rasul Bakhsh Rais, professore a Lahore - è stato quello di “optare per un confronto a viso aperto con i vertici militari e della giustizia” in seguito al suo esautoramento dello scorso luglio. L’adozione di una dura retorica da parte di Sharif non solo avrebbe indotto esercito e magistratura a fronteggiarlo con decisa intransigenza, ma, come affermato dai più critici delle due branche del potere, tra i quali l’attivista pakistano Rojar Noor Alamad, potrebbe costituire il pretesto per una “manovra politica per il controllo del Paese senza un colpo di stato”.

Insieme a Sharif, il tribunale pakistano ha condannato

Alla luce dei fatti, quel che sembra esser certo sono le

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gravi ripercussioni che questo caso avrà sul futuro politico del Pakistan. In primo luogo, gli avversari politici di Sharif, su tutti Imre Khan, capo del Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI), potranno cavalcare l’onda della condanna per allargare il proprio bacino elettorale, ancor più di quanto già non abbiano fatto agli albori dello scandalo Panama Papers. La vicenda, inoltre, potrebbe portare la fazione di sinistra a sfaldarsi, consegnando il controllo del Paese alle formazioni di destra. Il corso d’azione che Sharif stesso vorrà intraprendere potrebbe rivelarsi determinante per le sorti del Pakistan. Insieme alla figlia, a Londra, dove è in visita alla moglie ricoverata e gravemente malata, l’ex Premier si è dichiarato pronto a tornare in patria per affrontare la condanna e continuare a combattere per il “rispetto del voto democratico”. Per molti esperti, tra i quali l’insegnante e giornalista Hamza Arshad, l’unico strumento nelle mani degli Sharif per poter salvaguardare la propria credibilità politica, sarà allearsi con le frange estreme del partito, in modo da rendere quest’ultimo, in caso di sconfitta alle elezioni, perlomeno una valida forza per il rilancio della sinistra.


AFRICA TRAFFICO DI DROGA: IL MOZAMBICO COME HUB STRATEGICO Cresce la centralità del Paese per i flussi di stupefacenti

Di Barbara Polin Per i il traffico di stupefacent che collega le coltivazioni di papavero afghane ai consumatori europei, il Mozambico rappresenta uno snodo fondamentale. La sua posizione geografica, infatti, si presta sia all’accoglienza di carichi di eroina provenienti dall’area medio-orientale, sia al loro trasporto verso il Sudafrica, i cui porti rappresentano un’agevole via di accesso ai mercati dei Paesi ricchi. Il Mozambico è a lungo stato una tappa intermedia. Dalla fine della guerra civile nel 1992, la scarsa sorveglianza dei confini e il numero esiguo di membri delle forze dell’ordine hanno indotto i a trafficanti di cocain , soprattutto colombiani, a dirottare un numero sempre maggiore di attività verso le coste dell’Africa sud-orientale. L’importanza strategica del Mozambico è aumentata in modo progressivo, come è possibile constatare guardando alla qualità e alla quantità delle droghe che passano per lo Stato africano. Secondo l’ENACT, un’iniziativa europea volta al contrasto di attività criminali transnazionali, ogni anno 800 milioni di dollari di stupefacenti passano

per il Mozambico, un commercio che nel 2016 ha reso l’eroina il principale prodotto d’esportazione a livello nazionale, dopo il carbone. Alla cocaina colombiana si sono aggiunti non solo l’eroina afghana, ma anche l’hashish, il quaalude e la marijuana, le coltivazioni della quale si sono estese in modo progressivo all’interno dello stesso Mozambico.

sorveglianza delle coste mozambicane. Inoltre, questo Stato vanta un ampio bacino di consumatori a livello nazionale, dato non solo gli abitanti e i turisti in visita sul continente, ma anche da chi viaggia verso il Madagascar spesso fa uso delle sostanze.

L’incremento del tra pefacenti è inoltre riconducibile alla comparsa di numerosi freelancer, come pescatori e conducenti di automezzi, che non sono associati a uno specifico cartello e che usano i servizi di messaggistica come Whatsapp per entrare in contatto con fornitori e clienti, in modo autonomo ed efficiente.

Le caratteristiche geo-fisiche e tecniche del Mozambico, oltre a quelle politiche e istituzionali, hanno offerto condizioni favorevoli ad un aumento nel volume del traffico. Da un lato, infatti, lo smercio è agevolato dalla conformazione delle coste, irregolare e frastagliata, e dall’ampia dispo- D’altro canto, però, l’accresciuta nibilità di dhow, imbarcazioni attività di contrabbando non ha tradizionali dei pescatori locali potuto sottrarsi a una maggioabbastanza piccole da passare re visibilità, che ha richiamato inosservate ma l’attenzione degli sufficientemen Stati vicini, te grandi da essere caricate im- in particolar modo il Sudafriballaggi di eroina. ca, che sono ora più vigili nella Dall’altro, va prima di tutto con- sorveglianza dei propri confini siderata l’inerzia del governo con il Mozambico. Questa magdi Maputo di fronte alla proli- giore consapevolezza, tuttavia, ferazione del traffico di stupe è bilanciata dal radicamento facenti, un atteggiamento che è dell’economia della droga su il riflesso di un problema a due scala nazionale all’interno del facce, dato sia dalla scarsità di Mozambico, una condizione che organico disponibile alle forze rende difficile organizzare dell’ordine, ma anche della cor- una e risposta efficac , anche ruzione diffusa, che indeboli- tramite il ricorso a sforzi consce ulteriormente la capacità di giunti.

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AFRICA ETIOPIA ED ERITREA: UNA PACE ATTESA 20 ANNI

Dopo l’incontro tra i due leader africani, sembra finita l’era del ‘no war, no peace’

Di Valentina Rizzo Eritrei ed etiopi non dimenticheranno facilmente questi giorni, che forse attendevano da troppi anni. Lo scorso 9 luglio, infatti, è stata firmata una dichiarazione congiunta di pace e di amicizia tra il presidente dell’Eritrea Isaias Afwerki ed il primo ministro etiope Abiy Ahmed, rompendo così uno stato di guerriglia che andava avanti tra i due Paesi da 20 anni. Il cambiamento lo si poteva intuire già dallo scorso aprile, quando il neo primo ministro etiope Abiy Ahmed, fin dal suo discorso di insediamento, mandò diversi messaggi di apertura nei confronti dello Stato vicino. A giugno poi, il governo etiope ha accolto ad Addis Abeba una delegazione ufficiale eritrea per iniziare le trattative di pace. La dichiarazione recentemente firmata sancisce non solo la fine delle ostilità tra le controparti, ma anche l’inizio di una proficua relazione politica, diplomatica, economica e commerciale. Subito sono stati fatti diversi passi per normalizzare i rapporti: le linee telefoniche internazionali tra i due Paesi sono state ripristinate ed è stata annunciata la riapertura delle ambasciate; la compagnia di 14 • MSOI the Post

bandiera Etiope, inoltre, ha annunciato la ripresa di voli di linea tra le due capitali a partire dal prossimo 18 luglio. Abiy Ahmed ha comunicato su Twitter che entrambi i leader hanno intenzione di agire nel sommo interesse dei rispettivi popoli, ‘compensando opportunità che non sono state colte in passato’. I due Stati del Corno d’Africa sono legati da un passato comune. Dopo essere stata per più di 30 anni una provincia amministrativa dell’Etiopia, l’Eritrea ottenne l’indipendenza nel 1993. Dispute territoriali portarono allo scoppio delle ostilità nel 1998, causando in pochi anni la morte di 80.000 persone. Nel 2000 la mediazione delle Nazioni Unite portò all’accordo di pace di Algeri, che però non fu mai accettato dall’Etiopia. Quali sono per i due Paesi le possibili ripercussioni di questo nuovo accordo? L’iniziativa etiope si inserisce all’interno di un quadro di riforme interne che il neo Primo Ministro ha annunciato di voler intraprendere appena salito al potere. L’Etiopia, che non ha sbocchi sul mare, beneficerebbe innanzitutto a livello commerciale ed economico della normalizzazione dei rapporti con l’ex colonia,

potendo raggiungere il Mar Rosso attraverso i due maggiori porti eritrei. Inoltre, Asmara troverebbe per i propri prodotti nuovi mercati nel territorio eritreo, che costituisce il secondo Stato più popoloso dell’Africa. È importante però ricordare che il regime eritreo per anni ha utilizzato le ostilità con l’Etiopia per consolidare il proprio potere, sottoponendo il Paese a gravi violazioni dei diritti umani e forti limitazioni delle libertà individuali. Ad esempio, approfittando della costante minaccia di un’invasione esterna, Afwerki impose nel 1995 il servizio militare a tempo indeterminato per uomini e donne dai 17 anni in poi, rendendo l’Eritrea una delle nazioni più militarizzate al mondo. La fine della guerra, quindi, potrebbe spingere la popolazione eritrea a rivendicare maggiori libertà. Il ristabilimento di legami politici e commerciali tra i due Stati potrebbe quindi portare a benefici per entrambe le nazioni, ma anche per l’intera regione del Corno d’Africa, che non vedrebbe più i due Stati finanziare gruppi ribelli rivali.


AMERICA LATINA CONTINUANO LE PROTESTE IN ARGENTINA

Dopo l’accordo con il Fondo Monetario Internazionale, il governo Macri è più impopolare che mai

Di Elena Amici Continuano in Argentina le manifestazioni contro le politiche di austerity del Presidente Mauricio Macri, in particolare l’accordo firmato con il Fondo Monetario Internazionale lo scorso giugno. Il FMI ha garantito al governo argentino un prestito del valore di 50 miliardi di dollari, 15 dei quali disponibili immediatamente, a condizione che Macri si impegni a ridurre il deficit fiscale e a portare l’inflazione al 19% nel 2019, contro il 27% attuale. Condizioni troppo pesanti secondo i lavoratori e i sindacati, che hanno indetto uno sciopero generale il 25 giugno, paralizzando il Paese. Più di un milione di lavoratori hanno incrociato le braccia, e sono state chiuse scuole, banche e aeroporti. Si è trattato del terzo sciopero generale dall’inizio del mandato di Macri a dicembre 2015, organizzato dalla Confederazione Generale dei Lavoratori per domandare la riapertura dei negoziati salariali, tendendo conto della vertiginosa inflazione, che potrebbe sfiorare livelli del 30% entro la fine dell’anno. Allo sciopero si sono aggiunte manifestazioni e posti di blocco a Buenos Aires, suscitando le critiche di Macri, che

iniziò la sua carriera politica proprio come Sindaco della capitale. “Le proteste non migliorano la situazione,” ha dichiarato Macri. “Nessun’altro governo in decadi ha preso così a cuore la disoccupazione, i lavoratori e la creazione di nuove opportunità.” Secondo Juan Carlos Schmid, leader del sindacato CGL, il popolo ha il diritto di protestare contro il coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale, che ha “sempre portato avversità in Argentina.” Il ricordo della crisi economica del 2001 rimane onnipresente nel Paese e la colpa, per gran parte della popolazione, fu delle drastiche misure di austerità imposte proprio dal FMI. Macri, arrivato alla presidenza dopo 12 anni di governi di sinistra di Nestor e Cristina Kirchner, ha eliminato diverse agevolazioni finanziarie introdotte dai suoi predecessori. Il potere d’acquisto dei lavoratori sta velocemente calando, e la popolarità del governo è ai livelli più bassi mai registrati dai sondaggi. Si stima che lo sciopero del 25 giugno sia costato all’economia argentina ben 1 miliardo di dollari, e il Ministro del Lavoro, Jorge Triaca, si era inizialmente detto in favore di negoziati con i sindacati per arrivare a un compromesso. Ciò nonostante, nuove proteste sono

scoppiate durante le celebrazioni per la Festa dell’Indipendenza argentina, il 9 luglio. Manifestanti sono scesi per le strade portando striscioni con slogan contro il FMI, tra cui “L’indipendenza non si negozia,” esprimendo così il timore che Macri possa non essere in grado di mantenere la sovranità economica dell’Argentina sotto le pressioni della finanza internazionale. Proprio all’indomani delle ultime manifestazioni, il 10 luglio, il governo ha presentato un nuovo decreto per ridurre il deficit fiscale fino all’1,3% del PIL entro la fine del 2019: per ottenere i risultati stimati, saranno congelati stipendi pubblici e bloccati i rinnovi dei contratti, portando a una perdita stimata di oltre 6 milioni di posti di lavoro, contestando la presunta interferenza del Fondo Monetario negli affari interni al Paese. Secondo Felipe Sola, ex-governatore della provincia di Buenos Aires, le azioni del governo stanno “creando povertà, fame e malcontento in tutte le fasce della popolazione… nessuno può più permettersi niente.” Tuttavia, Sola si è detto ottimista riguardo all’effetto sull’economia del prestito ottenuto dal FMI, purché sia usato a beneficio della popolazione. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA MESSICO: IL NUOVO PRESIDENTE È LÓPEZ OBRADOR

Crollano i partiti tradizionali e il Movimiento Regeneración Nacional ottiene il 53%

Di Tommaso Ellena I cittadini messicani hanno deciso dare una svolta a sinistra al Paese: lo scorso 1 luglio López Obrador, detto “Amlo” (dalle iniziali di nome e cognome) ha vinto con il 53% dei voti; gli avversari hanno perso nettamente: il secondo partito, il Partido Acción Nacional, ha ottenuto soltanto il 22% delle preferenze, mentre il Partido Revolucionario Institucional si è fermato al 16%. Una vittoria tale permetterà al nuovo Governo di ottenere la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento. Viene interrotto un modello di governo prevalente dal 1988 che ha consistito nell’alleanza non ufficiale tra il PRI e il Partido Acción Nacional. Il valore delle elezioni di quest’anno è storico: Obrador è il Presidente messicano che ha ottenuto il numero più alto di voti in una tornata elettorale. Negli anni ’60 e ’70 il PRI dominava incontrastato con vittorie anche più ampie, nonostante l’affluenza alle urne fosse decisamente inferiore, anche a causa dell’assenza di una vera e propria “cultura del voto”. 16 • MSOI the Post

I motivi che spiegano il trionfo di Amlo sono molteplici: innanzitutto, è cambiato l’atteggiamento della sinistra messicana. Come afferma José Luis Berlanga, esperto di politica dell’Università di Monterrey, i toni in campagna elettorale sono stati più conciliatori e pragmatici rispetto al passato. Inoltre, secondo l’accademico, è stato presentato un movimento “acchiappa-tutto” che potesse riunire al proprio interno diverse posizioni e ideologie. L’esempio più evidente di questo cambio di strategia è rappresentato dall’imprenditore Alfonso Romo, che un tempo si opponeva a Obrador ma che nel nuovo Governo ricoprirà la figura di Capo di Gabinetto. Un altro motivo che spiega i risultati delle presidenziali è il voto di protesta: secondo il sociologo Roger Bartra si è radicata negli ultimi anni una “rabbia generalizzata, soprattutto per l’insicurezza e la corruzione presente nei vari strati del Governo”, che ha contribuito alla crisi della presidenza Enrique Peña Nieto. Le sfide che il nuovo Esecutivo dovrà affrontare saranno molteplici: innanzitutto la lotta alla violenza, dato che secondo

le statistiche del Sistema Nacional de Seguridad Pública il 2017 è stato il più violento degli ultimi 80 anni, con ben 29 mila omicidi (aumentati del 22% rispetto al 2016). Questo problema è strettamente legato alla crisi dei diritti umani, sempre più a rischio in questa nazione che registra elevatissimi tassi di violenza, abusi e sparizioni e in cui regna l’impunità, visto che i casi irrisolti si sommano anno dopo anno. Un’altra questione da prendere in considerazione è difesa della libera informazione perchè, in Messico, tra il 2012 e maggio 2018 sono stati assassinati 116 giornalisti. Infine, uno dei principali problemi che dovrà affrontare il governo Obrador sarà la lotta alla povertà: Peña Nieto ha messo in atto numerose strategie, tra cui la “crociata contro la fame”, grazie alla quale è stato ridotto il numero di persone in condizione di povertà e insicurezza alimentare. Ciò nonostante sono quasi 55 milioni i cittadini messicani che vivono al di sotto della soglia di povertà, mentre sono in 120 milioni a vivere in condizioni di precarietà, un numero pari al 45% della popolazione.


ECONOMIA SAVONA VUOLE UN’EUROPA PIÙ FORTE, MA PREPARA IL PIANO B Il ministro auspica maggiori poteri per la BCE, ma è pronto a uscire dall’Euro

Di Luca Bolzanin

dell’occupazione”.

Martedì, il ministro degli Affari Europei Paolo Savona si è presentato alle Commissioni UE di Camera e Senato per illustrare le linee programmatiche del suo dicastero, sostenendo la necessità di “una stretta connessione tra architettura istituzionale dell’UE e politiche di crescita” e, per salvaguardare l’Euro, proponendo di conferire maggiori poteri nella gestione del tasso di cambio alla Banca Centrale Europea.

Savona ha poi trattato il tema della moneta unica, dichiarando di “essere pronto a ogni evenienza” e aggiungendo che le dichiarazioni secondo cui l’Italia non intende uscire dall’Euro e violare gli impegni fiscali hanno rasserenato i mercati, ma lo spread resta elevato a causa dell’ingente debito pubblico italiano e a causa della preoccupazione sull’aumento della spesa pubblica dovuto all’attuazione di alcuni punti del programma di governo, in primis reddito di cittadinanza, flat tax e revisione della legge Fornero.

Il Ministro ha sottolineato che “seallaBCEnonvengonoaffidati pieni poteri sul cambio, ogni azione esterna all’Eurozona si riflette sull’Euro senza che l’Unione Europea abbia gli strumenti per condurre un’azione diretta di contrasto”. Per Savona, la soluzione sarebbe “muovere verso l’unione politica”, completando quindi il processo di integrazione europea iniziato negli anni Cinquanta. Relativamente alla politica economica nazionale, Savona si è mostrato fiducioso, sostenendo che il governo sarà in grado di rilanciare gli investimenti, garantendo al contempo la stabilità, la quale, ha ammesso egli stesso, è il “presupposto della crescita del reddito e

Su questo punto, si sono espressi otto economisti, tra cui Carlo Cottarelli e l’ex ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, i quali hanno inviato una lettera-appello a IlSole24Ore chiedendo di non rimettere in discussione l’Euro “per la difesa del risparmio e del lavoro degli italiani”. Secondo costoro, per tranquillizzare gli investitori internazionali è necessario intervenire per ridurre il deficit pubblico. Altrimenti, “i mercati continueranno a pensare che la soluzione sul debito possa passare dall’uscita dall’Euro e da una conseguente bolla inflazionistica”.

Tale prospettiva è stata condivisa dal ministro dell’Economia Giovanni Tria, che nei giorni scorsi ha confermato l’esigenza del consolidamento dei conti “per rassicurare i mercati prima ancora che per rispettare le regole europee”, e dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il quale ha sottolineato la necessità di “continuare a mettere in atto riforme organiche e politiche di bilancio equilibrate, necessarie per conservare la fiducia delle famiglie, delle imprese e degli investitori”. Per ottemperare agli obblighi europei in materia di stabilità, infine, secondo Cottarelli, la politica governativa di impulso alla crescita tramite investimenti endogeni andrebbe integrata “anche con alcune delle misure che sono nel contratto di governo, dal taglio alla burocrazia per le imprese alla lotta alla corruzione, dalla riduzione dei tempi della giustizia civile alla riduzione della pressione fiscale”. Così facendo, secondo gli autori della lettera, si risolverebbero i problemi relativi sia al bisogno di aumentare la spesa in conto capitale, sia all’efficienza nell’utilizzo delle risorse da parte della pubblica amministrazione. MSOI the Post • 17


ECONOMIA IRAN: ALTA TENSIONE

La crisi economica e le sanzioni statunitensi surriscaldano il clima politico

Di Alberto Mirimin Correva l’anno 1979 l’ultima volta che i bazaari, i piccoli commercianti del Gran Bazaar (gioiellieri, venditori di stoffe e mercanti), proclamarono lo sciopero delle attività, in nome, in quel caso, della Rivoluzione Islamica. A distanza di quasi 40 anni, negli scorsi giorni si sono svolte tre giornate di manifestazioni nel Gran Bazaar di Teheran, centro politico e cuore pulsante dell’economia dell’Iran. I negozianti e i cittadini sono scesi in piazza, infatti, per manifestare contro il carovita e la svalutazione della valuta nazionale, il Riyal, rispetto al Dollaro. Inoltre, la folla ha esplicitamente inveito contro il governo di Rouhani, reo, secondo loro, oltre che di una cattiva gestione economica, del perseguimento di una costosa campagna di conquiste in nome della volontà della leadership religiosa, che punta al dominio mondiale dell’Islam sciita. Già nello scorso dicembre si erano verificate manifestazioni e proteste, ma, mediante arresti e promesse, il tumulto era stato sedato. Anche in questa occasione, per placare le proteste dei manifestanti diretti verso il pa18 • MSOI the Post

lazzo del Parlamento, la polizia ha lanciato gas lacrimogeni. Si è, inoltre, parlato di arresti e morti, ma da un regime chiuso come quello iraniano è sempre difficile reperire informazioni certe e non strumentalizzate in merito agli avvenimenti interni. Queste accese contestazioni, portate avanti dalla classe media, potrebbero avere delle conseguenze importanti non solo per l’economia del Paese, ma anche per il suo futuro politico. Infatti l’Iran versa in una situazione economica molto e difficil : oltre al citato crollo del Riyal, ai suoi minimi storici con un cambio con il Dollaro a 1:90.000 Riyal, la disoccupazione ha raggiunto il 12,3% e raggiungerà picchi del 20% entro la fine del 2018. Come detto, Hassan Rouhani, che nel 2013 è succeduto a Ahmadinejad alla Presidenza dell’Iran e che nel 2017 ha nuovamente vinto le elezioni, è parso essere il primo imputato delle contestazioni del popolo. Se già nel 2015 circa 15 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà (20% della popolazione), a scatenare i malumori della borghesia iraniana è stata la serie di riforme economiche e liberalizzazioni, che hanno determinato un’apertu-

ra ai mercati esteri e agli investimenti stranieri, rispetto alle quali il governo, secondo i suoi cittadini, non è riuscito a evitare di farsi assoggettare dai dettami delle potenze occidentali. Ovviamente tutta questa situazione, già precaria di per sé, è stata pesantemente aggravata dall’uscita dall’accordo nucleare da parte degli Stati Uniti e dalle conseguenti sanzioni sul commercio, che includono il blocco della vendita internazionale del petrolio iraniano, la principale fonte di reddito di Teheran (circa il 60% del PIL). Basti pensare, infatti, che nel mese trascorso dopo l’annuncio di Donald Trump, il Riyal ha fatto registrare una svalutazione del 40%. Lo stesso governo iraniano ha attribuito pubblicamente la colpa della propria crisi alle misure statunitensi, definendole equivalenti ad una guerra “politica, psicologica ed economica” su Teheran. Tuttavia, la situazione non pare in grado migliorare nel breve periodo: Washington ha chiesto che tutti i Paesi pongano fine alle importazioni di greggio dall’Iran entro il 4 novembre, obbligando così il Paese del Medio Oriente a cercare autonomamente fonti di reddito alternative.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO CLAUSOLE MULTISTEP E ARBITRATO INTERNAZIONALE Nuove proposte in materia di regime sanzionatorio

Di Luca Imperatore Negli ultimi anni si è assistito ad un incremento importante del ricorso a meccanismi alternativi di risoluzione delle controversie, nei contratti internazionali di commercio. Fra le procedure di ADR (Alternative Dispute Resolution) preme ricordare il negoziato, la mediazione e l’arbitrato. È d’uopo ricordare che soltanto il lodo arbitrale è un titolo di giurisdizione idoneo a produrre effetti vincolanti sulle parti; gli altri meccanismi di risoluzione delle controversie mirano al raggiungimento di un accordo fra le parti, senza la capacità di imporre un decisione definitiva. Non è raro che le stesse presentino specifici riferimenti ad una procedura c.d. multistep. Sono così definite, quelle clausole che prevedono che una certa controversia venga dapprima sottoposta ad un tentativo di conciliazione, di negoziazione o di mediazione e solo successivamente, a seguito del fallimento di questi tentativi prodromici, ad un arbitrato. Per lungo tempo è rimasta dubbia la portata di tale condizione, non essendo chiaro quanto la presenza di una clausola multistep imponesse l’obbligo del previo esperimento dei meccanismi alternativi di risoluzione, prima di ricorrere all’arbitrato. In altre parole, è obbligatorio seguire l’iter previ-

sto dalla clausola? Quali sono le sanzioni per il mancato rispetto di questo onere? A dare un’importante risposta ai quesiti indicati, è intervenuta la sentenza 4A-628/2015 del Tribunale Federale svizzero. I fatti possono essere riassunti come segue: due società operanti nel campo degli idrocarburi sottoscrivono un contratto per lo sfruttamento di alcune aree comuni in Algeria. A seguito dell’insorgenza di una controversia nell’applicazione del contratto, le parti decidono di dare seguito all’art. 22 del contratto che, con un approccio multistep, impone alle parti di tentare una mediazione e poi, eventualmente sottoporre la questione ad un arbitrato. Le parti iniziano un procedimento di mediazione che però non procede con particolare efficacia, al punto che una delle parti decide di adire avviare un procedimento arbitrale. La seconda, adendo il Tribunale Federale svizzero, richiede a quest’ultimo di riconoscere l’incompetenza ratione temporis del collegio arbitrale. Di fronte alla Corte si profila il problema di comprendere come sanzionare tale condotta. Le proposte vagliate sono tre. La prima prevede di stabilire una compensazione economica in favore del ricorrente. Tale impostazione viene però scartata perché, oltre a privare

di qualsiasi utilità il processo di mediazione, impone al ricorrente di dimostrare e quantificare un danno non certo (stante il fatto che la mediazione, per sua natura, non garantisce alcuna possibilità di giungere ad un compromesso). Anche la proposta di rigettare il ricorso al tribunale arbitrale viene rifiutata, dal momento che comporterebbe costi economici e procedurali troppo elevati. La soluzione definitivamente accettata dalla Corte è la seguente: nel caso non vengano rispettati i passaggi imposti da una clausola multistep, è compito del tribunale arbitrale adito ante tempore, sospendere la procedura e stabilire un limite temporale per completare il procedimento di mediazione. La rilevanza di tale pronuncia deriva dal fatto che la strutturazione proposta permette di rendere de facto vincolante il rispetto delle clausole multistep. Certamente, la pronuncia svizzera ha attratto notevole attenzione da parte della dottrina che si occupa di diritto privato internazionale. Tale elemento, in ipotesi, potrà avere un’influenza importante e concreta nei meccanismi alternativi di risoluzione delle controversie. Il tempo, permetterà di comprendere come la stessa verrà recepita dalle istituzioni arbitrali e quali saranno le conseguenze giurisprudenziali in materia. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO MIGRAZIONI E SMUGGLING OF MIGRANTS L’UDOC, nel suo primo rapporto a carattere mondiale, evidenzia una problematica di stringente attualità

Di Pierre Clément Mingozzi Analizzando dati raccolti sul campo, letteratura e ricerche nel settore, il recente Global Study on Smuggling of Migrants (GLOSOM 2018) prodotto dall’UDOC (United Nations Office on e Drugs and Crim ) rappresenta una dei lavori più importanti in materia di migrazioni, segnatamente nell’ambito del traffico dei migranti, nella sua analisi e nella sua possibile prevenzione. Focalizzandosi sulle più importanti rotte di traffico dei migranti,ilreporthacomeobbiettivo quello di fornire una visione la più completa possibile di questo crimine, connettendo di fatto tutti i fattori che partecipano al suo sviluppo e alla sua diffusione, ovvero l’origine, il transito e la destinazione dei migranti. Inoltre, la volontà di superare un approccio troppo spesso basato sull’analisi dei fenomeni migratori soltanto nel momento dell’arrivo nei paesi di destinazione, il report prende in considerazione elementi fondamentali quali “the modus operandi of smugglers; the risks the journeys pose for migrants and refugees; and the profile of smugglers and the vulnerable groups 20 • MSOI the Post

on which they prey”. La tematica della migrazioni è oggigiorno ostaggio spesso di visioni fortemente contrastanti e antitetiche, spesso esacerbata da interessi politici ed economici a breve termine che il più delle volte non prendono nemmeno lontanamente in considerazione, tramite soluzioni facili ed immediate, la reale natura di questo fenomeno, ovvero, come evidenzia l’analisi UDOC, “making clear that there is never a one-size-fits-all explanation”. Nel mondo sono 2.5 milioni i migranti vittima di questo crimine (dato 2016) con un giro di affari che si attesta intorno ai 7 miliardi di dollari per i trafficanti. Ed è proprio il ritorno economico a svolgere un ruolo fondamentale in quello che sembra essere, dati alla mano, un mercato in continua crescita. I prezzi da pagare per i migranti sono alti, e non solo metaforicamente. Infatti, “the fees are largely determined by the distance of the smuggling trajectory, number of border crossings, geographic conditions, means of transport, the use of fraudulent travel or identity documents, risk of detection and others. The fees are not

fixed, and may change according to the migrants’ profiles and their perceived wealth. For example, Syrian citizens are often charged more than many other migrants for smuggling along the Mediterranean routes (an extra charge that may or may not lead to a safer or more comfortable journey)”. Il traffico di migranti, in quanto feonomeno globale, necessita rispostesuscalaglobale.Tuttavia,alivello internazionale il fenomeno non è ancora stato preso in dovuta consideraizone: è il report medesimo ad evidenziare che “the United Nations Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air, supplementing the Convention against Transnational Organized Crime, is the only internationally agreed legal instrument designed to prevent and combat smuggling of migrants”. Da tale considerzione sorge la necessità di incentivare azioni congiunte insieme ad una “regional and international cooperation and national criminal justice responses”. L’obbiettivo primario è quello di fermare gli enormi profitti di questo crimine, affinché ciò “may serve the purpose of reducing the crime”.


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