Gustavo Savino, nato nel 1969, medico specialista in Farmacologia e Medicina dello Sport, lavora in forza al Centro Regionale Antidoping presso l’Azienda Usl di Modena. È coordinatore del “Telefono Pulito” e medico sociale in contesti sportivi professionistici (calcio e pallavolo in particolare).
…pian piano l’ansia si riduceva ma i sensi di colpa aumentavano e così aumentavano la fame e il sonno, l’una però non mi permetteva di cedere all’altro e non riuscivo più a dormire serenamente. Ero preso da una fastidiosa sensazione di stanchezza profonda che non trovava mai soddisfazione nel riposo vero e proprio. Presi un’altra capsula, e poi un’altra ogni tre o quattro ore. Promisi a me stesso di ordinare un po’ di scorta del farmaco dal web. Organizzando meglio le assunzioni della mia pillola, ritrovai una certa forma fisica e mentale e tirai avanti, quasi senza rendermene conto, dal mercoledì fino al venerdì senza dormire mai… (da Il giocatore di scacchi)
STORIE DI DOPING
Alessandro Donati, Maestro dello Sport, laureato in Scienza dello Sport presso l’Università “Claude Bernard” di Lione, già dirigente del CONI, già membro della Commissione Scientifica Anti-Doping del CONI, poi membro della Commissione Ministeriale di Vigilanza sul Doping, consulente della WADA per la problematica dei traffici delle sostanze dopanti, è autore di diversi articoli, libri ed interventi congressuali sul Doping approfondimenti e discussioni su
www.storiedidoping.blogspot.it
isbn 978-88-7000-575-2
0 2,0
€1 9 788870 005752
Raffaele Candini - Gustavo Savino
Raffaele Candini, nato nel 1974, è consigliere provinciale e regionale del Centro Sportivo Italiano, responsabile della Commissione Pallacanestro (C.S.I.) di Modena, nonché cestista amatoriale per passione. Laureato in Scienze Politiche, giornalista pubblicista, già assessore allo Sport a Modena, lavora come funzionario presso la Presidenza della Provincia. Ha conosciuto Gustavo Savino collaborando dal 2001 al progetto “Tallone d’Achille”
E in effetti, ripensandoci, negli ultimi mesi avevo avuto anche episodi strani: un paio di attacchi di panico, palpitazioni, tachicardie notturne immotivate, che mi avevano costretto a letto, perdendo alcuni giorni di lavoro, senza preavviso. La mia pressione era davvero molto alta; me la misuravo spesso da solo, ma tenevo per me i valori riscontrati. Ho avuto notti di cefalee devastanti, con un’inattesa sete improvvisa e costante, e con la necessità di andare a fare pipì ogni mezz’ora. Diavolo, credo che fossero sintomi di qualche stato iniziale del diabete… (da Il fotomodello rumeno)
Raffaele Candini Gustavo Savino
con una prefazione di
Alessandro Donati
Mucchi Editore
Questo libro racconta sei storie di persone normali che hanno avuto problemi di doping. Sei storie vere di sportivi non professionisti che assumendo droghe, sostanze nocive e farmaci deviati si sono rovinati la salute fisica e psicologica solo per seguire il miraggio dei loro muscoli o per coltivare un sogno di vittoria in gare di provincia. Questi sei non sono morti, ma a un certo punto si sono sentiti molto male, hanno avuto la sensazione di essere davvero in pericolo e sull’onda della paura si sono rivolti al numero verde del “Telefono Pulito” (800.170.001) che dal 2002 è a disposizione di tutti gli sportivi che si sentono minacciati dal doping. Sembra strano, ma il doping è anche questo. Anzi, spesso è proprio fra le centinaia di migliaia di sportivi amatoriali e dilettanti o fra i tenaci agonisti delle categorie over che serpeggiano i rischi peggiori e più sottili, gli abusi più inutili e nocivi. La realtà è che un giovane fotomodello, un avvocato scacchista, un commercialista bravo a golf e tanti altri anonimi personaggi come loro, anziché godersi le loro passioni sportive, possono diventare i protagonisti involontari di queste storie inquietanti, fatte di intossicazioni e di disfunzioni sessuali, di malesseri e di terribili effetti collaterali. Qualcuno si chiederà se questi sono solo pochi casi eccezionali o se davvero anche i non professionisti si fanno sedurre dagli stimolanti, dagli ormoni e dalle droghe. Le seimila chiamate ricevute dal “Telefono Pulito” in questi anni, di cui queste sei storie rappresentano una parte infinitesima, stanno lì a dimostrare non solo le preoccupanti dimensioni del problema ma soprattutto che l’unica strada per risolverlo sta nel diffondere tutte le informazioni e le conoscenze necessarie per rendere gli sportivi consapevoli dei danni a cui si espongono e convincerli a dire no prima di rischiare. È anche questo un modo, in fondo, per riconoscere allo sport tutto il suo valore educativo e culturale
i.c.
Raffaele Candini Gustavo Savino
Storie di doping con una prefazione di Alessandro Donati
Mucchi Editore
ISBN 978-88-7000-575-2
Storie di doping è un Service a cura del Rotary International - Gruppo Ghirlandina (Rotary Club di Carpi, Castelvetro - Terre dei Rangoni, Frignano, Mirandola, Modena, Modena - L.A. Muratori, Sassuolo, Vignola Castelfranco E. - Bazzano)
In copertina: Soggetto e fotografia di Filippo Bondi e Riccardo Candrini. Si ringraziano inoltre: Davide Berti (interviste), Massimiliano Ranellucci, Ferdinando Tripi, il Centro Regionale Antidoping dell’Emilia-Romagna e l’Azienda USL di Modena Testi a cura di Studio “Le parole” di Jonathan Sisco Tutti i diritti riservati. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nel limite del 15% di ciascun volume o fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra siae, aie, sns e cna, confartigianato, casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall’editore. È vietata la pubblicazione in rete. grafica Mucchi Editore (MO), stampa GECA spa (MI) © Mucchi Editore Via Emilia Est, 1527 - 41100 Modena www.mucchieditore.it - info@mucchieditore.it associata: confindustria, aie, uspi Ia edizione, pubblicata in Modena nel settembre del 2012
Indice 5 Doping: un pericolo per tutti di Alessandro Donati 9 Educare allo sport e alla salute di Alberto Farinetti 13 Nota ai testi 17 Storie di Doping 19 Il giocatore di scacchi 39 L’ispettore 67 Un ciclista racconta 89 Il golfista 107 Il fotomodello rumeno 133 I calciatori 163 Dieci domande (e dieci risposte) sul doping e le sue possibili cure 163 1. Perché così tanti sportivi, sia agonisti sia dilettanti, fanno uso di sostanze dopanti? 166 2. Da quando si può dire che il doping faccia parte della nostra esperienza sportiva? 170 3. Chi si dopa è un drogato? 172 4. Qual è stato il caso più grave di doping che avete visto? 173 5. I controlli antidoping possono limitare questo orribile fenomeno?
175 6. Qual è lo stato dei controlli in Italia? 180 7. Perché a un certo punto alcuni atleti che fanno uso di sostanze confessano e chiedono aiuto? 182 8. Si può smettere di doparsi? 183 9. Quindi come si può fare per evitare che gli sportivi usino il doping? 186 10. Il Telefono Pulito compie dieci anni di attività. Quali sono gli aspetti maggiormen te positivi di questa esperienza?
Doping: un pericolo per tutti Tutto è iniziato dagli scandali doping degli atleti di vertice, salvo poi scoprire che nel frattempo (ed ancora di più in seguito) l’abuso di farmaci a fini di doping si era innestato e si sarebbe esteso anche tra i comuni praticanti sportivi. Del resto, un analogo travaso era accaduto anni prima tra i bodybuilders professionisti ed i frequentatori delle sale di muscolazione sparse nelle diverse parti del mondo. Prima in Francia, poi in Italia ed infine in Austria e in Spagna, sotto l’influenza dei suddetti scandali nello sport di alto livello, i rispettivi Parlamenti hanno pensato di rispondere approvando leggi penali tutte incentrate sui test anti-doping. Si è creata, così, una strana mescolanza tra il sistema giudiziario degli Stati e quella sorta di giurisdizione extraterritoriale che sono i laboratori anti-doping gestiti in toto dal sistema sportivo. Ma il peccato originale più grave di queste normative penali anti-doping è che sono state tutte concepite pensando esclusivamente alla fattispecie degli atleti di elevato livello, ignorando, di fatto, il fenomeno diffusivo. Poi si è progressivamente scoperta la gravità e la vastità del problema doping tra i praticanti sportivi dei livelli inferiori e ci si è così ritrovati con strumenti legislativi non specifici per contrastare il massiccio fenomeno della commercializzazione illecita dei farmaci utilizzabili per doping.
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Frattanto, il doping degli atleti di vertice, messo a nudo da qualche caso di positività nei test anti-doping ma, soprattutto, dalle diverse indagini giudiziarie, si faceva sempre più “furbo” e diveniva una sorta di fiume carsico nel quale le Federazioni sportive ed i singoli club si disimpegnavano dalla gestione diretta delle pratiche doping lasciando che i loro atleti di punta, opportunamente e discretamente indirizzati e supportati, se la sbrigassero da soli. In questa situazione internazionale opaca e che in Italia assume un contorno particolarmente inquietante per il fatto che la quasi totalità degli atleti che partecipano ai Giochi Olimpici sono tesserati per le squadre militari di quegli stessi corpi che svolgono per le Procure il ruolo di Polizia giudiziaria, è nato il Progetto “Tallone d’Achille”. Un’iniziativa di prevenzione del doping tra le tante, che però è tra le poche ad essere sopravvissute e anzi ad essersi perfezionate negli anni. Con il suo telefono verde consultabile quasi giornalmente e, peraltro, collocato in un’area ad elevato rischio doping, il “Tallone d’Achille” ha prestato un prezioso quanto discreto servizio di informazione a favore sia di qualche atleta di vertice in “panne” o in preda ai dubbi sia, più in particolare, di tanti e sconosciuti praticanti sportivi e frequentatori di palestre. Le storie che vi vengono proposte sono state, evidentemente, scelte dagli Autori in modo da raffigurare una casistica sufficientemente rappresentativa della complessa situazione. E qui mi permetto di riprendere il discorso delle indagini giudiziarie per ricordare
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che da esse non possiamo aspettarci la soluzione o un consistente abbattimento del doping, bensì (e non è poco!) il reperimento di informazioni dettagliate che ci consentano di capirne le caratteristiche e le dinamiche. Così come fanno i due esperti del “Tallone d’Achille” raccontandoci i piccoli e grandi drammi che si nascondo dietro all’abuso di determinati farmaci e sostanze. Due contributi – quello del sistema giudiziario e quello di progetti come il “Tallone d’Achille” – che si intrecciano e si orientano vicendevolmente per accrescere le conoscenze degli educatori e delle famiglie, al fine di prevenire, per quanto possibile, il fenomeno tra i giovani. Dalle storie qui raccontate emerge l’intreccio ricorrente tra l’uso di farmaci, il doping e l’abuso di altri farmaci e psicofarmaci oltreché di sostanze stupefacenti (e di alcol). Si tratta di un unico grande insieme nel quale saper distinguere specifiche combinazioni di abuso, tipiche dei diversi ambienti. Sullo sfondo un’offerta spregiudicata che proviene, per una parte, dall’industria farmaceutica e, per l’altra parte, dai soggetti criminali che manovrano i traffici della droga. La gravità del fenomeno diffusivo del doping è dimostrata dai risultati dei test anti-doping svolti dalla Commissione di vigilanza presso il Ministero della Salute che, per inciso, conducono a percentuali di positività enormemente superiori a quelle rilevate dal sistema sportivo sugli atleti di vertice e non perché questi ultimi non si dopano ma perché sono
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protetti da un sistema – quello sportivo per l’appunto – che vive sulle loro performance. è sufficiente fare pochi controlli a sorpresa, o prendersela comoda per mettere a punto nuove metodiche di analisi ed ecco spiegate le percentuali di positività da prefisso telefonico riscontrate sugli atleti di vertice… salvo ritrovarli, poi, coinvolti nelle indagini giudiziarie che riescono a percorrere il proprio tragitto fino in fondo, resistendo ai condizionamenti. Una persistente opacità che, all’interno del sistema sportivo, le persone per bene fanno fatica a rimuovere poiché vengono emarginate dai cacciatori di medaglie, nel nome della Patria che poi, in realtà, significa nel nome delle proprie interminabili carriere. E alla tutela della salute fisica e mentale degli atleti e dei giovani praticanti in particolare chi ci pensa? La Commissione di vigilanza, il Progetto “Tallone d’Achille”, il Progetto “Palestra Sicura” pure svolto in Emilia Romagna, gli interventi di prevenzione svolti in tutta Italia dai referenti scolastici per la salute e dagli altri insegnanti, il lavoro educativo svolto da qualche sparuto Ente di Promozione sportiva non finto, il lavoro appassionato dei carabinieri del Nas e di un numero crescente di Procure. Tutti questi soggetti stanno svolgendo un ruolo importante senza preoccuparsi degli interessi di chi dirige lo sport di vertice che, nel frattempo, passa con sempre più drammatica facilità dai luccichii alle ombre, o troppo spesso ai drammi. Prof. Alessandro Donati
Maestro dello Sport - Consulente WADA
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Educare allo sport e alla salute Non è facile descrivere quale sia la funzione e il ruolo dello sport nella vita quotidiana della nostra società. Dopo il Novecento, lo sport è divenuto qualcosa di talmente presente e di talmente complesso da sfuggire a qualsiasi definizione semplicistica. Simbolo di forza e di abilità, incarnazione di grazia e di bellezza, espressione della capacità di vincere, attività che educa e irrobustisce il corpo, divertimento, sfogo, sfida amichevole con gli amici e con se stessi… Probabilmente, si potrebbe continuare ancora a lungo ad aggiungere precisazioni e descrizioni senza riuscire a delimitare del tutto questo fenomeno che tanto ci affascina, ci avvince e ci coinvolge. Forse, la vera novità di questi nostri tempi moderni sta nel fatto di aver riconosciuto nello sport non solo dei valori umani, culturali e simbolici ma anche un esercizio utile per vivere in salute, cioè per migliorare la qualità della nostra vita. Questo non significa che nello sport di oggi sia stata tirata una riga netta che separa la cultura dell’agonismo da quella dall’attività fisica, che distingue la voglia di gareggiare e competere dall’esigenza di allenarsi e di muoversi un po’ per spezzare il ritmo monotono di una vita sedentaria. Al contrario questo significa riconoscere una grande dignità anche all’agonismo e alla voglia di migliorare dei dilettanti e degli sportivi della domenica, perché è proprio grazie alla spinta positiva
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di quelle sensazioni, tanto insite nello sport da non poterle scindere da esso, che migliaia di persone fanno attività vantaggiose per la loro salute. In ultima analisi, per noi lo sport non è più solo espressione di forza, di abilità e di vittoria, ma è anche, e forse soprattutto, un esempio di salute, di energia benefica, di freschezza e di lucidità mentale. Il riconoscimento e la condivisione di questi valori positivi dello sport contemporaneo ha spinto i Rotary Club della Provincia di Modena - Gruppo Ghirlandina a sostenere questa pubblicazione con lo scopo preciso di contribuire al miglioramento dell’educazione alla salute attraverso lo sport nella nostra comunità. Ma questo è anche un libro coinvolgente e sincero e per molti versi inquietante. Vi si leggono alcune storie drammatiche, raccontate da persone che pur appartenendo alle sfere più normali della nostra società civile hanno visto la loro vita e la loro salute rovinata dal doping, cioè dall’uso illecito o deviato farmaci e di stupefacenti per “migliorare” le qualità atletiche ed estetiche dei loro corpi. In realtà, però, senza saperlo, queste persone hanno rischiato grosso: hanno messo in pericolo la loro salute fisica e la qualità delle loro relazioni sociali, relegandosi negli angoli bui dello sport e trasformandosi da uomini sani e forti in persone intossicate e disoneste. Tutti sentiamo spesso parlare di doping sulla scia dei grandi eventi, dal Tour de France alle Olimpiadi. Queste pagine provano a gettare un raggio di luce sul lato meno illuminato del mondo del doping
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e dello sport e ci aiutano a comprendere quanto i suoi confini siano molto più vasti e più vicini a noi di quanto non emerga dalle cronache dei media. Infatti, è nell’ombra dello sport amatoriale che spesso si nasconde il dramma che non ti aspetti. Il doping nello sport dei non professionisti è come un vaso di Pandora che per ora non è ancora stato scoperchiato ma che continua a rivelare il suo contenuto stillando terribilmente una goccia per volta. In questo caso, le gocce terribili sono le migliaia di telefonate ricevute da un servizio di consulenza istituito (con un progetto all’avanguardia) dal Centro Regionale Antidoping che ha sede a Modena alle dipendenze dell’Azienda USL: il “Telefono Pulito”. Si tratta di una linea dedicata, cioè di un numero verde gratuito per le telefonate da tutta Italia (800-170001) attivo dal 18 marzo 2002, cioè da dieci anni. Il telefono è a disposizione degli utenti dal lunedì al venerdì dalle 14.00 alle 16.00. In linea ci sono i medici del Centro Regionale Antidoping dell’Emilia Romagna, che rispondono in presa diretta a quesiti su sostanze dopanti o sospette tali, sulle conseguenze a carico delle prestazioni sportive, sugli effetti collaterali, sulle interazioni con altri farmaci, sostanze, cibi o bevande. Con una media di tre chiamate al giorno, il servizio si è rivelato un successo. Ad oggi si registrano più di seimila telefonate. Il dato più interessante, però, è relativo all’identità delle persone che chiamano. Nell’88 percento dei casi, infatti, si è trattato di atleti non professioni-
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sti, nel 7 percento si è trattato di casi privati, legati all’uso di sostanze con fini non prettamente sportivi, e solo nel 5 percento dei casi si è trattato di professionisti. Così, si è andato a comporre un enorme e preoccupante mosaico. Ecco quindi che il Gruppo Ghirlandina ha deciso di contribuire a portare in piena luce una realtà emersa in dieci anni di lavoro puntuale, svolto a contatto con le persone in difficoltà. L’educazione e la formazione delle giovani generazioni è uno degli scopi prioritari del Rotary International. Queste storie, che verranno portate nelle scuole, tramite un ciclo di incontri fra gli studenti, faranno parlare, discutere, stimoleranno a cogliere un fenomeno complesso, cangiante, ingannevole e pericoloso. Speriamo che l’esempio di chi ha già vissuto il dramma sulla propria pelle possa contribuire a rafforzare le consapevolezze di ogni sportivo, giovane e meno giovane. Il Gruppo Ghirlandina lo ribadisce: sarà una lettura a tratti scioccante ma che vale la pena di affrontare. Alla fine sarà chiaro anche a voi che le scomode verità sull’uso delle sostanze dopanti nello sport, non possono essere taciute ai nostri giovani se davvero vogliamo tenerli lontani da problemi di salute e da falsi ed effimeri miti di successo.
Per il Rotary International - Gruppo Ghirlandina
Prof. Alberto Farinetti
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Nota ai testi I sei racconti che costituiscono il cuore di questo libro sono altrettante storie realmente vissute. I nomi, i luoghi e alcune circostanze particolari degli eventi sono stati modificati al fine garantire il rispetto delle vite private dei protagonisti, ma il resto corrisponde a realtà. Si racconta di alcuni degli appelli più singolari ed interessanti lanciati al “Telefono Pulito” che riceve in continuazione richieste di consulenza da parte di persone con problemi di doping. Per ricondurre le storie personali alla loro dura oggettività sanitaria, ogni racconto è seguito da una scheda medica che analizza le sostanze usate, i loro effetti generici a breve e lungo termine e, nello specifico, le conseguenze sul paziente protagonista. Sono tutte storie di gente talmente normale che più normale non si può, che non vive lo sport a tempo pieno e che nella vita fanno altro: un giocatore di scacchi, un golfista della domenica, un ex obeso che si è fatto venire la mania della forma fisica impeccabile… Per questo, nel loro piccolo, queste vicende dimostrano come il doping oggi è diventato qualcosa di più sfuggente e inquietante di quello che pensiamo di solito. Queste testimonianze dirette, che sono il frutto della paura e della preoccupazione personale che ha spinto molte persone a rivolgersi al servizio sanitario per tutelarsi, chiariscono che il mondo del doping, con tutti i suoi pericoli, non è
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qualcosa che si trova molto lontano dalla nostra realtà quotidiana, apparentemente separata dal mondo esasperato degli sportivi professionisti, ma qulacosa di vicino, una rete di valori corrotti e di consuetudini nocive è ben presente a qualsiasi livello e in qualsiasi strato sociale. I micro-drammi privati narrati dai protagonisti di ogni storia testimoniano che l’uso deviato di terapie farmacologiche o l’assunzione di sostanze stupefacenti per trasformare il proprio corpo potrebbe riguardare chiunque. Qui siamo fuori dalla sfera dello sport a livello prefessionitico e talvolta dello sport. Nessuna di queste persone racconta un’esperienza di vittoria rubata. Nessuno di loro mirava a salire sul gradino più alto del podio al posto di chi lo meritava davvero. Per loro l’uso dei prodotti dopanti nasce dallo sfogo di tensioni più intime, da errori di valutazione o dalla necessità di costruirsi un’identità in modo sbagliato e rovinoso. Se non c’è una gara da vincere, se non c’è un profitto economico, quali strade possono condurre qualcuno al doping? Queste storie non rispondono a questa domanda ma la pongono con forza ancora maggiore e precisano oggettivamente quanto il doping possa rappresentare un rischio per la salute e talvolta oltre la soglia del rischio, contribuendo inoltre a rovinare la propria vita sul piano delle relazioni umane e interpersonali, con esiti a volte drammatici. A ben vedere, in fondo, questa forma non professionistica di medicalizzazione del corpo sano ci costrin-
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ge a riflettere su una realtĂ ancora piĂš inquietante di quella che di solito emerge dalle cronache sportive: perchĂŠ nessuno di noi, dopandosi, potrebbe battere un campione vero ma chiunque di noi potrebbe essere il protagonista di questi racconti e scoprire di aver messo in pericolo se stesso.
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Storie di Doping
Il giocatore di scacchi Io sono uno di quei giocatori di scacchi totalmente privi della capacità di collocare il campo di battaglia nello spazio sconfinato della fantasia. Per ripassare mentalmente tattiche di posizione o di attacco, triangolazioni o combinazioni e altre idee di gioco, devo sempre tenere davanti a me il quadrato bianco e nero con le sessantaquattro case e rappresentarmi visivamente i trentadue pezzi di gioco. Per questo, ogni venerdì, prima della partita, trascorro almeno mezz’ora seduto alla scrivania, fissando la scacchiera vuota con la testa appoggiata tra le dita delle mani. Tengo i gomiti sul tavolo, passo in rassegna un buon centinaio di aperture e mi figuro le possibili risposte dell’avversario. Poi, di solito, mi distendo e rivolgo lo sguardo verso la parete con un intento preciso: osservare con calma la riproduzione de “Il giocatore di scacchi”, il famoso quadro di Cornelis De Man. Un dipinto per me ammaliante, rassicurante e pericolosamente inquietante al tempo stesso: la giusta terapia prima della partita del venerdì sera al circolo scacchistico. Sento il bisogno di questa breve seduta di propedeutica mentale perché alla fine della settimana mi capita di sentirmi molto stanco e non voglio correre il rischio di perdere una sfida a causa di una disattenzione dovuta alla stanchezza psicofisica o ad altre forme di estenuazione morale.
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Una volta, poco tempo fa, mi sono trovato in una situazione difficile. Non dormivo dal mercoledì precedente. In quel periodo, il lavoro stava imponendo ritmi complicati, difficilmente sostenibili da chi, come me, preferiva leggere il trattato di Romanovskji sul “mediogioco” piuttosto che una sentenza della Cassazione o il rapporto di un collega su un contenzioso tra condomini. Lo studio legale offriva una copertura discreta alla lettura ed alla pratica del gioco: “l’avvocato sta studiando la procedura”, rispondeva la segretaria compiacente, eludendo l’insistenza del cliente fino a data da destinarsi. Ero sempre riuscito a cavarmela. L’importante era rispettare il giusto tempismo, utile a offrire una valida alternativa o la soluzione del caso prima che il cliente manifestasse la propria ira, licenziandomi e passando alla concorrenza. Ma stavolta sarebbe stata dura. Il lavoro si era accumulato, le udienze già programmate da tempo si sarebbero avvicendate e i clienti chiedevano la – legittima – rassicurazione che il loro avvocato fosse all’altezza di sostenere e controbattere qualsiasi mossa dell’accusa. Ma, ripetevo a me stesso, un giocatore di scacchi può far valere la propria esperienza di gioco anche in tribunale. In fondo, la scacchiera è l’immagine astratta di un campo di battaglia fra due uomini, cioè una forma sovranamente intellettuale di gestione e scioglimento vittorioso di un conflitto. Quindi, mi autoconvincevo, impegnare il tempo migliore della mia vita negli scacchi era anche il modo migliore per farmi trovare pronto in
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aula, senza dimenticare che gli assistiti non sono pedine da sacrificare all’eventuale superiorità di un avversario più capace. Sempre più spesso, però, sia nei dibattimenti sia nei duelli scacchistici, mi capitava di nutrire all’improvviso dei dubbi strani, come se delle ombre mute si insinuassero in me per sconvolgere la tenacia che prodigavo in battaglia. Avevo dei cali di tensione, mi rilassavo e sentivo che in qualche modo mi sdoppiavo mentalmente. Mi intenerivo e di colpo mi immedesimavo con il sinistro alfiere, con la rigida torre o con l’accorto pedone e non sapevo più dov’era la mano precisa del giocatore che governa il destino dei pezzi. È una cosa che continua a ripetersi anche ora. Di colpo, non mi sento più in grado di imporre una legge ineluttabile al capriccio del gioco né di uccidere o sacrificare una pedina per vincere lo scontro. A volte, quando mi immedesimo con qualcuno dei pezzi, mentre questi si cercano e si scelgono nella muta battaglia sopra lo spazio bianco e nero, allora mi sento perso. Divento anch’io prigioniero di un’altra scacchiera e vorrei che una mano superiore muovesse anche me come un giocatore. Ecco cosa mi mancava, una mano cauta ed esperta, sicura al di là delle mie doti naturali di ragionamento, quella mano che nel suo dipinto Cornelis De Man aveva messo così bene in evidenza, moltiplicandola per quattro al centro del quadro e lasciando trasparire nelle sue movenze un non so che di demoniaco e di angelico insieme. Avevo bisogno di una mano che
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mi sostenesse e mi guidasse anche negli angoli più serrati in cui si consuma la lotta fra i due colori. Normalmente la mia percezione del mondo era scevra da una simile confusione di concetti. Non sono certo il bambino che non coglie la linea di demarcazione fra se stesso e le cose che lo circondano. Però spesso mi sento a disagio perché non so a chi chiedere aiuto. Gli scacchi sono un mondo pieno di regole e di tecniche tramandate da una tradizione secolare, ma sono anche un mondo di segreti. Nessun giocatore vero rivela facilmente le proprie cognizioni o i propri usi scacchistici a un possibile rivale. Le chiacchiere e le confidenze sono spesso parole vuote o false piste da non seguire. Per fortuna oggi c’è la rete. Internet, con le sue capillari espansioni, mi aveva aperto un mondo, anzi, più di uno. Per prima cosa avevo scoperto che il mito del giocatore artificiale, prodigioso accumulo di facoltà cibernetiche al di là dell’umano, accompagnava da secoli la pratica scacchistica. Non so dire se sia un sogno o un incubo, ma quale scacchista non avrebbe ceduto almeno una parte del proprio spirito terreno per diventare un uomo-robot perennemente vigile, in grado di costruire e analizzare in pochi istanti di abilità sovrumana interi alberi di mosse, contromosse e soluzioni? Inoltre, seguendo i risultati di alcune ricerche online fatte per semplici parole chiave, avevo scoperto come gli scacchisti professionisti si dedicassero alla loro preparazione prima di una gara fonda-
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mentale non solo testando le loro prestazioni contro software di gioco sempre più raffinati, ma anche non disdegnando il contributo offerto dalla chimica. La stimolazione del sistema nervoso su base farmacologica, con la dovuta attenzione, avrebbe permesso a chiunque di mantenersi attento e dinamico in qualsiasi circostanza. È un fatto noto e anche semplice da capire, ma considerato ancora un tabù in un mondo come quello del gioco degli scacchi, apparentemente contrassegnato esclusivamente dalla sua purezza quasi scientifica di calcoli probabilistici e di esercizi razionali. Bisogna stare attenti, certo. I farmaci sono pericolosi. Ma con le mosse giuste, proprio come nelle partite migliori, si potrebbero sfruttare le risorse dei farmaci e nello stesso tempo minimizzare gli effetti dannosi della loro assunzione. La voglia di provare è stata subito forte. Non mi sembrava neppure di compiere un gesto immorale. Se provavo a prendere qualcosa solo per alleggerire il peso della stanchezza e del lavoro o per riuscire a sentirmi attivo e riposato anche in orari in cui il mio cervello avrebbe reclamato riposo, non avrei certo alterato o migliorato le mie conoscenze teoriche o le mie capacità intellettive. Uno non diventa più bravo solo perché è riposato! Non esiste la pillola dell’intelligenza o della perspicacia tattica! Sono i bari che vincono rubando. Io volevo solo mantenere il mio normale tono nervoso e mentale quando le variabili della vita quotidiana me lo impedivano. La vittoria sarebbe stata sempre e solo farina del mio sacco, così come la sconfitta.
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Avevo cominciato con gli antidepressivi. Avevo letto che, migliorando l’umore delle persone, avrebbero potuto migliorare anche i livelli di attenzione e le capacità di riflessione. Sì, giusto! Ma questo era quello che avveniva in soggetti depressi o comunque con problemi psicologici. Dopo un periodo di alcune settimane passato ad assumere paroxetina e mirtazapina, non ottenni nessun risultato. Allora mi dedicai alla ricerca di un preparato più adatto a me. Volevo la pillola miracolosa che potesse sostenermi in partita e magari anche sul lavoro, la sostanza che mi desse le energie necessarie per gestire la mia vita di avvocato-scacchista, il prodotto che tenesse alta la mia reputazione di vincitore, al circolo ed in aula. Ero arrivato presto al metilfenidato, il Ritalin. Il problema sarebbe stato procurarselo visto che non rientrava certo fra i prodotti che un medico italiano mi avrebbe potuto prescrivere. Dopo mesi di ricerche, rimasi ancora una volta sorpreso dalla potenza flessibile, spregiudicata e pervasiva di internet. Comprai il farmaco prenotandolo su internet, con una carta prepagata. Scavalcai qualsiasi barriera legale facendolo arrivare dagli Stati Uniti, o da chissà dove, comunque da un posto dove poteva essere venduto senza rischio di contrabbando grazie allo sfruttamento commerciale di qualche cavillo legale. Non mi interessava. L’importante era che le magiche compressine bianche divisibili, arrivassero a casa mia senza intoppi e la prima volta fu proprio di venerdì, prima della partita: capsula sulla lingua, un po’ d’ac-
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qua e poi seduto in poltrona ad aspettare che facesse effetto. Dopo meno di mezz’ora, anche se non ricordo con precisione quanto tempo fosse trascorso, cominciai a sentirmi bene, quasi soddisfatto della mia posizione da seduto, allegro, ma beato della mia situazione di completa inattività, una sorta di stop al pensiero cosciente, un’euforia beata, una piacevole constatazione che lo stare in poltrona fosse la cosa migliore che mai nella vita avessi provato con piena consapevolezza. Esploravo la stanza e l’ambiente circostante assaporando ogni minuto della mia spettacolare apatia, avevo un sorriso insulso stampato in faccia e non ricordavo nemmeno il nome dei pezzi degli scacchi. Ero sinceramente felice per loro che stessero lì ad aspettarmi, anche se ero compiaciuto all’idea che avrebbero potuto anche restare dov’erano per sempre. Lo stato di assenza euforica durò poco, e subito, finito l’effetto magico del prodotto capii che non faceva al caso mio. Era un ottimo sussidio alla beatificazione del tempo perso ma sarebbe stato assolutamente inefficace al recupero delle mie energie in partita. Quando combatti, non puoi adagiarti nel benessere di un’illusione ma neppure abbandonarti agli istinti irrazionali di un’ossessione maligna. E infatti, mentre ragionavo su quanto mi piacesse la pillola poc’anzi ingerita e su quanto essa stessa fosse inutile, mi prese d’improvviso la voglia di ammazzare il vicino, di aggredirlo solo perché aveva appena abbassato la serranda della stanza attigua e, d’im-
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pulso, corsi verso la porta d’ingresso con veemenza, convinto del mio intento omicida, o quantomeno offensivo, nei confronti del povero geometra Rompianesi, ma nell’agitazione inciampai e caddi rovinosamente sul tappeto all’ingresso, quasi slogandomi un polso. Mi alzai subito arrancando e sferrai un pugno alla porta di casa che si sfaldò nel punto dell’impatto lasciandomi le nocche rosse e dolenti e un danno domestico non ancora riparato. Che il Ritalin non facesse per me lo decisi definitivamente la sera seguente, dopo una notte trascorsa completamente in bianco. La partita di quel venerdì al circolo la vinsi, ma fui fortunato. Il mio avversario non era all’altezza della competizione. Io mantenni uno stato di tensione sovraccarica per tutta la gara. Avrei urlato di gioia ad ogni mossa ben assestata. A dire il vero, mi trattenni a stento. Esplosi solo alla fine quando sbottai con una bestemmia arrivando al matto alla ventunesima mossa. Molti osservarono stupiti la mia reazione, ma i miei amici di sempre sdrammatizzarono l’accaduto offrendomi il solito prosecco e invitandomi ad organizzare il prossimo torneo under 18 di settembre. Conobbi l’ecstasy qualche tempo dopo, metilendiossimetamfetamina (MDMA) per gli appassionati di farmacologia. Ne avevo sentito parlare in TV come la “droga” dei giovanissimi, impiegata ai Rave Party per sostenere nottate intere di ballo sfrenato. Poteva funzionare? Forse, e rispetto al Ritalin fu tut-
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