"Il vino nel mondo antico. Archeologia e cultura di una bevanda speciale" di S. de' Siena

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Stefano de’ Siena “Così io ti saluto, o Dioniso che doni grappoli abbondanti; concedimi di tornare in letizia al ripetersi della stagione e, di stagione in stagione, per molti anni ancora”

Stefano de’ Siena nasce a Bologna e vive in provincia di Modena. È archeologo classicista e si occupa di ricerca, didattica, divulgazione scientifica e scavi. Da anni è impegnato sul tema del gioco e, più di recente, su quello del vino. Con Mucchi Editore ha pubblicato nel 2009 Il gioco e i giocattoli nel mondo classico. Aspetti ludici della sfera privata, nel 2010 Facciamo i giochi dei Greci e dei Romani e con Il vino nel mondo antico. Archeologia e cultura di una bevanda speciale prosegue il percorso di monografie in tema di archeologia sociale. Attualmente conduce un progetto di ricerca sulle origini e la diffusione della vitivinicoltura in Italia presso l’Università di Ferrara.

Il vino nel mondo antico

Inno omerico a Dioniso XXVI, 11-13

Stefano de’ Siena

Il vino nel mondo antico

Archeologia e cultura di una bevanda speciale

isbn 978-88-7000-573-8

€ 20,00 i.c.

Mucchi Editore

In un libro denso di nozioni, di documenti e di analisi talmente particolareggiate da trasformare anche le più piccole tracce, come i vinaccioli ed altri microscopici resti archeobotanici, in spiragli pertinenti e carichi di prospettiva storica, si ricostruisce la storia dell’invenzione del vino, la sua evoluzione e la sua funzione sociale negli usi delle grandi civiltà antiche, dagli esordi nel Vicino Oriente fino al mondo ellenico, etrusco e romano. Il vino, sostanza preziosa e da sempre conservata con cura, ma anche effimera e volatile sul piano organico, è un reperto archeologico molto raro. Tuttavia se ne hanno riscontri oggettivi in numerosi ambiti dell’antichità: dal percorso di domesticazione della vite ai progressi agronomici ed enologici, dalla storia dei commerci alla progettazione dei vasi vinari, dai corredi potori agli accessori di servizio, dai contesti conviviali alle celebrazioni funerarie. Seguendo il filo di queste tracce multiformi, Il vino nel mondo antico disegna un panorama dettagliato che coinvolge le competenze dell’archeologo, che potrà confrontarsi con deduzioni originali e innovative sulla realtà di un’autoctonia italica della vitivinicoltura o sulla liceità del bere per le donne etrusche; quelle dell’enologo, che vedrà descritta la vinificazione antica e troverà ricomposta la molteplice fenomenologia artigianale dei recipienti da trasporto, conservazione e invecchiamento; la curiosità del degustatore appassionato del “bere bene”, che potrà scoprire le tradizioni raffinate del simposio e del convivio, in quali locali pubblici si poteva consumare il vino e con quali sostanze veniva corretto e diluito, non soltanto per ragioni organolettiche. Il libro, anche grazie a un apparato di illustrazioni di rara ricchezza e vastità, mostra la dimensione conviviale delle diverse culture del vino, con un’articolata definizione del fenomeno, sia come prodotto del genio alimentare umano, sia come bevanda portatrice di valori etici, di slanci edonistici e di risvolti spirituali, questi ultimi legati soprattutto all’immaginario della religiosità sepolcrale fra ammonitori scheletri libanti e suggestivi epitaffi funebri. Questa indagine enoica a tutto campo, in cui lo studio delle identità culturali e delle testimonianze letterarie è sempre connesso all’esame degli aspetti concreti, si caratterizza non solo per il potenziale scientifico e divulgativo, ma soprattutto per la forza di un grande racconto dell’umanità che, attraverso la cultura del vino, ci offre uno spaccato di vita dei popoli antichi. Una cultura ecumenica, universale, eppure diversa in ogni luogo, e che ovunque trova nel dionisiaco nettare e nei gesti del bere una precisa e concreta corrispondenza che sostanzia in modo profondo l’humus delle genti e dei territori.


Stefano de’ Siena

Il vino nel mondo antico Archeologia e cultura di una bevanda speciale

Mucchi Editore


isbn 978-88-7000-573-8

Fotocopie del presente volume possono essere effettuate, per uso personale, nel limite del 15% dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESER­CENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale (ad es. pubblicazione in Internet) potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione scritta rilasciata dall’editore. Vietata la pubblicazione in Internet.

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“...e noi, anche bevendo, ci siamo comportati saggiamente, è naturale visto che quando siamo sobri ci comportiamo da stupidiâ€? Aristofane (Lys. 1227-1228)



Indice 1. Introduzione................................................................................................. 7 1.1 Aspetti dell’archeologia del vino.......................................................... 7 1.2 Le fonti e le discipline scientifiche..................................................... 13 2. La nascita del fenomeno vino....................................................................... 15 2.1 Coltivare la vite, produrre il vino: archeobotanica e archeologia dei territori arcaici................................ 15 2.2 Innovazione e autonomia della vitivinicoltura greco-italica................ 31 3. Le società del vino....................................................................................... 57 3.1 L’archetipo del simposio in Grecia..................................................... 57 3.2 Bere vino nelle Etrurie....................................................................... 74 3.3 La tradizione romana del convivium................................................... 91 4. Degustazione, conservazione e commercio nel mondo romano................... 113 4.1 I vini perduti dei Romani................................................................ 113 4.2 Dolia, cupæ, anfore e altri recipienti da deposito e da trasporto........ 122 4.3 L’impianto commerciale.................................................................. 128 4.4 Locali pubblici e posti di ristoro urbano.......................................... 132 5. Mito e religione......................................................................................... 139 5.1 Gli antichi culti enoici..................................................................... 139 5.2 La storia di Dioniso......................................................................... 143 5.3 Il culto italico di Fufluns................................................................. 150 5.4 Le seduzioni di Bacco...................................................................... 153 5.5 Il vino nelle feste popolari antiche................................................... 160 6. Il vino tra edonismo e metafisica................................................................ 169 6.1 La bevanda consolatoria................................................................... 169 6.2 L’otium, il piacere e il carpe diem..................................................... 175 6.3 Il vino e il culto dei morti................................................................ 191 6.4 Imbecillus sexus: le donne e il vino nell’antichità............................... 204 7. Riflessioni sulla cultura del vino nell’antichità........................................... 219 8. Fonti......................................................................................................... 231 8.1 bibliografia...................................................................................... 231 8.2 autori antichi.................................................................................. 249 8.3 Sitografia......................................................................................... 253 Indice delle illustrazioni................................................................................ 256

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1. Introduzione 1.1 Aspetti dell’archeologia del vino La domesticazione e la diversificazione della vite, gli adattamenti pedoclimatici e geomorfologici, la messa a punto delle tecniche di vinificazione e il loro continuo miglioramento, l’affinamento qualitativo, la conoscenza delle problematiche dell’invecchiamento e la loro padronanza, la straordinaria varietà di gusti ed aromi, come del resto i vorticosi commerci, a scale differenti, le lotte politiche ed economiche, e finanche le conquiste civili e le affermazioni sociali, sono solo alcuni degli aspetti che emergono occupandosi del vino nel mondo antico; ancora senza entrare nello specifico delle pratiche potorie, dei modi, dei gesti e delle consuetudini del bere. Spostando l’attenzione sul consumo, infatti, i fronti d’indagine si aprono ulteriormente coinvolgendo gli ambienti e gli apparati accessori in una panoramica che include la sfera residenziale privata, gli spazi pubblici e, naturalmente, i luoghi del culto. La prospettiva materiale, tuttavia, che non esaurisce la disponibilità di spunti e approfondimenti in questa lunga carrellata, certamente non esaustiva, è a sua volta componente e riflesso dell’idealità del vino. In questa direzione, il ventaglio di significati e di simbologie appartenenti al mondo enoico diviene sterminato, manifestandosi compiutamente nelle relazioni terrene come in quelle con le divinità, nelle espressioni artistiche figurate e in quelle squisitamente letterarie, nelle fonti epigrafiche, nel teatro e nella filosofia. Con queste premesse, risulta abbastanza evidente, e a tratti vagamente frustrante, l’impossibilità di afferrare compiutamente la pienezza delle sue molteplici sfaccettature da un’unica prospettiva. Il vino è la sintesi di una tra le espressioni culturali più profonde e complesse del mondo antico: totalmente insito nel nostro passato, come del resto straordinariamente presente e vitale nella modernità e nella contemporaneità, ne condensa la grande articolazione, la magmatica eterogeneità di fondo e per molti aspetti ne concretizza il pensiero. Fortemente radicato nella sensibilità e nella percezione collettiva, profondamente “imbevute” di formazione enoica, risulta una componente fondamentale e imprescindibile della vita quotidiana e dell’idealità, perpetuando ancor oggi il suo millenario ed emblematico ruolo. Tutto ciò avviene naturalmente, in qualche modo senza neppure emergere dalle nostre coscienze, in maniera assolutamente spontanea e con un’accezione tutta particolare per quanto riguarda le genti mediterranee. Il concetto di “cultura del vino”, così poliedrico e ricco di prospettive e sfumature particolari, talvolta anche difficilmente inquadrabili da un punto di vista complessivo, è divenuto ampiamente circolante ed è stato metabolizzato al punto

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che considerazioni di questa natura possono a volte apparire scontate. L’approccio alla bevanda è divenuto col tempo così istintivo e immediato che le riflessioni sulla sua vera essenza raramente accompagnano il gesto quotidiano o occasionale del bere. L’azione corporea e l’esperienza sensoriale di assumere vino si risolvono in un atteggiamento mentale consolidato, che è entrato da tempo nella sfera dei comportamenti umani abituali, senza la necessità di dover ricorrere ad articolate spiegazioni etiche o a complicati e alchemici ragionamenti sociologici e filosofici. Semplicemente ne siamo, chi più chi meno, perfettamente consapevoli e ci accostiamo ormai al vino con un agio che sfiora la sufficienza, con la stessa informalità e libertà che riserviamo a certe relazioni personali consolidate, per le quali non è necessario attenersi a rigide etichette o a particolari sforzi comunicativi. Osservare come tale inclinazione sia il riflesso dei retaggi del nostro percorso storico è probabilmente un’altra delle varie ovvietà in cui si può facilmente incorrere. Eppure, all’origine di questa estrema confidenzialità non può esservi che l’atavica e felice relazione tra l’uomo e il vino, un legame dai risvolti evidentemente indelebili e in perenne evoluzione, fin dal suo lontano e nebuloso esordio. Il vino è il compendio materico e finale di qualcosa di molto più vasto, che travalica le singole espressioni, le consuetudini e le abitudini soggettive per incarnare l’essenza profonda della nostra cultura e della nostra storia. Ad alcuni millenni di distanza dal suo concepimento e dalla sua creazione, riconosciamo alla bevanda, che ancora definiamo tranquillamente “di Bacco”, una somma di significati e una pregnanza di presupposti e premesse che raramente trovano riscontri in altre espressioni della civiltà e forse mai, tutte assieme, in altri prodotti partoriti dal genio umano. Dietro al vino c’è la sublimazione del rapporto con il territorio ed il paesaggio, innanzitutto, sia dal punto di vista dell’appartenenza e del radicamento che da quello, altrettanto stimolante, del suo attraversamento e della sua trasformazione, della mobilità e della circolazione degli uomini e delle idee. Un retroterra fatto dell’ancestrale vincolo tra l’uomo e la natura, dunque, ma altrettanto leggibili e paradigmatiche sono le sue valenze strettamente sociali, esplicitate nel mondo antico da una serie di manifestazioni cerimoniali e rituali, tanto nell’ambito delle relazioni civili quanto in quello religioso. Il vino circola tra gli uomini e spesso sovrintende ai loro rapporti, in contesti elitari inizialmente, poi a un livello sempre più diffuso, a un certo punto massificato. Il consumo e l’utilizzo in ambito sacro, invece, riflettendo principi di solidarietà ancora molto mondani, concretizza idealmente le relazioni divine trasferendo su un piano metafisico la convivialità terrena e rivelando una possente funzione simbolica. Fonte di un’ebbrezza in qualche modo diversa e peculiare, più accessibile e meno impegnativa rispetto alle sostanze conosciute e assunte tradizionalmente per riti sciamanici ed affini, il vino rivestì presto un ruolo chiave nel superamento degli sche-

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matismi quotidiani favorendo una sorta di avvicinamento diretto a dio, fino ad estrinsecarsi in un vero e proprio contatto. Per queste ragioni fu percepito a lungo come strettamente connesso alla spiritualità e alla conoscenza e la componente terrena, certamente determinante, si coniugò in maniera del tutto naturale anche a valori mediatici decisamente più esoterici. Sarebbe tuttavia fuorviante attribuire al vino un valore primordiale assoluto ricalcandolo sulla sua indiscutibile valenza di evocazione della sacralità divina. La religione antica infatti, a sua volta espressione del rapporto tra uomo e ambiente naturale, è soprattutto un efficace ed eccezionale strumento di regolazione, che sovrintende alla ciclicità del tempo e al mantenimento dell’ordine sociale e generazionale. Si tratta di una struttura concettuale profondamente intrisa di elementi civili e di connotati pragmatici alquanto terreni, di una forma di espediente comunitario in grado di garantire unione e continuità che si realizza principalmente attraverso l’assolvimento di pratiche e obbligazioni rituali, malgrado la lettura del pieno valore mediatico di queste azioni risulti spesso difficoltosa. Nei luoghi di culto le scoperte archeologiche hanno messo in luce numerosi ambienti destinati alla libagione e tantissimi recipienti per bere, come ad esempio la gran quantità di skyphoi e kantharoi emersa a Tebe nel santuario del Cabirion, anche se i contorni precisi e i dettagli dei riti di manipolazione e di assunzione del vino appaiono ancora sfuggenti. La religiosità sepolcrale fornisce evidenze simili, sottolineando una ritualità incentrata su aspetti fortemente connessi al consumo di vino collettivo, con specifici rimandi alla sfera del convivio mondano. Il simposio stesso, massima espressione culturale della civiltà greca, fin dalle prime libagioni sacre che inaugurano la riunione esprime questa liminarità tra la ritualità civica e quella religiosa. Anche se condotta sotto l’egida degli dei, la consuetudine del “bere insieme”, per quanto ammantata da un’aura di sacralità, sembra corrispondere prima di tutto a una pratica sociale, con evidenti attributi politici, artistici e finanche edonistici. Tutto questo non significa, ovviamente, che alcuni non apprezzassero la dionisiaca bevanda particolarmente, o magari soltanto, in certi casi, per le sue qualità intrinseche. L’uomo antico è animale sociale per antonomasia, come si è sempre sostenuto da più parti, ma il vino, eccitante e stimolante attivatore delle relazioni personali, catalizza indubbiamente anche risvolti più intimisti. Dona piacere e vigore, serenità ed euforia, favorisce la creatività artistica, stimola la prestanza sessuale ed è persino un potente farmaco. Brevemente e sommariamente, racchiude in sé una percezione generale di benessere fisico e spirituale, a condizione che l’assunzione sia in qualche modo equilibrata. Anche in questa non secondaria interpretazione comunque, sembra prevalere un’etica collettiva. Presso i Greci, ma analoghi concetti sono spesso ripresi dalle fonti latine, invale infatti una comune e diffusa riprovazione per i bevitori solitari, quasi sempre presentati come marginali alla comunità civile e per questo accomunati agli schiavi, ai barbari o

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addirittura alle donne, invariabilmente escluse da ogni livello gerarchico. Essere uomini colti, invece, equivale a saper interpretare il proprio ruolo con adeguatezza all’interno della libagione di gruppo, sia nelle vesti di simposiasta che in quelle di simposiarca, quando si è responsabili dell’andamento del consesso potorio e si devono regolare i rapporti tra i partecipanti governando il climax dell’ebbrezza. Nel repertorio pittorico dei vasi per bere, gli aristoi sfilano in splendida parata atteggiandosi nelle classiche pose libatorie e sottolineando il livello della loro importanza nella polis. Dimostrano, come è richiesto dai precetti costituiti, di saper recitare antichi e nascenti canti poetici e di conoscere l’arte del conversare amabilmente, disquisendo su questioni filosofiche e sui problemi dell’attualità. Il ruolo del simposio, trainato dalle élites greco-italiche, è quello di fornire un profilo identitario culturale, un modo di essere e di vivere, un fulgido fattore di civilizzazione che diviene presto un elemento distintivo e caratterizzante per diversi ethnoi. Si tratta di aspetti fin qui prevalentemente ideologici, che si caricano di significati rilevanti nel momento in cui i processi culturali designano il vino come depositario privilegiato di metafore e allegorie che sottintendono precise esperienze, siano esse riconducibili a manifestazioni religiose o a intrattenimenti mondani. Il vino si sacrifica sugli altari, si sparge al suolo come profusione sacra, mentre si recita una preghiera, oppure quando si fa un giuramento solenne, si consuma collettivamente durante le feste e si usa, magari talora abusandone, nei canonici spazi conviviali del simposio e del banchetto. Davvero è difficile pensare a un’altra bevanda in grado di riassumere e rappresentare tanti e tali contorni così dichiaratamente immateriali. D’altro canto il vino, come reperto archeologico in sé, è veramente rarissimo, anche se come vedremo si tratta di un aspetto delle ricerche con ottimistiche prospettive di evoluzione. Inoltre, se finora ci siamo limitati a introdurre le tematiche più intangibili che il prezioso nettare involve, non vorremmo ulteriormente esitare nel calarci in una realtà più materica che, da un punto di vista strettamente archeologico, si presenta fortunatamente abbastanza corposa, variegata e polisemica. Occuparsi di vino significa infatti, necessariamente e inderogabilmente, indagare quantomeno i suoi molti elementi accessori, dai recipienti per bere a quelli per la preparazione della bevanda, fino a quelli per lo stoccaggio e per il trasporto, gli arredi, gli ambienti e le decorazioni, i contesti pubblici del consumo, le attrezzature per la produzione, le innumerevoli manifestazioni artistiche e quelle letterarie. La cultura materiale del vino è fortunatamente ricca e articolata, mutevole per aree, epoche e gruppi sociali e, contrariamente alla bevanda, è assai meno evanescente. Attraverso questi reperti, oggetti reali e apparati che sostanziano ed evocano la presenza del vino, si palesano le forme e i modi del bere, le azioni e i gesti di

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un universo, quello enoico, che è uno straordinario specchio indicatore per la percezione della mentalità antica, una sorta di cartina tornasole del modo di essere e di sentire da cui proveniamo. Tuttavia l’epopea del vino è indissolubilmente legata alla storia della domesticazione della vite, presupposto fondamentale per la sua produzione e a lungo fase critica nel tribolato processo compiuto dall’uomo per giungere all’elaborazione di una bevanda veramente perfetta. Non si tratta della semplice e banale constatazione della necessità di disporre di una materia prima adeguata, appunto l’uva. Come vedremo, le problematiche della coltivazione sono molto complesse e abbisognano di una prospettiva diacronica e geografica alquanto elastica. Le vicende della vite risentono delle variazioni climatiche sul lungo periodo, delle condizioni pedologiche e della geomorfologia dei territori e, soprattutto, del patrimonio di conoscenze umano che, come la pianta del resto, mostra una sorprendente capacità di adattamento alle condizioni ambientali e storiche che ne delineano i contesti originari di appartenenza e quelli di successiva introduzione. Il contributo dell’archeobotanica, in questo senso, è importantissimo, specialmente per quanto attiene alle fasi primordiali delle sperimentazioni viticole. Da probabili vinificazioni estemporanee, con i frutti di piante selvatiche, ai primi vagiti di forme di protoviticoltura, attraverso processi di selezione di viti domesticoidi, fino al conseguimento di una padronanza accettabile dell’intero processo produttivo, in grado di sostenere una vinificazione standardizzata e un livello qualitativo soddisfacente, il percorso compiuto è stato certamente qualcosa di unico nell’antichità. Un tragitto verosimilmente contrassegnato da episodi locali, da acquisizioni consolidate e da frustranti insuccessi, da rincorse, rimedi e aggiustamenti in itinere, dal trasferimento di specifiche tecniche di cura e manutenzione dei vigneti e dall’ibridazione di concezioni diverse sulle tipologie impianticole. Una fase lunga, e per molti versi disomogenea, con peculiarità locali e percepibili flussi regionali, gradualmente culminata nella trasformazione dell’uva spontanea in una materia prima specifica, peraltro senza nessun’altro impiego plausibile se non quello della vinificazione. Il quadro complessivo delineato da queste premesse, più che il vino in sé, viene a costituire, nella sua globalità, il soggetto della nostra indagine. Il consumo del vino, seppur direttamente pressoché impalpabile, domina tanto la cultura materiale quanto quella ideale e fornisce uno stimolante scenario che rivela la sua completezza e la sua molteplicità di valenze soltanto nella piena comprensione di questa polifunzionalità. Sotto questo profilo, la prima e più evidente necessità è quella di un approccio altrettanto sistemico, che eviti la scomposizione della materia per concentrarsi piuttosto sulla sua complessità.

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Vi sono diversi possibili modi di intendere l’archeologia del vino, che passano attraverso il privilegio che inclinazioni soggettive possono conferire per esempio a un taglio più umanistico, oppure approdare a una dimensione più tecnologica, o ancora condizionati da formazioni, competenze e predisposizioni che derivano direttamente dalle scienze naturali. Ciò nonostante, risulta abbastanza chiaro, anche in via preliminare, che si tratta di un campo di studi nel quale l’interdisciplinarietà risulta decisiva e indispensabile. Al contempo, è proprio la ridondante vastità di angolazioni dell’argomento a inibire teoriche pretese di esaustività. Partendo da queste cognizioni le scelte effettuate e i criteri di impostazione adottati manterranno in genere un profilo ampio, assumendo i tratti di un’antologia esemplificativa, di una rassegna di sintomatiche espressioni della fenomenologia enoica finalizzata all’ottenimento di una visione globale e, insieme, di sintesi. Sono peraltro le stesse motivazioni che porteranno alla costruzione di limiti cronologici e geografici apertamente elastici e sempre connotati dal notevole dinamismo umano, una delle chiavi fondamentali del successo del vino nel mondo antico. Il dettaglio puntuale, tematico o areale, è del resto prerogativa di parecchi contributi della bibliografia moderna che, nella sua ricchezza, appare caratterizzata in gran parte da interventi specialistici settoriali che assolvono adeguatamente all’esigenza di approfondimenti particolareggiati e a cui si rimanda per soddisfare opportune aspettative di completezza. Nel novero delle suggerite integrazioni tematiche che, per la loro evidente pregnanza sono talvolta oggetto di pubblicazioni anche monografiche, rientrano ad esempio gli studi sull’impiego del vino nella farmacopea, qui solo oggetto di accenni funzionali al discorso complessivo. Altrettanto può dirsi dei dettagli inerenti le problematiche strettamente enologiche, relative alla produzione vinicola propriamente detta nei suoi risvolti più tecnici, che vanno dalle attrezzature alle materie impiegate, fino ai metodi di affinamento e invecchiamento. Certamente meritevoli di attenzione sono poi le ricerche sui patrimoni genetici, basate sulle relazioni tra viti selvatiche e piante di selezione antropica. Le recenti conquiste scientifiche degli studi sul DNA consentono infatti la formulazione di ipotesi sulle ramificazioni dell’albero genealogico dei gruppi dei vitigni e sulla mappatura dei centri di domesticazione. Un campo di studi che costruisce affascinanti paralleli tra le ibridazioni e le interazioni culturali e quelle varietali, giocate sulle connessioni tra antropologia, linguistica, botanica e scienza agronomica. Il nostro percorso si concentrerà piuttosto su un’esplorazione diacronica e trasversale dell’avventura vitivinicola che, lambendo le origini caucasiche e anatoliche, virerà presto sulla realtà del Mediterraneo centrale per attraversare le principali manifestazioni del consumo di vino nelle civiltà elleniche e italiche, con un

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interesse particolare riservato alle culture enoiche di Etruschi e Romani, fino agli esiti dell’età tardo imperiale. Nella consapevolezza di come la vite e il vino abbiano contribuito a generare e plasmare pratiche sociali, politiche, economiche e modelli esistenziali, con un ruolo decisivo in momenti epocali di civiltà e cultura, cercheremo di cogliere gli aspetti più significativi del consumo della nobile bevanda, nelle espressioni formali come nei riflessi ideali, chiaramente percepibili nell’artigianato, nell’arte, nella letteratura e nella religiosità.

1.2 Le fonti e le discipline scientifiche Le fonti di cui ci avvarremo, in ossequio a un’ampiamente condivisa logica di cooperazione sinergica tra diverse discipline, saranno molteplici. Il fulcro principale del quadro informativo sarà indubbiamente costruito sul record archeologico, ricorrendo al patrimonio culturale espresso dai manufatti, dai contesti architettonici civili e religiosi, dai corredi funerari delle sepolture e da ogni altro tipo di traccia messa in luce dagli scavi stratigrafici. Lo scenario enoico sarà ovviamente integrato dalle fonti scritte, non appena disponibili, massicciamente impiegate senza preclusioni di genere e con particolare riguardo a quelle greco-romane. A volte sarà necessario adottare una certa cautela, specialmente in presenza di dati lacunosi o contraddittori, quando non scopertamente parziali. La natura polisemica della materia suggerisce comunque un’attenzione non selettiva, che tenga in adeguata considerazione i contributi della letteratura di taglio storico come le testimonianze di ambito scientifico, naturalistico e geografico, senza tralasciare il rilevante supporto riscontrabile nei documenti dei mitografi, dei drammaturghi, dei filosofi e, soprattutto, dei poeti. Il vasto apparato epigrafico, fonte insostituibile a cui faremo spesso riferimento, fornisce attraverso le iscrizioni una serie di valenze interpretative. Si va da informazioni di profilo imprenditoriale e associazionistico, legate al commercio vinario, alla grande sensibilità comunicativa espressa, ad esempio, dalla raccolta dei carmina epigraphica precristiani, senza trascurare altri ambiti. Il contesto epigrafico romano di ambito funerario, a proposito del vino, si mostra particolarmente interessante, soprattutto in funzione di uno sforzo cognitivo verso una percezione della forma mentis antica. Il mondo della vite e del vino può essere poi letto attraverso le immagini. L’approccio iconografico risulta in genere assai prolifico, consentendo ricostruzioni descrittive, come ad esempio nello sconfinato repertorio vascolare della ceramica simposiaca, ma anche interpretazioni più sfumate, come nel caso dell’arte funeraria etrusca e romana. Una porzione rilevante di questo ambito sarà fornita dalle iconografie domestiche, a loro volta straordinariamente ricche di intensi risvolti semantici. Un vasto assortimento figurativo che è parte integrante degli

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ambienti e degli apparati conviviali, quinte scenografiche elettive del consumo di vino nei contesti privati. Un altro filone d’indagine in grado di apportare utili indicazioni sui processi diffusivi, che talora assumono il sapore di consistenti indizi, è quello della ricerca linguistica. Nel caso dell’ampelografia storica e delle dinamiche di acculturazione enoica le analisi glottologiche ed etimologiche sviluppano interessanti prospettive che, in certi casi, sembrano muoversi nella stessa direzione delle ipotesi archeologiche. L’ultima e più recente frontiera è rappresentata dall’infittirsi delle interazioni con le discipline scientifiche, le cosiddette “scienze esatte”. Ormai patrimonio acquisito della moderna ricerca archeologica, la stretta collaborazione con la chimica, la fisica, la biologia e la botanica sembra essere particolarmente foriera di ulteriori elementi e spunti di esame nel caso del vino. Il consistente e continuo progresso delle apparecchiature di laboratorio e l’elaborazione di metodi analitici particolarmente sofisticati ha in effetti agevolato la messa a punto di diverse strategie investigative. I risultati a cui si è giunti sono in grado di fornire utilissime indicazioni, ad esempio sulla natura delle tracce residuali dei recipienti, oltre che innegabili progressi sulle metodologie di datazione e contributi alle ricerche sulle provenienze e sulla circolazione dei manufatti. In molti casi questa contiguità di interessi ha creato settori di studio specifici, di matrice decisamente pluridisciplinare, come l’archeologia molecolare, l’archeobiologia e l’archeobotanica. Soprattutto quest’ultima, nelle sue accezioni palinologiche, carpologiche e xilo-antracologiche, concorre a delineare i contesti paleoclimatici e paleoambientali consentendo in particolari circostanze di monitorare, area per area, le modificazioni genetiche della vite in relazione all’attività umana. Ne deriva un quadro informativo splendidamente articolato, pienamente rispondente alle esigenze di un soggetto di studi così sfaccettato e ricco di valenze diverse, ma assolutamente complementari, come quello del vino. Una bevanda “speciale”, come è stata definita in mancanza di attributi alternativi altrettanto stringati e omnicomprensivi, il cui consumo, accantonando per un attimo i variegati connotati sostanziali e concreti, investe pienamente l’emotività dell’uomo antico ad ogni livello. L’idealità del vino risulta immanente, attraversa gli aspetti del gusto, del gesto, del rituale e quelli esistenziali, mistici, cultuali e funerari. Invade gioiosamente la sfera edonistica, sospesa tra le problematiche connesse agli effetti e alle virtù oggettive della bevanda e i delicati equilibri tra conoscenza, trasgressione e trascendenza. Un approccio multiforme sensazionale, che passa dalla contrapposizione tra ebbrezza e sobrietà, dall’esaltazione apologetica al (raro) rifiuto, per giungere a codificare potenti simbologie che sono l’evidente manifestazione del suo enorme potere di seduzione e dell’incredibile fascino costantemente esercitato presso le civiltà.

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2. La nascita del Fenomeno Vino 2.1 Coltivare la vite, produrre il vino: archeobotanica e archeologia dei territori arcaici La viticoltura, a meno che non la si intenda come coltivazione di piante da frutto per diretto uso alimentare, di uva da tavola per intenderci, è un’espressione agronomica che non rende compiutamente i significati culturali racchiusi nell’eterogeneo universo enoico. Sotto questo profilo risulta certamente più appropriato l’utilizzo del termine vitivinicoltura, che integra alla precedente accezione il concetto di vinificazione ed esclude a priori il prodotto fine a sé stesso, inteso come cibo. Per produrre il vino in senso stretto, cioè dall’uva, è necessario un lungo percorso che comincia con una valutazione geo-morfo-pedologica del territorio e dei vitigni da adottare; si concretizza, talvolta dopo molti anni e attraverso altri passaggi, nell’ottenimento della preziosa bevanda e ancora prosegue con le problematiche relative alla conservazione e all’invecchiamento. Si tratta di un autentico processo culturale, anche in considerazione delle particolari caratteristiche botaniche della vite. In questa prospettiva, la ricerca delle origini e degli sviluppi del sapere vitivinicolo assume pertanto un valore fondamentale che, da un lato ci porterà a un excursus cronologico, e talora geografico, che esce dalle canoniche periodizzazioni dell’archeologia classica per addentrarsi nei territori di competenza della protostoria e, dall’altro, si pone come assolutamente necessaria ai fini di un’adeguata comprensione e di una visione complessiva del fenomeno vino nell’antichità. Il suo consumo, infatti, e gli aspetti sociali, etnici, religiosi, artistici e mistici ad esso collegati, non possono prescindere da tali considerazioni, essendo strettamente connessi dal lungo filo della tradizione del sapere e del sentire umano. Se il gioco di parole non fosse in qualche modo banale, e probabilmente non del tutto nuovo, potremmo parlare di una cultura del vino all’interno di un più ampio concetto di “vitivinicūltura”. Nel secondo millennio a.C. la letteratura ittita, il cui linguaggio era ampiamente diffuso in Asia Minore e nelle regioni limitrofe, presentava già un’espressione dall’assonanza molto simile alle parole neolatine poi usate per definire il vino. La traslitterazione dal cuneiforme suona come ųiįan- e quella dal geroglifico come ųiānas o wijana-. In Luvio, altra lingua indoeuropea del sottogruppo anatolico, l’etimo diventa ancor più simile ųin-, e waiana- dal geroglifico. Genealogicamente il Luvio è strettamente connesso alle altre lingue scritte e parlate in Anatolia, come ad esempio il Licio, il Cario, il Lidio o il Palaico1. Altri linguaggi di regioni relativamente vicine non si discostano più di tanto da questa matrice dal suono comune: gini in Armeno, gvin-i in Mingreliano, gvino in Georgiano, vene in Albanese. Anche L’Arabo e l’Etiopico, coinvolti in questa koiné linguistica,

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usano il vocabolo wain o wa-yn, l’Assiro īnu e il Protosemitico wainu, che diventerà vajin in Ebraico e wayn in Sabeo2. Le tavolette di Cnosso e Pilo riportano la parola woi-nē-wei per indicare il concetto di mercante di vino, mentre la bevanda è idenitificata come woinos, da cui deriverà il greco classico oinos. I supporti fittili micenei riportano spesso anche uno specifico ideogramma, che rappresenta un tralcio di vite stilizzato sostenuto da una schematica struttura lignea, i cui prodromi appaiono nei testi di età minoica sotto forma di geroglifico e che si ipotizza possa avere a sua volta un embrione nella scrittura degli Egizi.3. Infine abbiamo l’etrusco vinm o vinum, con variante fonetica in vinun4, etimo ancora oggetto di discussione, che in Italia risuona con parecchie similitudini nel Falisco uino o uinom, nell’Umbro vinu o uinu, nel Volsco uinu, nel Retico vinu e persino nel Siculo viino e nel Lepontico uinom5. Tutti termini molto simili al Latino, che pure propone la parola vinum, poi vino in Italiano e Spagnolo, che darà luogo nei neoidiomi derivati a vinho, vin, wein e wine, rispettivamente in Portoghese, Francese, Tedesco e Inglese6. Sono concreti indizi etimologici e glottologici che, a prescindere dall’ardua identificazione dell’originale gruppo linguistico di appartenenza, tendono a individuare radici culturali comuni, zone propulsive e percorsi evolutivi di una bevanda che pare dunque ampiamente attestata e circolante, sulla sola base di queste evidenze almeno fin dal II millennio a.C., in una precisa ancorché vasta zona geografica. Si tratta dell’areale corrispondente ai territori dell’Asia medio-anteriore e del Caucaso dove, con tutta probabilità come vedremo, trae la sua origine anche la Vitis vinifera vinifera, o sativa7. La stessa tradizione ebraica fornisce consistenti tracce che rivelano la zona caucasica come il possibile luogo natio della viticoltura, sfumandone però nel tempo gli albori. Il libro della Genesi, nella saga del diluvio universale, risalente al periodo precedente a quello della cattività babilonese, narra la ripresa della vita e dell’attività agricola collocandole, genericamente, dopo le ecumeniche e incessanti piogge. La Mesopotamia appare come il luogo originale, la terra in cui Noè piantò la vite, bevve il vino e si ubriacò, per poi giacere nudo nella sua tenda destando il pudico scalpore dei figli8. La Shin’ar di cui si parla nell’Antico Testamento9 è stata infatti identificata, grazie alle tavolette della biblioteca di Assurbanipal, a Ninive, con la pianura centromeridionale mesopotamica detta Sumer10. Si tratta di antichi racconti, chissà quanto a lungo tramandati oralmente prima di essere stati fissati dalla parola scritta. Riecheggiano nelle tradizioni accadiche e assire attestate dalle tavole reali, seppure in modo frammentario: narrazioni mitologiche che trovano riscontri nell’epopea dell’eroe sumero Gilgamesh, che sembrerebbe da contestualizzare nei secoli iniziali del terzo millennio. Nell’antico poema il vino è strettamente connesso a un alto concetto dell’esistenza come dimostra la cerimonia iniziatica basata sulla bevanda grazie alla quale Enkidu, il compagno di Gilgamesh, passa dallo stato di natura a quello di civiltà11.

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La coincidenza dell’apparizione del vino nella letteratura è pressoché concomitante all’invenzione della scrittura e questo lascia intuire l’esistenza di una cultura enoica già profondamente consolidata. Diversi testi mesopotamici si soffermano già a indicare le zone più rinomate per la produzione viticola, individuandone i profili ideali negli ambienti collinari forniti di abbondanti risorse idriche naturali: sono regioni come la terra di Izalla, al nord della Mesopotamia, la terra di Singara e la valle dell’Eufrate attorno a Karkemish, in Siria e, naturalmente, il biblico Ararat, l’area montuosa di Urartu, oggi nella Turchia orientale12. L’antico Testamento tramanda notizie anche riguardo attività commerciali aventi il vino per oggetto, ad esempio nel passo di Ezechiele in cui si celebra quello di Khelbon, nella Siria centrale, al centro degli scambi tra le città di Tiro e Damasco13. Forse ancora più noto però, è il famoso elogio delle ricchezze e della fertilità della terra di Canaan, in particolare dell’area intorno a Hebron, nella Palestina meridionale14. Con ogni probabilità, qualche sorta di prodromo del vino era già oggetto di produzione prima del 3000 a.C., tuttavia non è assolutamente agevole individuare testimonianze archeologiche che possano restituire certezze temporali relative all’avvio di una reale vitivinicoltura a scala apprezzabile. La ricerca si è spesso orientata più sulla pianta che sulla bevanda, per oggettiva scarsa capacità di conservazione di quest’ultima e per la difficoltà nel reperirne tracce consistenti, anche se la sola presenza della vite non è affatto indicatrice della pratica enologica. Innanzitutto è necessario distinguere tra due sottospecie di piante, quella selvatica, Vitis vinifera sylvestris, e quella coltivata, Vitis vinifera vinifera o sativa15. La quasi totalità dei vitigni contemporanei è derivata da un solo ceppo domestico, di origine eurasiatica, tra circa un centinaio di specie spontanee note nelle zone temperate dell’Europa e dell’Asia, ma anche del Nord America. Nel vicino oriente, secondo un’opinione maggioritaria conosciuta comunemente come “ipotesi Noè”, in onore del patriarca designato dall’Antico Testamento come inventore della vitivinicoltura, la subspecie sylvestris sarebbe quindi stata oggetto di una progressiva domesticazione che portò alla creazione della subspecie vinifera. Quest’ultima presenta la caratteristica di essere ermafrodita, di avere cioè sulla stessa pianta stami e pistilli, con il grande vantaggio di essere più produttiva in termini di grappoli, contando inoltre su una base fruttifera più facilmente prevedibile16. Purtroppo, però, la loro distinzione su base archeobotanica non è per niente scontata17, dal momento che in molti casi, specialmente quelli più controversi e dal maggior potenziale informativo, i vinaccioli presentano caratteri liminari tra i parametri di riferimento delle due specie. Inoltre, qualora si possa dimostrare che si tratta di uva coltivata, ciò non la certifica immediatamente come materia prima per la produzione di vino, dal momento che questa potrebbe essere stata utilizzata come alimento18. C’è poi da considerare che anche dall’uva selvatica è possibile produrre forme di bevande enoiche, come del resto si può arrivare ad una soluzione alcolica fermentata partendo

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da qualsiasi frutto a bacca polposa che abbia un elevato tenore zuccherino. Queste considerazioni portano a focalizzare la questione sull’inizio di un rapporto operoso e dinamico dell’uomo nei riguardi della vite e, di conseguenza, del vino stesso. Sotto questo profilo, è ipotizzabile che tutte le attività di cui sopra siano coesistite a lungo, spaziando dalla raccolta, presumibilmente controllata e protetta, al consumo di uva selvatica, per poi passare a una produzione di bevande dai frutti di piante ancora non domesticate, fino allo sviluppo di una viticoltura in senso stretto19. I reperti archeobotanici di specie coltivate possono comunque mostrare importanti caratteri distintivi e fornire talora utili indicazioni. Durante il processo di domesticazione le modificazioni genetiche incidono anche sulla morfologia dei frutti e dei semi e, in alcuni casi, è possibile giungere a discriminare tra forme ad impatto antropico e protovitigni spontanei. I parametri diagnostici sono costituiti fondamentalmente dalle misure assolute dei semi e dai loro rapporti, ma è necessario disporre di un campione sufficientemente consistente per poter osservare in maniera adeguata le variazioni e condurre idonee ricerche statistiche20. Quello dei vinaccioli, purtroppo, è uno dei casi più complessi in assoluto. Gli studi si basano sui rilievi dimensionali di lunghezza, larghezza, spessore, lunghezza del becco, lunghezza e larghezza della calaza, lunghezza delle fossette, e su indici e parametri morfologici, come la forma dell’area germinativa e lo stesso andamento delle fossette. Sono i medesimi parametri e indici di riferimento che si utilizzano nei contesti di accertata domesticazione per i problemi di riconoscimento di diversi vitigni presenti nello stesso sito21. In linea generale, i semi di Vitis sylvestris hanno una forma corta e tozza, mentre quelli di vitis sativa sono più stretti e allungati. Scendendo maggiormente nel particolare, quelli di pianta selvatica sono piccoli, rotondeggianti e cuoriformi, con becco poco pronunciato, appiattiti o lievemente prominenti nella parte ventrale, con due solchi stretti e profondi separati da un ponte longitudinale e con un’evidente depressione sul dorso; quelli di provenienza domestica, più grandi, sono slanciati, ovali o piriformi, con una scultura poco pronunciata sul ventre e un becco lungo e prominente. Per quanto riguarda i rapporti dimensionali, in particolare il rapporto fra larghezza e altezza massime, i vinaccioli si possono discriminare in base agli intervalli stabiliti dall’indice di Stummer (vite selvatica 0,76-0,83; vite coltivata 0,44-0,53), che tuttavia prevede uno spazio abbastanza ampio (0,53-0,76) in cui non è possibile stabilire l’esatta entità tassonomica22. A livello teorico, disponiamo di notizie archeologiche relative a viti ritenute domestiche già attorno al 6000 a.C., in Georgia, nel sud-est della Turchia e nel Caucaso23. Dal V millennio a.C. abbiamo altri riscontri, ad esempio in Ucraina24, ma anche in Italia, in Abruzzo, Puglia e Sicilia25. Nel millennio successivo le testimonianze giungono dalla Siria, con semi trovati a Gerico, e dall’Egitto26, ma pro-

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prio i vinaccioli dell’uva proveniente dal sito di Al-‘Omari, presso il Cairo, che avrebbero una rilevanza tutta particolare, dividono la comunità scientifica27. L’Egitto si trova infatti ai margini dell’areale di diffusione spontanea della vite selvatica e ciò deporrebbe, al di là delle difficoltà oggettive nell’identificazione archeobotanica della specie, a favore della sua coltivazione specifica28. Comunque sia, non sapremmo definire con sicurezza che tipo di destinazione avesse questa uva. Quello che è certo, è che dalla metà del IV millennio in poi c’è una notevole intensificazione dei riscontri sulla Vitis vinifera. Questi provengono quasi sempre dal Mediterraneo orientale e permettono di ipotizzare l’inizio di qualche forma di viticoltura locale, con crescente affidabilità entrando nel III milennio29. Si tratta di reperti di origine ancora egiziana, ma soprattutto siriana e palestinese, così come di area egea e, naturalmente di quella anatolica, l’antico luogo elettivo della Vitis sylvestris30. Durante l’età del bronzo i rinvenimenti di vinaccioli in contesti archeologici si fanno relativamente cospicui anche in Italia, ma molti scavi prescindono da una bibliografia approfondita per quanto riguarda i dati morfo-biometrici, relegando il contributo archeobotanico ad un ruolo più marginale ai fini della documentazione di esperienze vitivinicole progredite. Molti reperti provenienti da scavi datati sono stati comunque sottoposti di recente a questo tipo di accertamenti. In parecchi casi gli indici calcolati ricadono nell’intervallo intermedio di Stummer, suggerendo la possibile appartenenza dei semi a piante paradomestiche, cioè a viti che non sono più selvatiche, ma che non hanno ancora completato il processo di domesticazione31, come ad esempio in alcuni siti della provincia di Modena e di Parma. Vi sono poi situazioni abbastanza complesse, nelle quali la presenza di vinaccioli di transizione si presta a interpretazioni ancora differenti. Esiste infatti anche la possibilità che le viti si diffondano in maniera subspontanea, ossia a partire da piante domesticate che generano forme selvatiche naturalizzate. Potrebbe essere il caso di alcuni dei semi recuperati nell’insediamento etrusco-celtico di Monte Bibele, nel bolognese, tra le valli dell’Idice e dello Zena. Si tratta di un’area caratterizzata da vegetazione mesofila e predisposta in modo naturale alla diffusione della Vitis sylvestris, ma nella quale è altrettanto plausibile un’importazione della vitivinicoltura dalle Etrurie centro-meridionali da parte degli occupanti del sito32. I vinaccioli mantengono sempre, nelle forme intermedie non ascrivibili né alla piante spontanee, né a quelle coltivate, una certa dose di ambiguità. Un margine intrinseco di incertezza che può essere eventualmente limitato da una visione complessiva del contesto archeologico. In casi particolari, sono risultate utili apportatrici di informazioni anche le loro impronte. Ad Hama, nella Siria meridionale, la ceramica impressa del bronzo antico mostra la comparsa di decorazioni ottenute con vinaccioli di vite coltivata. Nell’età del ferro si assisterà a una vera e propria esplosione della tecnica e le impronte di vinaccioli coltivati, utilizzate in così larga misura, sembrano davvero sintomatiche di

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una fase di intenso sviluppo della vitivinicoltura33. I reperti carpologici, in particolare i semi, conservandosi a lungo pressoché inalterati tanto in ambiente secco quanto in situazioni umide, sono presenti spesso in notevole quantità, soprattutto nei depositi antropici, e la loro visibilità ad occhio nudo ha sempre favorito la raccolta e l’analisi archeologica. Con lo sviluppo dei metodi di indagine, tuttavia, ci si è potuti avvalere dello studio di altri reperti di origine vegetale, non percepibili dall’occhio umano se non al microscopio. Anche i micro resti botanici forniscono buone indicazioni sulla presenza della vite. I granuli pollinici, grazie all’ottima capacità di conservazione dell’esina, lo spesso involucro che li riveste, costituita prevalentemente da sporopollenine, che sono tra le sostanze organiche più resistenti, si mantengono in genere nei depositi archeologici per migliaia di anni e oltre. L’esina presenta caratteristiche morfologiche e strutturali che ne permettono l’identificazione, anche se spesso è problematico il riconoscimento a livello specifico rispetto a quello generico, di norma possibile nelle specie arboree34. In questo caso è l’archeopalinologia, una branca specifica dell’archeobotanica, che supporta sinergicamente il lavoro dell’archeologo, in particolare per quel che riguarda la ricostruzione del paesaggio antico e la sua composizione floristica, ma anche per aspetti paleoclimatici. Ad esempio, gli spettri pollinici indicatori dei consorzi forestali del postglaciale superiore, riferiti al Subboreale, cioè a circa 4800 anni fa, presentano in Emilia Romagna una maggior articolazione e significativi cambiamenti che non sempre sono rapportabili alle variazioni ambientali. Tra le piante di cui si segnala un ruolo tendenzialmente più attivo, rispetto al postglaciale medio, è annoverata anche la vite35. I valori registrati, in deciso aumento, suggeriscono e rafforzano l’ipotesi di una cura antropica di piante originariamente appartenenti alla vegetazione spontanea della fascia collinare e della pianura36. Il periodo climatico successivo, cioè il subatlantico, coincidente pressappoco con l’inizio dell’età del ferro, è segnalato nelle piogge polliniche da un’esplosione di piante arboree o arbustive di interesse alimentare, tra cui spiccano castagno e noce, ma che vede la Vitis vinifera sativa assurgere a un ruolo decisamente rilevante. Nei diagrammi di alta pianura e bassa collina la curva di frequenza di quest’ultima raggiunge infatti valori fino al 30-35 per cento dello spettro totale, ridimensionando le percentuali degli altri gruppi avviati apparentemente a una fase di declino37. L’associazione elettiva, ma non certo esclusiva, tra la vite e l’ambiente collinare in genere sarà suggellata parecchi secoli più tardi dall’oraziano motto “Bacchus amat colles”, quando la viticoltura era ormai da tempo diffusa anche nelle grandi pianure, in aperta concorrenza con la cerealicoltura e in regime agronomico decisamente intensivo. I reperti palinologici, però, non offrono spesso un buon grado di sicurezza nella distinzione dei due taxa, domestico e spontaneo. Tranne alcuni casi, in cui il repertorio informativo si completa con una visione complessiva del contesto archeologico e vegetazionale ed emerge una particolare entità di reperti,

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è difficile identificare con certezza se la vite è coltivata. Occorre poi tenere in adeguata considerazione il fatto che si tratta di una pianta che, per caratteristiche congenite, produce quantità di polline relativamente limitate. Ad esempio, nell’insediamento etrusco di Miseria Vecchia, presso Mirandola nel Modenese, la presenza di pollini di Vitis associata a un rilevante impatto antropico ha fatto propendere per una coltivazione organizzata, mentre nel coevo e non distante sito di Casale di Rivalta, in provincia di Reggio Emilia, il contesto vegetazionale e la bassa percentuale di vite nello spettro pollinico ha reso preferibile l’ipotesi di un’essenza spontanea riprodottasi autonomamente nei boschi ripariali38. Esiste infine la possibilità di conservazione, molto più rara per la verità, di legni e carboni, gli oggetti di studio della xilo-antracologia, ulteriore specializzazione della botanica applicabile all’archeologia. In ogni caso, a prescindere da una concentrazione nei livelli in genere molto bassa, i resti di questo tipo, come sarmenti e pezzi di tralcio, solo raramente possono concorrere di per sé all’individuazione della sottospecie vinifera39. Le associazioni di macroreperti lignei possono comunque risultare importanti in altri casi. Ad esempio, il recupero di ceppi di olmo maritati alla vite, avvenuto a Modena, zona già nota dalle fonti per l’intensa produzione vinicola ottenuta con il sistema a tutore vivo, documenta anche dal punto di vista archeologico la presenza di questa tecnica di coltivazione. Sono reperti rinvenuti fortuitamente, durante i lavori di perforazione per l’approntamento di alcuni pozzi artesiani, sepolti da 10-15 metri di strati alluvionali che ne attribuiscono una probabile appartenenza alla prima età del ferro40. Tutto ciò in stretto ed esclusivo riferimento alla pianta. Tornando invece alle ricerche condotte sui pochi e rari residui di sostanze ipotizzate come resti di vino antico, rinvenute in alcuni recipienti, dovremmo teoricamente registrare ulteriori e talora sorprendenti segnali di precocità nella storia della produzione vinicola. In questo campo di studi c’è innanzitutto da segnalare un enorme avanzamento nelle tecniche e nelle metodologie d’indagine, che oggi possono avvalersi di specialisti delle scienze esatte e di sofisticate strumentazioni. Grazie a cromatografi, spettrometri di massa e sequenziatori di DNA, nonché ai progressi del-

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la risonanza magnetica nucleare e della spettrometria a raggi infrarossi, è possibile sviscerare dal punto di vista molecolare quantità di campioni archeologici anche di pochi microgrammi. Ciò ha reso possibile lo studio di alcuni composti organici che, in particolari condizioni di conservazione, come in climi secchi o in ambienti sommersi, hanno potuto essere individuati e recuperati41. In questa rara casistica rientrano un paio di giare rinvenute nel villaggio di Hajji Firuz Tepe, a nord dei Monti Zagros, nell’attuale Iran. Si tratta di due recipienti della capacità di circa nove litri che, assieme ad altri quattro simili, erano parzialmente interrati in un pavimento di mattoni crudi datato con il metodo del carbonio 14 nell’intervallo 5400-5000 a.C.. Le analisi del contenuto residuo hanno messo in chiara evidenza la presenza di acido tartarico che, in medio oriente, si trova in grande quantità solamente nell’uva e ciò autorizza, quanto meno, ad affermare che la sostanza rimasta nelle giare fosse prodotta a partire dal frutto di una vite42. Anche Godin Tepe, un’altra località situata sulle montagne iraniane, aveva in precedenza restituito un orcio, molto più recente, essendo inquadrabile nel periodo 3500-3100 a.C., con sedimenti rossastri sul fondo. Questo recipiente, sottoposto ad analisi mediante spettrometria a raggi infrarossi, ha evidenziato ancora una volta la presenza di acido tartarico, come abbiamo visto considerato un efficace marker a livello macro regionale per l’uva del medio oriente. Riscontri di similitudine, ottenuti mediante un’indagine comparativa con residui da un’anfora vinaria nubiana del IV-VI sec. d.C., hanno ulteriormente confortato questi risultati43. Ancora una volta si è desunto che l’orcio contenesse del succo d’uva, anche se non è possibile stabilire con certezza se questo fosse inizialmente mosto, oppure una bevanda fermentata o addirittura acetificata. I contenitori fittili di Hajji Firuz Tepe e di Godin Tepe forniscono indubbiamente informazioni eccezionali, tuttavia questi riscontri non possono dimostrare, da soli, che la produzione delle sostanze liquide contenute originariamente al loro interno fosse l’esito di una vitivinicoltura su larga scala. In sostanza, non ci è dato nemmeno di conoscere con sicurezza se quel prodotto derivasse dalla lavorazione di Vitis vinifera o di Vitis sylvestris. Le sole analisi chimiche, però, hanno fornito ulteriori indicazioni parecchio interessanti, relative stavolta alla presenza di resina nei residui esaminati. Questa, nella fattispecie resina di terebinto, alla luce delle successive testimonianze documentali dell’an-

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tichità che insistono ripetutamente sul suo utilizzo nelle pratiche enologiche per specifici scopi di conservazione44, fa indubbiamente propendere le ipotesi in direzione di un prodotto apparentabile al vino che verrà in seguito, anche in considerazione del rinvenimento nei medesimi siti di strumenti simili a quelli emersi da complessi di epoca molto più tarda noti per le produzioni vinicole45. Anche le quantità di vino, o “proto-vino”, che sarebbero state stoccate, stimate sulla base della presenza di recipienti simili a quelli analizzati e sull’ipotetica proiezione di questi sull’insieme dei villaggi della zona, sono indicative di una pratica probabilmente non modesta né estemporanea. Tuttavia, malgrado ci si trovi in territori ad alta vocazione agricola che presentavano tutte le condizioni, non di meno quelle sociali, favorevoli alla nascita e allo sviluppo di una moderna viticoltura intensiva, occorre parimenti considerare che nell’area interessata era diffusa la Vitis sylvestris allo stato spontaneo, anche se sono possibili variazioni su scala locale dovute a modificazioni climatiche. Questa naturale prosperità della specie selvatica, da cui si è poi ottenuta la vite domestica, si presta infatti a una duplice e biunivoca interpretazione. Se da un lato non si può escludere che i metodi di coltivazione e di impianto delle vigne, fatti di selezioni, propagginazioni, potature e innesti, siano stati elaborati a cominciare da quel periodo, la qual cosa per molti versi è anzi probabile; dall’altro è possibile che la rigogliosa abbondanza e disponibilità di frutti abbia stimolato la messa a punto delle prime tecniche enologiche, concentrate soprattutto sulla bevanda. Allo scopo di delineare meglio l’avvento di una coltura della vite definitivamente razionale, e il parallelo instaurarsi di una cultura del vino, risultano oltremodo interessanti le correlazioni che tengono conto dell’estesa comparsa di forme nuove di vasellame per le quali si può supporre un utilizzo potorio46. Si tratta di recipienti differenti da quelli da fuoco o per derrate, difficilmente accostabili a usi diversi da quello del bere. Sono generalmente provvisti di anse, hanno piccole dimensioni e talora presentano decorazioni con spunti di simbolismo. In ambito archeologico sono conosciuti familiarmente come “drinking cups” ed è lecito pensare che la bevanda al cui consumo erano destinati fosse qualcosa di nuovo47. Siamo approssimativamente negli ultimi secoli del IV millennio a.C., a cavallo con il III, quando il fenomeno tende a generalizzarsi estendendosi dall’area attorno al Mar Nero a quella della Troade, fino all’Egeo meridionale, in un quadro cronologico tutto sommato coerente con le ipotesi di matrice archeobotanica. Una visione diacronica ed evolutiva delle società del bronzo antico tende, peraltro, a identificare nell’apparizione di

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questi raffinati accessori per versare e bere liquidi una cesura con le culture precedenti. Per alcuni, l’affermazione di prodotti come l’olio e il vino è alla base dell’avvio del processo di stratificazione sociale, nel III millennio a.C.48. Siamo dunque di fronte a una tendenza dai tratti pressoché ecumenici, pur nella vaghezza sui contenuti di questo vasellame, quasi certamente potorio. I possibili prodromi di recipienti ipotizzati come strumenti per bere bevande non ordinarie risalgono addirittura al VI millennio a.C.. Provengono da recenti scavi compiuti in diversi insediamenti dislocati lungo i corsi del Tigri e dell’Eufrate e attestati attorno al 6000 a.C.. Alcuni contesti hanno restituito anche strumenti che sono stati interpretati come accessori per la preparazione di beveraggi apparentabili al vino, tra i quali dei colini, forse usati per filtrare e travasare. L’associazione di questi oggetti con figurine a tutto tondo a soggetto umano e zoomorfo e, soprattutto, con coppe minuziosamente decorate a pressione e incisione, ha fatto pensare ad attività rituali durante le quali probabilmente avvenivano consumo e offerte di bevande fermentate speciali49. Ciò non di meno, la stretta relazione con le modificazioni genetiche dei vinaccioli, connessa a un probabile sfruttamento selettivo della pianta, dovrebbe innestarsi su processi agronomici oramai ampiamente consolidati, che non sembrano appartenere all’Europa del centro nord, almeno a queste date. Dovremo quindi disegnare un quadro geografico differenziato e distinguere tra ciò che avviene in ambito egeo-anatolico-orientale e il resto del Mediterraneo. Qui non si può certo escludere a priori, come abbiamo visto, la presenza di esperienze di coltivazione, per quanto si siano già messe in luce le difficoltà intrinseche della ricerca. È peraltro ipotizzabile che si trattasse di espressioni abbastanza disarticolate e a carattere locale, segnate da una lunga coesistenza, nei territori a vocazione vitifera, con il protrarsi della raccolta della comune e diffusa uva selvatica. In tale accezione forse i prodromi dei viticoltori in questa parte di mondo antico furono gli Iberici, allo scorcio del III millennio a.C., o i Proto-appenninici, in Italia, all’inizio di quello successivo50. Nel II millennio, in effetti, è possibile che certe esperienze si siano intensificate, ma non esistono sicurezze do-

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cumentali in questo senso, se non i riferimenti alla cultura materiale di ambito vascolare a cui abbiamo accennato. Più a nord, invece, perdurano per lo più riscontri archeobotanici relativi alla Vitis sylvestris51 e anche le analisi dei residui contenuti nei recipienti per bere, pur avendo raggiunto risultati eccezionali, si limitano a individuare in una serie di casi la presenza di idromele o di birra. Bisogna considerare che questo campo della ricerca, nel caso del vino, ma anche delle altre bevande fermentate, si muove nella difficoltà oggettiva posta dalla tendenza a decadere di amidi, lipidi, proteine e zuccheri. Lo slittamento semantico del termine etereo, applicato all’alcol etilico, in questo caso risulta quanto mai appropriato. Sembra dunque che ci sia un’identificazione e una sorta di riconoscimento globale nella nuova emergente cultura del bere che comprende tutta l’Europa, il Mediterraneo e l’Anatolia, ma anche parecchi distinguo regionali su tempi, modi, gusti e conoscenze. Per quanto riguarda l’Europa settentrionale, è interessante riflettere sull’esempio fornito dalla tomba principesca di Hochdorf. Questa monumentale sepoltura conteneva infatti un’apoteosi di accessori per bere, in gran parte di produzione locale riconducibile alla cultura di Halstatt, e un enorme cratere bronzeo di chiara matrice greca52, di probabile fabbricazione campana o lucana, che è stato sottoposto ad analisi archeobotaniche53. Siamo già alla fine del VI sec. a.C., in una zona dove arrivavano le anfore di vino greco e consuetudini di estrazione egea come quella di inserire nei corredi funerari gli accessori simposiaci si erano già notevolmente irradiate, ma il risultato delle ricerche ha evidenziato che il cratere conteneva idromele54. Una situazione che sottolinea, ancora una volta, come esistessero differenti sensibilità nella pratica di consumare alcolici. Pare quindi ulteriormente opportuno distinguere tra una cultura del bere genericamente bevande fermentate, che abbiamo visto diffondersi in modo ubiquitario tra IV e III millennio a.C., e una cultura enofila in senso stretto. Nel secondo caso, si tratta infatti di una manifestazione molto complessa della realtà umana, come abbiamo visto imprescindibile da un tragitto lungo e articolato che prevede l’acquisizione di un grande bagaglio di conoscenze. Ci sono sicuramente significati culturali profondi nella messa a punto di un prodotto che necessita di competenze complementari che comprendono la posizione e la conformazione del terreno, la sua esposizione e le caratteristiche del suolo, l’approntamento o la disponibilità di risorsa idrica, le cure metodiche e la manutenzione degli impianti, le operazioni di potatura e di innesto. Il tutto per ottenere, dopo qualche anno nel migliore dei casi e comunque attraverso ulteriori e laboriosi processi, una materia prima così preziosa e indispensabile che però, a differenza del miele, dei cerali o di altri frutti ha una sola

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possibile destinazione e un unico specifico scopo: appunto la produzione del vino. Questa sensibilità si rileva più agevolmente e precocemente nell’altra parte di mondo antico, nel prossimo oriente, in tutta l’area egeo-anatolica e intorno al Mar Nero, dove il quadro complessivo delle fonti mostra connotati certamente più intellegibili sotto questo aspetto. Qui le prime produzioni vinicole, frutto di una tecnologia più progredita e radicata, caratterizzano fortemente le comunità che le esprimono e la cultura del consumo di vino inizia a essere sottolineata dalla comparsa di vasellame potorio di particolare pregio, raffinatezza e valore intrinseco, ma anche da altri accessori riconducibili a pratiche enoiche come i colini per il filtraggio. Le coppe in metallo prezioso, provenienti specialmente dalla zona bulgara, dalla Tracia e dalla Troade, sono un chiaro indice della preminenza sociale presto riconosciuta all’alcolica novità, che trova peraltro riscontri tra i realia omerici, ad esempio nella celebre descrizione della Coppa di Nestore55. Sempre a proposito dei realia, probabilmente il più famoso, lo scudo di Achille, non manca di riservare un ampio risalto all’emergente realtà vitivinicola. Efesto, il fabbro divino, ne fa una sorta di compendio dell’universo umano così, forgiando il prezioso metallo per l’eroe omerico, tra simboli di potenza delle città fortificate e rappresentazioni agresti, orna lo scudo con “…una vigna, stracarica di grappoli, bella, d’oro; i grappoli neri pendevano: era impalata da cima a fondo di pali d’argento…”, dove “…passavano i coglitori a vendemmiare, fanciulle e giovani, sereni pensieri nel cuore, in canestri intrecciati portavano il dolce frutto”. E poi, ancora, una vivida descrizione del festante contorno di citaristi, cantori e ballerini che ritualizzano il momento della vendemmia56. Una digressione che, oltre a sottolineare i perspicui connotati di identità culturale riconosciuti al vino, ci consente di apprezzare, una volta di più, l’atavica preferenza della viticoltura greca per gli impianti a sostegno morto, ossia su pali. Nel II millennio la diffusione di questi servizi tocca, come abbiamo detto, quasi tutte le culture e ciò segna probabilmente la definitiva accettazione del consumo di vino come irrinunciabile e peculiare elemento socio funzionale; tuttavia il quadro levantino offre un approccio decisamente più enoico, enotecnico e agronomico insieme. Le risultanze di tipo archeobotanico sulla presenza di vite domestica, che in parte abbiamo già citato, sono numerose e diffuse sul territorio, ma assumono qui un valore corroborante rispetto alle labili indicazioni di eventuale apertura dell’Europa occidentale. C’è insomma da considerare che il II millennio, a est, non soffre di quella carenza di conferme dirette che si può invece osservare più a ovest, dove si sconta anche il gap cronologico dell’informazione scritta. I Minoici, ad esempio, dovevano avere raggiunto presto una piena padronanza della materia vitivinicola se già nei secoli compresi tra il XVI e il XII a.C. esportavano abitualmente vino pregiato nella Grecia peninsulare. Il trasporto avveniva all’interno di giare il cui contenuto è certificato dagli ideogrammi dipinti

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sulle etichette57. Attorno al 1600 a.C., seppure in modo più scarso, abbiamo attestazioni di commerci anche con Cipro58. A Micene, fuori della Cittadella, è stato messo in luce un edificio, noto come la Casa del Mercante di vino, che presenta molti resti delle giare a staffa minoiche utilizzate per questi commerci. Si tratta di contenitori rari nel Mediterraneo centrale59, in ceramica grossolana e ricca di inclusi, che hanno dimensioni medio grandi e presentano decorazioni semplificate, privilegiando evidentemente gli aspetti funzionali per cui erano stati concepiti60. Alcune decine di frammenti di queste caratteristiche giare, databili al bronzo medio, sono stati rinvenuti recentemente a Rocavecchia, località sulla costa pugliese61. Indagini di tipo archeometrico su questi reperti hanno permesso di risalire a una loro fabbricazione in officine minoiche62. I Micenei conservavano il vino scrupolosamente entro grandi pithoi, nelle residenze reali, e saltuariamente si approvvigionavano anche dalla Siria. Il consumo, nei ricevimenti di corte, avveniva nelle prime kylikes. In una dispensa del palazzo di Pylos sono stati ritrovati i resti di ben 2853 di queste tipiche coppe da vino63. Già molto prima comunque, attorno al 2100 a.C., c’è un’altra atte-

stazione che cita la coltura della vite; proviene da Lagash in Mesopotamia, dove da tempo si importava vino, probabilmente anche dalla Siria64. Sempre alla fine del terzo millennio, infatti, ancora da questa regione giungono importanti indicazioni su movimenti di partite di vino, comprese nelle tavolette fittili rinvenute a Ebla. Erodoto ricorda come il Codice di Hammurabi, re a Babilonia nel XVIII sec. a.C., descrivesse le imbarcazioni impiegate per trasportare recipienti di vino di Fenicia. Sempre dalla Siria, un testo di Ugarit relaziona su un carico di anfore rotte durante un trasporto nel XIV sec. a.C., mentre diversi siti della Palestina ne hanno restituite altre con iscrizioni dipinte che chiariscono l’identità della bevanda contenuta al loro interno65. Da queste regioni sembrano dunque provenire i più antichi esemplari di anfore commerciali, ideati in modo opportuno al trasporto e allo stivaggio e caratterizzati dall’imboccatura stretta, dalle anse verticali e dal fondale appuntito. Tali recipienti prendono comunemente il nome di anfore cananee, dall’antica zona d’origine, e vengono a costituire il prototipo del vaso vinario itinerante. Il loro ritrovamento fornisce indicazioni probanti sulle gittate degli scambi che nel bronzo medio sembrano dunque coinvolgere, in modo certamente non occasionale, anche la Grecia, l’Egitto, e forse l’Italia.

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Per quanto riguarda il paese nordafricano, a queste date non è più, da tempo, solo un grande importatore, nonostante le affermazioni di Erodoto secondo cui il vino arrivava in Egitto esclusivamente attraverso gli acquisti dalla Fenicia66. A prescindere dalla non ubiquitaria predisposizione geomorfologica alla coltivazione della vite, il territorio esprimeva alcuni luoghi favorevoli, specialmente al nord, in cui i vini si distinguevano per varietà, qualità e origine. Il delta del Nilo ospitava vari impianti viticoli ed erano note zone di produzione come quelle di Buto, della Mareotide e di Tanis, ma anche nel Basso Egitto, a Siene, si vinificava in modo più o meno intensivo fin dal III millennio a.C.. Durante il Nuovo Regno, dalla metà del II millennio, anche i territori delle oasi occidentali esprimono alcuni distretti vitivinicoli, ad esempio a Kharga, a Faiyum e nella Tebaide67. L’Egitto continuerà ad importare ingenti quantità fino allo scorcio del millennio, affermando la superiorità quali-quantitativa della produzione interna solo con l’ellenismo, ma la sua cultura enoica è ormai ampiamente consolidata nell’affermazione e nella padronanza del ciclo perfetto del vino: vigna, cantina, conservazione, trasporto, commercio e consumo. Un’autoconsapevolezza enormemente gratificante, come mostrano pomposamente alcune pitture murali provenienti dalle tombe fornendo, al contempo, parecchie indicazioni sulle tipologie di impianto a pergolato dei vigneti e sulla logistica degli spostamenti. Anche l’arte della pittura funeraria egizia, quando si sofferma sui temi enoici per eccellenza, non manca di riservare uno spazio di primo piano all’anfora, il veicolo fondamentale per la circolazione della preziosa bevanda. La caratteristica forma di questa tipologia di recipiente assumerà in effetti molto presto la funzione di logo del vino e si ritroverà a lungo, nell’iconografia in genere e nella numismatica, come sintetico riferimento alla bevanda. Sulle antiche anfore vinarie per il trasporto via mare si sofferma l’Odissea68, ferme restando molte altre utili riflessioni a cui la lirica omerica può condurre in questo campo, pur con le difficoltose ed eventuali attribuzioni cronologiche. Ad esempio, l’episodio della fornitura di vino agli Achei da parte di Euneo69, il figlio di Giasone che avrebbe regnato sull’Isola di Lemno dopo la morte della regina madre Ipsipile70, sottintende una produzione locale certamente affermata, forse attestabile attorno al XIII sec. a.C.. Del resto, già nel terzo libro, un passaggio dell’Iliade descriveva entusiasticamente l’area limitrofa a Troia, la Frigia, co-

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me la terra dei vini71. Senza contare l’articolato elenco delle città che erano intervenute all’assedio, il cosiddetto “catalogo delle navi”, in cui appaiono le “ricche di grappoli” località di Istiea, nell’isola euboica, e di Arne, in Beozia; la “coltivata a vigneti” Epidauro, in Argolide, e la “ricca di vigne” Pédaso, in Messenia, nel Peloponneso sud ocidentale72. Dopo il crollo della civiltà micenea e il cosiddetto medio evo ellenico, alla fine del II millennio a.C., il vino greco è un prodotto ampiamente affermato, sia sul mercato interno che su quello internazionale dove, grazie all’intraprendenza di mercanti e coloni e alla sua alta qualità, si fa spesso preferire alle produzioni locali. Di fatto i flussi commerciali seguivano due direttrici principali, dalla chora alla polis, con vini generalmente di qualità media, e verso destinazioni più lontane, come le coste del Mar Nero, il Mediterraneo occidentale e, più tardi l’area danubiana, dove si esportavano i prodotti di miglior livello, quelli destinati a conferire all’enologia greca una longeva aura di eccezionale credito. La presenza di anfore greche che recano impressi i simboli delle città suggerisce l’esistenza di un controllo diretto delle poleis sui traffici73. Durante l’VIII sec. a.C., il periodo per cui disponiamo delle prime testimonianze letterarie sull’agricoltura, la viticoltura e la vinificazione sono già profondamente radicate in ogni regione della Grecia, dall’Arcadia all’Attica, dalla Tracia alla Beozia, praticamente ovunque. Da questa in particolare ci perviene un dettagliato resoconto da parte di Esiodo, che nel suo Le opere e i giorni, attestabile entro la fine del secolo, si sofferma tra l’altro sugli aspetti delle pratiche enologiche. All’inizio del VI sec., grazie anche alla riforma di Solone, che promuoveva colture di pregio come quella della vite, la specializzazione agricola si intensificò ulteriormente in questa direzione. Tuttavia, nel VII sec. a.C. circolavano già monete raffiguranti anfore, ad esempio proprio ad Atene, dove però il tipo di recipiente è riconducibile all’olio. Più marcatamente enofila è la dirimpettaia isola di Ceo, dai rapporti molto intensi con la metropoli attica, probabilmente non estranea alla sua fondazione considerando la ricorrenza di diversi demotici. Questa era già molto nota nell’antichità per le produzioni vinicole, come tramanda Ateneo, e l’anfora che compare sul rovescio della sua moneta è invece tipicamente da vi-

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no74. È sintomatico che si tratti di una delle prime coniazioni in assoluto dell’isola e che la caratterizzi così profondamente. Da rilevare che, anche dopo la riforma di Solone, intervenuta a modificare gli standard valutari all’inizio del VI sec. a.C., le monete di Ceo e quelle di Atene non cambiano nella sostanza iconografica. Nella metropoli l’anfora continua a campeggiare, divenendo solo cerchiata, mentre gli isolani si limitano ad aggiungere un delfino in secondo piano. Qui si va quindi avanti con l’anfora da vino, sottolineando nel contempo l’aspetto marittimo, in una realtà territoriale dove Dioniso è una delle divinità più considerate75 e, soprattutto, si palesa un senso di atavica appartenenza a quella peculiare cultura vitivinicola a cui si è più volte fatto riferimento. Le monete greche trasmettono questo tipo di sensibilità non solo attraverso l’effige dell’anfora che, più di altri simboli, evidenzia una certa tendenza merceologica. A volte la comunicazione emblematica è più orientata sugli aspetti socio-culturali e ammicca agli esiti conviviali, oppure utilizza la rappresentazione del grappolo, quando non coinvolge direttamente la sfera del culto. In definitiva la numismatica nel suo complesso può, in qualche maniera, racchiudere in immagini quella che abbiamo definito “vitivinicūltura”, ma occorre una visione integrata, che lo spazio ridotto di una singola coniazione non può evidentemente soddisfare in modo adeguato. In effetti la ricerca di una concisa sintesi iconografica che esprima la complessità del sapere e del sentire enofilo non è certo un’operazione agevole. Esempi molto riusciti, in questo senso, provengono puntualmente dal fertile ambito artistico ellenico e ci sono forniti da scene dipinte appartenenti alla tradizione vascolare. Tra queste è certamente da annoverare la mirabile realizzazione del cosiddetto Pittore di Amasis (fig. 2.21). I satiri itifallici da lui dipinti sono infatti impegnati in una rappresentazione simbolica di tutto il ciclo produttivo. Le piante sono ordinatamente disposte, in ossequio a un riconosciuto e consolidato dominio dell’uomo sulla natura, e si percepisce, anche dalla prosperità dei grappoli, una cura metodica e scrupolosa del vigneto. I momenti della vendemmia e della pigiatura, intesi come fasi iniziali del processo di vinificazione, sono metaforicamente ritualizzati dalla presenza di un satiro auleta e la scena trasmette compiutamente il senso di un’operosità di gruppo, da cui traspare un forte spirito di laboriosa cooperazione. Gli aspetti intrinseci del consumo sono efficacemente riassunti dalla raffigurazione del corredo potorio, mentre il contesto simposiaco è palesemente evocato dalla

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disposizione parattattica di altri satiri e menadi danzanti che rimandano al kòmos. La scelta dei lascivi satiri come protagonisti poi, alternativa a quella di più canoniche figure umane, completa la rappresentazione dal punto di vista emotivo e spirituale, riuscendo ad evocare l’atmosfera e l’essenza stessa del simposio anche nei suoi aspetti di tensione erotica e di trasgressiva ebbrezza. È senza dubbio una rappresentazione che coniuga efficacemente i concetti che abbiamo affidato in apertura al neologismo “vitivinicūltura”: dal paesaggio al vigneto, dalla cantina agli strumenti per bere, fino all’uomo, ai suoi bisogni ideali, sociali e metafisici, al benessere del corpo e al piacere della mente. La popolarità della cultura del vino, probabilmente trainata da precoci avanguardie aristocratiche, aumentò velocemente tra i popoli dell’età del bronzo, in particolare nelle regioni siriache e palestinesi, giungendo ai Minoici e ai Micenei rivestita da un alone di grande interesse. Fattori esterni, come la seconda colonizzazione greca, verso ovest, ma anche dinamiche autoctone, come gli sviluppi della civiltà villanoviana e delle altre società centro mediterranee, crearono poi i presupposti definitivi per l’allargamento dell’area culturale enofila. Non si trattò, semplicemente, dell’ampliarsi di un settore merceologico di grande tendenza, né del trasferimento tout court di un sapere tecnologico-produttivo: la tradizione culturale del vino non si può in effetti scambiare o commerciare. Per possederla occorre conquistarla, accumulandola con grande fatica, in una concomitanza di situazioni naturali e antropiche particolarmente favorevoli. In materia enoica è forse più pertinente fare riferimento a processi quali la trasmissione generazionale, l’assimilazione, la contaminazione, le influenze, le dinamiche sociali di acculturazione e inculturazione per spiegare in qualche modo l’enorme successo della bevanda vino e la massiccia diffusione della vitivinicoltura. Processi talora inestricabili, che si sono spesso sovrapposti e caratterizzati nel tempo e nello spazio in senso etno-geografico e socio-politico, ma indicativi del grande e osmotico dinamismo che da sempre accompagna la progettualità umana nei suoi percorsi evolutivi.

2.2 La fase greco-italica Nel periodo arcaico e classico i Greci hanno sempre dimostrato una grande attenzione per i costumi, le religioni e le consuetudini dei popoli stranieri con cui venivano in contatto, come traspare chiaramente dalle fonti, pur nei diversi contesti. Questo atteggiamento di permeabilità rappresenta un fattore assolutamente non trascurabile, se consideriamo la sfera culturale egea come l’effettivo volano trasmissivo dell’impronta vitivinicola orientale verso questa parte di Mediterraneo. Nell’ambito di uno spiccato interesse etnografi-

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