Libertà come critica e conflitto. Un'altra idea di liberalismo di Pierfranco Pellizzetti

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LIBERTÀ COME CRITICA E CONFLITTO

Pierfranco Pellizzetti (Genova, 1947). Saggista di «MicroMega», «Critica Liberale» e «Queste Istituzioni». Sino al 2011 ha insegnato Sociologia dei Fenomeni Politici e Politiche Globali nella facoltà di Scienze della formazione di Genova - Corso Specialistico in Scienza della comunicazione. A lungo opinionista del quotidiano «il Secolo XIX», dal 2009 lo è del «Fatto Quotidiano». Tra le sue opere: La Politica dopo la Politica (Pendragon 2001), Italia disorganizzata (Dedalo 2006), La Quarta Via (Dedalo 2008), Fenomenologia di Silvio Berlusconi (Manifestolibri 2009), Liberista sarà lei! (Codice 2010), Fenomenologia di Antonio Di Pietro (Manifestolibri 2010), La Libertà raccontata a ragazze e ragazzi (con la figlia Ludovica, Manifestolibri 2011), C’eravamo tanto illusi (Aliberti 2012). Ha curato Le parole del tempo vocabolario della Seconda Modernità (Manifestolibri 2010).

Pierfranco Pellizzetti

«La transizione dall’anarchia economica ad un regime che tenda coscientemente al controllo e alla direzione delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità sociale, presenterà difficoltà enormi, sia tecniche che politiche. Avanzo, tuttavia, l’ipotesi che il vero destino del “nuovo liberalismo” consista nel ricercarne la soluzione». (John Maynard Keynes) Sulla scia del grande intellettuale inglese, un’antologia di autori e prese di posizione come repertorio su cui fondare il “nuovo liberalismo” del XXI secolo. Provocatoria e anche un po’ beffarda.

LIBERTÀ COME CRITICA E CONFLITTO Un’Altra idea di Liberalismo

Pierfranco Pellizzetti con una postfazione di Mauro Barberis

isbn 978-88-7000-582-0

€ ,0

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9 788870 005820

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Mucchi Editore

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Pierfranco Pellizzetti

Libertà come critica e conflitto Un’altra idea di Liberalismo

con una postfazione di Mauro Barberis

Mucchi Editore



A ricordo del comandante partigiano Bruno Pellizzetti (Scoglio), mio zio, che scese dalla montagna col mitra a tracolla alla testa della Brigata Garibaldi “Coduri”. Icona del liberatore, per me bambino

«No, no, non sono dove mi cercate, ma qui da dove vi guardo ridendo» 1 Michel Foucault

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Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 2009 p. 24.



Indice Nota esplicativa (a mo’ d’introduzione)................................................. 7 L’assunto messo alla prova....................................................................11 La questione postsecolare antirelativista................................................13 La questione della finanziarizzazione del mondo...................................21 La questione dello scontro di civiltà mediatizzato.................................35 La questione della desertificazione del reale..........................................49 Il repertorio...........................................................................................65 Liberalismo e definizione......................................................................67 Liberalismo delle regole e dei contrappesi........................................... 103 Liberalismo dei processi...................................................................... 135 Liberalismo dei valori......................................................................... 165 Riassumendo: un’idea di Liberalismo................................................. 197 Postfazione, di M. Barberis. Frammenti di un discorso liberale........... 207 Cenni bibliografici............................................................................. 211



Nota esplicativa (a mo’ d’introduzione) «Libertà, una delle più preziose proprietà dell'immaginazione» Ambrose Bierce «L’ironico liberale» Richard Rorty

La tradizione politica che chiamiamo genericamente “Pensiero Liberale” può apparire una sorta di nebulosa dai confini indistinguibili. La variegata e non necessariamente sintonica congerie di autori che, da alcuni secoli, riflettono e discutono (magari accapigliandosi tra loro: ogni liberale pensa di essere lui il “vero e solo” liberale) sulla Libertà e i suoi nemici: non un’ideologia (seppure qualcuno vorrebbe farci credere trattarsi di “ideologia borghese”. Ne riparleremo alla fine); magari, in qualche misura, un’utopia (e anche su questo ritorneremo). Di certo non una filiera rettilinea e unificante, che parta da una comune premessa originaria per evolvere coerentemente attraverso apporti susseguenti, direttamente accumulativi. Problema complicatosi ulteriormente in questi ultimi decenni a causa delle acrobazie argomentative tendenti ad accreditare la sintesi ossimorica Liberal-Liberista: il vero e proprio imbroglio di sostenere che Liberalismo e Liberismo sarebbero termini equipollenti. Concettualizzazione che, del resto, tradisce intenti assai poco neutrali: il ritorno al laissezfaire quale incantesimo malefico che ha prodotto un cerchio stregato attorno alle strategie del potere dominante, funzionale a giustificare e legittimare la finanziarizzazione del mondo. Proprio per questo – in materia di Liberalismo e definizione – finiamo frequentemente per ritrovarci di fronte a una sorta di “zoologia fantastica cinese” di borgesiana memoria. Ossia l’Emporio celeste di conoscimenti benevoli, “parto” della prosa visionaria e di straordinaria leggerezza 7


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propria del grande scrittore argentino, secondo cui «gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che si agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche» 1. Tra l’altro Jorge Luis Borges è autore di un racconto intitolato La Biblioteca di Babele. Sicché, a titolo puramente esemplificativo dello stato dell’arte babelico vigente nella nostra, di zoologia (seppure politica e culturale), si può prendere in esame un’accreditata “tassonomia liberale”– parto di figure accademiche eminenti, quali Ronald Dworkin e Sebastiano Maffettone – non troppo distante dalle cineserie di cui sopra; il che dimostra in tutta evidenza come nel contenitore in questione si tenda a stipare un po’ tutto e il suo contrario. Scusandoci anticipatamente per la chilometrica citazione testuale, ecco quanto ci raccontano questi “santoni cattedratici” del pensiero Lib.: «Con la dovuta ironia, si può immaginare una tassonomia di pensatori liberali, e cioè di liberalismi, più o meno del tenore della seguente: I. teorici dei diritti, dai sostenitori del diritto di natura agli scrittori che precedono e seguono la rivoluzione francese a Thomas Paine, fino ai contemporanei Dworkin [è il diretto interessato a mettere il proprio nome in ditta. Ndr.] e Nozick; II. economisti classici e loro critici da Adam Smith a Ricardo fino a Keynes, dai marginalisti ai teorici della scelta razionale; III. utilitaristi, da Bentham e Mill a Brandt e Harsanyi (la cattiva fama dell’utilitarismo in Italia è un segno dello scarso sentimento liberale che contraddistingue il nostro paese); IV. contrattualisti e kantiani, come Rawls, Nagel e Scanlon; V. individualisti romantici, come in parte Mill, Marcuse (ma sì!) e von Humboldt; VI. Conservatori e storicisti, come sotto diversi aspetti Croce, Leo Strauss, Oakseshott, Treitschke, Ortega, de Madariaga, Aron e forse Hayek; VII. Democratici radicali alla maniera di Habermas; VIII. Radicali e anarchici, come Gambetta e Gobetti, oppure Reagan e Singer, oppure Bookchin e gli ecologisti; 1

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J. L. Borges e M. Guerrero, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino 1998, p. V.


Nota esplicativa

IX.

Come i precedenti in versione individualista, da Thoreau, Emerson e Whitman a George Kateb; Fabiani e riformisti pragmatisti, come Beveridge, Salvemini, Cattaneo; Liberal progressisti, liberal-socialisti e socialisti-liberali di diversa formazione, come lo furono Russell, Dewey, Calogero, Rosselli; Teorici tedeschi del Rehstaat, come Jellinek e Jhering; Garantisti classici e contemporanei, sulle tracce di Constant e Guizot: Federalisti americani, uniti nelle diversità dal radicalismo di Jefferson al moderatismo alla Madison; Associazionisti alla Tocqueville 2.

X. XI. XII. XIII. XIV. XV.

Stop. Davvero un chiaro esempio di “confusionismo ecumenico”; una bella ammucchiata di personaggi che – nel proprio tempo – si sarebbero addirittura sbranati tra loro (di certo Hayek sognava di “fare a pezzi” quel comunista snob di Keynes! Impagabile – tra le altre chicche – l’accostamento vagamente etilico tra Reagan e Gobetti all’item VIII …). Ordunque – al fine di uscire da tale perniciosa vaghezza – si rende necessario predisporre ben altre griglie e filtri ad hoc; che trattengano o – all’inverso – lascino transitare gli autori e le rispettive elaborazioni con un adeguato rigore, in base a principi definiti. In questa logica. vengono qui di seguito riportati brani e frammenti ritenuti (ovvio, secondo lo scrivente) certamente liberali, partendo da un criterio di selezione – questo sì – strettamente unificante: il Liberalismo come critica dei rapporti di dominio. Quindi un metodo; al limite un atteggiamento mentale. Con le parole di Michel Foucault (che certo non avrebbe apprezzato l’essere definito “liberale”), la critica come «il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità». Critica del Dominio declinata storicamente in varie modalità di approccio al problema, riconducibili ad almeno tre famiglie di Liberalismi (e alle relative tassonomie, un tantinello diverse rispetto a quelle – della serie: “tutti insieme appassionatamente” – del duo Dworkin-Maffettone):   R. Dworkin e S. Maffettone, I fondamenti del liberalismo, Laterza, Bari 1996, p. 129.

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le regole e i bilanciamenti (per controllare il Potere e poterlo costantemente ispezionare). Ad esempio da Montesquieu a John Rawls (il teorico della redistribuzione in senso equo, forse più socialdemocratico che non liberale); i processi (per “aprire” la società attraverso il conflitto, l’innovazione e la mobilità sociale). Ad esempio da Tocqueville a Ralf Dahrendorf; i valori (per porre la virtù al centro delle istituzioni). Ad esempio dal repubblicanesimo civico dei liberi comuni italiani a Bertrand Russell, ai nostri Gaetano Salvemini e Pietro Gobetti.

In altre parole, una scelta classificatoria applicata al pensiero politico (declinata in raccolta di testi esemplificativi) – quella che segue – assolutamente, dichiaratamente e – in qualche misura – spudoratamente arbitraria. Naturalmente eterodossa.

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L’assunto messo alla prova Prima di prendere di petto direttamente l’annunciato specifico del nostro repertorio, vale la pena di chiederci il senso effettivo del cammino che qui si propone di intraprendere: se stiamo avviandoci a deambulare tra i corridoi di un mausoleo polveroso o se – al contrario – ci prefiggiamo di esaminare idee messe alla prova nel calor bianco di questioni cruciali. Assolutamente attuali. Visto che l’autore di queste note è fermamente convinto della seconda ipotesi, proverà a dare dimostrazione dei propri assunti proponendo – a titolo di esempio – riflessioni in chiave liberale su quattro tra le principali tematiche che impegnano l’odierno dibattito pubblico: –– La Libertà alle prese con il ritorno delle fedi religiose, magari nelle forme del fanatismo fondamentalistico (la questione postsecolare antirelativista); –– La Libertà alle prese con l’egemonia economicistica (la questione della finanziarizzazione del mondo); –– La Libertà alle prese con la svolta bellicista dell’Occidente (la questione dello scontro di civiltà mediatizzato); –– La Libertà alle prese con i processi di colonizzazione del pensiero attraverso la promozione di immaginari virtuali (la questione della desertificazione del reale). Quattro questioni significatamente influenzate da forti conflitti retrostanti, in cui la decostruzione/ricostruzione dei criteri con cui vengono rappresentati diventa cruciale. Prestando particolare attenzione al ruolo decisivo assunto in questa fase storica dalla tecnologia, nel bene come nel male. Sia al servizio del Dominio, sia a quello del suo smascheramento operato mediante le armi della critica. Theodor Adorno – in una lettera a Max Horkheimer del 1950 – definiva “Illuminismo democratico” il soggetto del disincantamento libera11


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torio: «la coscienza delle masse, così come il loro inconscio, sono stati a tal punto condizionati dai poteri esterni esistenti che non basterà semplicemente ‘dire come stanno le cose’. Allo stesso tempo, tuttavia, il progresso tecnologico ha reso le persone così ‘razionali’, attente, scettiche, resistenti a imbonitori di ogni tipo… che non si può dubitare dell’esistenza di forti controtendenze rispetto ai modelli ideologici che pervadono il nostro clima culturale. L’illuminsmo democratico deve fare affidamento su queste controtendenze, che, a loro volta, dovrebbero attingere a tutte le fonti di conoscenza scientifica oggi disponibili» 1.

1   T. Adorno, Leadership democratica e manipolazione delle masse in «Almanacco di filosofia» 2011.

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La questione post-secolare antirelativista «Di recente, sotto l’impressione di un’offensiva fondamentalistica globale, ha preso a circolare anche l’etichetta ‘società post-secolare’» ChistophTürcke 1 «In assenza di forti istituzioni di fiducia reciproca, di servizi affidabili forniti da un settore pubblico provvisto di finanziamenti adeguati, le persone cercheranno sostituti privati. La religione (come fede, comunità e dottrina) probabilmente godrà di un certo rilancio, anche nell’Occidente laico» Tony Judt 2

Lourdes linguistica Il tema è quello dello scontro tra Libertà e Dominio sul terreno della determinazione dei criteri di Verità, nella permanente tensione antagonistica tra le certezze di fede e il dubbio sistemico. Tensione resa di questi tempi ancora più alta da quello che è stato chiamato “il ritorno di Dio” nel dibattito pubblico. La cosiddetta “società post-secolare”, che – secondo il giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde – risponde al presunto deficit etico di cui soffrirebbero le democrazie secolarizzate, e all’altrettanto presunta incapacità dello Stato liberale di assicurare coesione sociale, concedendo sempre maggiore spazio alla fede religiosa, legittimata ad avere diretta influenza nelle decisioni politiche. Tesi che ebbero la loro consacrazione mediatica in un celebre dialogo, svoltosi a Monaco di Baviera nel 2004, tra il filosofo Jürgen Habermas e l’allora cardinale Ratzinger. 1 2

C. Türcke, La società eccitata, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 11.   T. Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2011, p. 158.

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Ecco il punto d’avvio del ragionamento che segue: il Postsecolarismo è una delle tante forme di “cerchiobottismo” (l’opportunismo che teorizza se stesso come espressione superiore di saggezza e giudizio equilibrato), quale declinazione del politicamente corretto (secondo Robert Hughes, quella «Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo») in una sorta di compromesso volpino – dunque, ipocrita e mendace – tra religione e democrazia. Ossia la bella pensata secondo cui nell’attuale fase storica, in cui l’Occidente si ritrova a dover fronteggiare forme crescenti di fanatismo distruttivo, l’ordine liberaldemocratico non avrebbe in serbo risorse intrinseche sufficienti che gli consentano di sopravvivere all’impatto tremendo della sfida. In altre parole, si tratterebbe di un modello organizzativo della vita collettiva sostanzialmente “freddo”, incapace di mobilitare consenso di massa a difesa dei suoi valori costitutivi e delle conseguenti applicazioni concrete. Una democrazia ormai esaurita nel formalismo delle regole e – dunque – per nulla “appassionante” (nonostante Immanuel Kant ci avesse ammonito che «la norma morale è norma formale»)? Se effettivamente così fosse, si imporrebbe la necessità vitale di ricercare altrove depositi di certezze “calde”, che consentano di proteggere con invulnerabili armature motivazionali la precaria autostima della società secolarizzata. Sulla scia di Jürgen Habermas, Giuliano Amato ci ha voluto spiegare come «i credenti abbiano una marcia in più rispetto a quanti tali non sono». Tanto che subito qualcuno si è domandato se la religione andasse considerata alla stregua di un integratore alimentare, con dio a fare il personal trainer… Ecco qua in soldoni la teoria del Postsecolarismo; coltivata in Italia soprattutto sulle pagine della rivista Reset 3: il cerchiobottismo applicato al dibattito sulla laicità. Di per se stessa una tesi poggiata su fondamenta a dir poco traballanti, come si diceva: la democrazia che per salvarsi deve trovare riparo sotto le ali delle tradizioni cristiane. Il vecchio Jürgen aggiunge un’ulteriore affermazione di rincalzo (a conferma che col tempo le arterie si induriscono); esattamente il contrario di quanto riteneva un maestro come Hans Kelsen: la religione è compatibile con l’ordine democratico «a patto che accetti di essere esplorata di3

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Aa. Vv. La società post-secolare e le sue parole chiave, «Reset», maggio-giugno 2007.


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scorsivamente». Ammettiamolo, grossa sciocchezza quella habermasiana: quando mai una qualsivoglia religione – che, in quanto tale, si proclama depositaria della Verità – potrà accettare di essere messa in discussione? Con una ulteriore precisazione a margine: qui non si parla del “dio personale”, la simil-teologia fai da te segnalata in diffusione nelle società occidentali affette da crisi da astinenza di certezze, cui ha dedicato uno dei suoi ultimi saggi Ulrich Beck; che risponde a crescenti domande di senso individuale e di comprensione dell’umana condizione 4. Forse lo spinoziano deus sive natura. Qui si parla di religione come potere ecclesiastico, che monopolizza la consolazione del dolore e promette orientamento negli smarrimenti della finitezza. Il fatto drammatico è che tutti questi campioni del compromesso stolido tra credenze religiose e laicità (superando antiche e venerande demarcazioni tra Stato e Chiesa; l’insegnamento groziano dell’etsi deus non daretur nel discorso pubblico desacralizzato) per salvare il salvabile dell’ordine democratico, hanno un’idea ben misera di tale ordine (oltre che modestissime competenze sulla resistenza agli stress da parte delle idee). Perché la forza del pensiero che propugna democrazia sta già nella sua flessibilità; ciò che chiamiamo Relativismo. Dunque, quell’adattabilità metodologica che i sistemi culturali rigidi non hanno, tanto che finiscono inevitabilmente per spezzarsi se sottoposti alle torsioni del cambiamento. Difatti l’Occidente ha conosciuto il proprio trionfo proprio in quanto relativista, dunque sommamente “elastico” nella comprensione e – di conseguenza – adattabile; pur mantenendo fermo un impianto ideale, costituito più da criteri procedurali e stati cognitivi aperti che non da prescrizioni indiscutibili. Nello specifico, democratico: certamente regole di determinazione delle scelte collettive e individuazione del personale preposto ad attualizzarle; ma anche (o – a nostro avviso – soprattutto) legittimazione della protesta come elemento indispensabile dell’innovazione politica; quale messa al lavoro dell’irrinunciabile istanza pluralistica. Sicché quanto sta succedendo nei modelli di pensiero prevalenti induce a ritenere che non siamo entrati nella presunta fase del Postsecolarismo. Piuttosto si sta precipitando in una pericolosa spirale di Postrelativismo. 4

U. Beck, Il Dio personale, Laterza, Bari 2009.

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Salvare la Saggezza dell’Occidente Ciò indica lo smarrimento delle ragioni fondative di quella che Bertrand Russell definiva “la saggezza dell’Occidente” (e di cui la Liberaldemocrazia resta l’esito politico storico a tutt’oggi meglio riuscito), stritolata nella morsa di sinergici fondamentalismi; incarnati tanto dai neocrociati cristiani alla ricerca di una qualche Lepanto come dagli jihadisti suicidi della galassia terroristica islamica, che persegue la fondazione del califfato universale. Di fatto, reciproci puntelli. Alleati nell’assedio all’uso pubblico della Ragione guidata dai principi di Giustizia e Libertà. Proviamo a chiarire di che cosa intendiamo parlare. Il termine “relativismo” si applica a due circostanze. La prima è cognitiva, ovvero come spiegare le diversità che incontriamo; la seconda è politica e morale: come comportarci nei confronti di quanti consideriamo diversi da noi. In ogni caso, situazioni con cui noi occidentali ci confrontiamo da almeno mezzo millennio; da quando, andando in giro per il mondo come esploratori o conquistatori, scoprimmo che esistevano realtà ben diverse da quelle familiari. E sempre la flessibilità mentale, di cui il Relativismo è presupposto, si rivelò primaria condizione di successo. Lo dimostrano le pagine anche più infami della nostra storia, come nell’incontro tra Montezuma e Cortés (ricostruito magistralmente da Tzvetan Todorov in un celebre saggio 5); tra i loro due mondi, sino ad allora reciprocamente alieni. Gli amerindi non riuscirono a percepire l’effettiva natura dei nuovi venuti, tanto da scambiarli per divinità; e questa immagine deformata ebbe su di loro effetti paralizzanti, così da condurli alla rovina. Il capo dei conquistadores – invece – seppe farsi un’idea chiarissima del proprio interlocutore, sfruttando al meglio tale superiorità. Insieme cognitiva e politica. Con i ben noti esiti genocidi. Intanto, nel succedersi dei viaggi lungo la Via della Seta e delle scoperte d’oltremare, l’accumulo di esperienze diventava mentalità, il tratto forte di una cultura. Per cui Montaigne poteva dire che «ognuno chiama barbarie ciò che non è nei suoi usi» e Pascal aggiungeva: «un meridiano decide sulla verità». Ancora una volta; dopo la breve stagione della Socie5

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T. Todorov, La conquista dell’America, il problema dell’Altro, Einaudi, Torino 1984.


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tà Aperta ateniese in epoca periclea, al tempo della Grande Generazione dei sofisti (includendo nella categoria pure Socrate) e dei primi esperimenti di analisi critica. Nasceva così – tra Quattrocento e Cinquecento – la nuova idea di Verità dei moderni. Non più quella platonica, che sta nel Mondo delle Idee, ma il risultato raggiunto dagli umani attraverso il confronto tra punti di vista plurimi. Da qui tre assunti: 1) l’individuo realizza la propria personalità attraverso la cultura e il rispetto per le differenze individuali implica quello per le differenze culturali; 2) un rispetto convalidato dalla scienza, che non ha mai trovato criteri valutativi delle culture; 3) i costumi e i valori sono relativi alle culture da cui derivano. Prologo alla nobile tradizione della Tolleranza, nata nel Seicento anche quale risposta agli orrori delle guerre di religione combattute per imporre pretese assolute. Da qui la moderna traduzione della saggezza dell’Occidente, cui già si faceva riferimento. Anche grazie a quello che l’antropologo culturale Clifford Geertz chiama “il terzetto dei fantasiosi studiosi tedeschi”: Nietzsche, Marx e Freud, che distruggono il XIX secolo dal punto di vista morale; come Einstein l’ha distrutto cognitivamente e Joyce, bandendo la narrazione, esteticamente. Poi verranno le rivoluzioni epistemologiche di Kuhn o Feyerabend, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein, il pragmatismo ermeneutico di Rorty 6. Acquisizioni dell’umanità intera. È grazie a questo sistema di pensiero tradotto in mentalità, che sono state vinte battaglie decisive, realizzate conquiste inimmaginabili. Relativismo come valore aggiunto Si potrebbe dire che proprio grazie al relativismo (o all’anti anti-relativismo, come piace a Geertz) solo qui, in questo lembo di terra all’estremo lato Ovest del continente eurasiatico chiamato “Occidente”, è avvenuta la fuoriuscita dalla gabbia della tradizione e del tribalismo; la fon6

C. Geertz, Anti anti-relativismo, Il Mondo 3, Roma 1996, p. 29.

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dazione di una civiltà a vocazione universale. Ossia la rottura di vincoli mentali che consente sperimentazioni vincenti. Per cui – certo – si potevano adottare senza remore le nuove tecniche militari, come l’artiglieria e il vascello armato, mentre giannizzeri e mamelucchi combattevano ancora all’arma bianca, prigionieri di modelli culturali retrogradi destinati alla sconfitta. Ce lo racconta lo storico Carlo Cipolla 7. Ma altre storie ci vengono narrate al riguardo, molto più pacifiche ed edificanti; coerenti con i valori benigni della simpatia cosmopolitica. Come l’avventura del disincanto in tutte le sue forme liberatorie; discendenti dall’intuizione di Protagora, che pone l’uomo a misura di tutte le cose, fino ad arrivare alla svolta comunicativa novecentesca, in cui la definizione di un accordo intersoggettivo è resa possibile dallo scambio ininterrotto di enunciati. Ancora: è grazie a questo sistema di pensiero tradotto in mentalità che abbiamo imparato a ragionare in termini di futuro progettabile; frantumando l’antica concezione circolare del tempo come eterno ritorno, che produceva giudizi retroflessi (il cambiamento allontanerebbe dalla perfezione delle idee, secondo ideologie conservatrici che risalgono almeno a Eraclito e Platone). Un percorso di uscita dalla minorità imposta dai signori del pensiero e dai loro idola tribus finalizzati alla sorveglianza repressiva dell’espressività soggettiva. La liberazione dal controllo sociale esercitato attraverso il vincolo della tradizione, in larga misura religiosa, su cui John Stuart Mill scrisse pagine indimenticabili. «La tirannia del costume è generalmente un ostacolo al progresso dell’umanità… in Oriente il costume domina arbitro supremo… i cinesi sono diventati immobili e stazionari… Chi ha salvato finora la nostra civiltà da questa sorte? In Europa le nazioni, i ceti, gli individui si svolsero estremamente disassomiglianti gli uni dagli altri, si aprirono una grande quantità di vie, conducenti ciascuna a qualcosa di buono» 8. Dunque la diversità come valore e motore, resa possibile soltanto da un habitat umano in cui prevale un chiaro approccio relativistico. Eppure il relativismo occidentale ora si trova nell’imbarazzante situazione (sostanzialmente autolesionistica) di essere stato posto sul banco 7 8

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C. Cipolla, Vele e cannoni, Il Mulino, Bologna 2004.   J. Stuart Mill, Della Libertà, Sansoni, Firenze 1974, p. 109.


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degli imputati, proprio in casa sua. E lo si equipara allo scetticismo o al nichilismo. Erroneamente: il relativista nutre convinzioni positive, seppure discendenti da specifiche coordinate. Un fraintendimento che porta a stigmatizzare l’atteggiamento relativistico quale fattore di decadenza dell’Occidente; in quanto lo disarmerebbe innanzi all’avanzata di credenze fondamentalistiche, nell’attuale situazione segnatamente islamiche. La convinzione delirante che si combatte la barbarie con altrettanta, speculare, barbarie. In questo scenario da “scontro di civiltà” fa la parte del leone la Chiesa di Ratzinger, propugnando il riconoscimento di ipotetiche radici cristiane dell’Europa e la sua idea di verità assoluta. In piena sintonia – appunto, nello smarrimento della saggezza liberaldemocratica – con un’altra illusoria prova di forza (quando – in effetti – non è altro che il suo esatto contrario, una debolezza): la sostituzione della relativistica comprensione delle altrui ragioni con l’ottusa apoditticità del settarismo. Quella alleanza tra Spada e Altare che contraddistingue l’attuale fase bellicistica imboccata dall’Occidente; che mentre sta conducendolo dritto verso la catastrofe continua a proclamarsene il più determinato paladino. Pure espressioni di paura, ansia spasmodica di protezione innanzi a minacce in larga misura create dalle proprie ossessioni. In verità, sono proprio questi “platonici” e questi “impauriti” (magari nascondendosi dietro eserciti impantanati in guerre senza fine) a disarmare la nostra civiltà, privandola del primario fattore di comprensione e di adattabilità, di apprendimento grazie a stati cognitivi aperti, che la rese unica e vincente. Un faro per le altrui civilizzazioni.

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La questione della finanziarizzazione del mondo «Altri scienziati sociali… accusano gli economisti, di aver immaginato, estendendo a tutte le attività umane un’analisi che è appropriata solo per il mercato, che la coda possa dimenare il cane» Albert Otto Hirschman 1 «Nel capitalismo finanziario recente i mercati non sono più i luoghi dell’investimento, ma i teatri della liquidità, mentre al loro interno le bolle speculative non sono alimentate dagli acquisti di azioni da parte dei singoli, ma dai giochi finanziari degli operatori che agiscono col denaro e i beni di terzi» Guido Rossi 2

I laboratori del pensiero unico Il tema è quello dello scontro tra Libertà e Dominio sul terreno delle ragioni prime dell’umana esistenza e delle priorità sociali, dopo che negli ultimi quarant’anni l’Economico si è divorato completamente ogni altro mondo della vita. Scrive lo storico Tony Judt: «noi siamo gli eredi involontari di un dibattito di cui la maggior parte della gente è completamente all’oscuro. Se ci chiedessero che cosa ci sia dietro il nuovo (vecchio) pensiero economico, forse risponderemmo che è opera di una serie di economisti angloamericani riconducibili in larghissima maggioranza all’Università di Chicago. Ma se ci chiedessero da dove i Chicago boys abbiano preso le loro idee, scopriremmo che l’influenza più grande è stata esercitata da un gruppet1 2

A O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 1995, p. 27.   G. Rossi, «La Repubblica» 10 gennaio 2008.

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to di stranieri, tutti immigrati dall’Europa centrale: Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, Joseph Shumpeter, Karl Popper e Peter Drucker» 3. Qualcuno ha parlato di “rivincita degli austriaci”, ovviamente contro John M. Keynes; al cui nome è legato il più grande esperimento di ingegneria costruttivistica coronato con successo della storia umana. In effetti, la vera rivincita conseguita da questi signori è quella contro il pensiero fondativo della saggezza dell’Occidente: l’Illuminismo, nelle sue varie riproposizioni storiche, inteso come governo del “ramo storto dell’umanità” secondo kantiano “uso pubblico della ragione”. Anche grazie alla loro furia iconoclasta si è chiusa la fase di “Capitalismo amministrato”, che aveva integrato nell’area del benessere e della cittadinanza democratica strati crescenti di popolazione, scaraventando la società mondiale in quel Turbocapitalismo a centralità finanziaria dove la ricchezza si riproduce non più attraverso l’investimento industriale quanto – bensì – attraverso i flussi monetari speculativi. Come ha sintetizzato efficacemente il socio-economista Luciano Gallino: «la finanziarizzazione del mondo, definibile come la trasmutazione concettuale e pratica di ogni aspetto della vita, ben al di là dell’attività produttiva, in entità da valutare esclusivamente in base a una metrica finanziaria, è stata l’opera somma, il grande muro eretto con il denaro altrui che la classe capitalistica trasnazionale ha realizzato tra gli anni Ottanta del XX secolo e il primo decennio del XXI» 4. Di fatto la (contro)rivoluzione (neo)liberista ha spalancato il vaso di Pandora del nuovo Oscurantismo, con il seguito di crescenti disuguaglianze, fanatismi bellicisti e xenofobie varie; che – prospettando reiterati “scontri di civiltà” – ha determinato la crisi della (nostra) Civiltà. Ha creato un deserto e lo ha chiamato “globalizzazione”, ovviamente finanziaria. E mentre si pretendeva di americanizzare il mondo, il “sogno americano” andava a picco. Di questo dobbiamo essere grati in primo luogo a Ronald Reagan e alla “Lady di Ferro” Margaret Thatcher, madrina degli schiacciasassi venuti dopo di lei; grazie a lei. Tra i tanti effetti sistemici della deregulation reaganiano-thacheriana, uno dei più inquietanti è stata la messa in crisi di ogni ambito istituziona3 4

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T. Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2011, p. 73.   L. Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009, p. 141.


La questione della finanziarizzazione del mondo

le di governance. Certo lo Stato, ma anche – per noi cittadini del Vecchio Continente – il grande e generoso progetto dell’integrazione europea; il diffondersi di un euroscetticismo che sovente sfocia nell’eurofobia. Dopo oltre un trentennio siamo (forse?) giunti alla fine della stagione neoLib. Il muro di Wall Street, tempio laico della superstizione monetaria, è crollato; seppellendo sotto le macerie gli strumentari di latta con cui si pretendeva di manomettere la Storia. Ma torniamo alla ricostruzione di quanto è avvenuto fornitaci da Judt. «Il compito della rinascente destra fu reso più facile non soltanto dal tempo trascorso (con i traumi degli anni Trenta e Quaranta ormai lontani, la gente era più disponibile a prestare ascolto alle voci tradizionali del conservatorismo) ma anche dagli avversari. Il narcisismo dei movimenti studenteschi, i nuovi ideologi della sinistra e la cultura popolare della generazione degli anni Sessanta crearono le condizioni ideali per una reazione conservatrice. La destra ora poteva affermare di essere la paladina dei ‘valori’, della ‘nazione’, del ‘rispetto’, dell’’autorità’ e della tradizione e civiltà di un paese (o di un continente, o addirittura dell’Occidente) che ‘loro’ (la sinistra, gli studenti, i giovani, le minoranze radicali) non capivano e non amavano» 5. Il punto di massima critica distintiva per questa Destra diventavano lo Stato e i suoi scopi, che nel frattempo erano già sott’attacco della critica postmodernista come ricettacolo di una nuova forma di oppressione occhiuta: “il consenso repressivo”. L’attacco allo Stato Così le fisime di ottocenteschi espatriati dall’Austria, alla Mises e alla Hayek, venivano rimesse a nuovo; con il loro carico da novanta puntato contro ogni forma di programmazione (“costruttivismo sociale”) e di intervento pubblico. Concezioni confuse che alimentarono pratiche comunicative mirate e vincenti, rifornendo le armerie degli spin-doctors al servizio di personaggi terribilmente e pericolosamente mediocri, come – appunto – Ronald Reagan e Margaret Thatcher. 5

T. Judt, Guasto, op. cit., p. 70.

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Il rapido successo di costoro nell’occupazione dell’area mediana del consenso elettorale, sbandierando l’apologetica della deregolamentazione, creò frotte di cloni in tutto l’Occidente; contagiò persino il fronte opposto: la Sinistra, che si omologava postmodernizzandosi, piegandosi allo spirito dei tempi e facendosi “liberista”. Qualche nome degli insipienti quisling sul lato mancino, tra i tanti che Judt bolla come pronti a «santificare banchieri e nuovi ricchi» (per mostrarsi up-to-date e magari farsi cooptare nella rampante “sfera del lusso”): Tony Blair e Gordon Brown, Bill Clinton, Gerhard Schröder e – per fare buon peso – pure Massimo d’Alema con i suoi Lothar. Sublime esempio di parvenu ossessionati dal desiderio di cancellare la propria colpa di presunti “figli di un dio minore”. Guarda caso, quella “divinità di seconda scelta” era nientemeno che l’epopea dello Stato sociale e dei Gloriosi Trenta: il periodo tra la seconda metà degli anni Quaranta e i primi Settanta che lo storico inglese di scuola marxista Eric Hobsbawm definisce “l’Età dell’Oro” 6. Come si diceva, il terreno di scontro fu la conquista dell’area mediana della società, estesa a dismisura dalle politiche redistributive di allargamento della cittadinanza sociale. E il successo della Destra – di certo – non dipese soltanto dalle polemiche retrò di qualche Hayek. Ben altri strateghi, agendo dietro le quinte, mettevano a punto nel quartier generale del Potere le mosse per vincere la guerra in corso. Nel loro caso, riflettendo attentamente su quella concretezza materiale (dimenticata da una Sinistra in crisi di identità) degli interessi che si intendevano aggregare al proprio carro. Qualcosa come una sorta di “sintesi keynesiana alla rovescia”, che produce coalizioni al servizio di una politica. Nel caso, politica anti-keynesiana e pro “Stato minimo”. Con un punto nodale: in quale modo disamorare il ceto medio nei confronti di quei servizi sociali welfariani (sanità, assistenza pensionistica, diritto allo studio per i figli, mecenatismo di Stato per arte e cultura…) che nel corso di ben tre decenni gli avevano migliorato le condizioni di vita, tanto da favorirne l’inclusione nell’area del benessere? Presto detto: virando la retorica populistica anti-tasse a idrovora per anemizzare finanziariamente i servizi pubblici, fino al completo abbassamento qualitativo delle loro prestazioni. Annota l’economista liberal Paul Krugman: «immaginiamo un settore pubblico 6

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E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995.


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più piccolo e con un sistema fiscale meno progressivo, nel quale l’elettore medio paga in imposte molto più di quanto riceve in benefici: in questo caso, la maggioranza degli elettori vedrà il settore pubblico più come un onere che come un sostegno e voterà per ridurlo ulteriormente» 7. Ecco il punto archimedico: la frantumazione di quelle che Habermas definisce icasticamente le stecche nel corsetto della cittadinanza democratica. Messa in pratica con grande determinazione, ha innestato la spirale negativa che riuscì a tranciare alla radice l’antico patto sociale su cui si fondava la lunga stagione del Capitalismo amministrato (“embedded”), l’egemonia della Sinistra nel dopoguerra. Quel Big Government che, nonostante tutti i difetti di burocraticismo e paternalismo addebitabili, seppe coniugare con successo il binomio tasse e libertà. Proprio così: libertà. Visto che, in una società con troppo poche tasse e punto ridistribuzioni, gli unici cittadini effettivamente liberi resterebbero coloro che dispongono di risorse personali tali da garantirgli la possibilità di affrontare i costi necessari per vivere davvero liberamente. Questa era la semplice verità su cui la Sinistra aveva saldato i propri destini con la maggioranza della popolazione: il successo della democrazia nel dopoguerra poggiava sull’equilibrio tra produzione e ridistribuzione regolamentato dallo Stato. L’equilibrio era stato rotto, e da allora la crescita si sarebbe contrapposta alle politiche dei trasferimenti per ridurre le disuguaglianze. Suvvia, la questione economica è politica Controllare i corpi attraverso le menti. Questo l’immarcescibile Piano del Dominio, declinato in comunicazione manipolatoria: dai libellisti teorici del Libero Mercato al servizio (inconsapevole o meno che fosse) dei mercanti di schiavi sei/settecenteschi, che volevano liberare il lucroso business dai vincoli delle patenti regie, ai (del tutto consapevoli) Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America che – come ci ha spiegato Howard Zinn 8 – «crearono il sistema di controllo nazionale più efficace dei tem7 8

P. Krugman, Meno tasse per tutti, Garzanti, Milano 2001, p. 32.   H. Zinn, Storia del popolo americano, Il saggiatore, Milano 2005, p. 46

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pi moderni» attraverso il sostegno popolare al governo di un gruppo dirigente privilegiato, ottenuto producendo e diffondendo verità di comodo. Per giungere fino agli odierni propagandisti promopubblicitari al soldo dei tycoon multimediali, tipo i Rupert Murdoch e i Silvio Berlusconi. In quest’epoca che ha portato a perfezione le metodologie del consenso indotto subliminalmente grazie alla saldatura tra i grandi gruppi finanziari e le centrali dell’informazione mediatizzata, che controllano le nuove piattaforme tecnologiche diffondendo a livello planetario il Verbo privatistico-possessivo (“avido è bello”). Di conseguenza le strategie anestetiche dello spirito critico, imperanti in quest’ultimo trentennio, hanno assicurato illusionistici statuti di evidenza alla pretesa autonomia dell’agire economico; da cui discende l’attribuzione di “naturalità” – dunque, l’indiscutibile “oggettività” – agli assunti prescrittivi della Triste Scienza. Operazione lucidamente perseguita, volta a trasformare un genere letterario (appunto, i ragionamenti relativi alla creazione/distribuzione di ricchezza. Vulgo, il discorso economico) in una branca delle scienze fisico-matematiche e – così – riconvertire i suoi modelli impressionistici, finalizzati alla semplice comprensione dei fenomeni sociali, in leggi esplicative basate sul principio causa/effetto. Chi scrive queste note non ha intenzione alcuna di riprendere l’argomento trito e ritrito che neppure Adamo Smith credeva completamente nella sua “Mano Invisibile” o riciclare, a settant’anni data, la smentita definitiva – ad opera di Karl Polanji – dei fideismi superstiziosi sulle capacità autoregolative del Mercato 9. A seguito delle catastrofi (stingenti sul malaffare) di fine 2008 – che negli Stati Uniti hanno persino determinato il trasloco in galera di alcuni “eroi” della finanza deregolata – l’economicismo ideologico e le relative declinazioni “volgari” sono stati smascherati al punto che la loro riproposizione merita ormai di essere discussa soltanto in termini di buona o cattiva fede, del rimbambimento che affligge quanti continuano a salmodiarne il rituale catechismo. Piuttosto, in questa sede si vorrebbe riflettere sul come evadere dalla situazione di profonda crisi in cui ci ha cacciato il fondamentalismo mercatistico. Esponendo una tesi molto semplice: occorre ripristinare il ruo9

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K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.


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lo centrale della Politica nelle faccende umane. Quella Politica messa in un angolo dall’Economico, nella stagione in cui le strategie proprietarie trionfanti si sono ammantate di logiche comunicative funzionali al loro dominio: l’Età della globalizzazione finanziarizzata e neocon (reaganianothatcheriana di certo; ma anche – va detto – clintoniana). Ovviamente ci si riferisce a una Politica aggettivata come “democratica”, nella consapevolezza che la democrazia si fonda sull’aggregazione dei molti al fine di contenere il comando dei pochi; immensamente potenti grazie alla capacità di controllare proprietariamente le risorse materiali, con i conseguenti effetti in termini di influenza: l’egemonia dello status plutocratico, che pratica il mimetismo anche grazie ai discorsi sulla “naturalità” di quelli che – in effetti – sono solamente i suoi specifici interessi. Niente di stupefacente, del resto. Da sempre la comunicazione pubblica ha come primaria finalità la tracciatura di contesti e scenari favorevoli alla propria parte. Karl Marx arruolava nel proletariato perfino i fornai parigini scesi in piazza nel luglio 1848. Il sindacalismo sviluppista ottocentesco fu pronto a concordare con le controparti industriali la demonizzazione dell’antico Luddismo (quando – in effetti – era solo il disperato tentativo delle corporazioni artigiane di contrastare la dequalificazione del lavoro perseguita attraverso l’accelerato passaggio al macchinismo). Soltanto che le Verità dell’Economico erano contrappesate dal controllo della Politica, che – comunque – poteva mantenere la propria primazia stabilendo le priorità generali e costruendo cornici entro le quali i singoli attori giocano la partita capitalistica finalizzata alla riproduzione della ricchezza. Di converso, il big business è sempre nato nelle stanze in cui il possessore del capitale incontra il possessore del potere politico (che – a sua volta – in democrazia deve in qualche misura tenere conto dell’interesse collettivo ed è chiamato a rendicontare i cittadini elettori). A questo punto lo dico: l’intero trionfo dell’Occidente capitalistico può essere letto in filigrana come la relazione di insocievole socievolezza tra Economico e Politico. Da quando il portoghese Vasco de Gama e poi i navigatori olandesi spalancavano i mercati dell’Oceano Indiano agli interessi commerciali europei grazie alle politiche di protezione promosse dai rispettivi Stati tradotte nelle grandi innovazioni militari del tempo: in particolare, quel vascello armato che ribaltò i rapporti di forza nel sistema-mondo. Del resto – restando in ambito marittimo – anche gli odierni rapporti di forza nella portualità europea atlantica, che vedono tuttora la lea27


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dership di Rotterdam, si spiegano più riferendosi a storiche ragioni geopolitiche che non industrial-organizzative (l’embargo anglo-americano degli scali tedeschi di Brema e Amburgo al tempo del Nazismo che divenne un’opportunità decisiva per il concorrente “orange” nel Northern Range). Lo stesso dicasi per i mega business nell’avionica come nel militare, strettamente dipendenti da quello che il presidente repubblicano conservatore Dwight Eisenhower chiamava “il complesso militar-industriale”. Il caso più emblematico di questo connubio in materia trasportistica può essere ritrovato nella storia dell’imperialismo ottocentesco, che marciava di conserva con la scelta della Finanza internazionale di puntare sulle Grandi Opere al servizio dei crescenti flussi capitalistici. A tale riguardo lo storico David Landes – nel suo studio “Banchieri e pascià” – ci ha raccontato il ruolo della banca d’affari parigina dei Fratelli Pereire nella costruzione del canale di Suez e – di conseguenza – nell’orientamento a investire nella mobilità da parte della politica francese 10. Del resto, scelta di indirizzo che giunge fino ai nostri giorni. È forse casuale che le reti infrastrutturali ferroviarie dell’Unione europea formino una raggiera che si irradia proprio da Parigi? Visto che all’Eliseo – già a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso – si tracciavano le linee programmatorie (qualcuno le definisce “bonapartiste”) di specializzazione nel settore trasportistico; via, via tradotte in realizzazioni innovative di prodotto che affermarono la leadership d’oltralpe nel comparto: il prototipo di metropolitana automatizzata di Lille, l’aereo Caravelle, il treno ad alta velocità (TGV)… Allargando lo spettro di analisi si può notare come il massimo successo imprenditoriale privato di fine XX secolo – Internet – discenda direttamente dagli investimenti statali USA che diedero vita alla rete pubblica di Arpanet. Il sonno della ragione democratica Scelte economiche o politiche? Inutile attardarsi a dipanare la matassa. Piuttosto, vale la pena sottolineare quanto tale interazione sia venuta modificandosi negli ultimi decenni: la subalternità del Politico ri10

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C. S. Landes, Banchieri e pascià, Bollati Boringhieri, Torino 1990.


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spetto all’Economico; da cui discendono tutti gli sconquassi operati dagli animal spirits del Turbocapitalismo nei mondi della vita dell’intero orbe terracqueo. In altre parole, il sonno della ragione democratica ha prodotto i mostri che ci atterriscono nella vigente stagione, di cui ci libereremo soltanto recuperando il ruolo di governo orientato al futuro nelle faccende umane. Non è questione di sostituire ricette con ricette, affidarsi alle pietre filosofali dei presunti sapienti, degli autocertificati esperti. Lo si vede benissimo già in quello che appare il massimo punto di sofferenza della nostra civiltà: la questione energetica. Che viene affrontata esclusivamente in sede tecnica, come ricerca di soluzioni alternative agli idrocarburi, evitando di mettere in discussione un modello di strutturazione sociale fondato sul presupposto della disponibilità di fonti abbondanti e a basso costo (con relativi consumi dissipatori, dunque scriteriati). Nel sogno puerile di ripristinare le condizioni di un passato che non ritornerà mai più, quando il petrolio costava all’incirca un dollaro al barile. Mentre, riportata la questione nella corretta dimensione politica, l’agenda diventa quella di riprogettare tanto il paradigma economico imperante come l’organizzazione della vita spostando i consumi da individuali a collettivi, promuovendo e ingegnerizzando un’ipotesi alternativa di società. Lo stesso dicasi per la fuoriuscita dalla crisi dell’ordine liberista. Anche in questo caso ci si continua a perdere nel dibattito sulle percentuali di statalismo o di mercatismo che coinciderebbero con “l’ottimo economico”. Quando – invece – la vera discussione concerne la prevalenza o meno dell’interesse privato su quello collettivo. Dunque, le nuove modalità della regolazione democratica. In realtà – prendendo ad esempio proprio quanto avviene dalle nostre parti – siamo ancora al palo, visto come problematiche serissime vengano svilite al confronto tra banalità: il similcolbertismo tremontiano e le favolette consolatorie sulla deregulation care ai liberisti di sinistra; quelli all’orecchio del Partito Democratico bersaniano. Tralasciando per carità di patria le scempiaggini etiliche sui comunitarismi blindati, con cui la Lega finge di assecondare i propri supporters valligiani. Sicché – anche in questo caso – risulta pericolosamente rinunciatario delegare l’esame del problema e le scelte conseguenti alla sfera tecnica, visto che ancora una volta si tratta di decidere sulla pelle delle donne e degli uomini concreti. Decidere se l’attuale assetto capitalistico sia riparabi29


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le con adeguati accorgimenti oppure si imponga uno sforzo di invenzione “epocale”, che va ben oltre le tradizionali coordinate di Stato e/o Mercato; nell’ormai evidente esaurimento dell’American way of life novecentesca. La risposta politica alle inquietanti alternative che lo storico dell’economia Giovanni Arrighi poneva nel suo testamento intellettuale (il saggio Adam Smith a Pechino): impero, commonwealth delle civiltà o caos. «Prima che l’umanità soffochi (o si delizi) nella prigione (o nel paradiso) di un impero globale di marca occidentale o di una società di mercato globale gravitante attorno all’Oriente asiatico, potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie) della crescente violenza che ha accompagnato il disfacimento dell’ordine della Guerra Fredda» 11. Alternative che non possono essere abbandonate alla casualità o rimesse alle valutazioni delle corporazioni professionali (non di rado sensibili ai voleri dei potenti con relative commesse/prebende…). E George Bernard Shaw motteggiava che «ogni professione è una cospirazione contro il profano». Quei profani (ovviamente informati e capaci di giudizio rawlsiano su quanto è giusto; ossia l’atteggiamento ipotizzato dal filosofo John Rawls in cui, nell’esprimere la propria valutazione, si deve prescindere dalle posizioni reali personalmente ricoperte) cui la scommessa della politica democratica attribuirebbe il diritto di manifestare liberamente la propria voce. Per dirla tutta: prima ancora del Capitalismo in crisi, qui c’è da riparare la Democrazia; traendola dallo stato di animazione sospesa in cui langue ormai da troppo tempo. Passando da crisi a crisi, lo stesso problema che agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso si trovava ad affrontare Franklin Delano Roosevelt. Con la differenza che allora il grande leader della politica democratica aveva idee chiarissime al riguardo. Come dichiarò già nel suo discorso di insediamento alla presidenza degli Stati Uniti nel 1933: «l’abbondanza è alle nostre porte, ma l’uso indiscriminato che ne è stato fatto indebolisce la possibilità stessa di rendersi conto dei beni. Questo è dovuto innanzitutto al fatto che i padroni dello scambio dei beni dell’umanità hanno fallito per la loro ottusità e la loro incompetenza… Le attività dei pubblicani privi di scrupoli sono sott’accusa nel tribunale dell’opinione pubblica, respinte dai cuori e dalle menti degli uomini». 11

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G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007, p. 19.


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Possiamo plausibilmente affermare che i nipotini del grande innovatore politico, che ha legato il proprio nome all’epopea di innovazione politica del New Deal, evidenzino identica lungimiranza, altrettanta sfrontatezza intellettuale? C’è da dubitarne, visto che esplosa la bolla finanziaria e risuonate le dichiarazioni di prammatica, l’unica risposta è stata il salvataggio del sistema bancario a spese dei contribuenti: i trentennali condizionamenti sono troppo forti per attendere nuovi corsi dal personale politico in campo. La finanza segnale dell’autunno Il pensiero critico dell’economia durante la fase industrialista ormai agli sgoccioli – comunque influenzato dalla lezione marxiana – si concentrava sui “rapporti di produzione”. Ma se si perseguono sistematizzazioni che abbraccino un arco temporale più vasto, comprendendo il Capitalismo nella sua interezza, allora si dovrà ragionare di “rapporti di dominio” in ambito economico, di cui quelli di produzione sono soltanto una traduzione, tra le molteplici avvenute o possibili. Questo è quanto si ricava dall’analisi degli ambiti dove oggi avviene in prevalenza la riproduzione della ricchezza. Nel crescere di fenomeni che David Harvey definisce “accumulazione a mezzo esproprio” 12, indotti dalla finanziarizzazione dell’economia connessa alla cosiddetta “svolta neoliberista”. Ossia – con le parole di Ronald Dore – «il ruolo crescente dei movimenti finanziari, dei mercati finanziari, degli attori finanziari e delle istituzioni finanziarie nel funzionamento delle economie nazionali e internazionali» 13. Se attorno al 1946 la proporzione dei profitti delle imprese finanziarie su quelli totali oscillava attorno al 9,5 per cento, nel 2002 aveva già raggiunto quota 45 per cento. Pura “economia-casinò”, come l’aveva profeticamente annunciata John Maynard Keynes in tempi non sospetti (e comunque inconsapevole dell’avvento futuro del reaganismo-thatcherismo, propagandista ideologico de “l’avido è bello”). Questi alcuni degli effetti conseguenti alla finanziarizzazione del Capitalismo: 12 13

D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011, p. 245.   R. Dore, Finanza pigliatutto, Il Mulino, Bologna 2009, p. 17.

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A. La deindustrializzazione dell’area centrale del sistema-Mondo, orientando il sistema d’impresa al labour saving, con spostamento delle produzioni materiali verso aree che favoriscano il capital saving; B. L’orientamento degli investimenti (le masse monetarie accumulate grazie al decentramento produtttivo transnazionale) verso operazioni “mordi e fuggi”; C. La crescente compressione dell’area mediana della società con imponenti flussi di trasferimento della ricchezza verso i livelli più elevati (oggi gestiti dagli intermediari strategici: a Wall Street erano soprannominati Masters of Universe); D. Il drogaggio dei consumi attraverso l’indebitamento delle famiglie e conseguente creazione di “bolle”, alcune delle quali sono esplose nel 2008 (come la bolla immobiliare, quanto ancora oggi non è avvenuto per quella ancora più estesa delle carte di credito); E. La protezione dell’ordine capitalistico ricorrendo alle ricette tradizionali del “territorialismo” militarizzato (la fase bellicista dell’Occidente dopo l’11 settembre 2001): la declinante egemonia americana che si puntella scambiando la protezione assicurata dall’imponenza dei propri arsenali di armi con l’assorbimento di capitali dal resto del mondo. Fernand Braudel indicava la finanziarizzazione quale “segnale dell’autunno” per un ciclo di accumulazione 14. In cui l’economia materiale si sgancia dalla riproduzione della ricchezza, che tende a virtualizzarsi. In cui il Capitalismo, liberatosi dall’involucro manifatturiero e dopo aver denunciato ogni convergenza pattizia di interessi tra “produttori” (ossia il “compromesso keynesiano-fordista” tra borghesia industriale e lavoro organizzato dei primi trent’anni del secondo dopoguerra), persegue direttamente la propria attitudine alla rendita posizionale, resa possibile dai rapporti collusivi con i decisori pubblici. Un patto “tra i presidiatori avidi”: chi dei varchi, chi delle relative normazioni. Di questa intima natura – come già detto – se ne potevano cogliere le tracce già nella fase aurorale dell’ordine capitalistico, nel XVII secolo. Quando – come ci ha illustrato Arrighi – il grande affare dell’epoca era rappresentato dalla tratta degli schiavi. Un business largamente regolato in senso oligopolistico dal sistema delle “patenti regie” (contro cui 14

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F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, Einaudi, Torino 1982, pp. 434-435.


La questione della finanziarizzazione del mondo

si scatenarono polemiche feroci e i libelli dei banditori che, promuovendo il venerando principio del “libero mercato”, in effetti lavoravano più o meno consciamente per il re di Prussia incarnato dai gruppi finanziari che perseguivano l’accesso alla possibilità di allestire anch’essi flotte di navi negriere) 15. Il vero DNA (accordi collusivi di presidio dei passaggi) che ricompare in tutta la sua evidenza nelle odierne opportunità di fare soldoni. Tra queste il governo dei flussi, finanziari o informativi che siano, le grandi operazioni di privatizzazione, e la svendita concertata (tra politici e affaristi) dei gioielli del patrimonio pubblico tradizionale: dalla sicurezza appaltata ai contractors (il cui ammontare nei soli Stati Uniti si aggira attorno a svariate decine di milioni di dollari) alla gestione di beni collettivi primari come l’acqua; alla militarizzazione occidentale, in cui si ricorre sempre più di frequente a corpi speciali di private soldiers (ennesimo effetto delle logiche aziendalistiche di flessibilizzazione mercantile). D’altro canto l’attività bellica è probabilmente il più lucroso affare oggi a disposizione. Non a caso un protagonista del business in questione – il Dick Cheney già CEO di Halliburton, tra i principali partner privati dell’esercito USA nell’avventura irachena – è arrivato a sedere al fianco del presidente guerrafondaio doppia W Bush quale suo vice. Dunque una privatizzazione collusiva del pubblico, che crea profitti addossando le perdite sulla comunità. Lo si è visto nel recente salvataggio delle banche dopo il crac 2008; ma anche – seppure in maniera certamente non drammatica – nella cessione gratuita dell’investimento pubblico in ricerca a singoli operatori: il caso di Arpanet, la rete informatica da cui è nata Internet, le cui potenzialità commerciali sono state sfruttate con effetti accumulativi stratosferici da compagnie private tendenzialmente monopolistiche, come la Microsoft di Bill Gates (un cognome che è tutto un programma!). E l’immortale auri sacra fames virgiliana evidenzia la sua trasformazione in Capitalismo trovando il proprio appagamento nella relazione moltiplicativa dell’aurum tra i presidiatori di cui si diceva. Finché dura. Finché il raggiungimento di limiti sistemici non sterilizzerà la potenza riproduttiva dell’avidità. Una questione assai più di potere – ergo, politica – che non direttamente economica. 15

G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 322.

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LIBERTÀ COME CRITICA E CONFLITTO

Pierfranco Pellizzetti (Genova, 1947). Saggista di «MicroMega», «Critica Liberale» e «Queste Istituzioni». Sino al 2011 ha insegnato Sociologia dei Fenomeni Politici e Politiche Globali nella facoltà di Scienze della formazione di Genova - Corso Specialistico in Scienza della comunicazione. A lungo opinionista del quotidiano «il Secolo XIX», dal 2009 lo è del «Fatto Quotidiano». Tra le sue opere: La Politica dopo la Politica (Pendragon 2001), Italia disorganizzata (Dedalo 2006), La Quarta Via (Dedalo 2008), Fenomenologia di Silvio Berlusconi (Manifestolibri 2009), Liberista sarà lei! (Codice 2010), Fenomenologia di Antonio Di Pietro (Manifestolibri 2010), La Libertà raccontata a ragazze e ragazzi (con la figlia Ludovica, Manifestolibri 2011), C’eravamo tanto illusi (Aliberti 2012). Ha curato Le parole del tempo vocabolario della Seconda Modernità (Manifestolibri 2010).

Pierfranco Pellizzetti

«La transizione dall’anarchia economica ad un regime che tenda coscientemente al controllo e alla direzione delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità sociale, presenterà difficoltà enormi, sia tecniche che politiche. Avanzo, tuttavia, l’ipotesi che il vero destino del “nuovo liberalismo” consista nel ricercarne la soluzione». (John Maynard Keynes) Sulla scia del grande intellettuale inglese, un’antologia di autori e prese di posizione come repertorio su cui fondare il “nuovo liberalismo” del XXI secolo. Provocatoria e anche un po’ beffarda.

LIBERTÀ COME CRITICA E CONFLITTO Un’Altra idea di Liberalismo

Pierfranco Pellizzetti con una postfazione di Mauro Barberis

isbn 978-88-7000-582-0

€ ,0

15

9 788870 005820

0 i.c

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Mucchi Editore

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