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Spedizione in abboname
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La scuola professionale per vigilatrici d’infanzia di Trento di Patrizia Marchesoni
La preparazione del corredino
Nell’ambito delle numerose attività dell’O.N.A.I.R. (Opera nazionale di assistenza all’Italia redenta) all’inizio del 1934 fu aperta a Trento la Scuola professionale per vigilatrici d’infanzia (denominata, dal 1942, Scuola professionale di puericultura) che svolse la sua attività fino al 1977. La sede della Scuola fu inizialmente in via S. Margherita presso l’Istituto provinciale di assistenza all’infanzia, poi, dopo il bombardamento del 2 settembre 1943, fu ospitata in alcuni edifici che l’Ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana gestiva nella vicina Frazione di Vigalzano. In seguito la sede della Scuola ritornò in città prima in piazza Fiera e poi in via Orsi. La Scuola aveva il compito di preparare giovani donne trentine alla professione di vigilatrice dell’infanzia, da svolgere sia nelle famiglie, sia negli istituti di assistenza all’infanzia dopo un addestramento che forniva una specializzazione nella cura del bambino dai primi mesi di
vita fino al sesto anno di età. Alla scuola erano ammesse annualmente non più di 30 ragazze di età compresa tra i 18 e i 35 anni in possesso di licenza elementare di grado superiore; i corsi duravano un anno e prevedevano sei mesi di lezioni teoriche (anatomia, fisiologia, patologia, igiene, psicologia infantile, ginnastica, canto) e sei mesi di tirocinio presso l’Istituto provinciale di assistenza per l’infanzia e presso le strutture ospedaliere della città, oltre a corsi di economia domestica e lavori femminili. Al termine del percorso scolastico era la stessa O.N.A.I.R. che procurava alla diplomata il lavoro e ne seguiva l’assunzione garantendo e tutelando la professionalità attraverso il “Decalogo della vigilatrice” e dettando le modalità e le condizioni contrattuali: i documenti necessari per l’assunzione, il periodo di prova, lo stipendio e le previdenze, le licenze e il riposo settimanale, l’obbligo di portare la
divisa, il certificato di servizio, il licenziamento e i rimborsi per i viaggi. Il tipo di insegnamento e l’ambiente in cui le ragazze ricevevano la formazione era improntato alla signorilità e all’eleganza, cosa che le avrebbe preparate ad affrontare il lavoro che, inevitabilmente, era richiesto dalle famiglie abbienti. Molte di loro furono assunte come vigilatrici da famiglie nobili o di industriali e seguendo la famiglia ebbero modo di viaggiare sia in Italia che all’estero. La Scuola le preparava ad essere pronte a queste nuove esperienze e consapevoli del ruolo che la vigilatrice era tenuta a svolgere nella famiglia che la chiamava a curare i propri figli. Dal “Decalogo della vigilatrice d’infanzia”: (art. 5) La Vigilatrice è, nella famiglia dove è chiamata a prestare l’opera sua, un elemento di notevole importanza, perché le viene affidato il bambino, che è la parte più cara della famiglia; perciò essa deve comprendere l’importanza della sua missione e sapersi contenere in conformità. Essa diventa una collaboratrice dei genitori e perciò deve chiedere che le sia dato un posto giusto, che i bambini e il personale di servizio le abbiano rispetto, che è necessario il suo prestigio, il quale deve essere dalla Vigilatrice mantenuto nel modo più rigoroso. La Vigilatrice non mangerà né dormirà col personale di servizio e saprà con lo stesso mantenere rapporti corretti… L’Archivio O.N.A.I.R. (Opera nazionale di assistenza all’Italia redenta) diventato poi nel 1960
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O.N.A.I.R.C. (Opera nazionale di assistenza all’infanzia delle regioni di confine) è conservato presso l’Archivio della Provincia autonoma di Trento. Nel 1997 è stato predisposto l’inventario a cura di Fabio Margoni cha ha anche pubblicato il saggio “Per l’assistenza fisica e spirituale delle Terre redente: l’attività dell’Onair-Onairc e il suo fondo archivistico presso l’Archivio provinciale di Trento in “A scuola! A scuola! Popolazione e istruzione dell’obbligo in una regione dell’area alpina secc. XVIII-XX”, ed. Museo storico in Trento, 2001, pp. 245-260. Le informazioni sull’OnairOnairc qui riportate, sono state ricavate dalla scheda dell’Ente redatta dal dott. Livio Cristofolini, direttore dell’Archivio provinciale, che si ringrazia per la collaborazione.
Ritorno da un giro nel parco
Divisa estiva per vigilatrice di infanzia
Il mantello deve arrivare a cm 23 da terra. L’orlo deve essere alto cm 5. Il doppio petto, con finte larghe cm 10, deve essere sormontato cm 7. L’allacciatura dal collo al basso, va fatta con occhielli rifiniti in stoffa e con bottoni messi alla distanza di cm 10. La mantellina deve arrivare a cm 2 dal punto di vita: il nodo ricamato a punto pirello sulla parte sinistra della mantellina. Le tasche sono tagliate. La schiena ha una falda cucita fino a cm 40 dall’orlo.
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Giovanna Simoncelli: “Ci sentivamo qualcuno”
Ginnastica di bimbi e allieve
Alla fine del 1951 avevo letto per caso su “Alba” notizie sulla scuola per puericultrici di Trento. In quel tempo stavo preparandomi, da privatista, all’esame di terza media e ho fatto la domanda d’iscrizione. Prendevano, ogni anno, 30 ragazze: non era obbligatorio aver fatto le scuole medie, ma erano preferite quelle che avevano il diploma. Era una scuola-convitto: si stava lì a dormire, a mangiare... era un istituto, si stava dentro, si lavorava e si aveva 6 ore settimanali di libertà, una mezza giornata. La direttrice era Pia Marchetti, una signorina molto energica. Ci dava anche lezioni di anatomia. Lì arrivavano bambini che erano quasi tutti figli di ragazze madri. Le madri venivano ad allattarli, ma spesso li lasciavano lì e non si facevano più
vedere. Ogni due settimane avevamo un cambiamento di turni: dovevamo alternarci notte e giorno con i bambini che andavano dai prematuri ai divezzi, questi erano tanti, più di 120. Stavano in grandi sale, sette-otto per box. (Le allieve tenevano un diario che veniva sottoposto alla lettura della direttrice, dove riportavano, con un proprio commento, ogni loro nuova esperienza o la verifica di un apprendimento. Scrive Giovanna Simoncelli, l’11 gennaio 1953: “Quanti dentini nuovi; sembravano altrettanti chicchi di riso che contrastavano col colore rosso della bocca. Qualcuno più piccino invece, aveva le gengive ingrossate e trasparenti, segno che i dentini sarebbero usciti prestissimo. La nostra direttrice in una delle sue lezioni, ci aveva spiegato
l’ordine con cui vengono i denti, ed ho potuto constatare che anche nei nostri bambini, sono venuti così” n.d.r.). Insomma era una specie di asilo nido dove i bambini stavano in attesa di essere messi in un orfanotrofio. Dunque ho frequentato questa scuola, che si trovava in via Gocciadoro, dall’ottobre del 1952 all’ottobre del 1953: un anno, la scuola durava solo un anno, ma non avevamo un minuto libero. Ci alzavamo prestissimo, alle 6 andavamo a messa nella cappella interna (era obbligatorio); alle 6 e 3/4 eravamo già in reparto. Il pranzo si consumava in una grandissima sala e a turno si andava a servire alla tavola della direttrice (con lei sedevano anche le diplomate che erano le nostre dirette sorveglianti). La scuola era divisa tra una
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parte pratica ed una teorica, c’erano lezioni di anatomia, di igiene, di alimentazione infantile, di pedagogia (seguivamo i metodi dell’Agazzi) di galateo... Dopo sei mesi c’era un esame pratico e teorico (la pagella semestrale riporta i voti ricevuti per la condotta, l’ordine, la diligenza, il profitto nello studio, l’assistenza al bambino lattante, l’assistenza al bambino divezzo, l’educazione infantile, l’economia domestica, il lavoro, il canto, la ginnastica n.d.r.). Dopo sei mesi ti davano lo “speciale”, cioè tu avevi un bambino per conto tuo: dovevi decidere tutto, dalla visita medica al cambio di dieta (lì i bambini spesso avevano bisogno di cure particolari per cui al “lattario” c’erano diete molto diverse). Prima della fine della scuola ci
Pesatura del neonato
portavano al reparto maternità dell’ospedale Santa Chiara e lì dovevamo assistere ai parti, accogliere e, dopo il taglio del cordone ombelicale, medicare e fasciare il bambino. L’anno terminava con un esame finale. Quando ho finito la scuola, nell’autunno del 1953, avrei voluto andare a Roma (volevo vedere il Papa) e invece la direttrice Marchetti mi ha detto: “No, tu non vai a Roma, vai dove ti dico io. Vai a Venezia che lì c’è una buona famiglia di antico stampo”. Era la scuola che ti procurava il posto di lavoro, contrattava lo stipendio ed era sempre la scuola che teneva i contatti con la famiglia durante il servizio. La scuola di Trento era come una famiglia, era come avere una famiglia alle spalle: sapevi che potevi essere ripresa ma
anche protetta. Entrando in servizio presso una famiglia (erano solo le famiglie aristocratiche e facoltose quelle che potevano permettersi una puericultrice) avevi la possibilità di provare per un mese prima di decidere. La famiglia poteva anche richiedere la divisa della scuola: noi eravamo come le suore, avevamo un velo blu con un davantino rigido e un cappotto bello, marrone. La scuola addestrava ad avere un comportamento formale secondo le regole del galateo, moralità, discrezione. “Voi dovete distinguervi dal personale di servizio!” Ci dicevano. E per davvero, diventare puericultrici in quel tempo significava una promozione sociale: ci sentivamo qualcuno! (testimonianza raccolta da Quinto Antonelli).
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Maria Gagliardi Liliana Linardi: “Era faticoso lavorare alla macchina”
Operaie dello stabilimento Michelin di Trento in una foto del 1960
Si sono conosciute in fabbrica diventando amiche. Maria Gagliardi e Liliana Linardi entrarono alla Michelin di Trento a 18 anni, nel 1951. Ne sono uscite, per andare in pensione, 31 anni dopo, nel 1982. La storia del più importante stabilimento industriale del Trentino, chiuso nel 1997 e di cui non rimane più traccia se non nei ricordi di chi c’era, è un po’ anche la loro. Sfogliano attente il numero di “AlteStorie” che parla della Michelin. La fabbrica di via Sanseverino nella quale, all’inizio, venivano realizzati i filati di cotone per i pneumatici e, in
seguito, i cavetti d’acciaio, era una struttura paternalistica che dava servizi sociali e ricreativi ma voleva mano libera in termini di condizioni di lavoro e retribuzione. La signora Maria ricorda bene quando, nel settembre del ’51, mise per la prima volta un piede al di là del cancello, per le visite mediche. “Mi dissero che ero troppo piccola e che non c’era niente da fare. Mi rivolsi al dirigente e gli chiesi: “Secondo lei possono mangiare solo le persone alte?”. Il giorno dopo ero già alla macchina, operaia, assunta al
reparto G21, prima copiatura del filo. Lì sono rimasta fino alla pensione”. Maria è nata a Napoli ma ha sempre vissuto a Trento, la mamma era di Villazzano e nel 1942 la famiglia, con i sei figli, “sfollò” in città. “C’era miseria nel dopoguerra e lavorare alla Michelin voleva dire il posto e uno stipendio sicuri. Toccavo il cielo con un dito al momento dell’assunzione”. L’amica Liliana, orfana di guerra, è invece di Cimone e restava a dormire anche per due settimane di fila nel dormitorio dello stabilimento.
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“Il 2 aprile 1951 fu il mio primo giorno di lavoro. Riuscii ad entrare come operaia grazie al cavalier Ebranati, presidente dell’Associazione orfani di guerra”, dice. “Pensi che, in un primo momento, non mi presero perché erano venuti a sapere che lavoravo già nello studio dell’avvocato Vinante. Ma io avevo bisogno di un posto fisso e il cavalier Ebranati parlò direttamente con il ragionier Dalla Fior della Michelin e, insomma, fui assunta”. G21, G22, G23 erano i nomi dei reparti nei quali Liliana ha lavorato per più di trent’anni. Da 26 anni anche la figlia Franca è in fabbrica, ora nello stabilimento di Spini di Gardolo. Sono donne forti. Dimostrano riconoscenza nei confronti di chi ha dato loro lavoro ma non dimenticano affatto, anzi, rivendicano, le lotte, dure e sacrosante, per i diritti di tutti che dalla fine degli anni Sessanta ai primi Settanta hanno fatto di quella fabbrica un terreno innovativo di scontro per la conquista di condizioni di
Lo stabilimento Michelin alla vigilia della chiusura
lavoro e retributive migliori . “Ho sempre scioperato per i nostri diritti, dice la signora Maria, e con me anche Liliana”. “Eravamo iscritte al sindacato metalmeccanico della Cisl di Beppino Mattei, era un uomo che credeva in quello che faceva”. “Era faticoso lavorare alla macchina, anche se, nel corso del tempo, ti ci affezioni un po’. Faceva un gran caldo, c’era polvere dappertutto e non ci si poteva fermare neanche per andare in bagno o fumarsi una sigaretta. Il controllo, da parte dei capi reparto, era severo. E poi si lavorava a cottimo e il minimo previsto dovevamo garantirlo, se no erano guai”, dicono all’unisono. “Le manifestazioni ce le siamo fatte tutte, abbiamo fermato i camion olandesi che dovevano entrare in fabbrica, siamo andate in Provincia con tutti gli altri, e tante altre cose. Quello che non accettavamo - continuano - erano solo i vandalismi.
Negli anni, risultati positivi ne abbiamo avuti. Nei nostri confronti c’è stata tanta solidarietà anche se nel 1974, dopo 400 ore di sciopero, non è andata molto bene”. Ora, Maria e Liliana non solo continuano a vedersi ma vanno ai ritrovi che regolarmente la Michelin promuove durante le feste per gli ex dipendenti. “Lo sa - dice Maria - quando passo davanti alla Michelin, e vedo che non c’è più nulla, mi viene come un tuffo al cuore. In fondo ho passato lì gli anni migliori della mia vita e non dimentico che quella fabbrica ha dato lavoro e da mangiare a tanta gente. Ma senta, il ‘posto’ della memoria lo fanno?” “Certo che - aggiunge Liliana - potevano almeno lasciare in piedi il teatro, dove ci siamo riuniti tante volte, o un pezzo di capannone, per ricordare. Ma si sa, i soldi…”. Eh sì, il dio Soldo ha sempre distrutto parecchio, da sempre, ma non la memoria, per fortuna (intervista a cura di Paolo Piffer).
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Valeria Furletti Zanolli: “Ma lavori non cè nèra”
Valeria Furletti Zanolli, classe 1915, nativa di Villa Del Monte, raccolse le memorie autobiografiche della propria vita in un diario scritto nel 1987. Edito nel 1998 dalla rivista “Il sommolago” (n. 2), questo testo non rappresenta certamente, come scrive il curatore dell’edizione Quinto Antonelli, né una “scrittura in qualche modo testamentaria, né una ‘confessione’”, bensì un’importante “testimonianza storica, culturale, etnografica, di interesse più generale”. In questa sede si propone un breve passaggio.
Canada. Il venticinquesimo anniversario di matrimonio di Ferdinando Zanolli e Valeria Furletti (foto archivio Furletti)
Mio maritto è ritornato dàl belgio in estatte nel 1950. In princippio si pensava, che anchio con i figli di andare nel Belgio; Mà poi si à cambiatto idea, perche, quelle miniere erano assai pericolose e in salutevoli sollo pòcchi anni pottevano, resistere, molti venivano ammalatti, Còsì e ritornato à casa. Ma lavori non cè nèra, fortuna che sono statte aperte le emigrazioni per il Canada, E con la buòna ocasione che si aveva lò zio, che erra giù da anni in Canada, le à fatto il ricchiamo à mio maritto. abitavano in Cumberland. In settembre 1951
è partitto per il Canada. e pure à lavorare in minierra del carbone che pure il zio e due figli lavoravano la il terzo figlio èra mecanico; A cominci[a]tto con là paga meno di un dòllero all’ora. Poi sappeva adopperare il driler che faceva quel lavoro anche in Belgio cosi prendeva alquni centesimi di più. In quel fratempo ci à fatto il richiamo à noi e siamo arivatto qui in Canada nel 1952 in novembre. Il viaggio è statto non male ma nemeno bène. Però non mi sono alarmata ò messa paura. Sono sempre statta tanto oqupata con
i due figli, 2 bauli 2 valigge e due borse à mano. La figlia aveva 4 anni e poco più compia i 5 in dicembre. Il figlio 3 anni proprio il suo compleanno nella medima ora che la nave à lasciatto il porto di Gènnova. I primi giorni èrano tutti in copertà cantavano suonavano, èrano belle giornatte di sole, Eravamo in 1200 paseggeri in più quelli di servizio. Si andava à mangiare in più turni. in una grandiosa salla dà pranzo, il mangiare èra buòno con botiglie di vino in tavola, I primi giorni la salla èra affolatta. Arivatti in alto mare nemeno un quarto di persone erano à mangiare. Erano ammalate con mal di mare. Si doveva stare atènti nèi coridoi e nelle scalle che ti rimandavano àdosso. lo sono statta fortunata che non ò mài rimandato guardare i figli, pero per alquni giorni ò mangiatto pocco, lodore dei cibbi mi faceva nausea, Molte donne stavano malle e piangevano dicendo se debbo farre un viaggio còsì non ritorno più in Italia. In maggior parte èrra donne chiamate dai maritti, Vi erano anche ragazze chiamate dai fidanzatti a sposarsi quì in Canada avevano il suo tempo asegnato se non si sposavano dovevano ritornare in Italia, Per loro e stata facile avevano il suo tèmpo libero, andavano al cinema àl bàllo, Io non ò avuto locasione nemeno di vedere queste salle.
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Duccia Calderari: “Ero crocerossina all’ospedale Santa Chiara”
Duccia Calderari in una foto degli anni quaranta allegata alla scheda della “Commissione provinciale Patrioti” attiva nell’immediato secondo dopoguerra
Proprio sulla parete d’ingresso, lungo il corridoio, è appeso un suo ritratto a matita del pittore Mario Disertori, lo zio. E’ stato fatto mentre su Trento cadevano le bombe alleate e veniva colpito il ponte di San Lorenzo, era il 1944. Poco prima del salotto, dove, tra l’altro, c’è uno splendido Moggioli e un altro suo ritratto, sempre dello zio, è in bella vista il “certificato al patriota”, firmato dal generale Alexander. Duccia Calderari, 93 anni compiuti da poco e, nonostante qualche acciacco, una memoria lucida, ci riceve nella bella casa di Trento. Quasi si schermisce, “non so quanto potrò esservi utile”, premette. Di famiglia benestante, imparentata con i Disertori da parte di madre, Beppino era suo cugino, Duccia Calderari non era solo crocerossina ma anche staffetta partigiana. Nel dopoguerra, ha donato la casa di via Spalliera, dove vive, al movimento dei Focolari, ai quali ha aderito. “L’8 settembre 1943 fu per me una giornata indimenticabile. Ero crocerossina all’ospedale Santa Chiara e si fece a gara per far scappare i soldati italiani ricoverati, prima che arrivassero i tedeschi”, afferma. “Tutte le mattine, durante la visita nei reparti con i medici, c’erano dei letti vuoti. Sa cosa rispondevamo ai dottori che ci chiedevano, pro forma, dove erano i malati? Che erano probabilmente in giardino. Era la nostra parola d’ordine per far capire che erano scappati, almeno quelli che potevano muoversi. Quando sono arrivati i tedeschi hanno trovato ben pochi soldati nei loro letti”. Nella sua casa ha ospitato molti personaggi della Resistenza? “Sì, certo. Il mio lavoro era quello dell’accoglienza. Tutti si
rifugiavano in casa mia. Quando Manci fu arrestato, arrivarono qui in sei. C’era trambusto e confusione. In questa casa si sentivano al sicuro”. Com’è che si è avvicinata ai personaggi della resistenza trentina? “E’ partito tutto dall’ospedale. Lì c’era un nucleo di persone, Pasi, Visentini, ed altri. Io non potevo sopportare l’invasione del mio Paese da parte dei tedeschi. Non mi sono avvicinata alla resistenza per ragioni di carattere politico ma soltanto per fare qualche cosa e ho messo a disposizione la mia casa. I miei genitori, e anch’io, erano sfollati in una casetta sulle pendici del Bondone. Scendevo dalla montagna, andavo in ospedale e poi venivo qui a mangiare. Mi ricordo quando i tedeschi cercarono Carlo Scotoni a casa sua. Non lo trovarono. Di solito si rifugiava nella canonica di Cognola ma, quel giorno, era a casa mia e dopo, con la moglie, partì per Padova”. Chi ricorda maggiormente fra tutti quelli che ha ospitato? “Un po’ tutti. Venivano qui per riposarsi. Ascoltavamo musica insieme. Si sentivano tranquilli. Ero legata a loro da un profondo sentimento di amicizia. C’è stato anche un brutto momento quando un frate cappuc-
cino mi disse che girava intorno alla casa ‘un brutto figuro’”. E Andrea Mascagni, morto poche settimane fa, l’ha conosciuto? “Sì, certo. Mi ricordo che feci con lui anche un viaggio da Bolzano a Trento su un camion tedesco. Una persona squisita, un grande amico. Ce ne fossero tanti. Ma tutti, Carlo Scotoni, Franco Bovelacci, Gino Lubich e gli altri erano persone oneste e integre moralmente”. Quando le si chiede della sua attività di staffetta, minimizza. “Ma sì, mi hanno mandata in giro alcune volte. A Cavalese, dove sulle montagne attorno c’erano i nostri, e dovevo portare un messaggio, una parola d’ordine, in farmacia. Il viaggio di ritorno me lo sono fatto in parte a piedi perché avevano bombardato la linea ferroviaria. Poi ero andata a Padova a prendere dei volantini di Concetto Marchesi, consegnatimi da Scotoni e Bovelacci, nei quali era contenuto un appello. I volantini, che dovevo distribuire a Trento, dicevano che tutti erano chiamati a perseguire un fine unico, lasciando da parte le appartenenze partitiche. Tutte le settimane andavo a Bolzano, spesso in bicicletta, per avere notizie dei carcerati, tra i quali Gino Lubich”. Cosa ricorda dei giorni seguenti la liberazione? “C’erano molte conferenze pubbliche organizzate dai partiti. Capitai ad un incontro dei comunisti alla Filarmonica. Stavo in fondo alla sala, non avevo voglia di essere riconosciuta. Invece lo fui e mi presentarono a tutti con queste parole: ‘E’ una nostra compagna. Non appartiene al nostro partito ma ha lavorato nelle nostre fila’. Fu un atteggiamento leale, che apprezzai molto” (intervista a cura di Paolo Piffer).
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Donne di Prijedor di Annalisa Tomasi
Serra “Mostovi Priatelijstva”
Prijedor Bosnia Erzegovina. Ljeva Obala. La cooperativa si chiama Bio Food ed è nata all’interno dell’Associazione di donne bosniaco-musulmane Mostovi Priateljstva (Ponti di Amici-
delle tecnologie ad essa connesse. Nel contesto di una Bosnia Erzegovina, che, nonostante sia una regione ricca di acqua e di terra fertile, si trova ad importare oggi i due terzi di ciò che consuma!
zia); produce e commercializza ortaggi da ormai tre anni. Gestisce quattromila metri quadrati di serre ed un numero sempre maggiore di produttori della zona le conferisce i propri prodotti; il tutto è commercializzato prevalentemente in Bosnia Erzegovina ma l’obiettivo è quello di esportare in Croazia, Slovenia ed Unione Europea, non appena sarà ottenuta la certificazione “biologico”. Rappresenta una delle realtà di produzione agricola più importante dell’area di Prijedor dove prima della guerra l’industrializzazione, concentrata attorno a quattro realtà produttive, oggi ferme, che da sole occupavano diecimila dipendenti, aveva avuto come effetto l’abbandono dell’agricoltura e delle sviluppo
Nella cooperativa Bio Food lavorano circa quindici donne, tutte bosniaco-musulmane: sono le «manager», le responsabili di produzione, le responsabili di vendita, le socie e tra loro anche il presidente ed i membri del Consiglio di amministrazione. Lavorano molto. Studiano ed imparano dagli esperti... e nell’inverno del 2003 sono riuscite a vendere dodici tonnellate di insalata sul mercato (serbo) di Banja Luka! Tra loro si contano soprattutto vedove. La guerra che ha sconvolto la Bosnia Erzegovina ha portato loro via i mariti, i fratelli i padri e le ha rese profughe per dieci anni. Era il luglio del 1992 quando la Ljeva Obala, sobborgo bosniaco-musulma-
no di Prijedor in cui oggi sono rientrate, è stato teatro, tra i più tragici, di una delle tante azioni di pulizia etnica condotte dalle forze militari e paramilitari serbe contro la popolazione civile non serba. Sono scappate nei boschi con l’angoscia nel cuore ed i bambini per mano per arrivare a Travnik e da qui nei campi di raccolta profughi della Croazia e della Slovenia per essere poi smistate in uno dei paesi dell’Unione Europea: Germania, Austria, Svizzera, Svezia, Norvegia, Italia... Con grande dignità e forza, aiutandosi come tra sorelle, hanno affrontato queste terribili difficoltà: erano sì sole, ma giovani madri con un futuro da garantire a se stesse ed ai propri figli. Finita la guerra e non appena il contesto lo ha reso possibile, sono rientrate nella Prijedor che le aveva brutalmente cacciate. Tremanti, ma forti del proprio coraggio e della propria dignità di vittime innocenti sono arrivate in città per affrontare i volti e i luoghi dai quali aveva avuto inizio il loro dramma. Non con sentimenti di odio e di vendetta, ma fiduciose nella giustizia e consapevoli che quella della coesistenza e della riconciliazione, e quindi del perdono, è l’unica, anche se difficile, via per dare un futuro alla Bosnia Erzegovina (e probabilmente all’umanità). La soluzione al problema dell’autosostentamento l’hanno cercata in se stesse e nella propria capacità di lavorare ed imparare, ma soprattutto di associarsi per aiutarsi e sostenersi a vicenda come nei momenti difficili della guerra; hanno costituito un’associazione, dedicata all’amicizia, che crea ponti: oggi sono imprenditrici e capo-
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Serra “Mostovi Priatelijstva”
famiglia in grado di trainare con sé un’area, la Ljeva Obala, che grazie a loro sta trovando delle soluzioni al problema del lavoro e testimoniano a quella Prijedor che le aveva cacciate che insieme è possibile ricostruire per il futuro. Molte associazioni europee hanno aiutato e continuano ad aiutare queste donne a realiz-
zare il loro progetto. Tra queste l’Associazione Progetto Prijedor di Trento (progetto.prijedor @libero.it) che dal 1996 sostiene e promuove il rientro, la riconciliazione, lo sviluppo locale e costruisce ponti tra Prijedor e la comunità trentina ad altre regioni d’Europa con l’apertura in particolare, avvenuta nel 2000, dell’Agenzia della demo-
In ricordo di Maria Elisabetta Vindimian La redazione “Altrestorie” e la Direzione del Museo storico in Trento aderiscono all’idea lanciata dall’Associazione Progetto Prijedor per intitolare una borsa di studio per uno studente di Agraria di Prijedor a Maria Elisabetta Vindimian: una prima iniziativa per tenerci vicino il sorriso e la tenacia di questa donna straordinaria. Chi intendesse aderire al progetto può versare un contributo sul conto corrente dell’Associazione Progetto Prijedor: Cassa Rurale di Aldeno e Cadine coordinate bancarie: CIN-A/ABI-08013/CAB-01802/cc. 000050351944
crazia locale in collaborazione con il Consiglio d’Europa. Una nota di merito particolare va alle molte donne del Sindacato pensionati italiani della CGIL, sia nazionale che delle regioni Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Puglia, che hanno saputo costruire e mantenere con loro un forte legame di solidarietà ed amicizia.
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Irene Suarez: “Mi sento un’insegnante”
Irene Suarez
Non le piace essere chiamata poetessa. Preferisce riconoscersi per quello che è: una maestra a cui piace scrivere poesie e racconti. E’ giusto da 13 anni che Irene Suarez, una donna di origini piemontesi, è emigrata dall’Argentina, da Rosario, dove è nata. Ora vive a Trento con la famiglia, sta preparando la tesi di laurea, in scienze della formazione, e insegna a Pergine e Cembra ai ragazzi stranieri. “Avevo 14 anni quando ho scritto il primo racconto. Poi, la Società argentina degli scrittori, che era molto conservatrice e di difficile accesso, mi pubblicò alcune poesie. In seguito ho continuato e vinto anche alcuni premi sia in Italia che in Argentina. Ora non scrivo da un po’. Penso a laurearmi”. Come definirebbe il suo modo di scrivere poesie? “E’ molto difficile riuscire a dirlo perché cambia nel tempo. Il “motore” che ti fa scrivere in un modo
a 15 anni è diverso da quello con il quale ti esprimi a 20 o a 40. Se proprio devo cercare un filo conduttore questo è la ‘rinuncia’”. Ovvero? “Cioè l’impotenza di fronte alle cose che ti stanno davanti e non cambiano come vorresti. La consapevolezza che noi cittadini non possiamo fare molto”. Cosa le piacerebbe potesse cambiare e rimane invece sempre uguale? “La povertà e la follia della guerra. Non cambia la politica degli Stati Uniti verso i nostri poveri Paesi, sempre più impoveriti. Non cambia questa globalizzazione, che non mi piace”. Che ricordo ha dell’Argentina? “E’ il ricordo dell’emigrante filtrato dalla soggettività e dalla nostalgia. E’ un ricordo che, passando il tempo, è molto difficile ricostruire. L’Argentina della mia adolescenza era l’Argentina pericolosa, quella della dittatura
militare. Era l’Argentina nella quale mia mamma mi diceva sempre: “Mi raccomando non uscire senza documenti, mi raccomando torna presto, mi raccomando le amicizie, mi raccomando le letture”. Pensi che anche a Trento, se mi accorgo di essere uscita di casa senza documenti, torno a casa a prenderli. E poi c’è l’Argentina dell’83, della democrazia, della partecipazione, dei sogni, di un’idea di futuro. Adesso mi è difficile parlare dell’Argentina di oggi. Sono qui da troppi anni. Quando ci si allontana geograficamente da un posto per tanto tempo è difficile essere oggettivi”. Quali sono i poeti che sente a lei più vicini, i suoi punti di riferimento? “Senz’altro Pablo Neruda, in lui c’è tanta denuncia, e poi Garcia Lorca ma anche Alfonsina Storni, argentina nata in Svizzera, femminista, poetessa dei primi del Novecento, e poi Eugenio Montale. Sa, mi piacerebbe riuscire a leggere tutti i poeti nella loro lingua. E’ tutta un’altra cosa rispetto alle traduzioni. E’ un sogno”. Si sente più italiana o più argentina? “Non mi sento italiana, anche se sono cittadina italiana. Sono cittadina italiana nel momento in cui posso decidere qualche cosa, quando posso lamentarmi o modificare aspetti della realtà che mi sta intorno, quando posso partecipare. Mi dispiace molto, ad
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ANTE DIEM di Irene Suarez
(Antes del día) Argentina. Tercer Mundo. 24 marzo 1976. Argentina. Mi madre me sacude. La mañana es cálida aún,, el verano no terminó de irse. Es temprano (creo) y el sol no salió. Mi madre me sacude y me despierta. Golpe de Estado. - Madre, es peligroso? - Hija, no lo sé. Tercer Mundo.
(Prima del giorno) Argentina. Terzo Mondo. 24 marzo 1976. Argentina. Mia madre mi scuote. La mattina è ancora tiepida, l’estate non ha finito di andarsene. È presto (credo) e il sole non è sorto. Mia madre mi scuote e mi sveglia. Colpo di Stato. - Madre, è pericoloso? - Figlia, non lo so. Terzo Mondo.
Europa. Primer Mundo. 1996. Fin del siglo Xenofobia. Racismo. Intolerancia. - Hija, es peligroso? - Madre, no lo sé. Primer Mundo.
Europa. Primo Mondo. 1996. Fine secolo. Xenofobia. Razzismo. Intolleranza. - Figlia, è pericoloso? - Madre, non lo so. Primo Mondo.-
esempio, che questo Paese abbia un presidente come Berlusconi, o che i medici debbano fare sciopero e fermare gli ospedali. Nello stesso tempo, dopo 13 anni di Italia, non mi sento neanche profondamente argentina. Diciamo che mi sento
Via Torre d Augusto, 41 38100 TRENTO Tel. 0461.230482 fax 0461.237418 www.museostorico.it e-mail:info@museostorico.it
più latinoamericana che europea. E’ come una condizione “di mezzo”. Quando sono qui ho nostalgia dell’Argentina. Quando vado in Argentina ce l’ho dell’Italia”. Perché non le piace essere definita una poetessa? “Perché non ho mai pensato al mio fu-
ALTRESTORIE - Periodico di informazione. Direttore responsabile: Sergio Benvenuti Comitato di redazione: Giuseppe Ferrandi, Patrizia Marchesoni, Paolo Piffer, Rodolfo Taiani
Per ricevere la rivista o gli arretrati, fino ad esaurimento, inoltrare richiesta al Museo storico in Trento.
turo in funzione della poesia. Io mi sento un’insegnante. E’ il mio contributo per cambiare il sistema, e lo faccio lavorando nella scuola. Ripassi tra 20 anni. Chissà, magari allora sarò diventata una poetessa” (intervista a cura di Paolo Piffer).
Hanno collaborato: Quinto Antonelli, Livio Cristofolini, Annalisa Tomasi. Periodico quadrimestrale registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1132, ISSN-1720-6812. Progetto grafico: Graficomp - Pergine (TN)
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Vite «al femminile» Segnaliamo i titoli di alcune opere edite dal Museo storico in Trento nelle quali sono raccolte testimonianze dirette di vite «al femminile»: donne intellettuali, ma anche donne del popolo, il cui profilo è affidato all’analisi e al ricordo di alcuni studiosi o semplicemente al racconto di diari ed epistolari dai quali emerge un ricco mondo di impegni ideali, valori e sentimenti. In ricordo di Bice Rizzi, pagine 110, 1989 (numero monografico del «Bollettino del Museo trentino del Risorgimento»), con scritti di: Sergio Benvenuti, Giuseppe Colangelo, Renzo Francescotti, Renzo Monteleone, Cesaria Pancheri, Elisabetta Postal, € 10.00; Ernesta Bittanti Battisti: a quarant’anni dalla morte, pagine 285, 1997 (numero monografico di «Archivio trentino»), scritti di: Quinto Antonelli, Sergio Benvenuti, Vincenzo Calì, Giuseppe Colangelo, Gianni Faustini, Giuseppe Ferrandi, Sara Ferrari, Antonino Radice, Bice Rizzi e Walter Micheli, € 20,00; Cesare Battisti, Ernesta Bittanti: addio mio caro
Trentino: carteggio (luglio 1914-maggio 1915) a cura di Vincenzo Calì, Pagine 196, 1984, € 11,40; Salvemini e i Battisti: carteggio 1894-1957, a cura di Vincenzo Calì, pagine 344, 1987 (Fonti Archivio Battisti, 1), € 14,30; Mi chiamerò Serena, di Ines Pisoni, pagine 383, 2000, € 15,60; Una vita ai Morganti, di Annetta Rech, pagine 187, 1991, € 11,40; Valeria Bais, Amabile Maria Broz, Giuseppina Cattoi, Giuseppina Filippi Manfredi, Adelia Parisi Bruseghini, Luigia Senter Dalbosco, a cura di Quinto Antonelli, Diego Leoni, Maria Beatrice Marzani, Giorgia Pontalti, «Scritture di guerra», pagine 221, 1996, € 7,80; Antonietta Angela Bonatti Procura, Giorgina Brocchi, Elena Caracristi, Corina Corradi, Melania Moiola, Cecilia Rizzi Pizzini, Virginia Tranquillini, Amelia Vivaldelli, Ines Zanghielli, a cura di Quinto Antonelli, Diego Leoni, Aldo Miorelli, Giorgia Pontalti, «Scritture di guerra», pagine 315, 1996, € 7,80.
La testimonianza di un protagonista Il Museo storico in Trento inaugura la nuova collana «Progetto memoria» con la video-intervista rilasciata da Vittorio Gozzer nell’estate del 1999, alcuni mesi prima di morire. Nato a Mezzocorona nel 1918, Vittorio Gozzer, fu arruolato nel 1939 e assegnato nel 1943 in Croazia, dove fu fatto prigioniero dai tedeschi all’indomani dell’8 settembre. Riuscito a fuggire, si riunì a Roma al fratello Giuseppe ed assieme si aggregarono a una
formazione partigiana. Titolo: Vittorio Gozzer Regia: Lorenzo Pevarello Consulenza storica: Giuseppe Ferrandi Ricerca materiali d’archivio: Riccardo Pegoretti Musiche: Emilio Galante Produttore esecutivo: Patrizia Marchesoni Durata: 50’ Prezzo: euro 21,50 (disponibile in VHS e DVD)
La collaborazione con l’Università della terza età Il Museo storico in Trento, in collaborazione con l’Università della terza età e del tempo disponibile, ha animato tra il novembre 2003 e il febbraio 2004, grazie al contributo del proprio personale
e dei suoi collaboratori, numerosi corsi di storia contemporanea e storia locale nelle diversi sedi di Cavalese, Pergine Valsugana, Lavis, Pozza di Fassa, Lavarone e Volano.
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AGENDA
Alcide De Gasperi e la municipalità di Trento In occasione del cinquantesimo anniversario dalla scomparsa dello statista, numerose sono le iniziative promosse o sostenute dalla Provincia autonoma di Trento. Tra queste, il Museo storico propone un convegno sul ruolo e la figura di De Gasperi nei suoi rapporti con la municipalità di Trento in particolare nel periodo precedente la prima guerra mondiale quando svolse il mandato di Consigliere comunale, di Deputato al Parlamento di Vienna e alla Dieta di Innsbruck. Verranno messe a fuoco le prime esperienze politiche del futuro statista che a Trento si era formato anche come giornalista dirigendo il quotidiano
cattolico Il Trentino e, nel dopoguerra, Il Nuovo Trentino. Sabato 3 aprile 2004, a Trento, presso la Sala di Rappresentanza del Comune di Trento a Palazzo Geremia in via Belenzani, con inzio ad ore 9.00. Relatori: Lorenzo Bedeschi, Gianni Faustini, Giuseppe Ferrandi, Maria Garbari, Günther Pallaver, Fabrizio Rasera. Commemorazione ufficiale: Alberto Pacher, Sindaco di Trento. Ore 12.30: Cerimonia di scopertura a Palazzo Thun di una targa commemorativa dedicata ad Alcide De Gasperi.
Giorno della memoria, 27 gennaio 2004 Anche quest’anno, nell’anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, della fine della Shoah e delle leggi razziali, nonché nel ricordo dei cittadini ebrei e italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, il Museo storico in Trento in collaborazione con il Comune di Trento, ha proposto alcune iniziative che hanno avuto un grande riscontro di pubblico. La celebrazione ufficiale a Palazzo Geremia ha vissuto, oltre al discorso del Presidente del Consiglio Comunale Marco dalla Fior e alle letture di Quinto Antonelli, un momento molto importante quando la
signora Gabriella Betta, vedova di Aldo Pantozzi, ha consegnato nelle mani del sindaco, in qualità di presidente del Museo storico, la casacca indossata dal marito durante l’internamento a Mauthausen. Il Sindaco Alberto Pacher ha ringraziato la Signora e la famiglia del dono, sottolineando, in un intervento fuori programma, l’importante significato civile di un simile gesto. Alla sera il Museo storico, in collaborazione con Arcigay e Arcilesbica del Trentino, ha presentato al Teatro Cuminetti due documentari della regista Gabriella Romano sulla persecuzione degli omosessuali durante il fascismo. Il 3 febbraio, per le scuole superiori, sono stati rappresentati due spettacoli «Gente come uno» e «Patria potestà» prodotti dalla compagnia Alma Rosè che hanno proposto una riflessione molto efficace ed intensa sulle persecuzioni della dittatura in Argentina.
I campi di sterminio nazisti Il Museo storico in Trento e il Gruppo di ricerca per la storia regionale Arbeitsgruppe regionalgeschichte di Bolzano organizzano un doppio appuntamento a Bolzano e a Trento per presentare il volume a cura di Giovanna D’Amico e Brunello Mantelli, I campi di sterminio nazisti: storia, memoria, storiografia (Milano, Angeli, 2003). Il primo incontro si svolgerà a Bolzano il 24 marzo 2004 con inizio alle 18,00 presso l’Università
di Bolzano in via Sarnesi, 1, sala A101. Vi parteciperanno oltre ai curatori anche Barbara Pfeifer e Cinzia Villani. Il secondo appuntamento, che vede la partecipazione anche di Gustavo Corni, è fissato invece a Trento per il giorno successivo, 25 marzo 2004, con inizio alle ore 17,30, presso lo spazio incontri del Museo storico in Trento, in via Torre d’Augusto, 41.
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Fotolibro, formato 32x24, 648 pagine, confezione in brossura cucita cartonata con cofanetto, 1260 fotografie di cui 450 di grande formato Prezzo E 70,00
Volume in vendita presso le librerie, il Museo storico in Trento e il Museo storico italiano della guerra di Rovereto