Memorie riflesse: lo schermo tra vero e falso

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QUADERNI DI ARCHIVIO TRENTINO

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QUADERNI DI ARCHIVIO TRENTINO

La memoria e il cinema hanno, non da oggi, un destino comune, nel segno di un reciproco interesse a promuovere la propria immagine pubblica e la propria funzione sociale. Dopo oltre un secolo di percorsi e destini paralleli, la memoria e il cinema si trovano oggi a un punto di convergenza che si configura, a tutti gli effetti, come un luogo d’ibridazione. È ancora possibile parlare di un rapporto fra memoria e cinema, alla luce del fatto che qualsiasi relazione prefigura un incontro, più o meno articolato, fra due entità contestuali, ma distinte e differenziate? O invece le dinamiche della compenetrazione e della contaminazione sono tali da imporre una riflessione legata in modo imprescindibile alla dimensione memoriale del cinema e alla dimensione cinematografica della memoria? A queste domande tentano di rispondere i saggi contenuti in questo volume che costituiscono gli atti del convegno svoltosi a Trento nel dicembre 2009, secondo degli appuntamenti annuali internazionali in previsione.

Leonardo Gandini è professore associato di Storia e critica del cinema presso l’Università degli

studi di Modena-Reggio Emilia. Autore e curatore di diverse pubblicazioni sul cinema americano, si è occupato in particolare, sul piano della ricerca, del cinema noir hollywoodiano tra gli anni quaranta e cinquanta e dell’immaginario urbano nella produzione classica e contemporanea. Dal 2008 cura insieme a Andrea Bellavita il convegno internazionale «Memoria e mass media», organizzato dalla Fondazione Museo storico del Trentino.

Daniela Cecchin si occupa dell’organizzazione di eventi cinematografici legati al tema della

montagna. Dal 2004 collabora con l’Archivio di cinema e storia attivo presso la Fondazione Museo storico del Trentino. Ha partecipato alla realizzazione di numerosi documentari dedicati a testimoni e a eventi del Novecento che hanno coinvolto singole comunità della provincia di Trento.

Matteo Gentilini è responsabile dell’Archivio di cinema e storia attivo presso la Fondazione Museo storico del Trentino. Negli ultimi anni si è particolarmente impegnato nella raccolta di videointerviste e ha collaborato attivamente alla realizzazione di numerosi documentari dedicati a testimoni e a eventi del Novecento che hanno coinvolto singole comunità della provincia di Trento. ISBN 978-88-7197-127-8

€ 10,00

Memorie riflesse

Memorie riflesse lo schermo tra vero e falso

L. GANDINI, D. CECCHIN M. GENTILINI

LEONARDO GANDINI, DANIELA CECCHIN e MATTEO GENTILINI

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QUADERNI DI ARCHIVIO TRENTINO

LEONARDO GANDINI DANIELA CECCHIN e MATTEO GENTILINI

se s e fl i r e i Memor ero e falso

tra o m r e h c lo s

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Sommario

Introduzione/Introduction, Leonardo Gandini Coinvolgimento empatico nel passato fra vicinanza e distanza nella serie televisiva Deadwood, Alison Landsberg L’arte di dimenticare: la crisi della memoria nel cinema, Laura Schuster Memoria e immagini, Barbara Grespi – Leonardo Gandini La messa in scena della felicità: film di famiglia e pratiche di riscrittura della memoria nel cinema di found footage, Luisella Farinotti Memory reloaded: il cinema e le nuove pratiche sociali della memoria, Mariagrazia Fanchi Pratiche della memoria: Ejzenštejn, Pudovkin, Dovženko tra autobiografia e teoria, Alessia Cervini Memorie riflesse: Lo schermo tra vero e falso, Patrizia Caproni e Leonardo Gandini (a cura di) Riferimenti bibliografici

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Indice dei nomi

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Abstracts

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Gli autori

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Leonardo Gandini

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Introduzione/Introduction

Introduzione/Introduction

La memoria e il cinema hanno, non da oggi, un destino comune, nel segno di un reciproco interesse a promuovere la propria immagine pubblica e la propria funzione sociale. Dispositivo di memoria, archivio per immagini, album di fotografie in movimento: sono parole che ricorrono, nei commenti sulle prime proiezioni pubbliche del cinematografo, a testimonianza del fatto che il cinema sin dall’inizio del Novecento si aggrappa alla memoria nel suo lento e faticoso processo di legittimazione come oggetto culturale e sociale, sforzandosi di fare delle sue (della memoria) necessità, proprie virtù. Si filma anche – in qualche caso soprattutto – per ricordare, e il cinema gradualmente trova, proprio in questa valenza di documentazione, di testimonianza visiva che può fare da argine all’oblio, una sua preziosa funzione sociale. Nello stesso tempo, la memoria ha trovato nel cinema un formidabile centro di risonanza e amplificazione. In misura ancora maggiore della fotografia, il cinema rimette, infatti, 7

For a long time, memory and cinematography have shared a common destiny, namely the mutual interest in promoting their own public images and their social functions. Memory device, archive through pictures, moving picture album: these are the terms that one finds in the comments to the first public movie projections. This is proof enough that, since the early 20th century, cinematography has held on to memory in its slow and laboured process of legitimization as a cultural and social object, attempting to transform its necessities (of memory) into virtues. Filming is sometimes done to remember – and in some cases especially for this reason. Therefore, cinematography gradually finds a precious social function in this new capacity as documentary or as visual witnessing that can save from oblivion. At the same time, memory has found in cinematography a formidable device for amplification and divulgation. Even more so than with photography, cinematography puts memory back


Leonardo Gandini

la memoria al centro del palcoscenico sociale, soprattutto perché le attribuisce, come mai era avvenuto in precedenza, una dimensione collettiva: i ricordi si fanno condivisi, le memorie comuni. Nello stesso periodo in cui assume le caratteristiche di mezzo d’intrattenimento di massa, il cinema dà alla memoria lo spessore necessario a diventare un fenomeno culturale e collettivo, culturale perché collettivo. Da quando è entrato in scena il cinema della memoria come oggetto di studio si parla in termini diversi, secondo apparati concettuali più sociologici che psicologici. Innescata dal cinema, la memoria diventa così una koinè, una lingua comune a un numero smisurato di persone che, davanti a uno schermo, ricordano insieme le stesse cose, o meglio, sono sollecitati al ricordo dal medesimo repertorio di luoghi, figure e narrazioni. Il destino comune tra memoria e cinema ha raggiunto il suo apogeo tredici ani fa, in occasione del centenario del cinema. E, in quello stesso momento, questo destino comune ha cominciato ad assumere le sinistre fattezze di un patto faustiano. Da una parte il cinema, nel giorno del suo centesimo compleanno, ha celebrato pubblicamente, con grande dispiego di mezzi retorici e mediatici, la possibilità e la necessità di avere una memoria propria, dove i film non costituiscono più le leve, ma gli oggetti del ricordo. Una volta postulata la sua necessità culturale, la memoria del cinema è 8

at the centre of the social stage, mostly because it attributes to memory, as never before, a collective dimension. Indeed, memories become shared, common memories. In the same period in which it acquired the role of means of mass entertainment, cinematography gave memory the importance necessary for it to become a cultural and collective phenomenon, cultural because it was collective. Since the onset of cinematography, one speaks differently of memory as a subject of study, according to conceptual structures that are more sociological than psychological. Primed by cinematography, memory thus becomes a coined, a common language shared by an enormous number of people who, in front of a screen, remember together, remember the same things or, even better, are stimulated to remember by the same repertoire of places, figures and narrations. The common destiny of cinematography and memory reached its peak thirteen years ago on the occasion of the hundredth centennial of cinematography. In that moment, this common destiny started taking on the sinister features of a Faustian bargain. On the one hand cinematography, on the day of its hundredth anniversary, publicly celebrated, via a large amount of rhetorical means and media, the occasion and the need to have its own memory, whereby movies will no longer be the levers but the objects of the memory. Hav-


Introduzione/Introduction

diventata, a tutti gli effetti, un oggetto commerciale, intorno al quale ruotano interessi economici non indifferenti e ben diversificati, che vanno dalle sovvenzioni alle cineteche per il restauro dei film al merchandising di magliette, poster, e icone di varia natura. Rimane che nello stesso periodo in cui il cinema ha attestato la nobiltà e lo spessore di una sua personale memoria, rendendola l’oggetto di un processo congiunto e contemporaneo d’istituzionalizzazione e commercializzazione, la memoria del cinema (intesa questa volta come memoria sul cinema: genitivo oggettivo) ha cominciato a sfrangiarsi, polverizzandosi e disseminandosi lungo direttrici fra loro incongruenti, quando non opposte. Il cinema ci aiuta ancora a ricordare, ma le modalità mnemoniche sollecitate dai film si sono nel frattempo moltiplicate in modo esponenziale, diversificate al punto che la stessa nozione di memoria condivisa viene, oggi, a essere messa seriamente in discussione. Possiamo considerare ancora patrimonio comune il ricordo di un film fruito in circostanze, luoghi e modalità differenti? Se le modalità della ricezione costituiscono una parte fondamentale del ricordo, allora il film smette di essere luogo generatore e centro nevralgico di una memoria comune, poiché le circostanze della visione sono destinate a produrre, in ogni singola circostanza, un ricordo completamente diverso. Sull’altro versante la memoria, una 9

ing postulated its cultural necessity, cinematography’s memory has become, to all intents and purposes, a commercial object around which spin heavy and highly diversified economic interests that range from funding of film libraries for film restoration to merchandising of T-shirts, posters and icons of various kinds. The fact remains that in the same period in which cinematography stated the nobility and importance of its personal memory, making it the subject of a joint and contemporary process of institutionalization and commercialization, its memory (this time intended as memory of cinematography: objective genitive) has started to crumble, turning to dust and dispersing along paths that never touch and sometimes go in opposite directions. Cinematography still helps us remember, but the mnemonic procedures triggered by the movies in the meantime have multiplied exponentially, have diversified so much that the very same notion of shared memory today is seriously under debate. Can we still consider as common legacy the memory of a movie seen in different circumstances, places and situations? If the way in which they are received is a fundamental part of a memory, then movies stop being the generator and neuralgic hub of a common memory because the circumstances of viewing are destined to produce a completely different memory in each single circumstance.


Leonardo Gandini

volta mediata dall’intrattenimento di massa, ha finito sì per assumere una valenza culturale e collettiva, ma a prezzo della propria identità. I film non si limitano a condizionare le forme e i contenuti del ricordo, producono tout court ricordi diversi, che spesso possono essere sprovvisti sia di una natura referenziale, sia di un retroterra legato a un repertorio di esperienze dirette e, almeno in origine, non mediate. Parafrasando Susan Sontag, possiamo dire che i film sempre meno spesso ci aiutano a ricordare, e sempre più di frequente ci aiutano a ricordare il cinema, in un processo che porta la competenza intertestuale a essere scambiata per (e riverita come) un luogo di esperienze e memorie autentiche, profonde, vissute. In sintesi, dopo oltre un secolo di percorsi e destini paralleli, la memoria e il cinema si trovano ora a un punto di convergenza che si configura, a tutti gli effetti, come un luogo d’ibridazione. È ancora possibile parlare di un rapporto fra memoria e cinema, alla luce del fatto che qualsiasi relazione prefigura un incontro, più o meno articolato, fra due entità contestuali, ma distinte e differenziate? O invece le dinamiche della compenetrazione e della contaminazione sono tali da imporre una riflessione legata in modo imprescindibile alla dimensione memoriale del cinema e alla dimensione cinematografica della memoria? 10

On the other hand, once mediated by mass entertainment, memory does indeed take on a cultural and collective value but to the detriment of its own identity. Movies do not only condition the forms and contents of the memory but also produce different memories tout court that often lack a referential nature or a background linked to a repertoire of direct and, at least initially, unmediated experiences. To paraphrase Susan Sontag, we could say that movies ever less frequently help us remember and ever more frequently help us remember cinematography, in a process that brings hypertextual competence to be mistaken for (and revered as) a place of authentic, deep and lived experiences and memories. In summary, after more than a century of parallel paths and destinies, memory and cinematography are now at a point of convergence that to all effects looks like a point of hybridization. Is it still possible to speak of a relationship between cinematography and memory when any kind of relationship envisages a more or less articulated encounter between two contextual but distinct and differentiated entities? Or are the dynamics of co-penetration and contamination such as to impose a consideration entirely linked to the memorial dimension of cinematography and to the cinematographic dimension of memory?


Alison Landsberg

Alison Landsberg

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Coinvolgimento empatico nel passato fra vicinanza e distanza nella serie televisiva Deadwood

Coinvolgimento empatico nel passato fra vicinanza e distanza nella serie televisiva Deadwood

Nel mio libro, Prosthetic memory: the transformation of american remembrance in the age of mass culture1, sostengo che nel XX secolo emerge una nuova forma di memoria pubblica, come risultato di diversi fattori: in primo luogo i movimenti di massa della modernità e in secondo luogo la nascita del cinema, che ha reso possibile la diffusione massiccia di narrative sul passato. Questi sviluppi, afferma il libro, hanno permesso alle persone di conoscere esperienze di eventi passati che non hanno in realtà vissuto. Affiorano così le memorie protesiche, all’interfaccia fra una persona e una narrativa storica sul passato, in un luogo di esperienze come un teatro, un cinema o un museo. In questo punto di contatto si verifica un’esperienza, grazie alla quale la persona si salda con una più ampia narrativa storica. Nel processo che qui descrivo, la persona non viene a conoscere il passato solo intellettualmente, ma assorbe una memoria più personale e profonda di un fatto accaduto in passato e non direttamente vissuto. La memoria protesica che ne consegue, argomenta il libro, ha la capacità di forgiare la soggettività della persona, la politica e l’etica. Se è vero che le culture e le società hanno sempre goduto di «tecnologie della memoria», ovvero strategie mirate a trasmettere la memoria di gruppo, la nascita del cinema ha sicuramente segnato un punto di svolta. Con questo nuovo mezzo di comunicazione, la circolazione Riferimenti bibliografici: Barra 2006; Baudry 1986a; Baudry 1986b; Berenstein 1995; Clover 1992; Franklin 2006; Hansen 1986; Landsberg 2004; McKinley 2006; Metz 1982; Plantinga 2009; Taussig 1993; Williams 1994. 1 Landsberg 2004.

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Alison Landsberg

delle narrative del passato – e quindi la diffusione di potenziali memorie – è cresciuta in maniera esponenziale. Ancor più importante, a differenza di precedenti tecnologie della memoria tipicamente volte a consolidare e trasmettere una memoria di gruppo al servizio dell’identità di gruppo, le memorie diffuse tramite i film e la cultura di massa sono ugualmente disponibili a tutti, al costo di un biglietto. In altre parole, questi mezzi di comunicazione hanno reso possibile la diffusione di memorie al di fuori del gruppo strettamente interessato. Il sensoriale coinvolgimento che queste tecnologie permettono dà origine alla formazione del ricordo di un fatto che non è stato vissuto nel senso tradizionale e che non potrebbe essere acquisito in nessun altro modo «naturale» o volontario. Definisco queste memorie protesiche perché non sono naturali, non sono il prodotto di un’esperienza vissuta, ma derivano dalla partecipazione ad una rappresentazione mediata, come il vedere un film, guardare una serie televisiva o visitare un museo. Come un arto artificiale, sono in realtà indossate sul corpo; si tratta di memorie sensoriali prodotte da un’esperienza di rappresentazioni mediate da un mezzo di comunicazione. La capacità di ampia diffusione è resa possibile dal loro formato commerciale. È esattamente questa intrinseca caratteristica che rende le rappresentazioni culturali di massa così ampiamente disponibili alle persone che vivono in luoghi diversi e hanno storie, razza e classe differenti, e che alla fine impediscono che diventino proprietà esclusiva di un ristretto gruppo di persone. Infine, le chiamo protesiche per sottolinearne l’utilità. Sembrano reali, condizionano il modo di pensare di una persona e possono essere utili per creare empatia e promuovere valori sociali egualitari. Nel mio libro faccio notare come le memorie protesiche vengano spesso generate intorno a traumi storici; in questi casi gli spettatori sono incoraggiati ad assorbire memorie di gruppi che sono stati discriminati od oppressi. Quest’esperienza può produrre empatia, che a sua volta ha delle implicazioni per le future azioni e posizioni delle persone. Ho scoperto con soddisfazione che molti studiosi hanno trovato utile per il proprio lavoro il concetto di memoria protesica. Questi autori hanno identificato la produzione di memorie protesiche in altre tipologie di casi. Seguendo il loro esempio, vorrei considerare un caso che non riguarda in realtà un trauma storico, ma piuttosto la possibilità offerta dalle memorie protesiche di acquisire alcuni generi di conoscenza del passato e, in particolare, quelle conoscenze che non possono essere efficacemente trasmesse in formati più tradizionali (ovvero scritti). Desidero qui considerare le conoscenze innescate da una modalità sensoriale e tattile di comunicazione, ma che alla fine richiede un’elaborazione 14


Coinvolgimento empatico nel passato fra vicinanza e distanza nella serie televisiva Deadwood

cognitiva e intellettuale. In altre parole, voglio parlare di come, unicamente le memorie fisiche, sensoriali, protesiche siano in grado di trasmettere certi tipi di conoscenze storiche. Queste conoscenze storiche, come dimostrerò, sono prodotte attraverso l’esperienza del sentirsi collegati e pur tuttavia lontani da qualche altra persona o evento, elemento che è fra l’altro la condizione strutturale dell’empatia. Quest’ultima, come spiegherò, è una modalità potenzialmente costruttiva di impegno e coinvolgimento nel passato, esattamente perché include sia compassione, sia distanza. Altrove ho già accennato alle differenze fra simpatia ed empatia, spiegando che quest’ultima presuppone differenza (e distanza) fra la persona che prova empatia e l’oggetto. Per sentire empatia per un’altra persona o per una cosa c’è bisogno non solo di emozione, ma di un atto di conoscenza, di un tentativo intellettuale di confrontarsi con una persona o una situazione radicalmente estranei alla propria esperienza. Mentre la simpatia implica un collegamento preesistente o una somiglianza, l’empatia si basa sulla distanza e si ha solo nel suo superamento. L’empatia può dunque essere generata da certi tipi di testi storicamente orientati, testi che fanno oscillare la persona avanti e indietro fra identificazione nel passato e alienazione da esso. In questa complessa transazione, gli spettatori sono costretti a fare i conti con il passato non solo in termini di somiglianza, ma anche di differenze. Ciò che ho descritto come memoria protesica, potrebbe allora apparire come un caso di modalità empatica di partecipazione al passato, reso possibile dalle tecnologie cinematografiche e televisive. Le tecnologie che collocano gli spettatori in posizioni molto specifiche rispetto ad una narrativa in svolgimento, il cinema e la televisione, assieme alle tecniche di ripresa e montaggio, sono sempre più implicate nella produzione di memorie protesiche. Ciò cui alludo qui è in parte una questione di identificazione, ovvero come gli spettatori sono indotti a sentirsi vicini a particolari personaggi o situazioni. L’argomento dell’identificazione, almeno nel caso del cinema, ha ricevuto molta attenzione nella letteratura sulla spectatorship, ovvero il rapporto fra spettatore e immagine in movimento. Questi studi si sono inizialmente concentrati sul cinema come apparato ideologico2. Nella teoria cinematografica contemporanea, l’atto del guardare è stato trattato in 2 «La teoria dell’apparato» fa riferimento ad una serie di lavori prodotti negli anni settanta da teorici francesi, come Christian Metz e Jean-Louis Baudry, secondo i quali l’ideologia era presente non solo nei film, ma nell’apparato cinematografico stesso. Sebbene le loro argomentazioni siano leggermente diverse, i due autori francesi concordano nell’affermare che il cinema è innanzitutto un apparato atto a posizionare lo spettatore rispetto ad un tema (cfr. Metz 1982; Baudry 1986a; Baudry 1986b).

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Alison Landsberg

Laura Schuster

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L’arte di dimenticare

L’arte di dimenticare la crisi della memoria nel cinema

Parlare del cinema come dell’arte del dimenticare e annunciare una «crisi della memoria» nei film, è forse un’esagerazione. Ciò che questa affermazione contiene è tuttavia considerato un dato noto nella letteratura cinematografica: ovvero la tesi, secondo cui il ricordo personale e il cinema come forma di esperienza sono in qualche modo legati e che possono influenzarsi reciprocamente. Questo articolo esplora la possibilità di proporre questa analogia ontologica e fenomenologica fra memoria e cinema, anche se è in pratica impossibile separare questo pensiero dalle stesse ipotesi culturali che hanno, per esempio, spinto l’umanità a descrivere il pensiero paragonandolo al meccanismo dell’orologio, quando questo fu inventato1. Tuttavia, per affrontare questo collegamento fra cinema e memoria umana, ritengo più utile ricorrere al concetto di negazione, ovvero il dimenticare o non riuscire a creare ricordi. In realtà vedo il cinema come una forma di comunicazione in cui dimenticare, creare spazio per nuove impressioni, è altrettanto importante che ricordare. Negli ultimi dieci anni sono stati prodotti diversi film incentrati sul ricordo personale. Ma anche in questo caso la modalità di indagine si svolge sempre attraverso scenari di amnesia, perdita della memoria e manipolazione dei

Riferimenti bibliografici: Barthes 1981; Casetti 2008; Doane 2002; Elsaesser 2009; Kear 2003; Kluitenberg 2008; Lambalgen – Hamm 2005; Landsberg 2004; Meares 2000; Mumford 1967; Stewart 2007; Van Dijck 2004; Varela 1999. 1 Per un’analisi storica della metafora dell’orologio, consultare, per esempio, la monumentale opera di Mumford 1967, o, più specificamente, Kluitenberg 2008.

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Laura Schuster

ricordi personali. Come in molti altri tipi di ricerche, riusciamo ad ottenere il più chiaro sguardo su un sistema al momento del suo collasso. Visti insieme, questi film possono anche significare qualcosa che assomiglia molto ad una crisi della memoria: nelle storie che raccontano, la memoria all’improvviso non è più così affidabile come in passato. Nella gran parte dei casi ciò porta ad una maggiore consapevolezza del fatto che non sappiamo veramente che cosa sia la memoria. Ciò che invece sappiamo, è che la maggioranza delle persone considera la memoria personale un aspetto caratterizzante di sé, forse la parte di noi stessi che determina chi siamo. Potrebbe essere vero: la scienza suggerisce infatti che le cellule della memoria e quelle cerebrali sono quelle che durano più a lungo, mentre lo scheletro, per esempio, si rinnova completamente ogni sette anni circa2. Lo scienziato che dedicò gran parte del suo lavoro alla percezione, Ewald Hering, affermava nel 1870: «Sembra che noi dobbiamo alla nostra memoria quasi tutto ciò che siamo o abbiamo; che le nostre idee e i nostri concetti siano opera sua e che ogni nostra stessa percezione, ogni nostro pensiero e movimento derivino da quella fonte. La memoria raccoglie gli infiniti fenomeni della nostra esistenza in un unicum; e come il nostro corpo sarebbe sparpagliato nella polvere se gli atomi che lo compongono non fossero tenuti insieme dall’attrazione della materia, così la nostra coscienza sarebbe scomposta in mille frammenti se non fosse per la forza unificante e vincolante della memoria»3. Hering non solo mette la memoria al centro dell’identità umana, ma ipotizza anche quale potrebbe essere la sua funzione più cruciale. Se non avessimo la sua «forza unificante» per «raccogliere gli innumerevoli fenomeni della nostra esistenza in un insieme unico», saremmo polverizzati, frammentati, insignificanti a noi stessi. La memoria, in generale, è considerata importante non solo per la singola persona, ma anche quando si tratta di studiare i prodotti culturali, ovvero dove collochiamo l’anima di una persona e/o la sua individualità. Eppure, la memoria può essere anche qualcosa che unisce gruppi di persone, può essere trasmessa da una generazione all’altra. Questa tesi informa il dibattito sulla memoria culturale (Pierre Nora, Jan e Aleida Assmann, Pierre Bourdieu e Maurice Halbwachs ne sono i principali protagonisti), che si

2 Confronta, per esempio, <http://stemcell.stanford.edu/research>, ultimo accesso nel dicembre

2009. 3 La ricerca pionieristica di Hering, soprattutto sulla percezione del colore e il fenomeno della after-

image, avrebbe esercitato una significativa influenza sul modello freudiano psico-fisiologico di percezione (citato in Meares 2000: 32).

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L’arte di dimenticare

preoccupa principalmente del trasferimento della memoria fra popolazioni e culture diverse. Si pone a questo punto la domanda di come gli atti della memoria ci colleghino all’esperienza dei media. Fin dal loro avvento i mezzi di registrazione, che vanno, secondo me, dal riuscito sistema di annotazione dell’alfabeto alla funzione voce-memo dei telefoni cellulari, esercitano una particolare influenza sulla nostra esperienza della memoria. La «mediatizzazione della memoria» è un concetto centrale del dibattito culturale, anche se non siamo certi di cosa si tratta. Questi dibattiti tendono a ruotare intorno a insiemi di opposizioni (binarie), ciascuno legato a diversi pensieri e conoscenze: il pubblico, il privato, il culturale; il locale e il globale; il reale e il virtuale; il fisico e il mentale. Eppure, ancora non sappiamo come definire la memoria di per sé. Il concetto di memoria funziona in maniera molto differente a seconda del contesto: per esempio, ci sono delle differenze nel modo in cui classifichiamo la memoria in configurazioni individuali, collettive e culturali; nei confronti fra quella umana, animale e meccanica. Nel caso di un essere umano, vi sono altre differenze, a seconda che si esaminino le sue componenti neurologiche o psicologiche, statiche o attive, consce o inconsce. La memoria potrebbe essere descritta in termini di identità personale, ricordo di dati, strutturazione comportamentale e come la documentazione o soggettivazione dell’esperienza (o entrambe le cose). Inoltre, ciò che si definisce comunemente con la parola «ricordi» è solo una piccola parte di un più grande sistema neurologico di funzioni della memoria, comunemente divise in implicite (consistenti di competenze procedurali, routine e conoscenze di base) ed esplicite, che a loro volta si suddividono in memoria di lungo e di breve termine. La memoria di lungo termine include quella semantica (la nostra conoscenza della lingua e dei concetti) e quella episodica (la nostra impressione di eventi ed esperienze passati, ciò che comunemente definiamo «i miei ricordi»); mentre la memoria a breve è paragonabile alla parte RAM di un computer, perché riguarda il tenere a mente un numero di telefono che si sta per fare o la prima parte di una frase che si è appena pronunciata4. Tutti questi diversi contesti e queste diverse designazioni sembrano suggerire che una definizione univoca di memoria sia quantomeno ambiziosa. Più concreta è, tuttavia, la connessione percepita fra memoria personale e tecnologie di registrazione. Soprattutto a partire dalla fine degli anni novanta, moltissimi film di successo (sia d’autore, sia nella grande distribuzione anche a livello internazionale) hanno dimostrato un netto interesse per il contrasto 4 Queste descrizioni sono prese da Lambalgen – Hamm 2005: 6-7.

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Leonardo Gandini – Barbara Grespi

Leonardo Gandini – Barbara Grespi

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Memoria e immagini

Memoria e immagini

Nelle pagine seguenti si propone il testo del dibattito cui hanno partecipato Leonardo Gandini (LG) e Barbara Grespi (BG) in occasione dell’iniziativa pubblica organizzata per la presentazione del numero monografico delle rivista Locus solus (n. 9, 2009) dedicato al tema «Memoria e immagini». LG La rivista Locus Solus ha dedicato un numero monografico a «Memoria e immagini» curato dalla collega Barbara Grespi, che volentieri ho invitato, perché si tratta evidentemente di un percorso di interessi comuni e condivisi che vanno appunto nella direzione di un approfondimento e di una ricerca sulle modalità attraverso cui la memoria si articola in immagini. Inizierei da un aspetto che Barbara Grespi tratta nell’introduzione, quando parla del fatto che nessuna delle intersezioni fra memoria e immagini sarebbe pensabile nell’era del digitale, posto che il nesso fra immagini e memoria è basato sui corpi, quindi anche sul corpo dell’immagine stessa. La fotografia in quanto impronta è, e resta, un supporto sensibile alla luce... Fondamentalmente l’idea è che il nesso fra immagine e memoria, essendo basato sul corpo dell’ immagine stessa, viene messo in crisi nel momento in cui nell’era del digitale la fotografia perde le sue caratteristiche di impronta e di referenzialità tra indice e icona che sono invece costitutive dell’epoca pre-digitale. Quindi la prima domanda riguarda questo punto, che mi sembra nevralgico anche alla luce dell’intervento di Laura Schuster: fino a che punto e in che modo possiamo pensare al nesso fra memoria e immagini nell’era del digitale, in un’era cioè in cui l’immagine ha perso ontologicamente il suo statuto di referenzialità? 43


Leonardo Gandini – Barbara Grespi

BG Credo che alcune questioni fondamentali emerse nelle relazioni che mi hanno preceduto siano rimaste sostanzialmente inalterate nel passaggio dall’analogico al digitale. Tutti i colleghi sanno che cosa comporti il passaggio da analogico a digitale, forse però è il caso di dire ugualmente qualcosa sull’argomento. L’immagine analogica viene registrata attraverso metodi analogici e mantiene un rapporto con la realtà, perché la luce impressiona in un modo o nell’altro delle materie. L’immagine fotografica (e dunque anche cinematografica) nasce da un’impressione luminosa; quella televisiva deriva (grosso modo) da una conversione delle onde luminose in stimoli elettrici. Quindi c’è sempre un rapporto con il reale nell’immagine cosiddetta analogica, mentre le immagini digitali sono quelle che teoricamente possono prescindere del tutto dal referente, dalla realtà, perché fanno parte di un linguaggio totalmente numerico, in cui gli stimoli luminosi vengono per così dire creati artificialmente. Quindi l’era del digitale, per chi così la etichetta, è quella in cui trionfano le immagini registrate e riprodotte attraverso sistemi di digitalizzazione, di totale allontanamento dal reale, dalla materia della realtà. Alcune questioni, come dicevo prima, restano comunque inalterate. Per esempio, se parliamo del nesso tra l’esperienza e la memoria, non è che questo si mantenga con l’immagine analogica e invece si perda con l’immagine digitale. L’opportuna definizione di memoria prostetica che qui ci è stata fornita, intesa come scollamento fra il vissuto e la memoria, funziona perfettamente anche per i media analogici, che ci hanno abituato ad appropriarci di quanto non ci è mai appartenuto, a ricordarci quello che non abbiamo mai vissuto. In questo senso il digitale non cambia niente. Quello che cambia invece è l’idea dell’immagine come supporto nel tempo, che esiste nel tempo e quindi si modifica nel tempo, continuando a registrare anche il proprio invecchiare. L’immagine digitale in qualche modo è mostruosa, è un mostro perché è perfetta e inalterabile, teoricamente incorruttibile: noi potremmo conservare un’immagine in digitale per sempre, e – attraverso tecnologie che la risanano nel momento in cui si degrada – tenerla perfettamente inalterata. Al contrario, la fotografia e il cinema sono immagini che hanno, come appunto diceva prima Leonardo, un corpo; di conseguenza questo corpo si segna, come la pelle, come il viso si copre di rughe, così anche la fotografia deperisce. In particolare mi fa piacere citare un saggio che secondo me è uno dei più belli contenuti in questo libro, quello di Luisella Farinott; è un saggio interessante proprio perché affronta direttamente tale questione dell’immagine come forma memoriale molto simile al corpo umano, e analizza un tipo di cinema fortemente basato su questo, il cinema di due grandi registi sperimentali, Gianikian e Ricci Lucchi, che lavorano su materiali d’archivio, usano immagini che si sono deteriorate dal tempo. Per 44


Leonardo Gandini – Barbara Grespi

Luisella Farinotti

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La messa in scena della felicità

La messa in scena della felicità film di famiglia e pratiche di riscrittura della memoria nel cinema di found footage

Nel mio intervento analizzerò un lavoro costruito quasi interamente a partire da film di famiglia, un esempio particolare – peraltro molto noto – di quella prassi che va sotto il nome di found footage: un cinema che si affida alla riscrittura di materiali preesistenti, in cui è perlopiù assente il momento delle riprese, e che consegna al montaggio la possibilità di attribuire nuovi significati al materiale di partenza. La ri-scrittura sembra essere un gesto fondamentale del cinema – ma anche dell’arte e della produzione culturale – alla fine di un secolo che ha saturato l’occhio con una tale quantità di immagini da rendere possibile la produzione del «nuovo» solo nella forma di un lavoro di ripresa, come azione sulla memoria: è come se si dichiarasse, da un lato, la catena memoriale in cui si inserisce ogni immagine e, dall’altro, al contrario, si imponesse lo sforzo di liberare l’immagine dalla catena di memorie da cui è predefinita. Non c’è immagine che non evochi un’altra immagine, che non produca un sistema di risonanze e di echi di molteplici visioni, che non si inserisca o inneschi un flusso di memoria, che non si offra a continue riscritture. Si tratta di una condizione dell’immagine, ma anche di una condizione dello sguardo, entrambi incastrati in una rete inestricabile di rinvii e memorie. Il found footage lavora in primo luogo su «una specie di immaginario condiviso, formale, quasi una somma di strutture visive depositate nella memoria»1, Riferimenti bibliografici: Barthes 1980; Burch 1994; Cati 2007; Cati 2009; Farinotti 2009; Gherardi 2007; Dottorini 2007; Morreale 2009; Odin 1995; Ricoeur 2000. 1 Morreale 2009: 239.

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Luisella Farinotti

si tratta di un «‹archivio immaginario›» che, più che contenuti, ospita forse modelli visivi»2, in cui è cioè la stessa grana della pellicola, il tono cromatico o la presenza di graffi e di macchie sulla superficie dei fotogrammi, a farsi materia della memoria, a restituirci la qualità sensibile del passato, di cui i contenuti nelle immagini si fanno poi segno ulteriore. È quindi a partire dalla consapevolezza del peso della memoria, che grava tanto sulle immagini, perfino in senso materico, quanto sulla nostra capacità di vedere, che si definisce la pratica del found footage: sorta di serialità eversiva che rompe l’idea di serie come copia, calco, usura di schemi ripetitivi, convertendo la ripetizione in atto creativo. Già il termine evoca una massa informe di prodotti industriali, di materiali pronti per essere scartati e riciclati, e che, in una sorta di «riesumazione vendicativa», vengono re-impiegati in modo creativo per realizzare nuovi film, lontani dal testo originario da cui i materiali sono stati prelevati. Dal film saggio al film di montaggio, dal film collage al compilation film, dal documentario con materiali d’archivio al «cinema analitico»; le operazioni di riutilizzo e riscrittura possono essere diverse, ma comune appare il gioco combinatorio di selezione e accumulo, la tendenza all’inglobamento di elementi eterogenei, la predilezione per il frammento e la frammentazione. Nel cinema sperimentale la pratica del found footage designa l’integrazione risignificante di materiali già girati e ha per lo più valore di smascheramento ideologico o di opposizione estetica alle forme commerciali del cinema: il «found footage è l’irrequieta vita post mortem dell’immagine tecnica (che è un’immagine merce) che nasce già segnata dal marchio dell’imminente smaltimento»3. Come una paradossale controffensiva al consumo seriale, riciclo creativo di materiali standardizzati, il found footage ci consegna l’archivio delle nostre visioni, ci restituisce la memoria delle immagini, ordine, non tanto segreto, del nostro immaginario. Proprio nell’idea di riesumazione, di riciclaggio di qualcosa destinato a essere smaltito, eliminato, dimenticato, risiede un elemento interessante ai fini di un discorso sulla memoria. Già solo come pratica, il found footage si lega a un’idea di redenzione: un’idea molto laica, che prescinde da ogni intenzione di omaggio o di consacrazione e punta invece a riportare in vita o a nuovo sguardo le immagini. Non vogliamo certo risolvere tutte le esperienze – diversissime e assai complesse – del cinema di found footage in questa 2 Morreale 2009: 240. 3 Gherardi 2007: 53.

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La messa in scena della felicità

dimensione redentiva, ma c’è sicuramente un segmento molto significativo di artisti o autori che coltivano un gusto per il caduco e per i segni della fine, che nutrono una particolare sensibilità per il passato e per le memorie che il passato ci consegna. I Gianikian, forse i più noti e certo tra i primi in Italia a lavorare su immagini d’archivio, lo dichiarano esplicitamente: «noi trattiamo il carattere malinconico e quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto»4. In cui il morto è letteralmente il cadavere delle immagini riesumate, ma insieme è anche il fantasma del passato che le immagini congelano. Al senso di perdita che le immagini in rovina ci consegnano si accompagna un gesto di redenzione che ne riattiva la memoria, le riporta a nuova vita, le rende disponibili per nuove letture. Non c’è però alcuna intenzione di ricostruzione filologica nell’opera di questi tenaci cacciatori di reperti; c’è, invece, una precisa volontà di riscrittura di un passato percepito come «carico di presente», un passato che chiede di essere «reso trasparente» prima ancora che di essere preservato5. Oggetto della ricerca di tanti artisti che lavorano con immagini d’archivio è il contenuto di verità che le immagini ci consegnano, spesso al di là delle intenzioni di chi le ha girate, nascosto ai margini dell’inquadratura, nei dettagli sfuggiti al controllo della posa. Ricostruire la memoria delle immagini – o a partire dalle immagini – vuol dire saldare un debito col passato, letteralmente «riparare» l’immagine che del passato è stata costruita. L’atto di memoria consegnato alla riscrittura assolve una funzione veritativa: è un gesto di ricomposizione del senso a partire dalle tracce scovate dietro l’apparenza della superficie. Certo non si tratta di un’operazione archeologica di recupero, quanto dello svelamento di un nuovo significato presente nelle vecchie immagini. Quanto poco il found footage si basi su un «culto di reliquie», ma sia invece un vero e proprio atto di redenzione dei ricordi, è evidente nel film che vorrei analizzare. Si tratta di Un’ora sola ti vorrei, film del 2002 di Alina Marazzi sulla madre – Liseli Hoepli, della nota famiglia di editori milanesi – morta suicida quando la regista era solo una bambina. Il film è costruito quasi interamente a partire dalle immagini dei film di famiglia del nonno materno, Ulrico Hoepli6. Il lavoro della Marazzi è un documento di ricostruzione memoriale: è un atto

4 Dottorini 2007: 11. 5 Farinotti 2009. 6 Il materiale montato è stato selezionato tra circa venti ore di girato, sia a colori sia in b/n. Si tratta

di una sessantina di bobine che coprono un arco temporale molto ampio, dal 1926, l’anno in cui il nonno conosce la sua futura sposa, al 1972, anno della morte di Liseli, la madre della regista.

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Mariagrazia Fanchi

Mariagrazia Fanchi

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Memory reloaded

Memory reloaded il cinema e le nuove pratiche sociali della memoria

Qualche mese fa decisi di iscrivermi a You Tube. Certamente molti fra voi frequentano abitualmente il sito, ma per chi non ne avesse dimestichezza, una volta fatta richiesta di un account-utente viene creata una pagina personale. Nell’home page di ciascun utente si trovano una serie di servizi: vi è la possibilità di attivare dei feed, sistemi di aggiornamento che rendono disponibili in automatico i contenuti prodotti da un elenco di fonti scelte. Oppure ci si può iscrivere a «canali», cioè a repertori tematici di video, o a singoli content provider e ricevere sulla propria home page la segnalazione di ogni nuova proposta pubblicata. Si può entrare a far parte di uno o più social network, che funzionano a loro volta da filtri rispetto alla mole ormai inaffrontabile di contenuti disponibili nel sito (si parla di 85 milioni di video e in crescita esponenziale)1. Se tuttavia, ed è il mio caso, si fa parte della generazione di couch potatoes, dei «divanisti», cresciuta e alfabetizzata ai media nell’epoca in cui il massimo dell’interattività prevista era la telefonata a Raffaella Carrà, e non si vuole personalizzare la propria home page, è lo stesso You Tube che lo fa in tua vece, mettendoti a disposizione una serie di contenuti «consigliati per te». Si tratta di una library che viene via via modificata e aggiornata in base alle scelte che l’utente compie e al tipo di contenuti che decide di vedere e Riferimenti bibliografici: Anderson 2007; Assmann 1997; Bertetto 2007; Burgess – Green 2009; Cecchin – Gentilini 2009; Fanchi 2005; Fanchi – Villa s.d.; Farinotti 2009; Friedberg 1993; Grande 2001; Grespi 2009; Halbwachs 1994; Jedlowski 1989b; Jedlowski 2001; Jenkins 2006; Jenkins 2007; Lange 1983; Levy 1996; Namer 1987; Namer 1989; Nora 1984-1992; Rossi 1991; Tota 2001. 1 Burgess – Green 2009.

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Mariagrazia Fanchi

che va a costituire una sorta di perimetro, di cintura entro la quale si dispiega la sua esperienza. In parallelo, i contenuti scelti e visionati vengono richiamati all’interno di una specifica sezione del sito, denominata Cronologia, che assolve ad una duplice funzione: consente all’utente di accedere direttamente ai contenuti fruiti in precedenza (traendoli dal mare magnum dei video disponibili e offrendoli ad una visione ripetuta) e organizza questi stessi contenuti all’interno di un sistema di saperi. Si tratta di una struttura embrionale, che prevede un’organizzazione dei contenuti su una semplice base diacronica, ma che già configura un primo abbozzo di racconto dell’esperienza. Evidentemente quella che ci troviamo di fronte è un’inedita pratica sociale della memoria, in cui i media, e fra essi il cinema, assumono una funzione nuova e profondamente diversa da quella che la letteratura ci ha consegnato. La riflessione sulla memoria sviluppatasi in ambito sociologico e culturologico tende in effetti a liquidare forse un po’ troppo frettolosamente la questione dei media, annoverando i dispositivi della comunicazione fra i fattori responsabili della crisi che investe le pratiche memoriali nel corso del Novecento. Scorrendo la copiosa letteratura sull’argomento, i riferimenti ai media appaiono non più che episodici e concentrati in quei passaggi del dibattito in cui ci si interroga sulla perdita di memoria che affligge la Modernità. In particolare, i media vengono chiamati in causa in relazione a tre processi: l’oggettivazione della memoria, l’ipertrofia del patrimonio mnestico e l’esteriorizzazione delle pratiche memoriali. L’oggettivazione è forse il più eclatante epifenomeno delle forme che la memoria assume in epoca moderna e di quel progressivo, ma radicale, cambiamento di statuto e di valore a cui va incontro il patrimonio mnestico. L’oggettivazione è il processo attraverso il quale i saperi di una comunità vengono reificati in una serie di artefatti simbolici e raccolti in luoghi che ne garantiscono la conservazione e la continua presenza. Scrive a questo proposito Paolo Jedlowski: «La massa di materiali che è possibile conservare mediante la combinazione di scrittura, stampa e moderni procedimenti di archiviazione è impressionante […]. Proprio la sua vastità, tuttavia, unita al carattere impersonale della conservazione, la rende qualche cosa di radicalmente diverso da ciò che era conservato e trasmesso nella tradizione di un gruppo sociale specifico. Il passato depositato nella memoria sociale […] non è incorporabile nella sua interezza da nessuno: in questo senso si tratta di una memoria eccessiva»2. 2 Jedlowski 2001.

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Alessia Cervini

Alessia Cervini

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Pratiche della memoria

Pratiche della memoria Ejzenštejn, Pudovkin, Dovženko tra autobiografia e teoria

Ciò di cui questo saggio intende occuparsi è un fenomeno che può essere considerato quasi un unicum nella storia del cinema e della riflessione teorica attorno ad esso. Mi riferisco, nello specifico, a quella vera e propria pratica scritturale della memoria, attraverso la quale i grandi maestri del cinema sovietico hanno lasciato testimonianza non solo delle proprie esperienze personali, ma anche e soprattutto di un modo peculiare di concepire la realizzazione di quel particolare oggetto artistico che è il film. Si può dire, per esempio, a mo’ di tesi, che la connessione fra autobiografia e teoria – elemento che molti dei testi scritti dagli autori di cui mi occuperò nello specifico (Ejzenštejn, Pudovkin e Dovženko) lasciano facilmente emergere come loro caratteristica saliente – dipende fondamentalmente da due elementi diversi, eppure connessi fra loro: • la dichiarata aspirazione alla «generalizzazione/universalizzazione» che deve riguardare, nella prospettiva aperta dagli autori appena citati, tanto il lavoro prettamente artistico, quanto la riflessione attorno ad esso (anche quando questa è affidata alle pagine di un diario privato); • la chiara percezione (che appartiene a Ejzenštejn, quanto a Pudovkin e Dovženko) di far parte di un passato ormai lontano, di cui, dunque, è possibile parlare già in termini ricostruttivi, ovvero il più possibile oggettivi (anche quando tale ricostruzione è affidata alla testimonianza diretta di chi da quel passato proviene). Ma procediamo per gradi: il quadro teorico più generale, entro cui è posRiferimenti bibliografici: Dovženko 1973; Ejzenštejn 1982; Ejzenštejn 1985; Ejzenštejn 2006; Montani 1975; Pudovkin 1961; Pudovkin 1990; Stanislavskij 1981.

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Alessia Cervini

sibile inserire l’esperienza artistica dei tre registi menzionati, consente di comprendere e giustificare il dispiegarsi di quella forma del tutto originale di scrittura che, in Ejzenštejn come in Pudovkin, in Dovženko come in Vertov, è riuscita a tenere unito il registro prettamente intimistico dell’autobiografia al procedere argomentativo della teoria. Sull’opera di questi autori, il presente saggio di soffermerà nello specifico, senza dimenticare però l’esperienza di un regista come Dziga Vertov, che forse più di tutti intese, fin da subito, il film come il luogo in cui, in modo del tutto naturale, si deposita una memoria che è insieme collettiva e privata. Erano quelli gli anni in cui il cinema, prese le distanze dalle forme più tradizionali dell’espressione artistica (il teatro e la letteratura soprattutto), si trovava nella condizione, per la prima volta, di fare i conti, in modo consapevole, con quella matrice fotografica, che fa del cinema lo strumento più adatto non solo a costruire grandiose narrazioni di finzione, ma anche a testimoniare un reale che non può essere ignorato e anzi chiede di essere messo in forma. Sarà infatti proprio il debito contratto col reale a consentire al cinema sovietico (così come a tutta l’arte sovietica in generale) di avanzare un’istanza etica, oltre che stilistica, nota come realismo socialista: istanza che va intesa esattamente nei termini della connessione intima che il cinema non può smettere di intrattenere col reale, al di là di tutti i fraintendimenti formalistici e ideologici a cui diede adito la formulazione del realismo da parte di Gorki, al quale, dal canto loro, Ejzenštejn soprattutto, ma anche Dovžensko e Pudovkin, si opposero in occasione di quella famosissima Conferenza dei lavoratori della cinematografia sovietica (1935), nella quale due generazioni di registi si contrapposero (semplificando, quella del muto e quella più giovane di autori ˇ come i fratelli Vasil’ev, reduci del grande successo di Capaev, 1934). Ma se le cose stanno così, se è vero cioè che il cinema è ontologicamente (sarà questa, come è noto, anche la posizione di Bazin, anni dopo) connesso a un reale di cui conserva la traccia, è addirittura ovvio in che senso si possa, o si debba dire che il cinematografo è lo strumento attraverso la cui mediazione (mediazione che ha il carattere specifico della scrittura, sebbene di una scrittura del tutto particolare, come è quella che si serve di immagini e suoni) è possibile conservare memoria di un «è stato», che sopravvive e trova la propria continua riattualizzazione nel cinema. È questa l’idea che ha mosso, solo per fare un esempio, molti anni più tardi, Godard nella realizzazione di un’opera come le Histoire(s) du cinéma (19891998), ovvero la convinzione seducente che la storia del XX secolo coincida fondamentalmente con la storia del cinema; ma è anche l’idea che stava alla base, per esempio, dei grandi progetti vertoviani come Kinoglaz (1924) e Kinopravda (1922-1925). Nell’opera di Vertov, soprattutto in quella di tipo 72


Alessia Cervini

Patrizia Caproni – Leonardo Gandini

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Memorie riflesse

Memorie riflesse lo schermo tra vero e falso

1. Volumi in lingua italiana Augé, Marc 1998 Les formes de l’oubli. Parigi: Payot & Rivages (trad. it.: Le forme dell’oblio. Milano: Il saggiatore, 2000, trad. di Roberto Salvadori). «L’oblio ci riconduce al presente, pur coniugandosi in tutti i tempi: al futuro, per vivere il cominciamento; al presente, per vivere l’istante; al passato, per vivere il ritorno; in ogni caso, per non ripetere. Occorre dimenticare per rimanere presenti, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedeli» (p. 124). Bisogno, Anna 2008 La storia in tv: immagine e memoria collettiva. Roma: Carocci (in particolare capitolo 1, paragrafo 2.2, «L’immagine e la memoria»: 28-30). «La relazione tra memoria e immagine è contraddittoria: la seconda può conservare la prima, ma anche cancellarla. Le immagini, anche quelle in movimento, sono statiche, fissano per sempre le apparenze di un evento, mentre la memoria si modifica nel tempo: le immagini rimangono le stesse, ma cambia il significato a esse attribuito. Inoltre, sono sì una prova di quanto è successo, ma possono essere manipolate, e la memoria diventa allora incerta. In alcuni casi, la differenza tra l’esperienza reale e la sua immagine può scomparire: l’immagine, allora, si sostituisce alla memoria e la crea» (p. 28). 83


QUADERNI DI ARCHIVIO TRENTINO

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QUADERNI DI ARCHIVIO TRENTINO

La memoria e il cinema hanno, non da oggi, un destino comune, nel segno di un reciproco interesse a promuovere la propria immagine pubblica e la propria funzione sociale. Dopo oltre un secolo di percorsi e destini paralleli, la memoria e il cinema si trovano oggi a un punto di convergenza che si configura, a tutti gli effetti, come un luogo d’ibridazione. È ancora possibile parlare di un rapporto fra memoria e cinema, alla luce del fatto che qualsiasi relazione prefigura un incontro, più o meno articolato, fra due entità contestuali, ma distinte e differenziate? O invece le dinamiche della compenetrazione e della contaminazione sono tali da imporre una riflessione legata in modo imprescindibile alla dimensione memoriale del cinema e alla dimensione cinematografica della memoria? A queste domande tentano di rispondere i saggi contenuti in questo volume che costituiscono gli atti del convegno svoltosi a Trento nel dicembre 2009, secondo degli appuntamenti annuali internazionali in previsione.

Leonardo Gandini è professore associato di Storia e critica del cinema presso l’Università degli

studi di Modena-Reggio Emilia. Autore e curatore di diverse pubblicazioni sul cinema americano, si è occupato in particolare, sul piano della ricerca, del cinema noir hollywoodiano tra gli anni quaranta e cinquanta e dell’immaginario urbano nella produzione classica e contemporanea. Dal 2008 cura insieme a Andrea Bellavita il convegno internazionale «Memoria e mass media», organizzato dalla Fondazione Museo storico del Trentino.

Daniela Cecchin si occupa dell’organizzazione di eventi cinematografici legati al tema della

montagna. Dal 2004 collabora con l’Archivio di cinema e storia attivo presso la Fondazione Museo storico del Trentino. Ha partecipato alla realizzazione di numerosi documentari dedicati a testimoni e a eventi del Novecento che hanno coinvolto singole comunità della provincia di Trento.

Matteo Gentilini è responsabile dell’Archivio di cinema e storia attivo presso la Fondazione Museo storico del Trentino. Negli ultimi anni si è particolarmente impegnato nella raccolta di videointerviste e ha collaborato attivamente alla realizzazione di numerosi documentari dedicati a testimoni e a eventi del Novecento che hanno coinvolto singole comunità della provincia di Trento. ISBN 978-88-7197-127-8

€ 10,00

Memorie riflesse

Memorie riflesse lo schermo tra vero e falso

L. GANDINI, D. CECCHIN M. GENTILINI

LEONARDO GANDINI, DANIELA CECCHIN e MATTEO GENTILINI

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QUADERNI DI ARCHIVIO TRENTINO

LEONARDO GANDINI DANIELA CECCHIN e MATTEO GENTILINI

se s e fl i r e i Memor ero e falso

tra o m r e h c lo s

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