Una storia fatta a persona: contributi per un dizionario biografico trentino del XX secolo

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Una storia fatta a persona contributi per un dizionario biografico trentino del Novecento

a cura di

Rodolfo Taiani

MUSEO STORICO IN TRENTO ONL US ONLUS

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Premessa

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el volume sono raccolti dieci interventi relativi ad altrettanti personaggi trentini vissuti nel XX secolo. Lo scopo è quello di contribuire nello sguardo d’insieme a svelare legami, contiguità, discontinuità e concatenazioni in un tessuto di eventi assai più ricco e articolato di quanto i singoli saggi possono permettere di intuire o la delimitazione di un’area geografica consentire. Il volume è formato da quanto è già comparso pubblicato sulla rivista del Museo storico in Trento, Archivio trentino di storia contemporanea prima e Archivio trentino poi, a partire dal 1996. Tutti gli articoli, pur mantenendo la forma originaria, hanno subito un intervento di riadattamento e correzione e talvolta di aggiornamento almeno nei riferimenti bibliografici. Il risultato complessivo non è certo omogeneo, poiché diversi sono gli approcci seguiti dai vari autori. Non manca, tuttavia, unitarietà nella misura in cui ognuno d’essi apporta il proprio tassello di conoscenza alla lettura di un secolo contrassegnato da traumatici cambiamenti e dirompenti contraddizioni. Questa raccolta di scritti è anche occasione per impostare possibili lavori futuri: da una parte la produzione di un dizionario biografico trentino del Novecento e dall’altra la pubblicazione di volumi nei quali recuperare tematicamente articoli e contributi già apparsi sulla rivista di studi del Museo storico in Trento e che nella loro riproposizione costituiscano sia momento di sintesi del cammino svolto, quanto sollecitazione in direzione di ulteriori approfondimenti o di apertura verso nuove prospettive di ricerca. La realizzazione del volume rientra inoltre fra le iniziative pensate in accordo con l’Associazione culturale Francesco Gelmi di Caporiacco per

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rendere omaggio a Piero Agostini, giornalista di grande spessore umano e professionale. Per la prima volta compare, infatti, un profilo scritto dal figlio Angelo e composto grazie ai ricordi e alle suggestioni di alcuni fra coloro che ebbero la fortuna di lavorare al suo fianco. Anche la terza edizione del premio Francesco Gelmi di Caporiacco, svoltasi nel corso del 2005 e aperta alla partecipazione di frequentanti le scuole di giornalismo e tirocinanti presso quotidiani, periodici e radio-tv, è stata dedicata a Piero Agostini. Le due iniziative trovano collegamento e fondamento nella prospettiva suggerita da Piero Agostini stesso, che indicava nel giornalismo un mezzo straordinario e insostituibile per contribuire alla costruzione di quel senso della storia – «che è poi il ‘senso’ delle società, nel suo territorio, con i suoi conflitti, con le sue conquiste» – indispensabile a cogliere gli orientamenti futuri dello sviluppo civile e culturale di qualsiasi comunità umana. r. t.

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Angelo Agostini*

Piero Agostini 1. Le parole e la vita. La sua vita, certamente, che era ricca d’amicizie e d’affetti, che s’esprimeva tuttavia prima di tutto nel lavoro. Un lavoro costruito di parole sulla vita degli altri che erano soggetto, tema e interlocutore del suo mestiere di giornalista, storico e scrittore. Sergio Zavoli aveva usato il tasto della politica e della passione. A poche ore dalla morte improvvisa, una notte d’estate del 1992, l’aveva ricordato così: «in tempi in cui una società grassa non rinunciava tuttavia ad avere un’anima, ha messo insieme un’idea di crescita collettiva sostenuta da un fondamento: che la politica significa ‘uscirne insieme’ in nome di qualcosa che vale per ciascuno e per tutti». Laura Mezzanotte, giornalista cresciuta alla sua scuola a l’Adige di Trento, aveva trovato una nota complementare:

«Ci ha fatto amare il giornalismo, Piero Agostini. Capire che è un mestiere delicato, difficile, fatto di linee sottili che dividono la volgarità dalla vita. Ci ha insegnato che la libertà è diritto e dovere di scegliere».

* Questo testo è stato redatto sulla base di materiali, appunti ed altri testi preparati da Sergio Borsi, Toni Cembran, Sandra Tafner e Toni Visentini. Le foto che illustrano l’articolo provengono dall’Archivio de l’Adige.

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Lui, di se stesso, aveva scritto parole che ancora oggi, nel tempo, sembrano integrare ciò che amici e colleghi avevano saputo trovare in quel momento sospeso, quello dello stupore e del dolore. Assumendo la direzione di Bresciaoggi s’era lasciato sfuggire uno sprazzo biografico: «Se, per un istante, devo parlare anche di me, lo faccio senza espressioni di circostanza. Amo il mio mestiere. Amo la vita nei giornali che è, come tanti sanno, coinvolgente fino a diventare qualche volta totalizzante. In fatto di direzioni ho avuto qualche privilegio (e la cocciutaggine) di poter fare delle scelte, dicendo ‘sì’ solo di fronte a una sicurezza d’inarrivabile fascino: quella che la mia avventura umana e professionale si sarebbe arricchita in ambienti giornalistici ad alta intensità di partecipazione, fra tensioni civili e culturali capaci di trasformare ogni giornata di lavoro in una giornata di autentica ricerca sul campo, dentro rapporti non banali ma intensi, forti, laboriosi (faticosi, certo faticosi!) con la società, con le sue istituzioni, con la sua storia, con i suoi cambiamenti strutturali, economici, di costume, perfino d’umore. Un giornalismo che abbia in sé anche il senso della storia – che è poi il ‘senso’ della società, nel suo territorio, con i suoi conflitti,

con le sue conquiste – è, com’è ovvio, l’espressione massima del giornalismo stesso. È difficile che ciò avvenga? Lo è tanto. Anzi, lo è tantissimo, al punto che l’operazione non sempre riesce. Ma l’operazione non può nemmeno essere tentata se alla sua base di partenza non ricorrono tutti, nessuno escluso, quei requisiti di intensa partecipazione, quelle tensioni civili e culturali, quella faticosa voglia di ricerca, quei rapporti non banali, quella società, quelle istituzioni, quella storia, quei cambiamenti che poco fa, qualche riga sopra, ho sommamente tentato di individuare». A quelle sul versante pubblico (e collettivo, professionale, sociale e culturale) del giornalismo aveva poi saputo anche affiancare le parole per descrivere quello personale. Pagina necessaria e indispensabile per comprendere come nella sua storia di giornalista avesse trovato posto la vocazione dello storico, o del ricercatore, del narratore di vicende fuori dai confini dell’attualità quotidiana. E così ha raccontato: «quella sorta di conflitto tanto masochistico, tanto carico di piccole e grandi carognerie, che ogni giornalista che si rispetti è abituato a ingaggiare con se stesso quando si punzecchia su un aggettivo, si tormenta su un avverbio, si macera su un’idea da gettare per sostituirla con un’altra

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Giuseppe Ferrandi

Gigino Battisti

Roma, 4 novembre 1924, Piazza del Popolo. Duemila aderenti dell’associazione democratica e combattentistica «Italia Libera» danno vita ad una manifestazione per celebrare la vittoria della guerra conclusasi sei anni prima e per protestare contro il fascismo e il governo Mussolini. Ad un certo punto squadre fasciste irrompono sulla piazza. Sono armati: sparano e terrorizzano i manifestanti. Alcuni ex-combattenti rispondono all’aggressione. Tra questi troviamo un giovane studente che a Roma si sta laureando in scienze economiche, di cognome si chiama Battisti, come suo padre Cesare, di nome Luigi, per tutti Gigino. I fascisti dimostrano di temere «Italia Libera», l’associazione nata nel luglio del 1923 da un gruppo di ex combattenti della sinistra repubblicana tra i quali, oltre al ventiduenne Battisti, la medaglia d’oro Raffaele Rossetti, l’ex segretario del partito 1

repubblicano e direttore della Voce repubblicana Fernando Schiavetti, il deputato Cipriano Facchinetti e Randolfo Pacciardi. Tutti uomini che ritroveremo tra i protagonisti dell’antifascismo militante e tra i dirigenti della Resistenza italiana. All’indomani della manifestazione, il Direttorio nazionale del PNF attaccava pubblicamente il gruppo promotore, accusandolo di aver turbato le solenni celebrazioni. In particolare, a pochi mesi dall’assassinio di Giacomo Matteotti, i fascisti non sopportano che gli ex-combattenti abbiano voluto promuovere «una giornata antifascista all’ombra della celebrazione della Vittoria», disturba enormemente che tra i manifestanti, studenti ma anche decorati della Grande Guerra, figurino il nipote di Garibaldi e il primogenito di Battisti1. Da tempo contro Gigino era iniziata una violenta campagna della stam-

Il documento è riportato sul quotidiano L’Impero. Roma, 6-7 novembre 1924.

Gigino Battisti

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pa fascista. Il Corriere italiano, diretto da Filippo Filippelli (giornale e direttore coinvolti nel delitto Matteotti), aveva pubblicato, attribuendola a Gigino, la ricevuta di denaro di un Battisti, che poi, di nome, si rileverà Oliviero, quale partecipante alla marcia su Roma, con l’accusa che di quel denaro non era poi stato dato regolare resoconto. La dura lettera di protesta di Gigino venne pubblicata da La Voce repubblicana, ottenendo la diretta e ufficiale smentita da parte di Mussolini. Ma la stampa fiancheggiatrice del fascismo, compreso il trentino Brennero, continuò in una campagna senza tregua, condita dall’invettiva, l’insulto, la calunnia. Il quotidiano politico L’Impero del 29 febbraio 1924, pubblica un corsivo dal titolo eloquente «Il Martire N. 2», firmato dal direttore Mario Carli, che provocatoriamente scrive: «se la grande ombra di Cesare Battisti potesse aver voce e giudicare l’opera... dissidente del proprio rampollo, con molta probabilità lo accuserebbe di averlo una seconda volta impiccato. […]. Fatte le debite proporzioni, anche Gigino comincia ad essere circonfuso dall’aureola del martirio. È un martirio un po’ diverso da quello

paterno: si capisce, i tempi progrediscono, e al posto della forca asburgica ci sono le colonne dei giornali. Così, al posto di una testa penzolante sulla quale il cielo scende benedicendo, c’è una firma un po’ sbilenca che ha tutta l’aria di essere irritata e indignata. […]. Poiché oggi – conclude Carli – non sono più tempi di forca, poiché da Cesare a Gigino c’è una certa differenza di statura e di contenuto spirituale, è giusto che il martire N. 2 si accontenti di vedere la propria firma crocefissa su qualche giornale»2. Minacce, insulti, solo apparentemente dissimulati da un’intonazione vagamente satirica. Dopo la manifestazione romana del novembre 1924, è Roberto Farinacci, futuro segretario nazionale del fascio, che dalle colonne di un giornale di provincia, si rivolge a Battisti, con un consiglio «Gigino… fai meno il Gigino»3, questo è il titolo dell’articolo, che rilancia il ritornello del grande padre, il Martire, che guarda infastidito al comportamento del piccolo e insignificante figlio. «Non è scritto che i figli degli eroi, dei genii, dei martiri, debbano necessariamente essere eroi, genii o martiri».

Mario CARLI, «Il martire n. 2». L’Impero. Roma, 29 febbraio 1924. Roberto FARINACCI, «Gigino… fai meno il Gigino». Cremona nuova. Cremona, 11 novembre 1924. 2 3

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Elsa Conci

Primogenita di cinque sorelle, Elsa (Elisabetta) Conci nacque a Trento il 23 marzo 1895, figlia dell’avvocato Enrico Conci, futuro deputato alla Dieta di Innsbruck e al Parlamento di Vienna, e di Maria Sandri. Dalla famiglia ebbe un’educazione profondamente religiosa che improntò tutta la sua vita. Frequentò il liceo privato femminile delle suore Orsoline ad Innsbruck, dove conseguì la licenza «con distinzione» il 4 luglio 1915. Nel dicembre di quell’anno si diplomò pure in pianoforte. Dopo aver conseguita la licenza liceale, raggiunse il padre che dal giugno 1915 si trovava confinato a Linz con la famiglia. Contro di lei venne avviato un processo per irredentismo, che però non arrivò alla sentenza per la sopravvenuta amnistia alla morte dell’imperatore

Francesco Giuseppe. Nell’autunno 1915 si iscrisse alla facoltà di filosofia dell’Univeristà di Vienna, facoltà che frequentò per tre anni, fino all’ottobre 19181. Finita la guerra, passò alla facoltà di lettere dell’Università di Roma, dove si laureò con lode il 2 dicembre 1920, discutendo la tesi «Il Mefistofele di Arrigo Boito come espressione del romanticismo milanese». Un saggio della tesi, rielaborata, venne pubblicato nel 1921 dalla rivista Studium di Roma2. Nel periodo universitario Conci fu molto attiva nella Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI)3 e ne divenne in seguito presidente della sezione romana. Un corso di esercizi spirituali tenuto ad Intra dall’assistente ecclesiastico nazionale di tale associazione, mons. Pini, fu determinante per

Museo storico in Trento, Archivio Conci, fasc. 60, attestati scolastici e curriculum degli studi. CONCI Elsa 1921. 3 Sulla FUCI che, fondata nel 1896 a Fiesole, ebbe alle origini l’impronta del movimento sociale di Romolo Murri, si veda FANELLO MARCUCCI 1971. 1

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indirizzare la sua vita all’ideale evangelico della carità e del solidarismo. Dal 4 al 6 settembre 1920 partecipò al congresso nazionale di Trento della FUCI, presieduto da Alcide Degasperi, che si svolgeva contemporaneamente alla prima assemblea dell’Associazione universitaria cattolica trentina (AUCT). In quel congresso la Conci tenne una relazione su «La moralità della giovane»4, nella quale trattò della formazione morale dell’universitaria che si sarebbe dovuta porre come dovere morale per reagire ad ogni forma di immoralità nelle università. Tale formazione acquistava per lei un significato particolare per l’influenza che la donna poteva esercitare sui suoi compagni di studi, con il suo contegno semplice ed onesto. Nella sua relazione sottolineò pure come le universitarie avessero avuto molta parte in seno alle sezioni di Roma, Padova, Pavia e Firenze, riconoscendo e lodando l’opera da esse svolta nel dopoguerra. Vinta nel 1923 la cattedra di lingua tedesca nei licei scientifici, rifiutò l’assegnazione al liceo di Pavia, che l’avrebbe tenuta lontana dall’ambiente trentino nel quale aveva già iniziato un’intensa opera di organizzazione della gioventù femminile. Preferì una cattedra di tedesco presso l’Istituto tecnico inferiore Leonar-

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do da Vinci di Trento dove insegnò per quindici anni. La scuola rappresentò per lei il primo campo di azione sociale. Interessata all’ambiente familiare dei propri alunni, quando ancora non era nata l’idea del doposcuola, ne creò uno privato e gratuito che arrivò ad avere fino a 35 alunni. A questo lavoro parascolastico si aggiungeva quello che svolgeva con grande passione nell’ambito dell’Azione cattolica, organizzando tra le giovani gruppi di assistenza caritativa a favore dei poveri. Fin dai primi anni d’insegnamento organizzò nella scuola il Natale del povero per numerosi alunni bisognosi e assunse a suo carico tutte le spese per il mantenimento di due orfani di un istituto del Tirolo. Si prese pure cura di alcuni ragazzi orfani o senza famiglia che assistette come una madre nel suo appartamento di via Santa Trinità; in seguito, nel 1927, le fu offerto un appartamento più grande. Anche il giudice dei minori di Trento si rivolgeva a lei per qualche caso particolare. Dal 1939 al 1945 insegnò tedesco nell’Istituto tecnico Tambosi di Trento. Il 3 febbraio 1933 venne iscritta al Fascio femminile di Trento, ma fascista non fu mai. Quando il governo approvò le leggi razziali, Elsa Conci, in un quaderno manoscritto

FANELLO MARCUCCI 1971: 145-146. Si confronti pure PICCOLI – VADAGNINI 1985: 322.

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Enrico Conci

Enrico Conci nacque a Trento il 24 giugno 1866 da Germano Conci, di Mollaro in Valle di Non, notaio, e da Maria de Zinis. Ebbe in famiglia un’educazione improntata profondamente ai principi della religione cattolica che lo ispirarono nel corso dei novantaquattro anni della sua lunga vita. Dal 1877 al 1885 frequentò gli studi secondari, dapprima presso il ginnasio di Stato di Trento, poi in quello dei P.P. Benedettini di Merano, infine nuovamente nel ginnasio di Trento dove, il 31 luglio 1885, conseguì il diploma di maturità. Il 12 dicembre 1885 s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Innsbruck, con l’intenzione di intraprendere la carriera notarile sulle orme del padre, e, il 23 giugno

1886, alla stessa facoltà dell’Università di Vienna. «Applicandomi agli inizi della mia vita universitaria allo studio della lingua inglese – scriverà egli nelle sue memorie1, rimaste inedite – restavo particolarmente impressionato da un proverbio che diceva essere l’uomo tanto più felice quanto meno egli si occupa di affari pubblici (‘men are more happy the less they are involved in pubblic affairs’): malgrado quel monito le mie occupazioni di gran lunga preponderanti sono sempre state di natura pubblica». […] Se tuttavia mi sono determinato a dedicarmi alla vita pubblica, lo ho fatto solo ritenendo di compiere un preciso dovere». Il 18 giugno 1890 si laureò in giuri-

1 Museo Storico in Trento, Fondo Conci, fasc. 33, I miei ricordi, p. 6. Queste memorie hanno il carattere di un racconto semplice e quasi familiare, e, in quanto basato quasi esclusivamente sul ricordo di fatti lontani, come scrive lo stesso Conci, «necessariamente molto difettoso e slegato, col solo pregio di essere pienamente sincero e, almeno nelle intenzioni, esatto» (cfr. prefazione a p. 1).

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sprudenza all’Università di Innsbruck e, il 15 dicembre dell’anno seguente, superò l’esame pratico notarile. Iniziò subito la pratica di avvocatura presso l’avvocato Gaetano Gilli a Trento. Ma l’anno 1891 fu particolarmente importante per il Conci anche per un fatto che si rivelò determinante per la sua scelta di dedicarsi alla vita politica. Ai primi di marzo si erano svolte a Trento le elezioni al Parlamento di Vienna e suo padre vi aveva partecipato come candidato del partito clericale, ma riuscì eletto al suo posto il candidato liberale Giovanni Ciani. Alla sera del giorno 8 si tenne una dimostrazione ostile sotto la casa di Germano Conci con urla e fischi. Il figlio Enrico reagì scrivendo ancora il giorno seguente una dichiarazione di protesta che inviò ai due giornali clericali che uscivano a Trento, Il popolo trentino dei clerico-nazionali e La voce cattolica dei clerico-conservativi, in cui proclamava piena solidarietà con suo padre e dichiarava decisamente di professarne le medesime idee sia sul piano religioso come su quello politico-nazionale. La dichiarazione ven-

ne pubblicata dai rispettivi giornali2, accompagnata da vivi apprezzamenti: ciò, oltre che procurare una grande soddisfazione a suo padre, decise anche della via ch’egli avrebbe intrapresa nella vita pubblica. Il 28 aprile 1893 sposò Maria Sandri, dalla quale avrà cinque figlie: Elisabetta (Elsa), Lidia, Amelia, Emma e Irma. Nel novembre 1895 venne eletto alla Dieta di Innsbruck, ma, non avendo ancora compiuto i trent’anni, la sua elezione non fu convalidata. Venne rieletto nel novembre dell’anno successivo per i distretti rurali di Cles, Malé, Fondo e Mezzolombardo. Iniziò così la sua vita politica militando nel partito clerico-conservativo. I deputati trentini alla Dieta praticavano allora la tattica dell’astensionismo, per protesta contro l’atteggiamento della maggioranza tedesca che si opponeva alla loro richiesta di autonomia amministrativa del Trentino dalla Provincia tirolese. Ma tale tattica andava sempre più rivelandosi sterile, perché di fatto lasciava la maggioranza tedesca sola padrona dei deliberati dietali. Per questo si pensò di passare dall’astensio-

2 CONCI Enrico 1891a e CONCI Enrico 1891b. In particolare La voce cattolica scriveva a commento della dichiarazione: «Lode e ammirazione a questo giovane atleta che può servire da modello alla studiosa gioventù, e le nostre congratulazioni al fortunato genitore. Voi dite, o liberali, che i preti quando si presentano candidati al Parlamento lo fanno per sete di dominio; dateci avvocati della tempra e de’ sentimenti di questo giovane, ed allora i vostri deputati saranno pure i nostri ed i preti i primi voteranno pei vostri candidati sicuri che al Parlamento difenderebbero come si conviene i diritti della religione avita».

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Alfredo Degasperi

Alfredo Degasperi era appena ventenne quando, il primo novembre 1911, iniziò a pubblicare a Rovereto La Voce Trentina1, una «Rassegna d’idee per gli Italiani in Austria». Il periodico, prima quindicinale e poi a scadenza irregolare, s’ispirava alla ben più famosa Voce di Prezzolini che aveva iniziato le pubblicazioni a Firenze qualche anno prima, nel 1908, ed aveva anche avuto fin dall’inizio l’incoraggiamento del letterato fiorentino. Esso ebbe vita breve: ne uscirono infatti solo 12 numeri, fino al 13 settembre 1912, con una tiratura di circa 500 copie. Pur con gli evidenti limiti dovuti all’immaturità e all’inesperienza del direttore, come di alcuni collaboratori, scelti soprattutto nella cerchia dei suoi giovani amici, La Voce Trentina costituì comunque un’esperienza originale e significativa per il giornalismo trentino del tempo. Il periodico gravitava nell’orbita del

futurismo, aveva una forte connotazione nazionale ed esprimeva spesso, sul piano culturale, tendenze radicali. Esso si poneva soprattutto il fine di un rinnovamento ab

1 Una collezione completa de La Voce Trentina è conservata nella Biblioteca comunale di Trento. Su La Voce Trentina si confronti in particolare CARPI 1979: 16-34.

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imis della cultura trentina, nel tentativo di saldarla alla cultura italiana in uno dei suoi centri più vivi, Firenze con il movimento che faceva capo a La Voce. Parecchi dei collaboratori de La Voce Trentina scrivevano pure su La Voce di Firenze. Alcuni sarebbero poi divenuti famosi nei campi della letteratura italiana (come i triestini Scipio Slataper, Umberto Saba e Alberto Spaini), nell’arte (Tullio Garbari di Pergine) e nella filosofia (Emilio Chiocchetti di Moena, Lorenzo Michelangelo Billia di Cuneo, Bruno Nardi di Altopascio – Lucca, Giuseppe Saitta di Trieste e Bernardino Varisco di Chiari – Brescia). Dal primo gennaio 1912 il periodico aperse le sue colonne ad una rubrica dal titolo Per una patria, dove pubblicò contributi originali di esponenti di vari movimenti irredentistici europei. Così apparvero articoli di militanti del movimento fiammingo, di quello cretese, dell’italo-ticinese, dell’irlandese, del lituano e del polacco. Tra gli autori degli articoli vi furono delle firme importanti, quali quelle di Frams Brusselmans per il movimento fiammingo, di Ios. Vander Wael di Lovanio e di J. Gabrys, amministratore dell’Office Central

des Nationalités a Parigi. Degasperi tenne in quel tempo un attivo scambio epistolare con vari centri di quelle che definiva «nazionalità oppresse e frazioni oppresse di nazionalità unificate». In nessuno dei dodici numeri del periodico mancò un forte e polemico articolo di Degasperi che propugnava le sue idee nazionali e futuriste, al di fuori e al di sopra dei partiti politici trentini. Un quaderno di appunti2, iniziato da Degasperi il 25 ottobre 1911, qualche giorno prima che uscisse La Voce Trentina, è lo specchio del suo stato d’animo e del travaglio d’idee e di sentimenti che lo porterà ad aderire con entusiasmo al futurismo di Marinetti e di Depero, dei quali diverrà anche intimo amico. In esso si parla del suo tumultuoso attivismo e della sua ferma volontà di primeggiare e di porsi come guida («O conducente o trascinato? Conducente! Conducente!»3), ma vi appaiono anche i momenti di insicurezza e di profondo scoramento («Sono distrutto: sballottato. I vent’anni non sono come li avevo sognati. Pieni, sicuri, forti. Responsabili. Perché, perché? ... Perché così poca fiducia, così poco ordine, così scarso volere?»)4.

2 Museo storico in Trento, Archivio Alfredo Degasperi, b. 1, f. 6, «Quaderno di appunti di Alfredo Degasperi (1911)». 3 Museo storico in Trento, Archivio Alfredo Degasperi, b. 1, f. 1. 4 Museo storico in Trento, Archivio Alfredo Degasperi, b. 1, f. 2.

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Giuseppe e Vittorio Gozzer

A cinquantacinque anni dalla Liberazione, il nostro pensiero è rivolto a due protagonisti della storia resistenziale, due fratelli trentini: Giuseppe e Vittorio Gozzer. Il primo, medaglia d’oro alla memoria, ucciso dai nazisti nel campo di concentramento di Heerbruck-Flossenburg, in Sassonia, nel marzo del 1945. Il secondo, medaglia di bronzo al valor militare, ucciso da infarto ad 82 anni nel febbraio 2000, mentre a Belluno partecipava ad un dibattito sulle interpretazioni del nostro passato, in particolare su quel periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Un periodo che fu tragico e decisivo per le sorti dell’Italia, e che non cessa a più di cinquant’anni di dividere e di suscitare passioni. E alle sue passioni, innanzitutto civili e democratiche, Vittorio non sembrava in alcun modo rinunciarvi. Da protagonista della Resistenza, da intel-

lettuale, da cittadino democratico, egli aveva le idee chiare e si sforzava di esporle in modo gentile, ma

* Testo del discorso commemorativo pronunciato il 25 aprile 2000 a Trento nella sala di rappresentanza di Palazzo Geremia.

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altrettanto convinto e fermo, consapevole che non stava difendendo una personale esperienza ma che, nel portare argomenti ad una determinata interpretazione storica, contribuiva ad affermare, a rinnovare e a diffondere una concezione della democrazia e della libertà. Così fece in quella serata di Belluno, di fronte ad una platea ostile ed intollerante. Con le armi della parola e della ragione, sostenne un’ultima volta ancora le idee che avevano animato la lotta di liberazione. Per l’ultima volta rifiutò di ridurre la discussione su quella drammatica lotta ad un rito utile alla pacificazione nazionale. Con Gozzer era sempre possibile un confronto dialettico nel rispetto di posizioni anche divergenti, ciò che non poteva considerare legittimo era il tentativo di «equiparare nel bene e nel male resistenti e repubblichini»1. Per lui, la storia si era già incaricata di dare torto e di dar ragione. Nell’unico nostro incontro, in occasione del quale registrammo una lunga intervista video per il Museo storico in Trento, ebbi l’opportunità di apprezzarne le caratteristiche personali, l’ospitalità, la vivacità intellettuale, la cordialità con la quale, da vecchio professore, si rapportava ai suoi più giovani interlocutori. Ma la cosa che più mi colpì fu un grande equilibrio nel rievocare la sua espe1

rienza. Con stile asciutto, rifuggendo le obbligate forme della retorica, si mise a raccontare la complessa vicenda del fratello Giuseppe ed in quel racconto, con prudente signorilità, quasi in punta di piedi, inserì la sua storia personale. Lo fece individuando nel primato della ragione l’elemento di guida che gli aveva permesso di attraversare da antifascista gli anni del fascismo e le vicende belliche, da uomo e da militare che rifiutava la violenza gratuita. Una ragione, la sua, imbevuta e radicata nell’umanesimo, un percorso di vita nel corso del quale egli seppe assumere coraggiosamente scelte di campo quando la tragedia di un tempo di guerra le impose. Per intraprendere questo breve viaggio interno alla storia resistenziale, giova commentare la fotografia che ritrae il 6 giugno 1944 Giuseppe e Vittorio nella Roma appena liberata. Vittorio veste una divisa dell’esercito americano e porta l’elmo da combattimento, sta fissando l’obiettivo… Giuseppe, Bepi come lo chiamavano parenti ed amici, ha invece abiti borghesi, nella mano destra tiene un giornale, non guarda l’obiettivo e in quel momento volge lo sguardo alla sua destra, pensieroso. È una foto normale, un’immagine come tante che ritrae in un momento di tranquillità due protagonisti della lotta di liberazione, due fratelli

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Giuseppe Pantozzi

Aldo Pantozzi

1. Richiesto di tracciare alcune note biografiche su mio fratello Aldo, uno dei partigiani di Fiemme, dovrei prender le mosse dal 5 marzo 1919, giorno in cui nacque ad Avezzano, nella Marsica. Invece è spontaneo per me iniziare dal 13 gennaio 1915, giorno che costituì un discrimine nelle vicende della nostra famiglia. All’alba di quel giorno invernale un gruppo di giovani ventenni (tutti nati nel 1895) percorreva il viale, deserto, che univa Avezzano alla sua stazione: andavano verso il treno che li avrebbe portati al servizio militare. Non cantavano, come fanno i coscritti, un vento gelido spazzava la pianura avezzanese. Ma uno di loro procedeva suonando un’ocarina: una melodia popolare fra il melanconico e il brioso. Erano le 7:25. Solo mio padre seguiva il gruppo, aveva 28 anni, andava in stazione per il suo lavoro di ferroviere; sentiva quel suono dolce, che colpiva il suo animo gentile. Fu un attimo: udì un fragore tremen-

do; vide una gigantesca nube di polvere levarsi al cielo nel luogo in cui era la città. Prese a correre in quella direzione. Trovò una montagna di macerie. Scavò con le mani dove era la sua casa, nella speranza di cogliere un segno di vita. Non c’era più vita lì attorno, solo Aldo Pantozzi

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32.610 morti e la disperazione dei giovani del 1895, che vagavano, accecati dalla polvere e dalle lacrime1. Il terremoto lo aveva d’un tratto reso orfano, solo; nessun parente, nessun amico era in vita. E dopo cento giorni, l’angoscia dominava ancora l’animo di mio padre, cominciava la prima guerra mondiale; un altro tipo di massacro, un’altra serie di ansie e di sacrifici. Aldo nacque il 5 marzo 1919, quando questa serie di tragedie aveva fine: fu il segno che la vita riprendeva dopo il terremoto, dopo la guerra, che la famiglia distrutta avrebbe avuto un futuro per volontà del Signore. Il bambino nacque in una baracca di legno, costruita nei pressi dello scalo ferroviario. Erano stati i primi prigionieri di guerra austriaci, portati dal fronte alle zone devastate, a inchiodare le assi con molta cura. L’intera baraccopoli era, per dir così, «made in Austria» e la mamma ha sempre ricordato quei diligenti e affamati soldati «asburgici», come li chiamavano, che si dichiaravano felici d’esser messi a lavorare in favore di una popolazione così duramente colpita.

Nel 1923 papà fu nominato capostazione di Tagliacozzo, la cittadina abruzzese «in cui senz’armi vinse il vecchio Alardo»2. Là Aldo frequentò le elementari e, dopo queste, l’istituto di avviamento al lavoro: fu iscritto (anno scolastico 1930-1931) alla sezione «ferro». Non v’erano altre scuole postelementari. Sarebbe diventato un buon meccanico se la mamma ed il papà non avessero preteso per lui il ginnasio, a costo di qualsiasi sacrificio: sentivano che il loro figliolo avrebbe potuto affrontare studi superiori. Papà chiese alle ferrovie una sede di lavoro vicina ad una città in cui fosse un ginnasio. Così ci trasferimmo a Pergine e Aldo fu iscritto al ginnasio-liceo «Giovanni Prati» di Trento nell’anno scolastico 1931-19323. Lo studente in ferro divenne studente in latino e subì il fascino di quella lingua difficile e di quella città, non meno difficile per chi giungeva dal sud. Ma quel viaggiare da Pergine a Trento e ritorno non piaceva ai nostri genitori: Aldo era tutto il giorno fuori casa, studiava nelle sale d’aspetto. Papà chiese il trasferimento a Merano nel 1932. Ancora una volta non cam-

1 Il terremoto ebbe in Avezzano il suo epicentro. La sua forza raggiunse il grado XI della scala Mercalli. Le scosse furono del tipo ondulatorio e l’accelerazione massima che l’urto sismico impartì allo strato terrestre raggiunse i 4.500 mm/sec. Si formò un crepaccio lungo 70 chilometri, con una faglia di 30-40 centimetri. 2 Dante, Inferno, canto XXVX, 18. 3 Fu assegnato alla classe II B del ginnasio, composta da 18 allievi.

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Gianni Faustini

Flaminio Piccoli

La scomparsa di Flaminio Piccoli, l’11 aprile 2000, è stata ampiamente sottolineata dai mezzi di informazione nazionale e locali. Il giornale l’Adige, da lui fondato, gli ha dedicato ben otto pagine, più metà della prima pagina, con una serie di articoli, ricordi e rievocazioni; l’Alto Adige quattro pagine, con un commento di Franco de Battaglia, di commento con qualche riserva; il settimanale Vita trentina si è limitato ad un annalistico servizio di Armando Vadagnini. I giornali nazionali sono stati improntati, per lo più, ad una stessa impaginazione: piccola fotografia e richiamo in prima pagina con i servizi nelle pagine interne, a pagina sei o pagina otto; si sono distinti Filippo Ceccarelli su La stampa, nel ricordo di un periodo felice della vita politica di Piccoli, quando fu capogruppo della Democrazia cristiana alla Camera e Sebastiano Messina su la Repubblica, un ritratto non privo di affetto, forse anche per l’amicizia con Mauro, il fi-

glio di Piccoli, caporedattore dello stesso giornale. Complessivamente, al di là di molti toni d’occasione, né poteva essere altrimenti, sono emersi non pochi spunti di riflessione che possono avviare una serena riflessione critica sul personaggio che è stato sicuramente centrale nelle vicende di Trento e del Trentino-Alto Adige tra il 1945 e il 1992. Flaminio Piccoli era nato il 28 dicembre 1915 a Kirchbichl, un paesino del Tirolo dove la famiglia era stata internata dopo l’evacuazione da Borgo Valsugana zona di guerra; di famiglia tutt’altro che agiata, quattro figli legatissimi tra loro – e questo si avvertirà anche nella successiva vita politica – compie gli studi medi, ragioneria, a Trento e si laurea successivamente in lingua e letterature moderne a Ca’ Foscari di Venezia con una tesi su Baudelaire. A quel periodo sono legate le frequentazioni dell’Associazione studentesca Juventus, della quale fu Flaminio Piccoli

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Roma, 6 novembre 1969. Consiglio nazionale della Dc per l’elezione a segretario politico di Arnaldo Forlani (al centro) che succedeva a Flaminio Piccoli dimissionario (alla sinistra). Mariano Rumor era presidente del Consiglio (alla destra).

anche presidente, e poi dell’Associazione universitaria, l’AUCT, frequentazioni dense di insegnamenti morali e politico culturali. Richiamato in guerra presta servizio militare in Albania e in Montenegro con il grado di sottotenente degli alpini ottenendo tre medaglie al valore militare e civile; l’8 settembre del 1943 viene fatto prigioniero dai tedeschi, ma riesce a fuggire dal treno che lo portava in campo di concentramento in Polonia e partecipa, con il fratello Nilo, alla lotta per la liberazione. Finita la guerra è subito chia-

mato, già il 7 maggio 1945, nel rinato partito cattolico ad occuparsi di stampa e propaganda; in tale veste fa parte del gruppo direttivo del quotidiano del Comitato di liberazione nazionale dove – quando toccava il turno alla DC – scrive una serie di articoli di fondo, senza grande esperienza, ma essendosi impegnato già da studente in alcune prove giornalistiche. Proprio sulla conduzione del giornale Liberazione nazionale interviene la rottura, voluta da Piccoli e dai giovani della DC, della solidarietà del

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Claudio Ambrosi*

Giovanni Pedrotti

Giovanni Pedrotti ha coperto senza dubbio un ruolo di primaria importanza nella storia del Trentino del primo Novecento. Egli rappresenta, infatti, uno degli esponenti di spicco del movimento liberale trentino. Nonostante esistano molti studi su questa forza politica e culturale tren-

tina, poche sono però le monografie dedicate ai suoi esponenti maggiori; in particolare appare trascurato se non dimenticato proprio Giovanni Pedrotti, il cui studio è stato sicuramente scoraggiato anche dalla frammentazione e dalla dispersione delle fonti utili1.

* Il presente contributo fu pubblicato sul numero 1/1996 di Archivio trentino di storia contemporanea alle pagine 5-37 con il titolo «Giovanni Pedrotti: un liberale indipendente». L’attuale versione è stata aggiornata nei riferimenti bibliografici ed archivistici (nella ricerca di allora alcuni fondi risultavano ancora non ordinati). L’occasione offerta di rinverdire queste pagine dedicate a Giovanni Pedrotti permette di ricordare la figlia di quest’ultimo Giulia Pedrotti Ricci, scomparsa il primo settembre 2005 all’età di 94 anni. Si è avuto modo di incontrarla a Roma ove si mostrò particolarmente disponibile e cortese, tanto da permettere di portare a Trento i preziosi diari del padre, depositati ora presso il Museo storico in Trento. 1 Di Giovanni Pedrotti parlano innanzi tutto i vari necrologi e memorie che furono redatti all’atto della sua morte il 15 luglio 1938. Si tratta di un consistente numero di articoli apparsi nei giorni o mesi immediatamente successivi alla scomparsa. Il Brennero e Il Gazzettino vi dedicarono ampio spazio, così come le riviste presenti in regione. Giovanni Pedrotti fu ricordato anche dai quotidiani nazionali. Tutto ciò costituisce una diretta testimonianza dell’importanza del personaggio, così come dell’ampia popolarità del quale godeva. Gli articoli si richiamano l’un l’altro: tutti esaltano le virtù dell’estinto, la sua bontà d’animo e liberalità; ognuno ripropone lo stereotipo del valoroso patriota e dell’umile mecenate. Anche la memoria proposta da Gino MARANI, «Giovanni Pedrotti». Trentino. Trento, a. 14 (1938), n. 10: 435-448 utilizza toni di maniera: essa rappresenta in un certo senso il compendio di tutte le altre. Si tratta della «biografia» più estesa del Pedrotti, ricca di spunti soprattutto per quel che riguarda la sua personalità. In essa sono rilevabili, tuttavia, alcune inesattezze (peraltro presenti in misura diversa anche negli altri articoli): molti di essi sono probabilmente tratti dal ricordo personale dell’estensore stesso, altri dai libri di memorie

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Giovanni Pedrotti nacque il 26 maggio 1867 da Antonio Pedrotti e Clotilde Balista, primo di sei figli:

Olga, Paolina, Tomaso, Pietro e Marianna. I suoi primi vent’anni di vita trascorsero simili a quelli di tan-

sulla guerra o sull’irredentismo. In questo modo alcune date o accenni a eventi particolari sono fissati approssimativamente in base al ricordo dei diversi autori. Parte di queste informazioni, fondamentalmente inesatte, verranno riproposte senza alcun riscontro documentario in molta della letteratura successiva. Tutto ciò, unito ad una notevole dispersione del patrimonio archivistico riguardante il Pedrotti, ha fatto sì che nel corso degli anni diventasse sempre più difficile tracciare in modo nitido il profilo del personaggio. Ed è soprattutto con il primo dopoguerra che le informazioni circa il personaggio cominciano a diventare più incerte e frammentarie. Troppo spesso si è voluto idealizzare Giovanni Pedrotti, indicandolo fra i campioni dell’irredentismo e fra i più alti esempi di rettitudine morale. In questo modo la sua figura e il suo ricordo si sono fossilizzati in immagini stantie, sbiadite nell’arco di due sole generazioni. Altri dati su Giovanni Pedrotti sono forniti dagli scritti coevi: si tratta della memorialistica, che abbraccia un periodo che va dal 1917 fino al 1938. I libri di memorie che accennano al Pedrotti sono quelli di TOLOMEI 1948, BARZILAI 1937, COCEANI 1938 e GUERRAZZI 1922, ma si tratta solo di riferimenti marginali. Il volume di GUERRAZZI 1922, ad esempio, è tutto teso a celebrare gli avvenimenti che coinvolsero la «Dante Alighieri», della quale fu segretario. Giovanni Pedrotti vi compare solo accidentalmente poiché collegato alla figura di Ettore Tolomei, unico trentino cui viene dedicato un capitolo (l’ultimo) del libro. Anche TOLOMEI 1948 ha un ricordo del suo concittadino limitato a pochi eventi secondari, come alcune gite in montagna o i prestiti in denaro da lui ottenuti. La posizione marginale nella quale viene relegato il Pedrotti non può che stupire, poiché costui aveva collaborato molto con il Tolomei al punto di dedicargli un articolo che è un vero e proprio inno al lavoro ed alla persona del Tolomei stesso (Giovanni PEDROTTI, «L’opera scientifica e nazionale di Ettore Tolomei nell’Alto Adige». Atti della Accademia Roveretana degli Agiati. Rovereto (TN), a. 172 (1922), s. 4, v. 5: 259-261). Più approfondite sono le notizie fornite dal MARCHETTI 1934 anche se informano sempre in modo frammentario sull’attività politica del Pedrotti, peraltro indicato come uno dei personaggi più significativi nelle vicende del periodo. Lo stesso valore si può attribuire al volume di BITTANTI BATTISTI 1938: pur fornendo scarsi elementi per la comprensione della personalità del Pedrotti, la vedova di Battisti restituisce però, unitamente all’epistolario del marito (MONTELEONE – ALATRI 1966), un quadro significativo del periodo 1914-1915, anni nei quali i rapporti Battisti-Pedrotti si fecero più stretti. Si sono occupati successivamente di Giovanni Pedrotti MARTINI 1966 e VIGEZZI 1966, il primo per la questione dello sconfinamento armato ai danni dell’Austria, il secondo per i rapporti che ebbe con Cesare Battisti. Sono da ricordare poi FOX 1977 – che dà dei piccoli, ma utili, accenni sul ruolo del Pedrotti nella SAT, ed in particolare nella SOSAT – e LEONARDI 1985, che offre alcuni spunti interessanti per ciò che riguarda l’attività del Pedrotti stesso nel campo dell’economia trentina. Più estesi e dettagliati sono gli scritti di Maria Garbari, Umberto Corsini, Renato Monteleone e Sergio Benvenuti; questi studiosi, pur non occupandosi direttamente del Pedrotti, raccolgono valutazioni meno generiche sulla sua persona. MONTELEONE 1972 cita spesso Giovanni Pedrotti riconoscendo l’importanza del personaggio per quel periodo. Anche qui Pedrotti appare per lo più per una serie di fatti già noti attraverso la memorialistica: il carteggio Pedrotti-Battisti, la questione dello sconfinamento armato, il manoscritto di Pedrotti sulle «Persone autorevoli e di qualche utilità...» (Archivio Centrale dello Stato, Carte Sonnino, b. 1, f. 4, c. 11) e altri riferimenti, che l’autore utilizza in modo corretto restituendo spessore alla personalità del Pedrotti rispetto al contesto nel quale

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Graziano Riccadonna

Luigi Pigarelli

Molto raramente nella biografia d'un uomo la professione svolta ai più alti livelli di responsabilità civile e collettiva si incontra con una passione privata, con qualche attività del tempo libero, che mette in ombra la funzione pubblica ma a sua volta raggiunge un alto livello di professionalità. Luigi Pigarelli, magistrato di Cassazione salito nella carriera fino al grado di Procuratore del Re e poi della Repubblica, poeta e musicista, irredentista e antinazista, è noto solamente come il fortunato autore o armonizzatore delle canzoni decisive nel repertorio di canti della montagna del Trentino come La Paganella o La Montanara, mentre si è perduta nel tempo ogni traccia della poliedricità di una delle figure più

popolari e rappresentative del secolo. Proprio il tempo, trascorso dalla morte, avvenuta il 25 aprile 1964, ha finito per appiattire tale poliedricità, erodendo i contorni meno spettacolari ma non per questo meno incisivi del Pigarelli magistrato e patriota, antinazista e dissidente, pubblicista e collaboratore de la Libertà e del Gazzettino dal 1925 in poi, lasciando in evidenza solo il musicista, al massimo il critico musicale. Chi si occupa di canti della montagna conosce bene il valore e il retroterra culturale delle opere del Pigarelli, oltre alla quantità di canti prodotti nella sua lunga carriera1, ma chi è profano lo ricorda solo come autore o armonizzatore di canzoni: pertanto è necessario tornare ad

Nel repertorio attuale del coro della Società alpinistica tridentina di Trento su 268 canzoni compaiono ben 87 opere trascritte o armonizzate da Luigi Pigarelli, esattamente un terzo (cfr. CONIGHI – PEDROTTI 1989). In occasione del settantesimo anniversario di fondazione del coro della SAT, celebrato fra le vette dolomitiche del rifugio Tuckett il 7 luglio 1996, il programma canoro dedicato ai «grandi» compositori della SAT iniziava con Monte Canino di Luigi Pigarelli e terminava in gloria con La Montanara di Ortelli-Pigarelli. 1

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analizzare il Pigarelli in tutta la ricchezza della sua biografia. 1. La formazione Nato a Trento, in via Molini2, il 15 dicembre 1875, secondo di cinque fratelli, Luigi Pigarelli è figlio di Antonio3, maestro elementare sceso a Trento dalla natia Rumo (val di Non) con un'innata passione per la musica, che trasmette naturalmente al figlio. La costruzione artigianale di un pianoforte per il figlio, su cui Luigi impara a battere le prime note con la guida attenta del padre, costituisce l'avvio alla carriera musicale 4. La madre è Rosa Bernardi di Cognola di Trento, proveniente da una famiglia di modeste origini5 ma legata per stretta parentela all'intellettualità più impe-

gnata di fine Ottocento, dal pittore e architetto Gigiotti Zanini6 al noto

Si tratta della parte superiore, ora compresa nella nuova via Grazioli, di quello che era chiamato il Borgo dei molini di Trento, vale a dire la zona pedemontana interessata dalla Roggia Grande, derivata dal fiume Fersina presso il Ponte Cornicchio (cfr. CESARINI SFORZA 1991: 45-46). 3 Cfr. sul ruolo e la figura del maestro Antonio Pigarelli la commossa rievocazione contenuta nel fascicolo Un gruppo di educatori che onorarono il Trentino, edito nel secondo dopoguerra dal Patronato Scolastico di Trento con annessa fotografia, allo scopo di ottenere l’offerta degli ex allievi. Le onoranze al maestro Pigarelli vennero fatte in occasione del suo pensionamento dopo ben cinquant’anni d’insegnamento; alla cerimonia è presente anche un altro insigne maestro, il padre di Ezio Mosna, Francesco, legionario e scrittore fra le due guerre. 4 Dal racconto orale reso all’autore del presente saggio da parte del genero, conte Sigmund Fago Golfarelli. Anche in seguito egli costituisce – cosa di cui siamo enormemente grati – la principale testimonianza orale della biografia di Luigi Pigarelli. 5 Rosa Bernardi è figlia del sagrestano di Cognola. 6 Nato a Vigo di Fassa nel 1893, egli parte giovanissimo dal Trentino per Firenze, dove partecipa al movimento di «Lacerba» e «La Voce», organizzando le sue prime mostre personali di pittura e interessandosi nel contempo di architettura moderna. Ben presto stringe amicizia con Soffici e Papini, e soprattutto con il conterraneo pittore Tullio Garbari. Partecipa a numerose Biennali di Venezia e Quadriennali di Roma, nonché a importanti mostre organizzate in tutta l’Europa e anche in America. Oltreché pittore, è valente architetto nella 2

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Alfredo Degasperi

Alfredo Degasperi era appena ventenne quando, il primo novembre 1911, iniziò a pubblicare a Rovereto La Voce Trentina1, una «Rassegna d’idee per gli Italiani in Austria». Il periodico, prima quindicinale e poi a scadenza irregolare, s’ispirava alla ben più famosa Voce di Prezzolini che aveva iniziato le pubblicazioni a Firenze qualche anno prima, nel 1908, ed aveva anche avuto fin dall’inizio l’incoraggiamento del letterato fiorentino. Esso ebbe vita breve: ne uscirono infatti solo 12 numeri, fino al 13 settembre 1912, con una tiratura di circa 500 copie. Pur con gli evidenti limiti dovuti all’immaturità e all’inesperienza del direttore, come di alcuni collaboratori, scelti soprattutto nella cerchia dei suoi giovani amici, La Voce Trentina costituì comunque un’esperienza originale e significativa per il giornalismo trentino del tempo. Il periodico gravitava nell’orbita del

futurismo, aveva una forte connotazione nazionale ed esprimeva spesso, sul piano culturale, tendenze radicali. Esso si poneva soprattutto il fine di un rinnovamento ab

1 Una collezione completa de La Voce Trentina è conservata nella Biblioteca comunale di Trento. Su La Voce Trentina si confronti in particolare CARPI 1979: 16-34.

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imis della cultura trentina, nel tentativo di saldarla alla cultura italiana in uno dei suoi centri più vivi, Firenze con il movimento che faceva capo a La Voce. Parecchi dei collaboratori de La Voce Trentina scrivevano pure su La Voce di Firenze. Alcuni sarebbero poi divenuti famosi nei campi della letteratura italiana (come i triestini Scipio Slataper, Umberto Saba e Alberto Spaini), nell’arte (Tullio Garbari di Pergine) e nella filosofia (Emilio Chiocchetti di Moena, Lorenzo Michelangelo Billia di Cuneo, Bruno Nardi di Altopascio – Lucca, Giuseppe Saitta di Trieste e Bernardino Varisco di Chiari – Brescia). Dal primo gennaio 1912 il periodico aperse le sue colonne ad una rubrica dal titolo Per una patria, dove pubblicò contributi originali di esponenti di vari movimenti irredentistici europei. Così apparvero articoli di militanti del movimento fiammingo, di quello cretese, dell’italo-ticinese, dell’irlandese, del lituano e del polacco. Tra gli autori degli articoli vi furono delle firme importanti, quali quelle di Frams Brusselmans per il movimento fiammingo, di Ios. Vander Wael di Lovanio e di J. Gabrys, amministratore dell’Office Central

des Nationalités a Parigi. Degasperi tenne in quel tempo un attivo scambio epistolare con vari centri di quelle che definiva «nazionalità oppresse e frazioni oppresse di nazionalità unificate». In nessuno dei dodici numeri del periodico mancò un forte e polemico articolo di Degasperi che propugnava le sue idee nazionali e futuriste, al di fuori e al di sopra dei partiti politici trentini. Un quaderno di appunti2, iniziato da Degasperi il 25 ottobre 1911, qualche giorno prima che uscisse La Voce Trentina, è lo specchio del suo stato d’animo e del travaglio d’idee e di sentimenti che lo porterà ad aderire con entusiasmo al futurismo di Marinetti e di Depero, dei quali diverrà anche intimo amico. In esso si parla del suo tumultuoso attivismo e della sua ferma volontà di primeggiare e di porsi come guida («O conducente o trascinato? Conducente! Conducente!»3), ma vi appaiono anche i momenti di insicurezza e di profondo scoramento («Sono distrutto: sballottato. I vent’anni non sono come li avevo sognati. Pieni, sicuri, forti. Responsabili. Perché, perché? ... Perché così poca fiducia, così poco ordine, così scarso volere?»)4.

2 Museo storico in Trento, Archivio Alfredo Degasperi, b. 1, f. 6, «Quaderno di appunti di Alfredo Degasperi (1911)». 3 Museo storico in Trento, Archivio Alfredo Degasperi, b. 1, f. 1. 4 Museo storico in Trento, Archivio Alfredo Degasperi, b. 1, f. 2.

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Indice

Rodolfo Taiani

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Premessa

Angelo Agostini

7

Piero Agostini

Giuseppe Ferrandi

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Gigino Battisti

Sergio Benvenuti

31

Elsa Conci

Sergio Benvenuti

41

Enrico Conci

Sergio Benvenuti

65

Alfredo Degasperi

Giuseppe Ferrandi

91

Giuseppe e Vittorio Gozzer

Giuseppe Pantozzi 103 Gianni Faustini 125 Claudio Ambrosi 137 Graziano Riccadonna 179 217

Aldo Pantozzi Flaminio Piccoli Giovanni Pedrotti Luigi Pigarelli Riferimenti bibliografici Riferimenti bibliografici

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