Scene da un manicomio.

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SCENE DA UN MANICOMIO a cura di Cecilia Casadei Roberto Domenichini Opere di Lorenzo Amaduzzi Giovanni Marinelli Vincenzo Baldini Documenti Archivio di Stato - Pesaro

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SCENE DA UN MANICOMIO a cura di Cecilia Casadei e Roberto Domenichini Coordinamento Cinzia Ceccaroli Dai documenti dell’Archivio di Stato di Pesaro al racconto visivo di Lorenzo Amaduzzi Giovanni Marinelli Vincenzo Baldini

Pesaro Ottobre 2015


Le ragioni di una mostra “Cinquecento venti”, “cinquecento ottanta”, la voce di “Giovanni” aggrappato alle inferriate del San Benedetto raggiunge i passanti che a Pesaro erano soliti transitare davanti all’”ospedale dei matti”. Oppure, a gridare era “Francesco”: “tocca il muro, tocca il muro.” E pareva quasi una esortazione a condividere la prigionia con chi viveva fuori e, magari, andava di fretta per non sentire, o per allontanare il pensiero che là dentro c’era anche un fratello e c’era stata anche una parente internata per chissà quali motivi che proprio là dentro era morta. L’insegna in tedesco, memoria di quando durante la seconda guerra mondiale i malati vengono fatti sfollare e i tedeschi occupano l’ospedale, il suo colore rosso sbiadito dal vento e dalle intemperie, sulla facciata del grande edificio segnato dal tempo e dall’abbandono ci restituisce il fascino inquietante di un luogo più volte celebrato con scritti, mostre ed eventi nella città pesarese. Custode di storie, segreti, vite, ricordi che rimandano ad elettroschock, camicie di forza. E quelle grate e sbarre in ferro corrose dalla ruggine a celare, metaforicamente, silenzi di oggi, urla del silenzio di ieri. Ospedale provinciale San Benedetto, dal nome del suo fondatore Monsignor Cappelletti, delegato apostolico per la provincia di Pesaro e Urbino ed era il 1829, manicomio o istituto psichiatrico come si chiamerà fino alla chiusura, che nasce da motivazioni e considerazioni inizialmente pietistiche per dirigersi verso una ricerca finalizzata ad individuare le cause del male oscuro e a promuovere efficaci terapie. Quando le cause dei disturbi molto spesso erano la miseria, la pellagra, la guerra, la spagnola, le botte, le umiliazioni, come scrive Paolo

Teobaldi in un riuscitissimo libro romanzo che racconta la storia degli internati a Pesaro. Scene da un manicomio, una mostra-evento per riportare l’attenzione sulla sacralità di un luogo dove anche Torquato Tasso aveva trovato ospitalità in un tempo in cui l’edificio non era ancora destinato alla cura, tempio di sofferenza e di terapia al passo con la ricerca scientifica che ha, comunque, il colore della repressione e della prigionia, grandiosa costruzione in attesa di essere restaurata nel rispetto della sua affascinante struttura originale. Per riportare nuovamente l’attenzione sulla chiusura dei manicomi dopo la legge Basaglia e tutto ciò che ne consegue, sulle “Malattie dell’anima”, come recita il titolo di una mostra documentaria tenutasi all’Archivio di Stato. Dalla Storia si riparte con una selezione di documenti conservati nell’archivio pesarese, tabelle, registri, lettere per raccontare la triste storia di alienati, la loro provenienza, la divisione all’interno dell’ospedale secondo l’estrazione sociale, le ragioni legate al loro internamento che, molto spesso, nulla avevano a che fare con la malattia mentale e bastava poco per essere internati. Poi il linguaggio dell’Arte che ci consegna l’emozione di un racconto tra passato e presente con due protagonisti dell’arte fotografica e il loro sguardo sugli oggetti abbandonati, sulle pareti corrose dall’umidità, i corridoi, il degrado degli spazi di un San Benedetto ormai vuoto: gli scatti celebri di Giovanni Marinelli, quelli inediti di Lorenzo Amaduzzi. Il messaggio della pittura drammatica di Vincenzo Baldini, uno straordinario reportage umano ispirato alle figure di internati nell’ospedale di San Servolo-Venezia, volti con lo sguardo grigio segnato dalla sofferenza, uomini e donne prigionieri di se stessi e della istituzione.

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Un cammeo di Gualtiero Rossi, in apertura della esposizione, ci consegna la copia di un dipinto datato 1823, il viso intenso e commovente di una alienata di Thèodore Gericault. La mostra assume, allora, un carattere che esce dai confini del territorio e propone un percorso in cui l’arte diviene una sorta di condizione in cui si sperimenta il vivere, contemplazione del disfacimento, quasi una vocazione al dolore, alla fine delle cose tutte. Un viaggio fra creazione e travaglio che mira a stabilire un nuovo rapporto col mondo alimentato da una totale adesione alla vita nel raccontare il disagio della vita stessa. “L’arte è un purissimo velo” che nasconde genialità, sentimenti forti, che ricopre i pensieri, il desiderio di una carezza sul volto, la stessa carezza d’amore, cui, forse, non siamo più abitati e che ciascuno brama. Che brama ancor più chi si ammala. “sai quanto pesa una carezza?” E’ un velo che avvolge la speranza, il sogno, il dolore, nasconde lo stupore, la curiosità, l’inesprimibile, che copre il mistero di ciascuno. Della vita, dei suoi labirinti. L’arte che guarda il mondo, la contemporaneità che ci soffoca, il passato che ci avvolge, riflette sull’eterna lotta tra il bene e il male. Preghiera silenziosa, messaggio che scuote, imprescindibile aspetto dell’esperienza umana. Laddove il senso dell’Arte assuma la corrispondenza di un canto, di quella melodia che pare scaturire dagli oggetti di una “Vita silente”, da “Grumi di lacrime” evocati da una muffa sulle pareti. Perché si accenda una piccola luce negli occhi bui e scavati de i “Dimenticati”. Di quelli di ieri, di quelli di oggi. Cecilia Casadei

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Motivi “..Il manicomio doveva essere uno spazio autosufficiente, autarchico, andavano pertanto ridotti al minimo i contatti con il mondo esterno.. non doveva uscire nulla dal manicomio, come se ogni cosa fosse contaminata e pericolosa per la città della ragione, quella fuori dalle mura”. Da “I miei matti” di Vittorino Andreoli. Grande fascino e attrazione i temi della storia sociale della psichiatria hanno da sempre avuto in me, in particolare gli studi universitari sulle scienze criminologiche. Ma solo di recente - grazie al riordino e all’apertura di alcuni documenti archivistici da parte del dottor Domenichini, alla conseguente idea di Cecilia Casadei, sensibile critica e attenta curatrice, ma ancor prima cara amica, e all’ammirazione da sempre avuta per i progetti artistici di Lorenzo Amaduzzi che attraverso la sua incessante ricerca fotografica indaga e documenta tracce umane di luoghi dimenticati - nasce la mia attenzione per un racconto che proviene dalla mia città di nascita: dall’ex manicomio di San Benedetto di Pesaro. Varcare le mura di un manicomio ripercorrendone i luoghi attraverso le fotografie di Giovanni Marinelli, gli immensi e gelidi spazi vuoti catturati nelle immagini di Lorenzo Amaduzzi, i volti impauriti nei dipinti del noto artista Vincenzo Baldini, i documenti preziosi ritrovati all’interno dell’ex manicomio e conservati dall’Archivio di Stato, è stata un’esperienza forte ed emozionante. Ma era del tutto evidente che l’azione dell’artista suggerisse riflessioni sulla inevi-

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tabile temporalità dell’esistente: questo edificio meraviglioso “sarà destinato al decadimento e i suoi materiali decomposti dal tempo”. Una prospettiva inquietante ma reale che con forza vuole essere posta all’attenzione della collettività e delle Istituzioni. Tanto è stato detto, tanto cerchiamo di raccontare con questo evento: luoghi e storie di pazienti che rivivono per noi, dentro una condizione umana così misteriosa, che forse ci riguarda tutti da vicino. Mi auguro che altri progetti possano parlarci ancora del San Benedetto, magari, raccontandoci un’altra storia. Cinzia Ceccaroli

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da GRUMI DI LACRIME LORENZO AMADUZZI

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Sedotto dalla fotografia, Lorenzo Amaduzzi, gli studi e gli esordi come pittore, il suo percorso è costellato dalla fascinazione per l’”orrida bellezza” di scavi, rovine di una archeologia industriale, decomposizioni della materia, architetture in disfacimento da cui ricava una sorprendente armonia compositiva. Una inaspettata “estetica delle rovine”. E saranno gli interni delle fabbriche dismesse come scheletri di templi del lavoro, immagine di una società produttiva, emblema di un territorio come il racconto del pastificio Ghigi di Morciano di Romagna, solo per citare uno dei suoi tanti progetti, e la fotografia diviene messaggio sociale. Ad attirare la sua attenzione sono pareti, pietre, segni che diventano memoria filtrata da un occhio infinito e da una mente profonda. “La fotografia, una ossessione da cui non riesco a liberarmi che alimenta il desiderio di appropriarmi di quella parte di mondo da cui trae senso ogni mio fare”. Un percorso di ricerca cui, dagli anni 2000, dedica tutto il suo tempo fino allo sguardo che brama il racconto dell’ ex Ospedale San Benedetto di Pesaro. Il fascino di una storia che lo cattura e Lorenzo scatta e lo immaginiamo come in trance attraversare macerie dove tutto è occasione di spunti per una foto che ci restituisce una parete corrosa dalla muffa, escoriazioni di colore che celano la gentilezza di un affresco. Talvolta l’intonaco umido crea sottili fogli arricciati che l’immagine dell’artista ci consegna come petali di un crisantemo disfatto, vana preghiera: come ferita perpetua sulla carne calda della malattia qui il muro trasuda infinite tracce di passaggi dimenticati dalla cinica indifferenza delle maggioranze impietose. Così scrive lo stesso Amaduzzi che ama affidare anche alle parole il suo sentire. Una foto ritrae dal basso verso l’alto la cappella dell’antico

manicomio, un elegante lampadario in cristallo espone la sua vanità fra brandelli di pareti e armature distrutte, intatte le colonne quasi ad ostentare certezza in una dimensione che avvicina a Dio, ad un “cielo che non ti aiuta se non lo incontri”, come scrive il poeta. E ancora pareti ammuffite, tracce, aloni di colore di uno stemma che riproduce un animale. Fra le macerie porte divelte lasciate sul pavimento, tracce di antica bellezza e l’immagine è quella di una porta ben conservata che si apre verso una seconda fra buio e un lampo di luce a richiamare misteri, vite segrete. Di nuovo petali di intonaco, cromie sbiadite come “Grumi di lacrime”, grida soffocate nel pianto in un silenzio che ammanta le cose e il pensiero. Lorenzo non fotografa le persone, il suo pare un mondo fantasma raccontato con partecipazione dove le cose portano il segno del passaggio dell’uomo. Una fotografia lirica nella consapevolezza che il tempo trasforma il reale in fantasmi che raccontano mondi, creano mondi altri, per sottolineare anche quella corruttibilità dell’anima come declino morale degli uomini e delle civiltà che alimenta la sua curiosità e nutre il suo sguardo. Qualunque possa essere il destino della struttura del San Benedetto resterà la memoria di un luogo della cura e del patire umano, l’omaggio di un raffinato artista, custode di un passato che ci appartiene. Che ha raccontato con sublime efficacia “quel che resta del giorno”, il senso di un inesorabile trapasso cui non possiamo sfuggire.

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Cecilia Casadei


da VITA SILENTE GIOVANNI MARINELLI

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In principio erano foto come appunti di viaggio fino a quando è divenuta il mezzo e la ragione del suo raccontare il mondo. La passione per il bianco e nero, una identità che sarà l’abito del suo lavoro e la fotografia diviene linguaggio di contrasti che si nutrono di luce. Una originale veste espressiva che posa lo sguardo sulle cose dimenticate come quelle dell’Ospedale San Benedetto di Pesaro dopo la sua chiusura. Un percorso che svela l’essenza delle cose come testimonia una tappa del viaggio artistico di Giovanni Marinelli, e un particolare diviene il tutto di una storia per immagini. Una incessante stagione di ricerca che oggi raggiunge la rarefazione della forma e il contorno è quello impercettibile di “città invisibili”. Ieri un legame empatico che segna gli esordi di una carriera di passione e creatività con gli oggetti di un reale che ha perduto le connotazioni del fare, i pitali incrostati, che nessuno laverà mai più, accatastati nel lavello del manicomio dismesso, il silenzio di un androne che ospita una sedia lontana e, per dissonanza, pare di sentire i passi di chi lo aveva percorso mille e mille volte senza poter attraversare la porta che conduceva all’esterno. Immagini con il respiro e l’alone di una umana sofferenza che diventa tangibile nell’immobilità delle cose abbandonate, spazi dell’istituzione per gli infermi di mente fotografati all’alba degli anni 2000. Memorie di una “Vita Silente”. Una elegante poltrona in pelle consumata, forse utilizzata dai dirigenti o dai malati delle classi abbienti, accoglie una serie di foto ricordo in quella che pare essere una riunione di affetti. Un frigorifero lasciato in un angolo in attesa di essere portato ad una discarica, un letto isolato ad evocare la solitudine di qualcuno che ha trascorso notti insonni, il racconto di un tempo che ha ingoiato

l’esistenza di tanti quando hanno cercato conforto nella cura e dalla cura stessa sono stati fatti prigionieri. Fotografie come respiri dell’anima, pensieri che attraversano la mente e restano per sempre sulla carta, messaggi di un autore che filtra sentimenti e sensazioni nascoste attraverso la luce e fissa l’attimo con maestria alimentato da un atteggiamento emotivo ed intellettuale. Lo spirito di Giovanni Marinelli si fonde con gli oggetti e gli spazi, il suo sguardo attraversa le sbarre e la fitta grata dell’“ospedale dei matti”, una finestra chiusa di un mondo che è l’artista ad aprirci. Oltre lo sguardo, a sottolineare l’espressività delle cose con una sapiente alchimia dei bianchi, dei neri che danzano con le sfumature dei grigi. E il colore è dentro l’anima in un viaggio fino al profondo delle cose stesse e ritorno.

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da I DIMENTICATI VINCENZO BALDINI

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Dipinge il mondo con un velo di inquietudine e malinconia, Vincenzo Baldini, con un pathos che emana dalle monocromie, dai colori sordi, di rado attraversati da tracce di luce. Prima saranno le case senza porte e finestre, sagome ruvide che si stagliano su linee di un orizzonte incerto e quella sua voglia di dipingere come farebbe uno scultore. L’immagine sulla tela si arricchisce di materia, cemento, sabbia, colore, un fare che rimanda alla creazione dell’uomo ad opera di Dio. E l’opera diviene ruvida, i rilievi materici conferiscono una forza plastica che rende unico ed originale il suo lavoro. Fra i vari cicli quello dei castelli di sabbia come effimera esistenza che lascia, invece, una traccia indelebile nella mente dell’artista. Scene deserte e scuri orizzonti, anche il cielo è plumbeo per Baldini, le case delle sue tele paiono luoghi di prigionia create da un gioco infantile, ruvide costruzioni che rimandano ad un pianeta sconosciuto, la sagoma di un albero solitario, grigi tronchi silenziosi, i colori della terra. “la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta pietra d’angolo”, come spesso accade il suo lavoro muove da un aforisma dal verso di una poesia. Questa volta è una frase del “Vangelo secondo Matteo” a suggerirgli il ciclo degli alienati. L’inizio di un racconto che guarda a uomini e donne segnati dalla sofferenza, in uno stile che lo accomuna a Bacon a Schiele e resta personale. Un reportage di volti dall’impatto dirompente che ha colpito uno come Vittorio Sgarbi e le tele di Baldini saranno presenti al “Museo della follia” che nasce a Matera e celebra la follia a Mantova Expo 2015 con una grande mostra d’arte. Sono sguardi estraniati, volti segnati dalla sofferenza quando il colore d’ombra caratterizza i solchi della pelle e il pittore fissa sulla tela i volti intensi e drammatici di alienati, quelli che lui stessi chiama “I Dimenticati”, 30

immagini ricavate dai documenti del manicomio di San Servolo di Venezia, cui Vincenzo affianca lettere, mai spedite, di altri malati internati nel manicomio di Volterra. Lo sguardo pietrificato, le pieghe agli angoli della bocca, una smorfia che respinge il sorriso amaro di una donna non ancora rassegnata nell’opera intitolata “Ma, ormai ci vuol coraggio, passaranno ancora, questi pochi giorni”. E a raggiungerci sarà la dimensione del dolore, a colpirci sarà la sofferenza di un mondo che, magari, vorremmo celare ai nostri occhi, ma saranno proprio quegli occhi lontani e intrisi d’angoscia a porci delle domande cui non possiamo sfuggire. Il racconto di vite disperate, quasi una interna lacerazione e consumazione degli affetti ideali che accomunano il soggetto d’arte all’artista. Pare una mummia il volto di un internato dipinto sulla tela dal titolo “che io serea meglio che fosse morto che entrare in questi luoghi”, parole che qualcuno aveva destinato a chi non le ha mai lette. Arte come evocazione, turbamento, liberazione, limpida concretizzazione di un groviglio di intuizioni e di sensazioni che diviene il binario su cui la vita scorre. Dai volti trasfigurati dalla malattia mentale la ricerca di una purezza attraverso il racconto del dolore come atto di fede che si dibatte fra l’angoscia esistenziale della coscienza moderna e quella condizione interiore per cui l’artista ricerca la propria identità. “Credo che l’arte possa evidenziare i mali della vita, ma non chiedetemi cosa voglio dire o cosa voglio rappresentare quando dipingo, la grande ricchezza dell’arte è nella libertà di interpretare il mondo”. Dunque, cali il sipario del teatro delle parole, l’arte non è più un altro mondo, è quello in cui viviamo. Cecilia Casadei 31


DOCUMENTI ARCHIVIO DI STATO - PESARO

Documenti contenuti in una cartella nosografica di una persona ricoverata al “Manicomio provinciale di Pesaro”; Novembre 1870.

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Campione di maglie estive, di cotone, per i ricoverati dell’ospedale San Benedetto; a. 1968 ca.

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“Quadro” o tabella dei pazienti entrati nell’ospedale S. Benedetto nel quinquennio 1867-1872; dalla pubblicazione del dr. L. Frigerio.

Figure che proverebbero la “rispondenza” delle varie “espressioni fisionomiche” con il carattere istintivo, affettivo, “mentale” degli “alienati”; dalla pubblicazione di Giuseppe Girolami.

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Prospetto dell’edificio del “Manicomio provinciale in Pesaro” - lato Corso XI Settembre ad opera dell’Ing. capo della Provincia; anno 1917.

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Sul San Benedetto e la cura del malato di mente. Sarà forse perché ubicato all’interno del centro urbano o perché ha ospitato personaggi e figure molto note tra i cittadini, quali il poeta dialettale Pasqualòn (al secolo Odoardo Giansanti) e membri di famiglie illustri come il conte Perticari (omonimo del noto poeta), l’ospedale psichiatrico S. Benedetto è stata un’istituzione familiare (“cara”) nel vissuto collettivo della comunità pesarese. Eppure, quando venne progettato, nel 1824, all’indomani dell’esperienza napoleonica, l’ospedale dei pazzi (o dei mentecatti) ha rappresentato un’autentica novità per Pesaro e la sua Provincia. L’idea, infatti, caldeggiata dal Delegato apostolico dell’epoca, mons. Cappelletti, di riunire in un unico ospedale tutti malati di mente fino allora tenuti presso i vari Comuni in “orridi, fetentissimi ricettacoli”, a guisa di “feroci belve”, quasi non fossero esseri umani, l’idea -si diceva- venne approvata dal pontefice regnante. Scopo del Delegato e degli altri promotori era quello di offrire ai malati di mente un’assistenza e -almeno nelle loro intenzioni- anche cure adeguate. Sulla non validità dei mezzi terapeutici adottati a quel tempo molto è stato scritto, per non tacere pure dei mezzi di contenzione allora accolti e praticati per “calmare” i cosiddetti furiosi o pericolosi, mezzi che contrastano assai con la sensibilità dell’uomo comune moderno e con i sensibili, recenti progressi della psichiatria. Tuttavia, è da dire che l’ospedale dei pazzi di Pesaro, inaugurato nel gennaio 1829, rappresenta un momento di progresso rispetto alle “strutture” ed alle pratiche adottate nel passato in questo settore. Forse un ulteriore passo in avanti nella cura degli “alienati” dovrebbe essere avvenuto a seguito dell’arrivo al S. Benedetto di medici e studiosi di certo prestigio, che ne assumono la direzione. Fra questi spicca indubbiamente il nome

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di Cesare Lombroso, che nella sua breve permanenza pesarese (1872) tenta di migliorare le condizioni igieniche ed ambientali dell’ospedale nonché quelle dei malati, sebbene le sue teorie sulla fisionomia (specie dei volti) che rispecchierebbe il carattere, l’indole e rivelerebbe le tendenze (nel caso specifico dei suoi studi) criminali dell’individuo, suscitino perplessità. Anche i successori del Lombroso si impegnano, coi loro mezzi materiali e culturali, a migliorare le condizioni della struttura e quelle dei ricoverati, che vengono impiegati, quasi tutti, in lavori utili al manicomio; esso alla fine del secolo conta quasi 350 ricoverati tanto che l’edificio verrà ampliato e ristrutturato agli inizi del secolo seguente. Così il S. Benedetto di Pesaro attraversa anche tutti i principali avvenimenti del Novecento che coinvolgono l’intero Paese: dalla grande guerra (1915-18), quando i manicomi finiscono per ospitare anche non pochi traumatizzati dal conflitto (“gli scemi di guerra”), agli anni Venti e Trenta, quando pure negli stessi istituti vengono rinchiusi anche oppositori o semplicemente persone scomode al regime del tempo. Negli anni ‘50-’60, col diffondersi dell’uso degli psicofarmaci a scopo terapeutico e poi, soprattutto, con l’apertura a Pesaro del Centro di igiene mentale (1962), inizia una nuova fase nella cura della malattia. Comincia a far breccia l’idea di tenere e curare il paziente fuori dell’ospedale psichiatrico e la prospettiva della fine della cosiddetta “reclusione manicomiale” si materializza nella legge 180/1978. Ma occorrerà aspettare il 1997 perché l’ultimo sparuto numero di malati lasci la struttura manicomiale. Cala così il sipario sul S. Benedetto, ma resta il grande complesso edilizio ed il piccolo parco a testimonianza dei quasi 170 anni di storia della malattia mentale nella città di Pesaro e nella sua Provincia. Roberto Domenichini

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Catalogo a cura di Cecilia Casadei Testi di: Roberto Domenichini, Cinzia Ceccaroli, Cecilia Casadei.

progetto grafico: Lorenzo Amaduzzi, con la partecipazione straordinaria di Antonio Motolese stampa: SAT Pesaro Ringraziamenti: I curatori sono riconoscenti a Sara Cambrini per il prezioso coordinamento e a tutto il personale dell’Archivio di Stato di Pesaro per la collaborazione prestata Giovanni Marinelli, Progetto ‘Vita Silente’, 120x80 cm, Stampa su carta fotografica Fine Art Courtesy of BAG Gallery

Pesaro 2015

Mostra patrocinata da:

Gualtiero Rossi Copia da “L’alienata” di Thèodore Gericault (1823) Consiglio regionale Assemblea legislativa Marche

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Comune di Pesaro


Le mie impronte digitali prese in manicomio hanno perseguitato le mie mani come un rantolo che salisse la vena della vita, quelle impronte digitali dannate sono state registrate nel cielo e vibrano insieme ahimè alle stelle dell’Orsa maggiore. Alda Merini, da “La vita facileâ€?


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