Nuovo Caffé Letterario 2007/8 - Speciale Poesia

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Web-zine Liberalsocialista

POESIA

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A che serve la poesia?

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Esiste ancora la poesia “politica”?

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Nella misura breve dell’istante Haiku

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Le Muse inquietanti delle città - fabbrica.All'origine fu la

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macchina da cucire Appendice o

26 Haiku tradizionali

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La poesia di Lovecraft

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Vent'anni del mensile internazionale "Poesia" (Crocetti Editore)

NCL 2008


Poesia in Progress

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Circolo dei lettori: incontro dell’11 ottobre 2007

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Luca Guglielminetti Introduzione Chiedere “a cosa serve la poesia” significa enunciare la funzione critica, spiega Eliot nell’introduzione al saggio L’uso della poesia e l’uso della critica, che raccoglie le sue lezioni preso l’Università di Harvard del 1932-1933 e che trovate di seguito o scaricabile sul sito del Nuovo Caffé Letterario. Il suo epigono e amico, Wystan Hugh Auden diceva però che: “La critica dovrebbe essere una conversazione informale.” E così siamo qui al Circolo dei Lettori, che ringraziamo per l’ospitalità e la collaborazione, cercando di affrontare il tema scelto per la prima di una serie di incontri mensili sulla poesia. Da orecchiante del tema, quale sono, osservo, come tutti, che tanti scrivono poesie, pochissimi la leggono e ancor di meno ne scrivono in termini critici, cioè tali da chiarire al lettore quei fatti che potrebbero sfuggirgli e interessargli, così da indurlo a comprare un libro. E’ il classico serpente che si morde la coda. Di recente Einaudi ha pubblicato un pamphlet con un titolo cha la dice lunga: Eutanasia della critica. Ma ancor più che nella pubblicistica tradizionale, un dibattito, dai toni appassionati e talvolta anche assai accesi, circola sui siti internet dedicati alla poesie e alla critica letteraria, dove l’interrogativo ricorrente è: a stare male è la poesia o la critica? La lamentazione della critica per la mediocrità del presente letterario in confronto ai fasti di un passato più o meno recente, si intreccia ai tentativi di poeti-critici di reperire un filo conduttore che conduca ad un qualche paradigma estetico la poesia contemporanea. Come uscirne? Serve ancora la poesia, o è destinata ancora ad un lungo esilio dalla vita culturale del nostro paese? Solo ieri mattina, qui al Circolo, in occasione della presentazione delle manifestazioni e convegni “Quando la libertà è altrove” sulle figure di Gobetti, Gramsci, Salvemini, Fratelli Rosselli ed Ernesto Rossi, il prof. Stefano Levi delle Torre ha presentato una stimolante relazione sul concetto di esilio, come opportunità per l’intelligenza di passare da una condizione negativa e traumatica ad una propositiva e chiarificatrice. Ha utilizzato la poesia (Boudelaire e Dante), la letteratura (Carlo e Primo Levi) e la mitologia (Bibbia e Talmud) per sottolineare un concetto che mi pare correlato, non solo ai cinque intellettuali piemontesi, ma anche alla domanda di stasera. Il concetto è quello che la condizione di esilio, di esiliato, pone il soggetto nella necessità di riprendere le misure, cioè di re-interpretare la realtà, la storia, la lingua. Contrapposta all’idiotismo dello stanziale, la condizione di esule, ad esempio politico, come fu per Ovidio, Dante, Foscolo, Levi, è in vero estendibile allo stato di prigioniero, di auto-esiliato, di malato, di alienato mentale e socialmente marginale, fino a comprendere l’intera comunità umana, esiliata dal paradiso terrestre. Questa opportunità di riprendere le misure dell’esiliato, di chi si scopre straniero nella necessità di re-imparare, anche per chi non si è mai mosso di casa, come Emily Dickinson,

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ha una valenza doppia per il poeta. Che si trovi straniero, tra chi parla diverso, o straniero a sé stesso, l’esilio è anche il nesso tra esistenza e lingua, è quel che porta la lontananza a farsi parola, la separazione ritmo. Tutti gli intellettuali interpretano dal di fuori le ferite che gli bruciano, ma per il poeta in più si può dire, come ci ha ricorda Antonio Prete in un convegno sul tema alla Sapienza di Roma nel 2005, che in lui la lingua non fa altro che nominare costantemente l'esilio. “Esilio che è nel cuore stesso delle parole”. Il poeta accoglie nella sua lingua, preservando la pluralità dei significati delle parole, qualcosa di quanto è perduto: che sia la libertà, la patria, l’identità, la salute, le radici, l’infanzia, gli dei o i miti. Come scrive Paul Celan nell'esergo tratto dal Poema della fine di Marina Cvetaeva : “Tutti i poeti sono ebrei”. Ossia: tutti i poeti sono in esilio. La poesia allora, riprese di volta in volta le nuove misure dei tempi, nei vari possibili luoghi dell’esilio, nella continua ricerca di fornire senso alle parole della propria lingua, serve a riportarci a casa, a sanare ferite, o, come spera Czeslaw Milosz, «a dimorare nell’“adesso” »? Lascio la parola ai nostri relatori che ringrazio, a nome dei tre promotori, di aver accettato l’invito a partecipare a questa serata e che presento brevemente.

Giorgio Bàrberi Squarotti dal 1967 insegna Letteratura Italiana all’Università di Torino. Ha pubblicato un gran numero di opere che riguardano figure e tempi della letteratura italiana, da Dante a Marino, da Petrarca ad Ariosto, da Boccaccio a D’Annunzio, da Tasso a Sbarbaro, a Montale, a Pavese e ad altri contemporanei. E’ inoltre il responsabile scientifico del Grande Dizionario della Lingua Italiana UTET. Ha scritto anche alcune raccolte di versi e si è aggiudicato il premio speciale dalla giuria nel Premio letterario internazionale il “Mulinello” 2003 con Addio alla poesia del cuore. Giorgina Piccoli ha una cattedra di Nefrologia all’Università di Torino e dirige un reparto di dialisi all’Ospedale Molinette. Da anni è anche una poliedrica artista e nella sua attività didattica è promotrice dello studio delle humanities in medicina e dell’attività di arteterapia. Ha recentemente tradotto ed illustrato, per Arsile edizioni, un testo poetico di Cesare Pavese.

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T. S. Eliot L’uso della poesia e l’uso della critica INTRODUZIONE (4 novembre 1932) Tutto il paese è ormai in eccitazione per la campagna politica e in una condizione di emozione irrazionale. La miglior prospettiva è che non sembra improbabile una riorganizzazione dei partiti come indiretto risultato dell'attuale competizione fra i repubblicani e i democratici... Ma non c'è da sperare in un qual-siasi radicale mutamento. Queste parole si trovano in una lettera scritta da Charles Eliot Norton il 24 settembre 1876. Le nostre conferenze non riguarderanno affatto la politica; ho cominciato con una citazione politica solo per ricordare i diversi interessi dello studioso e dell'umanista commemorato da questa Fondazione. In una simile Fondazione è fortunato il conferenziere che, come me, può sentire simpatia e ammirazione per l'uomo la cui memoria le conferenze intendono tener viva. Charles Eliot Norton aveva quelle qualità morali e spirituali, di tipo stoico, che sono possibili senza i benefici della religione rivelata; e i doni intellettuali che sono possibili senza genio. Fare ciò che è utile, dire ciò che è coraggioso, contemplare ciò che è bello: è abbastanza per la vita d'un uomo. Pochi hanno saputo dare meglio di lui il giusto posto a ciò che richiedono la vita pubblica e quella privata; pochi ne hanno avuto miglior opportunità, pochi di quelli che ne hanno avuto opportunità ne hanno tratto profitto meglio di lui. Il normale uomo politico, che intrattiene affari di carattere pubblico, è raramente capace di arrivare a un "posto pubblico" senza assumere un "volto pubblico": Norton riuscì sempre a salvare il suo riserbo. E pur vivendo in una società non cristiana, e in un mondo che, come potè vederlo da ambedue le sponde dell'Atlantico, mostrava segni di decadenza, egli mantenne i modelli di umanità e di umanesimo che conosceva. Era capace, anche da giovane, di guardare senza rimpianto un ordine di cose che tramontava, e di guardare senza speranza quello che sopraggiungeva. In una lettera del dicembre 1869, egli parla in modo ancor più forte e più ampio che in quella già citata: In Europa il futuro è molto oscuro, mi sembra che stiamo entrando in un periodo storico del tutto nuovo, nel quale i problemi sui quali i partiti si troveranno divisi e dai quali passione e violenza sorgeranno in un crescendo esplosivo, non saranno più di natura politica ma direttamente sociale... È per me cosa molto dubbia se il nostro periodo di iniziativa economica, di competitività illimitata, e di sfrenato individualismo rappresenti lo stadio più alto del progresso umano; e a volte, quando guardo alle attuali condizioni dell'ordine sociale europeo (per non dire di quello americano), brutte come sono sia per le classi superiori che per quelle inferiori, mi chiedo se la nostra civiltà può difendersi contro le forze che si stanno unendo per distruggere molte delle istituzioni nelle quali essa si

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realizza e si personifica, o se non si avrà un altro periodo di declino, di crollo, di rovina e poi di ripresa come quello dei primi milletrecento anni della nostra era. Se così fosse non ne sarei molto addolorato. Chiunque sappia che cosa è veramente la società contemporanea deve senz'al-tro convenire che non vale la pena di mantenerla sulle sue basi attuali.* 1 E sono parole con le quali possono convenire molti che si accostino a problemi contemporanei con assunti più dogmatici di quelli di Norton. Tuttavia l'importanza inderogabile della letteratura era per lui, se non un dogma, sicuramente un fatto stabilito. Il popolo che cessa di curare la propria eredità letteraria s'incammina verso la barbarie; il popolo che smette di produrre letteratura cessa di progredire in pensiero e sensibilità. La poesia di un popolo prende vita dal linguaggio del popolo stesso, e a sua volta gli da vita; e rappresenta il suo più alto grado di coscienza, il suo maggior potere e la sua più delicata sensibilità. In queste conferenze mi occuperò della critica della poesia quanto o più che della poesia stessa; e il mio argomento non sarà soltanto la relazione che lega la critica alla poesia, se con questo presumiamo di sapere già che cosa è la poesia, che cosa operi e a che cosa serva. In verità, buona parte della critica è consistita semplicemente nel ricercare delle risposte a questi problemi. Permettetemi di cominciare supponendo che noi non si sappia cosa è la poesia, o cosa operi o dovrebbe operare, o a che cosa serva; e tentiamo di scoprire, esaminando il rapporto fra poesia e critica, quale sia l'utilità di entrambe. Può avvenire di scoprire che non si ha un'idea molto chiara di che cosa significhi "utilità"; in ogni modo sarà meglio non presupporre che lo si sappia. Non comincerò con una definizione generale di che cosa sia e che cosa non sia poesia, o con una discussione sulla necessità o meno che la poesia debba sempre essere in versi, o con riflessioni sulla differenza fra l'antitesi poesia-verso e poesia-prosa. La critica, comunque, può essere inizialmente divisa non in due tipi, ma secondo due tendenze. Dico che la critica è quella parte del pensiero la quale o cerca di scoprire che cosa sia la poesia, quale sia la sua utilità, quali desideri essa soddisfi, perché viene scritta e perché viene letta, o recitata; oppure che è quella parte del pensiero la quale, presumendo consciamente o inconsciamente che noi si sappia già quanto detto prima, valuta la vera poesia. Potremo scoprire che la buona critica ha scopi diversi da questi, ma questi sono gli scopi che è consentito dichiarare. La critica, naturalmente, non scopre mai che cosa sia la poesia, nel senso che non giunge a una ua appropriata definizione; né so di che utilità sarebbe tale definizione, una volta trovata. Né la critica potrà mai giungere a una valutazione conclusiva della poesia. Ma la critica ha due limiti teorici: in uno di questi limiti si tenta di rispondere alla domanda "che cosa è la poesia?" e nell'altro alla domanda "questa è una buona poesia?'r Non esiste ingegnosità teorica sufficiente per rispondere 1

* Le mie citazioni dalle lettere di Norton sono tratte da Life and Letters of Charles Eliot Norton (Houghton Mifflin, 2 voli.).

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alla seconda domanda perché nessuna teoria può equivalere a quel che è fondato su un'esperienza diretta della buona poesia; ma d'altro canto la nostra esperienza diretta della poesia implica un'ampia attività di generalizzazione. Le due domande, che rappresentano la formulazione più astratta di quel che è ben lontano dall'essere un'attività astratta, si implicano l'un l'altra. Il critico degno di esser letto le ha poste entrambe, anche se vi ha risposto solo in maniera incompleta. Aristotele, in quella parte che ci è rimasta dei suoi scritti sulla poesia, stimola, ritengo, la nostra valutazione dei tragici greci; Coleridge, nella sua difesa della poesia di Wordsworth, è indotto a generalizzazioni riguardanti la poesia che sono del massimo interesse; e Wordsworth, spiegando la propria poesia, fa delle affermazioni in merito alla natura della poesia che, sebbene eccessive, presentano implicazioni più ampie di quanto egli possa aver mai supposto. I.A. Richards, che dovrebbe sapere, se mai è possibile saperlo, di quale corredo il critico scientifico ha bisogno, ci dice che sono necessarie "tanto un'appassionata conoscenza della poesia quanto una capacità di imparziale analisi psicologica". Richard, come ogni serio critico di poesia, è anche un moralista serio. La sua etica, o teoria dei valori, non posso accettarla; o piuttosto, non posso accettare alcuna teoria del genere, costruita su basi puramente individuali e psicologiche. Ma la sua psicologia dell'esperienza poetica si fonda sulla sua personale esperienza della poesia, così come la sua teoria dei valori nasce dalla sua psicologia. Si può essere insoddisfatti delle sue conclusioni filosofiche e tuttavia credere (come io credo) nella perspicacia del suo gusto in fatto di poesia. Ma se, d'altro canto, non si ha fiducia nella capacità del critico di distinguere una buona poesia da una che non lo è, si avrà ben poca fiducia nella validità delle sue teorie. Per analizzare il piacere e il valore di una buona poesia il critico deve aver provato quel piacere e deve convincersi del suo buon gusto, poiché l'esperienza del piacere avuto da una cattiva poesia che si ritiene buona è molto diversa da quella del piacere provato davanti a una buona poesia. Ci si aspetta che il critico capace di teorizzare sappia riconoscere, quando la vede, una buona poesia. Non è sempre vero che una persona che sa riconoscere una buona poesia ci sappia anche dire perché lo è. L'esperienza della poesia, come qualsiasi altra esperienza, è traducibile in parole solo parzialmente. Tanto per incominciare, come dice Richards, "quel che importa non è mai ciò che la poesia dice, ma ciò che è". E si sa che alcune persone che non sono capaci di parlare, e che non riescono a dire perché a loro piaccia una poesia, possono avere una sensibilità più profonda e più acuta di altre che possono parlarne in modo scorrevole; dobbiamo anche ricordare che non si scrive poesia semplicemente per fornire argomento di conversazione. Anche il più preparato dei critici può solo, in fin dei conti, indicare la poesia che gli sembra essere quella giusta. Nonostante questo, il nostro discorso sulla poesia è una parte, un'estensione dell'esperienza che noi ne abbiamo; e dal momento che tanto si è pensato in merito al comporre poesia, tanto pensare può ben essere rivolto al suo studio. L'elemento

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primo ed essenziale della critica è la capacità .di individuare una buona poesia e di respingerne una cattiva; e la prova più severa consiste nella capacità di individuare una nuova buona poesia che risponda in modo adeguato a una nuova situazione. L’esperienza della poesia, per come si sviluppa in una persona conscia e matura, non è semplicemente la somma delle esperienze relative a buone poesie. L'educazione poetica richiede un'organizzazione di queste esperienze. Non esiste uno di noi che sia nato con, o che all'improvviso acquisti in età giovanile o in seguito, una perspicacia e un gusto infallibili. La persona di esperienza limitata può sempre essere ingannata dall'impostura o dall'articolo adulterato; e si vedono generazioni di lettori inesperti ingannati dall'impostura e da ciò che è adulterato; e che loro preferiscono, dal momento che è più facilmente assimilabile dell'articolo genuino. Tuttavia un grandissimo numero di persone, credo, ha l'innata capacità di godere di un po' di buona poesia: non fa parte del mio attuale proposito ricercare qui quanta o quanti gradi di capacità possono utilmente essere distinti. Certo, solo il lettore eccezionale giunge nel corso del tempo a classificare e a paragonare le sue esperienze, a osservare l'una alla luce dell'altra; e, moltiplicandosi le sue esperienze poetiche, a essere capace di capirle una per una in maniera più accurata. L'elenco del piacere si amplia fino a diventare valutazione, il che porta un'aggiunta di carattere più intellettuale all'originale intensità del sentimento. È un secondo stadio, nella nostra comprensione della poesia, nel quale non si individua o rifiuta più soltanto, ma si organizza. Possiamo persino parlare di un terzo stadio, uno stadio di riorganizzazione; uno stadio nel quale una persona già educata alla poesia si trova davanti a qualcosa che è nuovo per il suo tempo, e trova un nuovo modello di poesia che si struttura di conseguenza. Questo modello, che formiamo nella nostra mente dalle nostre letture di poesie di cui abbiamo goduto, è una sorta di risposta, che ognuno formula personalmente, alla domanda "che cosa è la poesia?". Al primo stadio scopriamo che cosa è la poesia leggendola e godendo in parte di ciò che leggiamo; a uno stadio ulteriore la nostra percezione delle somiglianze e delle differenze fra ciò che leggiamo per la prima volta e ciò di cui abbiamo già goduto contribuisce al nostro piacere. Impariamo che cosa è la poesia - se mai lo impariamo - leggendola. Ma si potrebbe obiettare che non dovremmo essere capaci di riconoscere la poesia in particolare se non avessimo un'idea innata della poesia in generale. In ogni caso, la domanda "che cosa è la poesia?" sorge in modo del tutto naturale dalla esperienza che noi abbiamo delle poesie. Quindi, anche se possiamo ammettere che poche forme di attività intellettuale sembrano aver meno da mostrare di per se stesse, nel corso della storia, in forma di libri che vale la pena di leggere, di quanto non mostri la critica, sembrerebbe che la critica, come qualsiasi altra attività filosofica, sia inevitabile e non richieda giustificazione. Chiedere "che cos'è la poesia?" significa enunciare la funzione critica. Immagino che a molte persone sia capitato di pensare che in certi periodi nei quali fu scritta grande poesia non

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vi era critica scritta; e che in certi periodi nei quali è stata scritta molta critica la qualità della poesia era inferiore. Ciò ha suggerito un'antitesi fra il critico e il creativo, fra età critiche e età creative; e si è a volte pensato che la critica fiorisca per lo più in tempi in cui manca vigore creativo. E con questo pregiudizio che alle "età critiche" si è unito l'aggettivo "alessandrino". Alla base di questo pregiudizio stanno parecchie presunzioni grossolane che vanno sotto l'etichetta di "critica", compresa una confusione fra molte cose diverse, e fra opere di qualità molto differente. In queste conferenze uso il termine "critica" in un senso piuttosto stretto, come spero risulterà chiaro. Non desidero attenuare i difetti del gran numero di libri che vengono indicati con questo termine, o lusingare la pigra abitudine di sostituire a un attento studio dei testi l'assimilazione delle opinioni di altre persone. Se solo si scrivesse quando si ha qualcosa da dire, e non perché si vuole scrivere un libro o perché si occupa una posizione per cui ci si aspetta che si scriva un libro, la quantità di produzione critica non sarebbe del tutto sproporzionata in confronto all'esiguo numero di libri critici che vale la pena di leggere. Tuttavia, coloro che parlano della critica come fosse un'occupazione che denota decadenza e un sintomo, se non una causa, della impotenza creativa di un popolo, isolano le circostanze della letteratura dalle circostanze della vita, fino al limite della falsificazione. Mutamenti come quello che dal poema epico composto per essere recitato porta al poema epico composto per essere letto, o quelli che segnano la fine della ballata popolare, sono inseparabili dai mutamenti sociali su vasta scala, che sono sempre avvenuti e sempre avverranno. W.P. Ker, nel suo saggio The Form of English Poetry, notò che l'arte del medioevo è generalmente corporativa e sociale; la scultura, per esempio, come la si vede nelle grandi cattedrali. Col Rinascimento le ragioni della poesia sono cambiate. Nel medioevo vi è una naturale somiglianza on la condizione greca; dopo, con il Rinascimento, vi è fra le nazioni moderne una riproduzione cosciente e intenzionale delle condizioni che prevalsero nella poesia di Roma. La poesia greca sotto molti aspetti è medioevale; la poesia latina del periodo aureo è rinascimentale, un'imitazione dei modelli derivati dalla Grecia, in circostanze molto differenti e con un differente rapporto fra il poeta e il suo pubblico. Non che la poesia latina o quella moderna non siano sociali. Ma è vero... che la tendenza dell'arte moderna, poesia inclusa, è spesso contraria al gusto popolare del suo tempo; i poeti sono spesso lasciati a se stessi nella ricerca dei loro temi e nell'elaborazione dei loro modi di espressione in solitudine, con risultati spesso giudicati complicati e sgradevoli, e trascurabili quanto in genere si pensò che lo fosse il Sordella di Browning.

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lo sviluppo della poesia è esso stesso un sintomo di mutamenti sociali. Il momento importante perché la critica appaia sembra essere quello in cui la poesia cessa di essere espressione dello spirito di un intero popolo. Il dramma di Dryden, che fornisce l'occasione più importante per i suoi scritti di critica, prende forma dal fatto che Dryden si rese conto dell'impossibilità ormai di scrivere alla maniera di Shakespeare; quella forma continua nelle tragedie di uno scrittore come Shirley (che è molto più aggiornato nelle sue commedie), dopo che lo spirito e la sensibilità dell'Inghilterra erano mutati. Ma Dryden non scriveva drammi per tutto il popolo; scriveva in una forma che non si era sviluppata da una tradizione popolare o da un'esigenza del popolo, una forma che doveva perciò venire accettata e diffusa in una società ristretta. Qualcosa di simile era stato tentato dai drammaturghi senechiani. Ma la parte di società cui poteva direttamente rivolgersi l'opera di Dryden, e quella dei commediografi della Restaurazione, era qualcosa di simile a un'aristocrazia intellettuale; quando il poeta si trova in un'età nella quale non c'è un'aristocrazia intellettuale, quando il potere è nelle mani di una classe così democratizzata che mentre rimane tale si pone come rappresentante dell'intera nazione; quando le uniche alternative sembrano essere il parlare a un cenacolo o fare un soliloquio, le difficoltà del poeta e la necessità della critica diventano maggiori. Nel saggio dal quale ho appena tratto una citazione Ker afferma: Non c'è dubbio che nel XIX secolo i poeti sono lasciati a se stessi più di quanto non lo furono nel XVIII secolo e il risultato è inequivocabile nella loro forza e nella loro debolezza ... L'eroica indipendenza dì Browning, e in verità tutta l'audace e inconsistente poesia del xix secolo, è strettamente connessa alla critica e all'eclettica cultura che vaga per il mondo in cerca di bellezza artistica ... I temi sono tratti da tutte le età e da tutti i paesi; i poeti sono studiosi e critici eclettici, e sono giustificati come lo sono gli esploratori; sacrificano quello che gli esploratori sacrificano quando lasciano la loro casa natia... Non mi si fraintenda se osservo che le loro vittorie portano con sé un certo pericolo, se non per loro stessi, almeno per l'uso, per la tradizione della poesia. I graduali mutamenti della funzione della poesia col mutare della società spero emergeranno in parte dopo che avremo considerato vari critici in quanto rappresentativi di varie generazioni. In trecento anni la critica è giunta a modificare i suoi assunti e i suoi scopi, e certamente continuerà a farlo. Vi sono parecchie forme che la critica può assumere: c'è sempre una larga parte di critica che è vecchia o di poco conto; ci sono sempre molti scrittori che non sono qualificati né dalla conoscenza del passato né dalla coscienza della sensibilità e dei problemi del presente. La nostra prima critica, sotto l'influenza di studi classici e di critici italiani, fece ampie supposizioni sulla natura e sulla funzione della letteratura. La poesia era un'arte decorativa, un'arte per la quale a volte venivano fatte asserzioni stravaganti, ma un'arte nella quale gli stessi principi sembravano valere per ogni

Ciò che vale per i grandi mutamenti nella forma della poesia ritengo valga anche per il mutamento da un'età precritica. Lo stesso vale anche per il mutamento da un'età prefilosofica a un'età filosofica; e non è possibile lamentarsi della critica senza prendere posizione contro la filosofia. Si può dire che lo sviluppo della critica è un sintomo dello sviluppo, o del mutamento, della poesia e Circolo dei lettori: incontro dell’11 ottobre 2007

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civiltà e per ogni società; era un'arte profondamente .condizionata dalla nascita di una nuova classe sociale, solo vagamente (nel caso migliore) connessa alla Chiesa, una classe autocosciente nel suo possesso dei misteri latini e greci. In Inghilterra la forza critica dovuta al nuovo contrasto fra il latino e il vernacolo si trovò di fronte, nel XVI secolo, al giusto grado di resistenza. Come dire, per l'età che è rappresentata per noi da Spenser e Shakespeare, che le nuove forze stimolarono il genio nativo e non lo sopraffecero. Il proposito della mia seconda conferenza sarà quello di dare alla critica di questo periodo quanto le spetta e che non mi sembra abbia ricevuto. Nell'età seguente, la grande opera di Dryden nell'ambito della critica è che egli divenne cosciente nel momento giusto della necessità di confermare l'elemento nativo in letteratura. Dryden, nei suoi drammi, è più consapevolmente inglese di quanto lo furono i suoi predecessori; i suoi saggi sul dramma e sull'arte della traduzione sono studi consapevoli della natura del teatro e della lingua inglese; e persino il suo adattamento di Chaucer è un'affermazione della tradizione nativa piuttosto che, come invece a volte si è creduto, una divertente e patetica incapacità di apprezzare la bellezza del linguaggio e della metrica chauceriani. Laddove i critici elisabettiani, per la maggior parte, furono consci di qualcosa che doveva essere preso a prestito o adattato dall'esterno, Dryden fu conscio di qualcosa che doveva essere mantenuto in patria. Ma lungo tutto questo periodo, e per molto tempo ancora, un'idea rimase la stessa: quella relativa a quale fosse l'utilità della poesia. Qualsiasi lettore dell'Apology far Poetry di Sidney può vedere che i misomousoi contro i quali egli difende la poesia sono uomini di paglia, che egli è fiducioso di avere la simpatia del lettore e che non si pone mai seriamente le domande a che serve la poesia, che cosa opera, o se sia cosa piacevole. L'idea di Sidney è che la poesia da insieme piacere e istruzione, e che è un ornamento della vita sociale e un onore perla nazione. Sono ben lontano dal dissentire da queste affermazioni, per quello che esse comportano; ciò che voglio dire è che per lungo tempo non furono mai poste in questione o modificate; che in quel tempo venne scritta della grande poesia e della critica che nei suoi assunti ha da offrire un insegnamento duraturo. Ritengo invero che in una età nella quale si è d'accordo sull'utilità della poesia è più probabile che si abbia, verso per verso, quel minuto e scrupoloso esame della felicità e dell'imperfezione che è notevolmente assente dalla critica del nostro tempo, una critica che sembra chiedere alla poesia non di essere ben scritta, ma di essere "rappresentativa della sua epoca". Mi auguro che si possa porre maggior attenzione alla correttezza dell'espressione, alla chiarezza o all'oscurità, alla precisione o all'inesattezza grammaticale, alla scelta delle parole giuste o inadatte, elevate o volgari, della nostra poesia: in breve, alla buona o alla cattiva educazione dei nostri poeti. Quel che qui voglio dire è che è avvenuto, si può dire verso la fine del XVIII secolo, un grande

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mutamento nell'atteggiamento nei confronti della poesia per quel che riguarda ciò che ci si attende da essa e ciò che le si chiede. Words-worth e Coleridge non demoliscono semplicemente una tradizione avvilita si rivoltano contro un intero ordine sociale; e incominciano a fare per la poesia delle rivendicazioni che raggiungono il loro massimo grado di esagerazione nella famosa frase di Shelley: "I poeti sono i legislatori non accreditati dell'umanità". Antichi apologeti della poesia avevano detto la stessa cosa: Shelley (per prendere a prestito una felice frase di Bernard Shaw) fu il primo, in questa tradizione, dei poliziotti della Natura. Se Wordsworth pensava di essere impegnato solo in una riforma della lingua si sbagliava; egli era impegnato in una rivoluzione della lingua; e la sua stessa lingua era capace di altrettanto artificio, e di non maggior naturalezza, che quella di Pope, come capì Byron, e come Coleridge sottolineò onestamente. La decadenza della religione e il logorio delle istituzioni politiche lasciarono delle frontiere incerte che il poeta usurpò; e le annessioni del poeta vennero legittimate dal critico. Per lungo tempo il poeta è il sacerdote: credo vi siano ancora persone che immaginano di trarre alimento religioso da Browning o da Meredith. Ma lo stadio seguente è meglio esemplificato da Matthew Arnold era un uomo troppo moderato e ragionevole per sostenere che l'educazione religiosa è meglio impartita dalla poesia, ed egli stesso aveva ben poco da impartire. Ma scoperse una nuova formula: la poesia non è religione, ma è un suo sostituto importantissimo non un debole vino di porto che può prestarsi all'ipocrisia, ma caffè senza caffeina, tè senza tannino. La dottrina di Arnold fu ampliata, anche se un po' travestita, nella dottrina dell'"arte per l'arte". Questo, credo, potrebbe sembrare il capovolgimento di una fede più semplice nutrita in tempi più antichi, nei quali il poeta era come un dentista, una persona con un lavoro ben preciso. Ma si trattava di una disperata ammissione di irresponsabilità. La poesia di ribellione e la poesia di rinuncia non sono dello stesso tipo. Nei nostri tempi ci siamo spostati, spinti da vari impulsi, verso nuove posizioni. Da un lato lo studio della psicologia ha portato gli uomini non solo a studiare attentamente la mente del poeta con una fiduciosa disinvoltura che ha condotto ad alcuni eccessi di fantasia e a una critica aberrante, ma anche a studiare attentamente la mente del lettore e il problema della "comunicazione"; parola, questa, che richiede forse di essere discussa. D'altro canto, lo studio della storia ci ha mostrato il rapporto sia della forma che del contenuto della poesia con le sue condizioni di luogo e di tempo. Il punto di vista psicologico e quello sociologico sono probabilmente quelli meglio propagandati dalla critica moderna; ma la quantità di modi in cui i problemi della critica vengono avvicinati non è mai stata così ampia e confusa. Non ci sono mai state così poche idee stabilite in merito a quel che la poesia è, o al perché essa prende vita, o a che cosa serve. La critica sembra essersi divisa in molti e differenti tipi. Non ho fatto questa breve rassegna dell'evoluzione della critica con l'intento di giungere ad associare me

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stesso con una qualsiasi tendenza della critica moderna, e meno che mai con quella sociologica. Suggerisco soltanto che si può imparare parecchio sulla critica e sulla poesia esaminando la storia delia critica, non come puro catalogo di nozioni sulla poesia che si succedono l'una all'altra, ma come un processo di adeguamento fra la poesia e il mondo nel quale e per il quale essa viene prodotta. Si può imparare qualcosa sulla poesia col semplice studio di ciò I che la gente ha pensato in merito epoca dopo epoca; e senza giungere alla sciocca conclusione che non si può dire nulla se non che le idee cambiano. In secondo luogo, lo studio della critica, non come una serie di congetture fatte a caso, ma come riadattamento, può anche aiutarci a trarre alcune conclusioni riguardo a ciò che è stabile ed eterno nella poesia, e a ciò che è semplicemente l'espressione dello spirito di un'epoca; e scoprendo ciò che cambia, e come, e perché, si può giungere a capire cosa non cambia. Studiando attentamente i problemi di ciò che è sembrato importante a un'epoca o a un'altra, esaminando differenze e identità, possiamo in parte sperare di ridurre i nostri limiti e di liberarci da alcuni dei nostri pregiudizi. Citerò a questo punto due passi che avrò forse occasione di citare ancora. Il primo è tratto dalla prefazione all'Annus Mirabilis di Dryden: La prima felicità dell'immaginazione del poeta è certo l'invenzione, o la scoperta del pensiero; la seconda è la fantasia, o la variazione che ne risulta, o la formulazione di quel pensiero, dal momento che il giudizio lo rappresenta al soggetto in modo adeguato; la terza è l'elocuzione, o arte di vestire e adornare quel pensiero, in quanto trovato e variato, in parole adatte, espressive e risonanti; la prontezza dell'immaginazione si vede nell'invenzione, la fertilità nella fantasia, e l'accuratezza nell'espressione. Il secondo passo è tratto dalla Biographia Literaria di Coleridge: Ripetute meditazioni mi hanno innanzitutto portato a sospettare... che la Fantasia e l'Immaginazione fossero due facoltà distinte e molto diverse, invece di essere, secondo l'opinione dei più, due nomi con un unico significato o al massimo il grado più basso e quello più alto di una stessa unica facoltà. Ammetto che non è facile pensare a una traduzione del greco phantasia più appropriata del latino imaginatio; ma è anche vero che in tutte le società esiste un istinto di sviluppo, un certo senso positivo, di carattere collettivo e inconscio, che opera progressivamente in modo da togliere il valore di sinonimo a quelle parole che originariamente avevano lo stesso significato e che il confluire di dialetti sostituì alle lingue più omogenee, come il greco e il tedesco... Milton aveva una mente estremamente immaginativa, Cowley una mente molto fantasiosa.* 2 2

Si può notare qui come altrove che l'affermazione contenuta nell'ultima frase può operare sulla mente del lettore una persuasione irrazionale. Siamo d'accordo sul fatto che Milton è un poeta molto più grande di Cowley, e di un tipo diverso e superiore. Quindi ammettiamo senza analisi che la differenza può essere formulata attraverso questa chiara antitesi, e accettiamo senza discussione la distinzione fra immaginazione e fantasia che Coleridge ha semplicemente imposto. Anche l'antitesi fra estremamente e molto è un

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Il modo in cui l'espressione dei due poeti e critici è determinata dal loro rispettivo background appare del tutto evidente. Evidente è anche la più progredita disposizione spirituale di Coleridge: la sua grande consapevolezza della filologia e quanto egli fosse consciamente determinato a far sì che certe parole significassero certe cose. Ma ciò che dobbiamo considerare è se abbiamo qui due teorie radicalmente opposte dell'Immaginazione poetica, o se le due teorie possono essere accostate, dopo esserci resi conto delle molte ragioni di diversità rintracciabili nel tempo che intercorre fra la generazione di Dryden e quella di Coleridge. Può sembrare che gran parte di ciò che ho detto, se riesce ad avere una qualche importanza per valutare e capire la poesia, abbia ben poco a che fare con la sua composizione. Quando i critici sono anche poeti si può sospettare che abbiano formulato le loro affermazioni critiche in vista di una giustificazione della loro pratica poetica. Una critica come quella dei due passi citati è difficilmente destinata a formare lo stile di poeti più giovani; è piuttosto, nel migliore dei casi, un resoconto dell'esperienza che il poeta ha avuto della sua attività poetica, riferito nei termini del suo stesso modo di pensare. Lo spirito critico che opera nella poesia, lo sforzo critico che porta alla sua formazione, può sempre essere in anticipo sullo spirito critico che opera sulla poesia, sia essa la propria o quella di altri. Voglio insomma affermare che esiste una relazione significativa fra la miglior poesia e la miglior critica di una stessa epoca. L'età della critica è anche l'età della poesia critica. E quando dico che la poesia moderna è estremamente critica voglio dire che il poeta contemporaneo, che non è semplicemente una persona che compone versi graziosi, è costretto a porsi domande quali "a che cosa serve la poesia?". Non solo domande come "che cosa scriverò?" ma piuttosto "come e a chi lo dirò?". Dobbiamo comunicare - se si tratta di comunicazione, giacché la parola può aver bisogno di essere discussa - un'esperienza che non è un'esperienza nel senso comune della parola, poiché può solo esistere nell'espressione di quell'esperienza che è formata di molte esperienze personali ordinate in modo tale da poter essere molto diverso da quello secondo cui si valuta la vita pratica. Se la poesia è una forma di "comunicazione", quel che deve essere comunicato è comunque la poesia stessa, e solo incidentalmente l'esperienza e il pensiero che vi sono inseriti. L'esistenza della poesia si colloca nello spazio fra l'autore e il lettore; ha una realtà che non è semplicemente la realtà di ciò che lo scrittore tenta di "esprimere", o la sua esperienza dello scriverla, o l'esperienza del lettore o dello scrittore in quanto lettore. Di conseguenza il problema di quel che una poesia "significa" è molto più difficile di quanto non sembri a prima vista. Se una mia poesia intitolata Ash-Wednesday avrà una seconda edizione, ho pensato di farla precedere dai versi di Byron tratti dal Don Juan: Some have accused me of a strange design elemento di persuasione.

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Against the creed and morals of this land, And trace it in this poem, every line. I don't pretend that I quite understand My own meaning when I would be very fine; But the fact that I have nothing planned Except perhaps to be a moment merry... C'è un profondo monito critico in questi versi. Ma una poesia non è quel che il poeta "ha progettato" o quel che il lettore immagina, né la sua "utilità" è del tutto limitata a quel che l'autore intendeva o a quel che la poesia opera per i lettori. Sebbene la quantità e la qualità del piacere che una qualsiasi opera d'arte ha offerto da quando è venuta alla luce non sia trascurabile, tuttavia non la giudichiamo mai da questo; e non chiediamo, dopo essere stati profondamente colpiti da un'architettura o da una musica: "Qual è stato il beneficio o il profitto che ho ricevuto dalla vista di questo tempio o dall'ascolto di questa musica?". In un certo senso il problema implicito nell'espressione "l'utilità della poesia" è un nonsenso. Ma il problema ha un altro significato. A parte la varietà di modi in cui i poeti hanno impiegato la loro arte, con maggiore o minore successo, col progetto di educare o persuadere, non c'è dubbio che un poeta desidera dare piacere, intrattenere o distrarre le persone; e normalmente dovrebbe essere felice di riuscire a capire quando il piacere o la distrazione sono goduti dal più ampio numero possibile di persone. Quando un poeta, con la scelta del suo stile o del suo argomento, restringe volontariamente il suo pubblico, si ha una situazione particolare che necessita di una spiegazione e di un chiarimento, ma dubito che questo accada. Una cosa è scrivere in uno stile che è già popolare, e un'altra sperare che gli scritti di qualcuno possano alla fine diventare popolari. Da un certo punto di vista, il poeta aspira alla condizione del comico da music hall. Incapace di cambiare ciò che ha da offrire per adattarlo al gusto dominante, se pure ce n'è uno, egli desidera una società fatta i in modo tale che egli vi possa divenire popolare, e nella i quale il suo talento sia impiegato nel miglior modo possibile. Di conseguenza è profondamente interessato all'utilità della poesia. Le altre conferenze tratteranno le varie concezioni dell'utilità della poesia negli ultimi tre secoli come furono esemplificate dalla critica, e in special modo da quella elaborata dai poeti stessi. NOTA SULLO SVILUPPO DEL GUSTO POETICO Non sarà inopportuno, in relazione ad alcuni dei problemi accennati nel precedente capitolo, riassumere qui alcune osservazioni da me fatte altrove in merito allo sviluppo del gusto. Esse sono, spero, di una qualche importanza in relazione all'insegnamento della letteratura nelle scuole e nelle università.

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quattordici anni circa, sono capaci di trarre un certo piacere dalla poesia; e che in età pubere, o attorno alla pubertà, la maggioranza di loro trova in essa ben poco vantaggio ulteriore, a che una piccola minoranza si trova a quell'età con un forte desiderio di poesia che è completamente diverso da qualsiasi piacere provato in precedenza. Non so se le bambine hanno in poesia gusti diversi da quelli dei ragazzi, ma le reazioni di questi ultimi credo siano abbastanza uniformi. Horatius, The Burlai of Sir John Moore, Bannockbum, la Re-venge di Tennyson, alcune ballate della frontiera scozzese: un'inclinazione per la poesia cruenta e marziale non deve essere scoraggiata più di quanto non lo siano i combattimenti con soldatini di piombo e cerbottane. L'unico piacere che ebbi da Shakespeare fu il piacere di essere lodato per averlo letto; se fossi stato un bambino di spirito più indipendente mi sarei rifiutato di leggerlo. Riconoscendo con quanta frequenza la memoria si inganna, mi sembra di ricordare che la mia predilezione infantile per quel tipo di poesia che piace ai bambini scomparve quando ebbi dodici anni, lasciandomi per circa due anni senza alcun tipo di interesse verso la poesia. Ricordo abbastanza chiaramente il momento in cui, all'incirca quattordicenne, mi capitò fra le mani una copia dell'Ornar di Fitzgerald, e il modo travolgente in cui fui introdotto a un nuovo mondo di emozioni di cui questo poema fu per me occasione. Fu come una conversione improvvisa: il mondo apparve diverso, dipinto di colori splendenti, deliziosi e dolorosi. Subito seguii il normale itinerario degli adolescenti con Byron, Shelley, Keats, Rossetti, Swinburne. Presumo che questo sia continuato fino ai ventidue anni circa. Essendo un periodo di rapida assimilazione, la fine poteva non conoscere il principio, tanto diverso può diventare il gusto. Come il primo periodo della fanciullezza, questo è un periodo oltre il quale molte persone forse non vanno; cosicché il gusto per la poesia che esse mantengono più avanti nella vita è soltanto un ricordo sentimentale dei piaceri della giovinezza ed è probabilmente intrecciato a tutte le altre emozioni sentimentali viste in retrospettiva. E senza dubbio un periodo di intenso piacere; ma non dobbiamo confondere l'intensità dell'esperienza poetica nell'adolescenza con l'intensa esperienza della poesia. In quel periodo una poesia, o la poesia di un singolo poeta, invade la coscienza giovanile e ne prende per un certo tempo possesso completo. Non la vediamo mai realmente come qualcosa che ha un'esistenza al di fuori di noi stessi; in modo molto simile alle nostre esperienze amorose, non vediamo tanto la persona quanto piuttosto deduciamo l'esistenza di un qualche oggetto esterno che mette in movimento questi sentimenti nuovi e piacevoli nei quali siamo assorbiti. Il risultato è spesso un'eruzione di scribacchiamenti che possiamo chiamare imitazione finché non siamo consci del significato della parola "imitazione". Non è una scelta deliberata di un poeta da imitare, ma è uno scrivere invasati da un poeta in modo quasi demoniaco. Il terzo, maturo stadio del piacere della poesia si ha quando cessiamo di identificarci col poeta che stiamo leggendo; quando le nostre facoltà critiche restano sveglie; quando siamo coscienti di quel che un poeta può dare e di quel che non può dare. La poesia ha una sua esistenza propria, al di fuori di noi; era lì prima di noi, e continuerà a essere dopo di noi. E solo a questo stadio che il lettore è pronto per distinguere i gradi di grandezza poetica; prima di quello stadio ci si poteva solo aspettare che distinguesse

Forse generalizzo in modo ingiustificato la mia storia personale, o d'altra parte dico quel che è già un luogo comune per gli insegnanti e gli psicologi, quando formulo l'ipotesi che la maggior parte dei bambini, fino ai dodici o Circolo dei lettori: incontro dell’11 ottobre 2007

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fra il genuino e il falso; la capacità di stabilire questa distinzione deve sempre essere praticata prima delle altre. I poeti che frequentiamo nell'adolescenza non saranno posti in alcun ordine oggettivo di eccellenza, se non per i casi personali che li mettono in relazione con noi; ed è giusto. Non credo che sia possibile spiegare a degli scolari o anche a degli studenti universitari le differenze di valore dei poeti, e non credo sia cosa saggia il tentarlo. Non hanno ancora abbastanza esperienza della vita perché questo possa avere per loro molto significato. Capire perché Shakespeare, o Dante, o Sofocle, occupano il posto che occupano è qualcosa che avviene solo molto lentamente nel corso dell'esistenza. E il prudente tentativo di cogliere una poesia che non è naturalmente congeniale, e parte della quale non lo sarà mai, dovrebbe essere un'attività da persone molto mature; un'attività che ripaga ampiamente lo sforzo, ma che non si può consigliare a dei giovani senza cadere nel grave pericolo di indebolire la loro sensibilità verso la poesia e di confondere il genuino sviluppo del gusto con una falsa acquisizione di esso. Dovrebbe essere chiaro che lo "sviluppo del gusto" è un'astrazione. Porsi come obiettivo la capacità di godere, e nel giusto e oggettivo ordine di merito, di tutta la buona poesia significa inseguire un fantasma, alla caccia del quale si dovrebbero lasciare coloro la cui ambizione è di essere "colti" o "istruiti", coloro per i quali l'arte è un articolo di lusso e la capacità di apprezzarla è una qualità. Poiché lo sviluppo del gusto genuino, fondato su un sentimento genuino, non è separabile dallo sviluppo della personalità e del carattere.* Il gusto genuino è sempre un gusto imperfetto, ma siamo tutti imperfetti, in verità; e la persona il cui gusto poetico non porta il marchio della sua particolare personalità, per cui risultino differenze fra quello che piace a lui e quello che piace a noi, e anche somiglianze, e differenze relative al modo in cui ci piacciono le stesse cose, è con tutta probabilità una persona ben poco interessante con la quale discutere di poesia. Possiamo persino dire che avere miglior "gusto" poetico di quanto non spetti alla propria condizione di sviluppo significa non "gustare" nulla. Il gusto poetico di una persona non può essere separato dai suoi interessi e dalle sue passioni; li condiziona e ne è condizionato, e deve essere limitato come è limitata l'individualità della persona. Queste osservazioni introducono realmente un problema ampio e difficile: se si debba tentare di insegnare agli studenti a valutare la letteratura inglese; e con quali limitazioni l'insegnamento della letteratura inglese può correttamente essere incluso, se mai lo può essere, in un curriculum universitario. * Nel fare questa affermazione mi rifiuto di scivolare in una discussione delle definizioni di "personalità" e di "carattere".

Da T. S. Eliot , Opere 1904.1939 a cura di Roberto Sanesi, (pp 1093-1112)

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Ezra Pound Critici, siate più chiari

Il crepuscolo della critica è arrivato con l'affermazione che un tale è «il più grande, eccetera», cioè con l'uso degli aggettivi quantitativi, dove bisognerebbe un aggettivo qualitativo. Un critico mio amico ha scritto un romanzo. A lui darei una corona di viole se egli cominciasse a descrivere le idee come descrive i personaggi vivi nei suo romanzo. Di rado leggiamo per intero un articolo critico. Una volta ogni cinque anni (forse) un articolo critico ci sospinge a comprare un libro. La stima o la curiosità verso un autore ignoto viene dalla parola parlata, perché, nel parlare, non ci sentiamo obbligati a fare delle frasi. Diciamo qualche cosa semplice, che risveglia la mente altrui. Una dichiarazione generica a proposito di un autore ignoto non trasmette nulla. Per cinquant'anni «The Times Literary Suplemenl», un monumento fenomenale e record della stupidità, ha pubblicato articoli a proposito della !letteratura europea, senza alcun effetto. Da tanti anni: e ancora le cloache della stupidità americana fanno lo stesso, e i così detti «critici americani» restano alla stessa distanza dalla conoscenza. Con l'affermazione generale bisogna che ci sia la cosa concreta, le due righe, le tre parole che definiscono il significato stesso dell'affermazione. Sono porci, e un porco particolare a Londra che s'è stabilito critico, criticando la pittura francese, che i suoi lettori non conoscono. Va bene per l'imbecillità di quei lettori. Quando il critico dice «bella pittura» e mostra una porcheria, lo spettatore va altrove a cercare un altro professore o, anche, entra nella vita: cioè guarda l'oggetto direttamente, per se stesso. (...) Di tutti i seccatori prolissi ci resta qua e là una frase. Le cose lucide sono piuttosto brani tirati qua e là da una lettera o una prefazione di qualcuno che scriveva ma non faceva formal-mente la "crìtica". Dichiarazioni d'artisti creatori. T.E, fluirne soleva dire: «Tutto ciò che l'indivìduo pensa può scriversi su un mezzo foglio di carta. Il resto non è che applicazioni, o girovagazioni all'intorno". Un endocrinologista lavora tre anni, fa una scoperta e pubblica una mezza pagina. Si crede la chimica del pensiero meno complicala? Si crede cioè che la ricerca per condurre a una formula abbia meno bisogno di arrivare a una formula chiara? («L'Indici», II, n. I, 10 luglio) •

pubblicato sul supplemento domenicale del Sole24Ore del 19 Giugno 2005

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Giorgina Piccoli

Medicina e poesia (introduzione in forma di lettera) Caro Piero, quando quest’estate ti avevo raccontato che, a seguito di una chiacchierata che si è protratta nella notte, di una buona grappa e di una torta alla frutta, ero stata invitata a parlare “a un gruppetto di amici, in modo informale, come ora...” del significato della poesia per un dottore, tra le molte cose che non avrei immaginato c’era di parlare dopo uno dei mostri sacri della cultura Italiana, uno che la poesia la mangia come il pane quotidiano. E figurati tu, quante cose non hai immaginato, starai dicendo adesso col tuo sorriso ironico e un po’ sbieco, e come ribattere a questo? Non avrei immaginato, ti dicevo, di essere così in imbarazzo, così a corto di idee. Che potrei dire io in più, io che non sono altro che un giardiniere, un ortolano della medicina, uno che è tutto il giorno in mezzo a cose che, almeno a prima vista, di poetico hanno poco? (“Bello come una poesia”, chi mai lo direbbe di un cavolfiore, di un fagiolino, di un calcolo renale o un mal di denti?). Così, quello che nella notte sembrava così facile, vuoi per la grappa, vuoi per la falce di luna, ora sembra molto più difficile. Ma come tutto quello che è difficile, ha il pregio di suscitare domande. Perché chiedere a un medico a cosa serve la poesia? Che cosa un medico, in precario equilibrio tra arte e scienza, può dire, che interessi agli amanti dell’arte, fruitori appassionati di bella cultura, auspicabilmente sani come pesci? Dato che ignoro il senso della vita, la ragione del soffrire e del gioire, mi manca una fede certa e diffido di qualunque verità, probabilmente non sono la persona più adatta a parlare di cose serie come a cosa serve l’arte o la poesia. Ho qualche dubbio, a volte, sull’aspirina. Posto questo autodafé, dichiaro che a me, ad esempio, la poesia serve tantissimo (ma come tutte le cose belle, senza perdere tempo a fare delle scale, a organizzare cosmogonie complesse come il greco di Duremmatt), ma di questo fatto, pur nell’abituale egocentrismo che accomuna artisti e medici, non credo proprio che vi possa importare. E vorrei, quindi, parlarvi di quanto la medicina e l’arte siano da sempre legate, di quanto, come in quegli amori in cui ci si conosce ragazzini, ci si lascia e ci si ritrova, malgrado tutto, lungo tutta la vita, medicina e poesia vadano insieme. Tutte le arti, se vogliamo; ma la medicina ha alcune cose in particolare in comune con la poesia. La prima è la forza dell’intuizione: la poesia non spiega, mette in luce il sentire. La medicina fa la stessa cosa. L’altra settimana, ad un congresso in onore del suo ottantesimo compleanno, il professor Rocca Rossetti (urologo temutissimo da generazioni di studenti, oratore raffinato e interessante) ha concluso la sua lezione magistrale citando un articolo intitolato “doctors, a species on the verge of extinction? A visit to the 22nd century

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clinic” (medici, una specie in via di estinzione? una visita all’ospedale del 22esimo secolo). Parlava del ruolo del medico che, anche in un’epoca di passione per l'informatica, non può essere sostituito da un “cervello elettronico”. Primo Levi ha scritto “Il versificatore”: una macchina straordinaria che componeva poesie su tutti i temi, in tutte le forme (tema il rospo, ottonari, stile didascalico: ”Tra i batraci eccovi il rospo/ brutto eppur utile anfibio/…/ verrucoso ha il ventre e il dospo/ ma divora i vermi cribbio!”) e che a un certo punto si inceppava nel bel mezzo di un sonetto in stile primo novecento in liguria: “Due connessioni si sono bruciatti/ siamo bloccati sulla rima in atti/ e siamo diventati mentecatti/ Signor Sinsone affrettati combatti/ vieni da me con gli strumenti adatti/ cambia i collegamenti designatti/ ottomiladuecentodiciassatti/ fai la riparazione. Tante gratti”. Era in Storie Naturali. Era la stessa conclusione. L’intuizione clinica si basa spesso sulla percezione, come per un correttore di bozze, dell’errore. Per dirla alla Montale, dell’anello che non tiene, di quello che sfugge dalla regola. La forza della poesia sta spesso nell’uso di parole anche semplici, ma non banali, che nella loro combinazione possano saltare agli occhi, essere notate e ricordate. La medicina e la poesia, a differenza di altre arti “intuitive”, come la musica o la pittura, hanno anche in comune il ruolo centrale della parola. La medicina si basa sul rapporto. Il rapporto si nutre della parola. La storia della medicina può essere riassunta dalla storia del rapporto medico paziente. Forse in questa chiave di lettura sta da un lato lo stupore, ahimè molto comune, per questa presunta eccezione (come, un medico che legge? E di poesia per giunta? Magari fosse un asino che vola…), dall’altro la recente scoperta “strutturata” del ruolo della poesia (e di tutte le arti) all’interno di una delle professioni più discusse ma più fondamentali, più criticata eppure più misteriosa, che l’uomo possa fare (insomma, a me piace; e devo dire anche che la popolazione dei medici lettori, colti, curiosi, avidi di tutte le arti è piuttosto estesa e pervicacemente tenace). Probabilmente già i medici sciamani, i medici stregoni che dipingevano i corpi dei pazienti e le rocce delle grotte, sapevano usare l’arte della parola. A loro alcuni terpeutici fanno in effetti risalire l'orgine anche dell'arte terapia; è una teoria affascinante, anche se non ne abbiamo traccia certa. Per noi la storia della medicina inizia con Ippocrate, duemilaquattrocento anni fa. Il giuramento, che non si legge più al momento della laurea, che peccato, ci sono generazioni di medici che non l’hanno mai letto, tranne che abbiano comprato una maglietta con tutto scritto in greco in qualche viaggio (non c’è pericolo poi, grecum est, non legitur), il giuramento è bello come una poesia. Dice già tutto sul perché la medicina è arte e non è scienza, e allora, come tutte le arti, va nutrita: è talmente bello, ogni parola è talmente pesata, che resta bello anche nelle traduzioni “Giuro per Apollo, medico, per Esculapio, per Igea e Panacea, per tutti gli dei e tutte le dee,

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prendendoli a testimoni, che terrò fede, secondo le mie forze e la mia capacità, al giuramento…”. Certo, è una poesia diversa da Saffo e Alceo, dai “mostri negli abissi del rosso mare, la belva e la stirpe delle api” ma sentite la forza di questa frase: “Dirigerò le cure dei malati a loro vantaggio, secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò da tutto il male e da tutte le ingiustizie.” Bene, Ippocrate amava la parola, direte voi, ma che cosa ha a che fare questo con l’arte? La risposta è tutta qui, in questa frase: “metterò il mio maestro in medicina allo stesso rango di coloro che mi hanno dato la vita, dividerò con lui il mio avere e, se il caso lo richiedesse, provvederò ai suoi bisogni; considererò i suoi figli come miei fratelli e, se desiderassero apprendere la medicina, gliel’insegnerò senza salario nè impegno.” Non è che non ci fossero libri su cui studiare la medicina. È che le arti non si imparano sui libri. Ippocrate stesso ci lascia un corpus monumentale, ma qui c’è quello che è proprio delle arti: quello che si tramanda con affetto, con l’affetto che si ha come un padre verso il figlio (e questa frase è dedicata a Federica Neve). Le tecniche si imparano. Le arti si trasmettono. Bella cosa, potreste dire, ma quanto lontana da quello che si vede tutti i giorni, dal medico della mutua o in ospedale. Quanto distante dalla medicina moderna… Ebbene no, non sono d’accordo. La distanza è solo dalla cattiva medicina. Questo è quanto riporta una delle ultime edizioni dell’Harrison's Principles of Internal Medicine, la Bibbia della medicina interna, il testo su cui studiano oggi in Giappone ed in Canada, in Europa e in Africa. Il testo che unifica la medicina “occidentale” così inizia: “La pratica della medicina combina scienza ed arte. Il ruolo della scienza in medicina è chiaro… Ma l’abilità nelle tecnologie più complesse… non è sufficiente a fare un buon medico… Questa combinazione di conoscenza medica, intuizione e giudizio definisce l’arte della medicina”. L'introduzione cita anche un brano della prima edizione dell’Harrison’s, coem esempio di una validità sempre attuale: “Non c’è maggiore opportunità, responsabilità o obbligo che possa cadere tra gli esseri umani che essere un medico... per il medico, come per l’antropologo, nulla di quanto è umano provoca ripulsa… Il vero medico ha un afflato Shakespeariano di interesse per il saggio e il folle, l’orgoglioso e l’umile, l’eroe stoico ed il fragile lamentoso…Si cura delle persone.” Non a caso non si cita uno scienziato ma Shakespeare, un poeta: per la capacità, propria dei sommi poeti, si sintetizzare un’emozione in pochissime parole. Se le nostre radici di guaritori e maestri sono queste, come mai ce ne siamo discostati tanto da fornire materia per film, come ad esempio “Verso il sole” uno dei pochi film di Cimino che hanno fatto poca cassetta, o “Un medico un uomo” che di successo di cassetta ne ha avuto parecchio, in cui medici freddini e distaccati, solo quando vengono veramente a contatto con i disastri della vita ritornano umani e un po’ poeti? Ci sono almeno due grandi ragioni: una è la critica ad un modello affascinante, quello del medico demiurgo che tutto sa e vede, che poco si adatta ad un mondo che cambia, dove il sapere non è appannaggio di uno solo (ma il modello del medico demiurgo tiene botta: è quello, in

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generale, delle medicine che non dovremmo più chiamare alternative, ma alleate o complementari, che fioriscono oggi anche per il bisogno di contatto e di rapporto, con un termine inflazionato, olistico tra medico e paziente). Il modello paternalistico è un modello molto robusto; ammorbidito dalla coscienza dell’evoluzione, lo troviamo ancora centinaia di anni dopo in Mosè Maimonide (o forse in un suo epigono, un medico londinese che nel millesettecento, in piena rivoluzione industriale, scrive un meraviglioso falso storico: la preghiera). Anche qui la fine è quasi in versi: “Fammi essere soddisfatto di ogni cosa, eccetto della grande scienza della mia professione … Perché l’arte è grande, ma la mente dell’uomo è in continua espansione.” La seconda ragione è storica: ancora una volta si tratta di un’eccezione. Travolte le medicine sciamaniche locali, svuotato il paese degli abitanti nativi, negli Stati Uniti nasce una società senza infrastrutture. In tutto il mondo, a quanto mi è dato di sapere, la medicina si sviluppa intorno a fede e magia, dagli stregoni ai monasteri mantiene un rapporto indissolubile con l’anima. Nel Nuovo Mondo no. Qui medici, veterinari e maniscalchi mettono su il loro office locale, il loro piccolo negozio. Si chiama, intermini tecnici, la medicina come office. Secondo lo stesso processo evolutivo che trasforma le botteghe in supermarket, i luoghi di cura si trasfromano in fabbriche della salute. Questa medicina si basa su prestazioni slegate, che si acquistano singolarmente, senza la necessità di un rapporto medico-paziente. C’è sì il vantaggio di porre l’accento sulla persona malata e sui suoi diritti, ma quanto capita è un disastro ecologico: l’alta tecnologia si presta alle malattie acute, ma le malattie croniche richiedono un rapporto. E in una società che invecchia sono le malattie croniche ad accumularsi. Questi sono alcuni commenti di un focus group sulla qualità delle cure, tenuto recentemente nella nostra sede: “prima di parlare di qualità di vita, i medici dovrebbero imparare a chiamarci con i nostri nomi e non con quelli delle nostre malattie” o ancora “Provo quasi compassione per tutto il tempo sprecato da quei medici che, pur avendo la fortunata occasione di arricchire con il paziente la loro stessa vita e conoscenza, la sprecano perdendosi a focalizzare su un unico ed isolato pezzettino di quel puzzle fantastico che è la dimensione intera del paziente, mente e corpo, elementi inscindibili e preziosi, solo se visti nella loro complessità.” Come mediare?

È qui che ritorna la poesia, proprio come gli amori perduti e ritrovati, che riguadagnano in intensità e forza quando, malgrado tutto, non possono più essere negati. È il modello dell’alleanza terapeutica, mediato dalla psicanalisi, basato sul rapporto. Ed ecco, nella gestione di un rapporto in cui bisogna imparare a vicenda, in cui non conta solo il cosa, ma anche il come, che il medico ritorna un uomo. Mi viene a volte da pensare, dopo vent’anni di pratica medica, che i primi lunghi anni del nostro lavoro siano dedicati a districarci per migliorare cosa sappiamo. Poi viene un punto in cui ci si rassegna ad una costante barbara ignoranza (per carità, non temete, si cerca di Circolo dei lettori: incontro dell’11 ottobre 2007 12


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attrezzarci a metterci una pezza, ma mai basta) e, tirando le somme, ci si accorge che molto dei nostri limitati successi è dovuto al rapporto col paziente. È solo se siamo convincenti che la prescrizione si tramuta in una cura (la compliance, come si dice in inglese: si calcola che meno di metà dei pazienti assuma più di metà dei farmaci prescritti…). E allora occorre migliorare non solo quello che si sa, ma quello che si è. È da qui che parte la grande discussione accademica sull’importanza in medicina delle humanities, delle arti belle che distinguono l’essere umano dalla bestia, e sul ruolo di tutte le forme di arte terapia. Perchè un medico che ascolta la Butterfly, legge Neruda o Madame Bovary dovrebbe essere meglio di uno che dilapida tutti i suoi averi in cavalli, belle donne e barche a vela? Nessuno ha mai avuto una riposta, forse perché la bellezza è in tutti i luoghi e, come dice la Bibbia, gli uomini felici vivono più a lungo. Tuttavia… Dovendo scegliere non un compagno di golf, ma un buon dottore, non scegliereste uno che legge di poesia? E ad un malato (come se tutti non fossimo malati) o a un paziente (come se tutti non dovessimo patire) perché dovrebbe fare bene la poesia? Il discorso annuale del 2000 della National Association for Poetry Therapy racconta la storia di Herbert Zipper. Prigioniero a Dachau, privato di tutto, di ogni tangibile oggetto di memoria, comincia a recitare Goethe, e fonderà persino un’orchestra clandestina. La storia di Primo Levi è molto simile, solo che recita Dante. A volte, non si vince combattendo le cose brutte, cercando di cancellarle. È il problema del nostro mondo di Barbie abbronzate che scotomizza la malattia. A volte si vince, o almeno si combatte con onore, mettendo accanto ad una cosa molto brutta una cosa molto bella. È un approccio un po’ orientale, ma spesso funziona. La poesia, la bellezza in tutte le sue forme, allora viene in aiuto nei momenti più neri, in questa strana strada verso la morte che è la vita di tutti noi. Sia che ci aspetti un Dio misericordioso e cordiale, sia che torniamo a reincarnarci fino ad avere capito tutto sulla terra, sia che finiamo in pasto ai vermi e tanto basta, le cose belle, e la poesia tra queste, aiutano a viver meglio. Dal mio osservatorio personale di nascite e di morte, dove alcuni giorni mi pare di vivere solo momenti estremi, di nudità davanti alla paura ed alla malattia, trovo che la sintesi di bellezza e passione che è nella poesia si adatti bene alla nostra vita di corsa, di poco tempo e di agognate intuizioni. Arti ce ne sono tante. C’è anche l’arte venatoria, o l’arte del pescare. Nella frequente inutilità dei nostri gesti, per dirla come Ernesto Ragazzoni, quando “se ne vedono nel mondo/ che son osti, cavadenti/ boja eccetera o secondo/ le fortune gran d’Orienti/ c’è chi taglia e cuce braghe/ chi leoni addestra in gabbia/ chi va in cerca di lumache/ io fo buchi nella sabbia”, tra un buco nella sabbia e l’altro a volte ci capita di trovare dei pescatori un po’ particolari. Da una parte o dall’altra del tavolo o del letto d’ospedale,

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caro Piero, sorridi, lo sai bene, ci si ritrova pescatori di nuvole. E quando succede, aiuta. Ed è bello. Torino 27 settembre 2007

Dedicato a Piero e Gabriella Bonapace, e ai loro figli, Alessandro e Lorenzo.

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Un testo di Vittorio Ferrero, 1996 Eppur si scrive

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cinquantamila poeti di cui si parlava prima. Ci sarebbe, invece, bisogno di una poesia che sia davvero significativa per tutti, che sia liberatoria per tutti i lettori, che recuperi cioè quel valore universale che aveva per i classici. Forse il poeta dovrebbe essere un voyant, un veggente, come diceva Rimbaud, ma (tanto per citare anche Ceronetti) nell'età della tele-visione c'è ancora spazio per la visione? e lo stesso Rimbaud era poi davvero un veggente, o era piuttosto un adolescente geniale e inquieto? Certo, veri veggenti erano i ♦•ι (rishi), i saggi custodi dei Veda, ma è ancora possibile, oggi, una poesia che sia, almeno in qualche misura, paragonabile a quella primordiale, che, come Vico c'insegna, troviamo agli albori della storia di ogni popolo?

Quanti scrivono poesia in Italia? Ho provato a far due calcoli e ho stimato che, nel nostro paese, almeno quattromila persone abbiano pubblicato una raccolta di poesie negli ultimi dodici anni. È una stima prudente, probabilmente sono assai di più, e il numero dei poeti sale ad almeno dieci- quindicimila, se si comprende chi ha pubblicato anche solo qualche verso in antologie, riviste etc. Saliamo poi a centinaia di migliaia di persone se contiamo tutti coloro che, in preda magari a una delusione amorosa, o scossi da inquietudini adolescenziali o da turbe senili, hanno scritto poesie liberatorie, tenute poi (provvidenzialmente?) nel cassetto. Insomma, si potrebbe quasi fondare una città di poeti delle dimensioni di Bologna o di Firenze. In attesa di un simile evento epocale, mi torna alla mente la battuta di un mio amico poeta che mi disse che in Italia ci sono cinquantamila persone che scrivono poesia e ventotto che la leggono (ventotto persone, non ventottomila!). Appendice poetica Si continuano a scrivere poesie, quindi, e io stesso ne ho scritte e forse ne scriverò ancora, ma, a questo punto, Una poesia di Vittorio Ferrero, 1988 non .posso fare a meno di pormi e di porre alcune domande, cui non è facile dare una risposta univoca, non solo per me, credo, ma per chiunque. Che cosa ha da dire oggi il poeta? Che senso ha oggi ancora scrivere versi? sognarsi poeti, o sostenere, anche a buon diritto, di esserlo? Poiesis Tante volte ho pensato che non abbia ormai più alcun senso, oppure ho ritenuto che l'unica poesia oggi possibile sia una poesia ironica, e che il poeta stesso debba Che senso ha oggi ancora scrivere versi? mantenere una sorta di “basso profilo”, debba rimaner tentar nuove rime, o metri diversi? fedele ad un certo qual understatement, che quasi gli vieti Che senso ha oggi ancora sognarsi poeti? di dichiararsi pomposamente Poeta con la P maiuscola, pena il precipitare nel ridicolo o, peggio ancora, apparire Non so se dare ancora una stanca caricatura di figure del passato, ornata in alle parole un ritmo: maniera un po' goffa da mille orpelli ormai svuotati di fissare per sempre senso: lauri e cetre divenuti polverosi come le “buone cose il sogno di un attimo. di pessimo gusto” di gozzaniana memoria. Eppure... eppure mi rendo conto di come una Che resta ormai dei fantasmi di un tempo? risposta del genere sia in realtà uno sfuggire alla stessa Soltanto barlumi più brevi di un lampo. domanda, una scappatoia fin troppo facile e tutt'altro che esauriente. Agli occhi smaliziati Viene da chiedersi allora quale possa essere la poche emozioni suscitano ormai funzione della poesia nella nostra società, sempre ricordi di amori presenti e passati, ammesso, e non concesso, che debba avere per forza una di entusiasmi dimenticati. funzione. Certo, come già accennato prima, molte volte la Si conceda almeno allora poesia ha una funzione terapeutica, liberatoria: scrivere la vena ironica versi serve a scaricare angosce o almeno a lasciarle la sola sedimentare, è una reazione a dolori, tensioni, emozioni che voglia nascer dalla mia penna forti. Ma una visione del genere, della poesia -cioè- come ancora. valvola di sfogo, è anche francamente molto riduttiva: scritture di questo genere rischiano di essere soltanto “defecazioni intellettuali”, scritti significativi solo per chi li scrive o per il suo psicanalista, e questo spiegherebbe la discrepanza tra l'alto numero di autori di poesia, oggi più che mai attivi e prolifici, e il basso numero di lettori delle opere incessantemente sfornate da questo esercito di poeti viventi e operanti, insomma i ventotto lettori e i Circolo dei lettori: incontro dell’11 ottobre 2007

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Grazia Valente APPUNTI per “A che serve la poesia” Parafrasando lo storico dell’arte Ernst H. Gombrich, che inizia la sua “Storia dell’arte” con questa affermazione: “non esiste una cosa chiamata arte, esistono solo gli artisti”, si potrebbe estendere il concetto dicendo che “non esiste una cosa chiamata poesia, esistono solo i poeti”. E così il titolo di questa conferenza, già di per sé provocatorio, lo diventerebbe ancora di più nella nuova formulazione: a che servono i poeti? E ci vuol poco a sentirsi già sulla soglia del licenziamento in tronco, come nullafacenti o fannulloni o – come accadde a suo tempo a Brodskij - incriminati per parassitismo. Forse sarebbe opportuno distinguere tra “a che serve la poesia” come domanda rivolta a chi la scrive e “a che serve la poesia” come domanda rivolta a chi la legge. A chi la scrive: ad attenuare la noia esistenziale, l’insoddisfazione, il disagio per il divario tra le nostre aspettative e la realtà in cui siamo costretti (poesia di compensazione); a canalizzare un surplus di energia, che può anche essere di tipo sessuale, e che non trova sbocco nella realtà quotidiana (poesia-sfogo); a colmare un vuoto affettivo, reale o presunto (poesia di risarcimento); a storicizzare alcune emozioni e/o esperienze: il passato viene rivisitato con lo sguardo distaccato del presente, i ricordi assumono valore oggettivo, divengono patrimonio collettivo, e non più soltanto individuale, il cosiddetto vissuto viene ridimensionato e reso accettabile (poesia di adattamento); a dare dignità, vale a dire importanza, alle suddette emozioni e/o esperienze: dopo essere stata scritta, la passione si ricompone, si riassetta (il poeta Betocchi ha scritto che “la poesia mette ordine là dove c’è disordine”). Nel ricomporsi, la passione smette di provocare dolore, la sofferenza si stempera nella scrittura (poesia che consola); a mettere in risalto le contraddizioni della società, le storture e le ingiustizie, per le quali sembra non vi sia altra arma che la parola (poesia che illumina); Ma, a ben considerarle, tutte queste “motivazioni” al fare poesia possono essere definite poesia terapeutica, anzi, autoterapeutica. * Se si dovesse introdurre il concetto di utilità nel momento in cui si compone una poesia, vi sarebbe una sorta di contaminazione. Inoltre - e qui cito … Citati - , “bisogna conservare nella mente una specie di distanza ironica, uno specchio lucido e disinteressato, che permetta agli eventi di riflettersi senza venire offuscati”. Disinteressato, dice Citati. Ci pare chiaro. Se si dovesse poi addirittura pensare, nel momento della creazione poetica, a “piacere a qualcuno, rendersi graditi”, si cadrebbe veramente in una sorta di labirinto. Piacere a chi? A tutti? (qualcuno ha scritto:

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piacere a tutti è male). A qualcuno? E a chi? Quindi escluderei che la poesia venga scritta “per piacere” a qualcuno al di fuori del suo autore. Naturalmente, non si disdegna l’ammirazione o – meglio – la condivisione, la consonanza tra autore e lettore. Ma qualunque aspettativa di questo tipo da parte di chi scrive non farebbe che deviare il pensiero poetico, e quindi lo sciuperebbe. Già Gozzano, un secolo fa, si disperava sulla possibilità di scrivere ancora versi in una società quale quella borghese, sentita come del tutto aliena da qualsiasi forma di discorso poetico. Immaginiamo quale potrebbe essere la sua reazione di fronte alla società attuale. Senza considerare poi il fatto che a volte la poesia rischia di disturbare il manovratore. Ad esempio, nei regimi totalitari vengono tollerati, se non addirittura osannati, soltanto i poeti organici al regime, i cantori del potere, oggi diremmo i poeti-embedded, e osteggiati, se non perseguitati, i poeti che con le loro opere risvegliano le coscienze, o tentano di farlo. Ma anche in una società letteraria “chiusa”, più simile a una conventicola culturale, i canali di accesso ai non embedded possono essere preclusi. I poeti “fuori dal coro”: come osano? Oggi va di moda la poesia oscura? Adeguarsi! L’anticonformismo: lo spauracchio di sempre. * Per quanto riguarda la domanda “a che serve la poesia” rivolta a chi la legge, pensiamo che essa serva nella misura in cui ci sia qualcuno pronto ad accoglierla. Illuminante a questo proposito ci pare un articolo apparso su Repubblica di una decina di anni fa del filosofo Umberto Galimberti, qui nella veste di studioso di psicologia, nel quale si sostenevano concetti interessanti a proposito della scuola e del suo rapporto con le emozioni. Non sembri fuori tema il rapporto scuola/poesia. Ciò che avviene, o non avviene, già sui banchi di scuola, si riverbera inevitabilmente nella società. E comunque “pronto” vuole anche dire “preparato”. E chi, se non la scuola, dovrebbe avere questo compito? Ma ecco uno stralcio dell’articolo di Galimberti. “Siccome la quantità è misurabile col calcolo, dalla scuola vengono espulse tutte quelle dimensioni che sfuggono alla calcolabilità, quindi: reattività, emozioni, identificazioni, proiezioni, desideri, piaceri, dolori che costellano la crescita giovanile e di cui la scuola non tiene il minimo conto. Ciò spiega perché a scuola vanno bene e prendono bei voti quei ragazzi che hanno un basso livello di creatività, scarsi impianti emozionali, limitate proiezioni fantastiche, perché, libera da questi inconvenienti, la mente può disporsi più agevolmente a immagazzinare tutte quelle nozioni che si ordinano con rigore e precisione più sono disanimate, meno coinvolgono l’anima, all’insegna di quel risparmio emotivo che rende l’incasellamento delle informazioni molto più agevole. Espulsa dalla scuola l’educazione emotiva, l’emozione vaga senza contenuti a cui applicarsi, ciondolando pericolosamente tra istinti di rivolta, che sempre accompagnano ciò che non riesce a esprimersi, e tentazioni d’abbandono in quelle derive di cui il mondo

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della discoteca, dell’alcol e della droga sono esempi neppure quelli estremi, se è vero che in Italia ogni giorno due giovani si tolgono la vita mentre altri dieci tentano di farlo. Se c’è da dar ragione ad Aristotele che distingue tra cause prime e cause seconde, verrebbe da chiedersi se prima di quelle “cause seconde” che si chiamano sesso, alcol e droga non ci sia come “causa prima” del disagio giovanile quel vuoto emotivo ed esistenziale che la scuola crea intorno agli studenti.” Se quanto dice Galimberti è vero, ci troviamo nella paradossale situazione in cui l’altissimo bisogno di poesia che traspare dalla descrizione del deserto emozionale del mondo giovanile da lui descritto si scontra con l’incapacità direi quasi fisiologica a ricevere la poesia, come linguaggio delle emozioni per eccellenza. Qualcuno sta morendo di sete ma non sa come aprire il rubinetto! E domandarsi a che cosa serve la poesia è già, a nostro parere, un modo errato di porsi nei confronti della poesia stessa e dell’arte in genere. Se il concetto di servire presuppone una funzione di utilità, l’interrogativo appare fuorviante dal momento che la poesia, più che servire, dovrebbe svolgere una funzione di cambiamento (serve in quanto muta qualcosa di preesistente, naturalmente migliorandola). Se è questo il sottinteso di fondo, mancano purtroppo i rilievi scientifici che possano testare il prima e il dopo l’assunzione della pillola-poesia. Se non ci fosse più quest’arte, le cose andrebbero meglio, peggio, o resterebbero uguali? Il mondo sarebbe migliore, peggiore, oppure lo stesso di sempre? Gli individui sarebbero più felici, più infelici, oppure nulla cambierebbe nella loro esistenza? Crediamo che nessuno sia in grado di rispondere a questa domanda. Pensiamo che la poesia, a volte, possa sostituire un’azione forte. Che, in un certo senso, scrivendo evitiamo di agire (sottinteso: agire negativamente). Si ritorna così a quanto detto all’inizio: scrivere versi è un modo di canalizzare un surplus di energia. Peccato non poter quantificare questo risparmio energetico! * Ma riprendiamo il tema “a che serve la poesia” a chi la legge. Nella sua autobiografia “Confesso che ho vissuto”, il poeta Neruda racconta di essere stato avvicinato, nel corso della presentazione di un suo libro da un giovane, il quale lo ringraziò perché, in un momento difficile e doloroso della sua vita, la lettura delle poesie di Neruda lo aveva aiutato. Il poeta chiese allora al giovane quali delle sue poesie avessero compiuto questo miracolo, pensando che egli si riferisse ai suoi versi più gioiosi, ma rimase meravigliato quando il suo lettore gli disse che le poesie che maggiormente lo avevano aiutato erano quelle più tristi e disperate. Forse possiamo concludere che la poesia serve a volte a chi la legge a far comprendere come non siamo soli, con i nostri dolori e le nostre inquietudini; e se la poesia non sempre sa offrire risposte, almeno ci stringe la mano per farci coraggio.

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* E adesso, dopo aver ben allineato i nostri birilli (poesia di compensazione, poesia-sfogo, poesia di risarcimento, eccetera eccetera) sulla pista di legno del bowling, ecco che arriva la boccia di Natalia Ginzburg, che sbaraglia i nostri birilli, e ci confonde (o chiarisce?) le idee che abbiamo sulla poesia. Con il consueto acume, la Ginzburg analizza quasi scientificamente, ma non senza ironia, il ruolo e la funzione del poeta nella società attuale. Diamo qui soltanto piccole anticipazioni del brano in questione, dal titolo “La poesia”, tratto da “Vita immaginaria”, una raccolta di articoli scritti per La Stampa e il Corriere della Sera fra il 1969 e il 1974. “La poesia” porta la data del 2 ottobre 1973. “Della poesia, intendendo questa parola in senso assoluto, cioè intendendo come “poesia” ogni forma di narrazione o espressione fantastica, noi oggi usiamo scrivere e ragionare moltissimo: per chiederci quali sono, nella società attuale, i doveri e le responsabilità dei poeti, e per chiederci se i poeti sono, nella società attuale, necessari o superflui, e per chiederci se la poesia è oggi ancora viva o già morta, e se è vero, come tanti dicono, che nei tempi futuri se ne farà a meno; e mentre la scriviamo e pronunciamo, si è diffusa intorno a questa parola una sorta di generale stanchezza e vergogna, così che ogni volta nel pronunciarla dobbiamo vincere in noi stessi un ribrezzo e la paura del ridicolo, come se evocassimo qualcosa di sorpassato, o qualcosa di futile, o qualcosa che ci ha tediato e nauseato per la sua leziosità e usura. Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato, scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di queste è la parola “poesia”. Riguardo alla poesia, tutte le idee che crescono intorno alla utilità o alla inutilità della poesia sono generate dalla idea falsa che la poesia rassomigli ad altre cose, utili o inutili; mentre in verità la poesia non è né utile né inutile, non ha nessun fine chiaro e visibile, e non rassomiglia a nulla. Alcuni dicono che il fine della poesia è dare bellezza e felicità agli uomini, e abbellire e consolare il mondo. …. Altri dicono che il fine della poesia è invece illuminare gli uomini sulle loro malattie e colpe, indicando soccorsi e rimedi e le strade per ottenerli. …. Ma se la poesia fosse come un parco nazionale, dove si va per ammirare fontane e giochi d’acqua … risulterebbe allora immediatamente la sua superficialità in tempi di disastri e catastrofi, quali sono i tempi in cui oggi viviamo. Difatti quando l’uomo è angosciato e triste per vere e grandi sventure, non ha voglia di svagarsi passeggiando nei parchi …l’uomo non desidera passatempi e non trova svago da nessuna parte. Se la poesia avesse il compito di curare le nostre malattie, o il compito di portarci immediatamente, come un treno o un’automobile, sulle strade giuste e buone, della sapienza e della salute, allora dovremmo definirla ancora più manchevole. Raramente la poesia dà suggerimenti espliciti, e non mai di una immediata e valutabile praticità. Essa non ci salva dall’errore, non risana le nostre piaghe … e non offre nessuna precisa e

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apprezzabile istruzione sul modo di comportarsi nei disastri e nelle catastrofi, individuali o universali. Umanitariamente, medicalmente e farmaceuticamente, politicamente e economicamente, geograficamente e turisticamente, la poesia non ha nulla da offrire agli uomini. Una patente di utilità o di inutilità, la società può chiederla e assegnarla alle categorie sociali. I poeti non formano, nella società, una categoria sociale. …. In verità non si sa nemmeno con precisione chi siano i poeti, e troppo facile è definire “poeti” coloro che danno opere di qualità poetica. Non solo è troppo facile, ma è falso. La poesia si configura più giustamente come una particolare condizione dello spirito ….ed è impossibile pensarla separata dalla condizione umana. … I richiami al dovere e le ingiunzioni a rendersi utili, ai poeti sembrano follia pura, perché sentono di non poter ubbidire se non a leggi che si sono scritte da soli. Alcuni suggeriscono ai poeti di partecipare attivamente alla vita pubblica, per trarre dalla vita pubblica temi e contenuti, in modo che i loro contemporanei provino interesse per le loro opere ….Ai poeti, che i loro contemporanei provino interesse per le loro opere, gliene importa moltissimo, ma insieme anche niente del tutto. Fra i poeti, alcuni sentono un forte interesse per la vita pubblica, e altri, niente del tutto. …. I poeti non vogliono dunque dalla società né benevolenze, né prudenze, né imposizioni. In verità dalla società non vogliono nulla, perché il loro immediato interlocutore non è la società, ma il pensiero dell’individuo. In un lontano futuro, quando loro saranno da lungo tempo morti, potrà succedere che nascano dei rapporti fra la società e le loro opere. Ma i poeti non possono pensare a un futuro così lontano …. ciò che veramente desiderano è di non avere intorno linee di demarcazione, ciò che veramente desiderano è di essere macinati e massacrati come tutti in ogni inferno giornaliero. In quanto persone singole, i poeti hanno nei confronti del prossimo tutti i doveri e tutte le responsabilità delle persone singole …. Tuttavia le persone singole non possono essere definite dalla società utili o inutili …. Le ragioni dell’esistenza dei singoli sono nascoste nelle pieghe dei loro destini, mute, private, segrete, e si scoprono solo quando sono morti. Molte volte, non si scoprono mai. … Di ogni persona singola, noi possiamo dire senza sbaglio che ha il dovere dell’onestà. Così, rozzamente possiamo dire che è dovere e onestà dei poeti cercare di muoversi non in direzione del bene o della bellezza, ma in direzione della realtà. Muoversi in direzione della realtà significa muoversi verso un punto dove tutti i contrari s’incontrano e si congiungono. Esiste in geometria una legge che dice che due linee parallele non s’incontrano mai, ma c’è un punto nell’infinito dove invece s’incontrano. Penso che dovere e onestà dei poeti sia dirigersi verso quel punto, essendo là situata la vera realtà. … L’esistenza della poesia non è dunque né utile né inutile, ma ovvia, ingiustificata e incomprensibile come la stessa. realtà Quando noi abbiamo paura che la poesia muoia, noi non abbiamo paura che muoia qualcosa che ci

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rendeva più ricchi o più felici o migliori, ma abbiamo paura che muoia nell’uomo l’idea vera della realtà”. Concludiamo questo intervento sulla utilità o inutilità della poesia con alcuni stralci del discorso tenuto a Stoccolma nel 1975 da Eugenio Montale, alla consegna del Premio Nobel per la letteratura, dal titolo “E’ ancora possibile la poesia?” “…In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo, e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà … Io sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie: le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è un’entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi come Croce, storicista idealista, e Gilson, cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia. Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto, ritengo che essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e musica possono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la musica si fa sentire. La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche, sorgono i metri, le strofe, le cosiddette forme chiuse. Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della poesia è il suono. Ma non tarderà a sorgere con i poeti provenzali una poesia che si rivolge anche all’occhio. … Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche la arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato, non senza successo, di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano datate e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato … C’è una grande sterilità in tutto questo, un’immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico, quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia cosiddetta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il sedicente poeta si mette al passo con i nuovi tempi. La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l’esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere l’aiuto dello psicoanalista. … Ciò non vuol dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudo-versi privi di ogni senso. C’è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non sono sempre sprovveduti di talento …

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Ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena espressa, mentre l’altra può dormire i suoi sonni tranquilli. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo … Non si creda però che io abbia un’idea solipsistica della poesia. L’idea di scrivere per i cosiddetti happy few non è mai stata la mia. In realtà l’arte è sempre per tutti e per nessuno … La poesia lirica ha certamente rotto le sue barriere. C’è poesia anche nella prosa, in tutta la grande prosa non meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa o almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla. Il mondo è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno …

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Alessandro Novellini A che serve la poesia? (o: serve ancora la poesia oggi?)

La domanda non mi sembra molto ben posta. Il termine serve, servire, servizio, mi ricorda troppo gli oggetti usuali e la Berlitz School: a che cosa serve il cucchiaio, la forchetta, il coltello, la penna, la matita, la carta igienica? Ma tant’è, adeguiamoci. Tanto più che poi la domanda è riferita ad un tempo: l’oggi, l’odierno. Questo mi esime dal raccontare la storia della poesia, da Adamo ed Eva ad oggi. Di come da principio il parlare arcano si accompagnasse alla magia, poi alla musica. Quindi la “poesia”, il parlare in modo diverso dal parlare Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comune, si ramificò, si divise. comunicazioni di massa? E’ ciò che molti si chiedono, ma Ci furono poesie elegiache, che privilegiavano la a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. contemplazione della natura, poesie liriche che Se si intende per poesia la cosiddetta bellettristica è chiaro privilegiavano l’intimismo e il sentimentalismo, poesie che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. cosiddette civili che rappresentavano l’indignazione verso Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il le ingiustizie, poesie consolatorie che si rifacevano a termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo considerazioni trascendentali, poesie che celebravano il e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione dolore e la morte, poesie d’occasione che celebravano i linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è potenti, ecc. ecc. morte possibile.” Tutte queste forme poetiche si ritrovano nelle diverse lingue e nei diversi stili e accompagnano la storia degli uomini. Indubbiamente, a qualcosa sono servite se ce le tramandiamo da oltre seimila anni. Servite ad incitare, a consolare, a meditare, allora come oggi. Da ciò si deduce che la poesia, anche oggi (al dì d’ancheuj, come si dice in piemontese) ha ancora una sua funzione, direi di appoggio, di maggiore consapevolezza, di meditazione rispetto alla vita quotidiana. Nell’era dei jets, dei computers, dei cellulari, dei messaggini, dei videoregistratori, dei CD, dell’on-line, dei ripetitori satellitari, una pausa di riflessione, uno stacco, una scansione sono sempre possibili, sempre che lo si voglia. E la poesia, il linguaggio poetico immediato o nascosto, servono anche a questo: a creare una nicchia di pensiero dove il febbrile, l’incerto, l’inconscio divengono consci. In questo caso la poesia può avere anche una funzione terapeutica, di calma, di distacco, oppure di intromissione ancora di più nella vita di ogni giorno, ma non a vuoto, “senza testa”, ma ripensando alla propria vita, al proprio modo di esistere e di relazionarsi con gli altri. In questo caso, la rilettura di autori classici (Dante, Petrarca, Ariosto, Foscolo, Leopardi) può esserci di utilità. La poesia serve. Oppure di autori più vicini a noi (Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Saba, Montale, Pavese, Raboni) ovvero gli autori, specie anglosassoni, più vicini al mondo attuale e moderno, che hanno anticipato e vissuto le nostre stesse sensazioni (Stevens, Auden, Lowell, Ginzberg, Bukowski, Carver), per cui li sentiamo più vicini, quasi nostri compagni di vita. Se si ha uno spirito più rivolto alle cose profonde, ci possono aiutare i poeti russi (Esenin, Block, Cvetaeva, Pasternak) che hanno cantato insieme gli aspetti della natura e le profondità insoddisfatte dell’animo umano. Circolo dei lettori: incontro dell’11 ottobre 2007 18


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Se siamo critici ed esigenti ed inquieti, Eliot appaga le nostre aspettative. Se vogliamo ricercare esempi nella storia degli uomini, Pound ci è di aiuto. Se ardiamo di sentimenti di solidarietà con il genere umano contro le angherie e le ingiustizie sociali: Heine, Whitman, Sandburg, Brecht, Majakovskij, Neruda, Hikmet, Aragon, Eluard, Pasolini, Mao Tze Tung, ci vengono incontro a braccia aperte. La poesia serve. Se poi siamo contemplativi e in attesa di una morte possibilmente serena, forse è meglio tornare ai versi del Cantico dei Cantici, a Emily Dickinson, a Rilke, a Ceronetti, agli haiku giapponesi. Poi rilassiamoci e restiamo in attesa. La poesia serve. Ma Godot non arriverà mai e dobbiamo ricercarlo umilmente dentro di noi. agosto 2007-08-04

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Da una intervista a Giovanni Roboni Marzo 2002 da www.italialibri.net Ecco la risposta del poeta: «io credo –ci dice Raboni- che la poesia abbia dimostrato –anche in questo periodo che tra l’altro ha visto la fine di una grande fase storica, forse addirittura la fine di quella che si chiamava la modernità- di essere vitale. Una vitalità che per esempio mi pare sia mancata nella narrativa italiana. La poesia invece dimostra di avere gli strumenti per continuare a testimoniare la condizione umana, per aiutare ad esempio o addirittura determinare la sopravvivenza delle lingue minoritarie, tra le quali c’è anche, e va detto a chiare lettere la nostra.» «La Poesia –prosegue Raboni- è proprio il luogo della ricchezza linguistica, della diversità. Per contro il rischio è quello dell’impoverimento progressivo e dell’omologazione che non difende le differenze, dell’appiattimento della lingua omologata universale. E’ una prospettiva triste e sciagurata –sottolinea con forza il poeta- e segnerebbe tra l’altro, qualora passasse, la pura e semplice fine della storia della poesia italiana. Una prospettiva triste –scandisce- perché è una bella storia, che ha innervato di sé tutta la poesia europea e non solo…importante è lo scambio tra le culture – aggiunge- non l’annichilimento linguistico non la perdita di identità culturale. Importantissima è la circolazione di tutte le lingue e di tutte le culture, ma fondamentale è anche trovare una definizione della propria lingua, della propria cultura». Giunti qui chiediamo di nuovo direttamente a Raboni quanto i poeti oggi siano consapevoli di tutto ciò e quale sia in questa questione epocale –che poi è la questione del colonialismo linguistico- il loro ruolo… Ecco la sua risposta: «Per i poeti delle singole culture minoritarie ne va della propria sopravvivenza in senso proprio letterale, non metaforico. E’ la lingua madre, la lingua nella quale si è immersi dall’infanzia, la lingua delle letture formative, la lingua usata dall’inconscio per fornire la massima profondità, il più suggestivo numero di associazioni…solo nella lingua che è lingua madre qualsiasi poeta può raggiungere i propri vertici espressivi, il massimo delle proprie potenzialità possibili. Tutte le lingue vanno difese dalla globalizzazione, l’italiano –voglio essere chiaro ribadisce- va difeso come un bene prezioso senza il quale non c’è più una letteratura “nostra”.»

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Giampaolo Squarcina Esiste ancora la (possibilità di) poesia politica? Nel suo ultimo romanzo La possibilità di un'isola, lo scrittore e poeta francese Michel Houellebecq mette in bocca al protagonista dell'opera queste riflessioni sul ruolo della poesia nel mondo contemporaneo: La poesia del resto, per quanto ne sapevo, era morta. [...] La poesia, come linguaggio non contestuale, anteriore alla distinzione oggettiproprietà, aveva definitivamente abbandonato il mondo degli uomini. Essa si collocava in un al di qua primitivo cui non avremmo mai più avuto accesso, poiché era anteriore alla vera costituzione dell'oggetto e della lingua. Inadatta a trasportare informazioni più precise di semplici vibrazioni corporee ed emozionali, intrinsecamente legata all'età magica dello spirito umano, essa era stata resa irrimediabilmente desueta dalla comparsa di procedure affidabili di attestazione oggettiva.

Ora, il tema dell'incontro odierno è: “Esiste ancora la poesia politica?”. Ho iniziato con la citazione di Houellebecq perché, affrontando il problema, a mio avviso sono possibili due strade. Una, tutto sommato rassicurante, che consiste nell'affermare che in fondo esiste ancora una produzione di poesia politica, e che essa sia in grado di ritagliarsi uno spazio nella società contemporanea; e una diversa strada, più inquietante e per certi aspetti anche provocatoria, che parte invece dall'assunto houellebecquiano per concludere non solo che la poesia politica, se esiste ancora, nondimeno non incide nelle nostre vite e nelle nostre scelte; ma che la poesia tout court, “per quanto ne sappiamo”, è morta nel senso che è divenuta un'attività artistica marginale, senza un reale riscontro materiale e concreto nella società contemporanea. Seppure è politica, essa non sarebbe per ciò stesso anche biopolitica, insomma. Se ne potrebbe dedurre, sempre in modo houellebecquiano, che la morte della poesia corrisponde in fondo alla scomparsa dell'umanità per come la conosciamo e allo sviluppo di una società altra, fondata sull'individuo e non sulla comunità, sul mercato e sull'utile che esso persegue come scopo ultimo. Un modello di società oggi imperante, che pare fuggire soprattutto, edonisticamente, ogni responsabilità, e rimuove ogni accenno alla malattia, alla vecchiaia e alla morte e che, in ultima istanza, ha abrogato la riflessione e l'andare sotto la superficie delle cose.

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In una società dove tutto deve servire a qualcosa, in una società dello spettacolo, la poesia è un animale in estinzione, parrebbe dirci Houellebecq. Ma – ed è questo il percorso di riflessione, poco consolante ma più stimolante, che vorrei intraprendere stasera – si potrebbe sostenere che, proprio per questi motivi, la poesia (la poesia oggi) è un'attività politica in quanto tale, se per poesia e per politica intendiamo uno sguardo critico sull'esistente, il non rassegnarsi alla superficie delle cose. Se praticate in tal senso, sia la poesia sia la politica sono, in fondo, l'aspirazione a una correzione del mondo. Il filo conduttore di questo incontro, però, non intende sciogliere questo dubbio. Lungi da me avere la pretesa di fornire certezze: montalianamente, mi piacerebbe che fosse il dibattito tra il pubblico, dopo la lettura dei testi, a stabilire se dobbiamo pensare che esista una poesia specificamente politica o se, in fondo, la poesia è politica in quanto tale perché quando l'uomo riflette, fa politica. Ci avventureremo in una carrellata di letture poetiche tratte da autori notoriamente politici, ma andremo anche alla ricerca del politico nascosto nella poesia comune, con qualche sconfinamento curioso e una piccola sorpresa finale. Intanto, è curioso notare che proprio il già citato Houellebecq pare contraddire l'assunto del protagonista del suo romanzo, dal momento che, com'è noto, Houellebecq nasce proprio come poeta e i suoi testi possono essere considerati politici. Prendiamo per esempio questo componimento tratto da una raccolta dal titolo già programmatico, Il senso della lotta, che propongo in traduzione mia, visto che le poesie di questo autore non sono ancora state tradotte in italiano: Nella metro, in tangenziale la macchina comincia a girare io mi fermo, d'un tratto attento: sento la macchina che esplode al rallentatore, come un organo, come un ventricolo annerito; lontano scorgo la torre GAN, è là che la mia vita si decide. I dirigenti salgono al loro calvario in ascensori cromati, vedo passare le segretarie che si riaggiustano il rimmel. Sotto le case, al fondo delle strade la macchina sociale avanza verso obiettivi ignoti; e noi non abbiam più speranza alcuna.

In altri testi della medesima raccolta, lo scrittore francese si scaglia contro l'ideologia

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liberale, non tanto su una base politica ma, piuttosto, sul fatto che essa è incapace di fornire un senso autentico all'esistenza umana. Un'esistenza che ha ormai l'unico significato del consumo, e dove le vere cattedrali e le vere agorà sono i centri commerciali, come descrive quest'altro breve testo (anche questo in traduzione mia): Nel mezzo dei forni a micro-onde il destino del consumatore si stabilisce a ogni secondo; non c'è rischio d'errore. Sulla mia agenda, per l'indomani, avevo scritto: “Detersivo per piatti”; io sono dunque tra gli esseri umani: Promozione sui sacchi per liquami! In ogni istante la mia vita altalena nell'ipermercato Continente io mi lancio e poi mi tiro indietro, sedotto dai condizionamenti. Il macellaio aveva dei baffi e un sorriso da carnivoro, il suo viso si copriva di macchie... io mi sono gettato ai suoi piedi!

Ma tornando all'Italia, possiamo scoprire versi politici anche in un autore che solitamente non è citato tra i campioni della poesia politica, il grande Mario Luzi che, nel 1980, pubblicò un breve poemetto, Reportage, a mo' di resoconto di un viaggio fatto nella Cina comunista tra il 10 e il 30 ottobre di quello stesso anno. Luzi aveva fatto parte di una delegazione di scrittori italiani che, oltre a lui, comprendeva anche Vittorio Sereni, Luigi Malerba e Alberto Arbasino. L'apertura del poemetto è affidata a questi versi “politici”: Qui il potere è sommo e confina con la sua assenza. Lo scriba tartaro s'imbroglia con le sue carte. Mutati in parte i caratteri, più semplici - ma quanto? - gli ideogrammi: mutata forse – ma in cosa? - l'eterna satrapia accigliata dietro quelle muraglie mongole. Si parla di una nuova équipe legittima insediata nel palazzo al posto di una cricca altrettanto poco nota oggi sotto processo. Il potere tace perso nel suo monumento.

I vv. 3-4 fanno riferimento alla riforma degli ideogrammi attuata dal regime maoista, mentre la cricca del v. 8 è la cosiddetta “Banda dei Quattro”. Il viaggio di Luzi avviene proprio nel clima dei primi giorni del processo ai quattro, attuato dalla nuova “équipe legittima”, ovvero la fazione moderata e vincente di Deng Xiaoping. Ma Luzi riesce a trasformare questi versi in una sorta di accusa al potere totalitario in quanto tale, che più è elevato più si traduce in impotenza.

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Del 2002, dalla silloge Passanti, è invece questa poesia di Cesare Viviani, una riflessione sulla mancanza di solidarietà e compassione che caratterizza la nostra società: Il grido attraversò il buio fino all'altra sponda o nemmeno sfiorò lo spessore della notte, né l'invocazione né la divinità poterono fare nulla con l'aria impenetrabile – tanto sfiorì una vita, tanto chi doveva sentire non sentì.

Sono versi che sembrano richiamare alla mente un altro breve testo del compianto Giovanni Raboni, in cui il tema dell'egoismo individuale, che abbiamo visto or ora, si amplia ad abbracciare la società intera, in un richiamo che – in tempi di qualunquismo grillista e di indistinta critica alla politica in quanto tale, come se poi la politica non fosse specchio fedele della società cosiddetta civile – mi piace ricordare: Chi parla ha da dire le cose che dice e forse no o forse altre. Ma è un fatto che chi tace lascia che tutto gli succeda e quel ch'è peggio lascia che quello che hanno fatto a lui lo facciano a qualcun altro.

Mentre invece Franco Fortini, nella sua ultima raccolta Composita solvantur, adotta piuttosto un registro ironico per parlarci dell'indifferenza nostra verso le sorti altrui: Lontano lontano si fanno la guerra. Il sangue degli altri si sparge per terra. Io questa mattina mi sono ferito a un gambo di rosa, pungendomi un dito. Succhiando quel dito, pensavo alla guerra. Oh povera gente, che triste è la terra! Non posso giovare, non posso parlare non posso partire per cielo o per mare. E se anche potessi, o genti indifese, ho l'arabo nullo! Ho scarso l'inglese! Potrei sotto il capo dei corpi riversi posare un mio fitto volume di versi? Non credo. Cessiamo la mesta ironia. Mettiamo una maglia, che il sole va via.

Qui, il ritmo da filastrocca e la rima baciata non esprimono, come si potrebbe pensare a una lettura superficiale, la sfiducia del poeta nelle possibilità di azione politica tramite i versi, ma al contrario costituiscono un'ironica presa in giro che fa il controcanto ai discorsi da supermercato, alle chiacchiere da bar, quelle per intenderci che si lamentano solo formalmente delle guerre, facendo finta di scandalizzarsi per poi tornare in tempi rapidissimi all'inazione, ovvero alla

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tranquilla vita quotidiana. Se posso colorare questi versi con un aneddoto personale, tutto ciò mi fa tornare in mente il commento di una mia conoscente dopo gli attentati del 23 luglio 2005 a Sharm el-Sheikh: “è incredibile: non si sa più dove andare in vacanza”. Proseguendo allora nella nostra carrellata, di fronte a una sentenza simile non si può che concordare con l'avviso di un premio Nobel italiano, Salvatore Quasimodo, il quale ci ricorda in questi suoi versi (tratti da Giorno dopo giorno) che, nonostante i progressi tecnologici, l'umanità in fondo vive sempre nella condizione ferina dei cavernicoli: Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, - t'ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all'altro fratello: “Andiamo nei campi”. E quell'eco fredda, tenace, è giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere, gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Eppure – ne siamo certi - non tutta l'umanità è da buttare: in tempi di riscoperta ratzingeriana, diciamo così, della tradizione cattolica, vale la pena ricordare questi versi della contemporanea Franca Bacchiega, una sorta di inno laico alla santità dell'impegno civile: Ancora più sotto più a fondo dove scompare ogni barlume di quella luce che ci sostiene in superficie qualcuno ci prova. Prova a installare interruttori a inserire cavi ad avvitare lampade. Soffre il buio, la mancanza d'aria, il disagio caldo del ventre della terra. Prova a fare luce nelle profondità terribili. Ci prova. Un santo volontario.

Vorrei avviarmi alla conclusione di questo breve excursus con qualche considerazione extravagante. Mentre tutti sanno che Walter Veltroni è anche romanziere, certo pochi sono a conoscenza

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del fatto che Nichi Vendola, il presidente della Regione Puglia, è anche un poeta e pare quindi, in tal modo, unificare nella propria persona il tema di questa serata. Oltre ad averle un po' tutte per dispiacere a qualcuno nell'Italia del XXI secolo – comunista, omosessuale, politico, amministratore – Vendola ha pubblicato libri di poesie e saggi: Prima della battaglia, Soggetti smarriti, Il mondo capovolto, La mafia levantina, Lamento in morte di Carlo Giuliani, Ultimo mare. Propongo, anche per introdurre altri testi di cui parlerò fra poco, questi versi posti a epigrafe di Lamento in morte di Carlo Giuliani: Lascia ch'io pianga muto senza quel tuo limone limone asfalto e sputo astio del venerdì la morte all'imbrunire lontano dal cancello chiuso dentro l'imbuto di un altro carosello di carri armati e irati di un celerino a uccello ti spezzano i carati del sogno tuo degli anni l'ora del manganello rintocca nei tuoi panni l'ostia di nuovi giorni si frange a questo luglio arca del mai partire arco del tuo finire freccia dentro uno scoglio fumogeni a morire

Un altro autore che ha unito militanza politica a scrittura poetica è Gianfranco Ciabatti (1936-1994); si tratta di un poeta giunto tardi, e in prossimità della propria dipartita, alla ribalta poetica, e quindi poco noto, anche perché la sua stretta osservanza marxista gli ha a lungo reso tormentato immettere sul mercato editoriale i propri versi. Uno scrittore che – come scrive uno degli studiosi che a Ciabatti ha dedicato più attenzione, Giovanni Commare – “dal 1985 al 1989 ha pubblicato tre libri di poesia che gli hanno meritato non solo la stima di affezionati lettori, ma anche, nonostante la censura ideologica delle patrie lettere, l'attenzione di alcuni critici qualificati, come Luperini e Fortini (quest'ultimo in un'intervista a Panorama lo ha definito uno dei nostri migliori poeti). Di questi critici, alcuni, che hanno conosciuto l'autore come politico marxista prima che come poeta, incontrano qualche difficoltà a riconoscere gli aspetti della sua opera non connessi più o meno direttamente alla lotta politica e ideologica. È vero che per Ciabatti la poesia, come la vita, è luogo della contraddizione, in primis della contraddizione tra parola e prassi: la parola,

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anche quando è strumento di lotta, è un pallido sostituto della prassi in cui confida per annullarsi del tutto.” Leggiamo ora qualche verso di Ciabatti, da una plaquette illustrata intitolata Abici d'anteguerra le cui poesie sono pensate come commento di immagini celebri del nostro secolo: (Karol Wojtyla con Lech Walesa) Le ideologie sono morte. Solo le scienze ora ci governano: l'astrologa, il papa, la Madonna di nera carnagione, i consiglieri dei capitalisti resi edotti da Marx che seguono, per parte loro, anche se debolmente, i metodi leninisti.

Oppure, dalla medesima raccolta, Nelson Mandela Apprendo dal notiziario che sui tre quarti del continente si soffre. Ecco uno di quei pensieri che possono andare e venire, come vuole la moda. Insieme a loro, invece, il santo, il poeta, il rivoluzionario, passano tutta la vita, proprio come i poveracci.

Mentre questi altri versi sono tratti dalla raccolta postuma In corpore viri (Marsilio, Venezia 1998) (Hommage) Fratelli e sorelle caduti in guerra contro i vostri cuori, mentre sul fronte esterno sopra voi pochi troppa la guerra sostenevate degli oppressori, precipitati dilaniati logori, chi vi avrebbe salvato? Bastava un po' d'amore. Sono l'unico che lo sa tra quelli che sanno che non sarebbe bastato, che non basterà.

I versi di Vendola dedicati a Carlo Giuliani servono anche da ponte per una chiusura che vuole rilanciare il dubbio da cui siamo partiti: non è che, per caso, la poesia politica può nascondersi ovunque, nei posti più impensati? Come è noto, dopo il 20 luglio 2001 piazza Alimonda a Genova è diventata un luogo della memoria collettiva, per lo meno di quella di sinistra. La cancellata della chiesa di Nostra Signora del Rimedio, che si stende in questa piccola e tranquilla piazzetta della Superba, si è trasformata quasi immediatamente in una sorta di altare laico

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dove si sono raccolte testimonianze per lo più anonime, molte delle quali in versi, scritte su supporti di fortuna (fogli di quaderno ma anche biglietti ferroviari, sacchetti del pane, pacchetti di sigarette). Oggi la cancellata è stata “ripulita” e i messaggi asportati, ma l'Archivio Ligure della scrittura popolare li ha raccolti e, nel 2005, ne ha pubblicato un'antologia in un volume dal titolo Fragili,resistenti. I messaggi di Piazza Alimonda e la nascita di un luogo di identità collettiva (Terre di mezzo editore). Per concludere, vi proporrò dunque tre di questi testi, che pur nella loro ingenuità non sono privi di una certa dignità letteraria. Di anonimo: Prigionieri di un marchio, della comoda gozzoviglia, dello sballo gratuito e dello shopping frenetico! Prigionieri di un lavoro precario, alienante e mal pagato; prigionieri dell'ansia, della scadenza, della bolletta che aumenta e del portafoglio sempre vuoto! Prigionieri del Pil, del Mib, del Nasdaq, dell'odioso, impersonale e asettico sistema di una “minoranza”! Prigionieri dell'indifferenza, dell'intolleranza e dell'odio che cova profondo verso chi è diverso! I prigionieri del presente

di Giuseppe da Taranto Dal sole che sorge un fiero scalciare ruggisce dalle gelide spalle di un disperato ululare le branchie del cielo chiedono aria la notte è sfrecciata lucente sulle strade della mia città seminando Fuochi brillanti di Fame tra la gente che mendica due occhi tra la gente che si stringe al petto un grumo secco di ricordi

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nell'anima e in cuor mio un sol grido per l'umanità: Libertà Per il nostro futuro un solo grido resistenza Mi hai insegnato a chiedermi Perché? Ora è compito tuo guidarci fino alla Rivoluzione Buonanotte Piccolo Principe

23:45 di Pasquale (sul foglio su cui è scritta la poesia è incollata una rosa secca). La luce è spenta ma entra il bianco del lampione in strada per il resto è ombra sulle pareti un fumo che volteggia come nuvola verso la finestra sto ascoltando petit fleur una canzone d'altri tempi e penso ad un nome che un giorno rispondeva e a quella rosa ormai secca lì sul mobile in una bottiglia vuota scrivo 'ste due righe m'infilo le scarpe e te la porto.

Vi ho parlato di questi materiali perché voglio scorgere, in questo fenomeno, un messaggio di speranza: esattamente al contrario di quello che scriveva all'inizio del nostro discorso il francese Michel Houellebecq, la poesia politica ha – mi pare - ancora un senso e una vitalità, e soprattutto i messaggi in versi lasciati a Carlo Giuliani ci mostrano che nonostante tutto l'uomo non rinuncia ancora, per fortuna, a esprimere il proprio sdegno e la propria rabbia anche in poesia. E ci dicono che dovremmo riflettere sul fatto che molte persone comuni, nel momento in cui si trovano in un luogo di identità collettiva dove cercano di conservare la memoria di un evento politico tragico, non hanno a disposizione uno strumento di espressione e di riflessione migliore dei versi. Decisamente, la scrittura in quanto tale rivela in tal modo la sua politicità intrinseca e innata. Verrebbe da dire: biopolitica.

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Luca Guglielminetti La poesia tra politica e patrimonio culturale di P.P. Pasolini (da Poesie in forma di rosa) (novembre-dicembre 1963)

Progetto di opere future Anche oggi, nella malinconica fisicità in cui la nazione è occupata a formare un Governo, e il Centro-Sinistra ai fragili linguisti fa sanguinare gli organi normativi - l'inverno imbeve di oscura luce le cose lontane e accende appena, mauve e verde, le vicine, in un esterno perduto nel fondo delle età italiane... con le terre azzurre di Piero sgorganti da indicibili azzurrini di Linguadoca... da occitaniche severità di Origini... che qui, nelle rozze appendici degli squisiti Centri, sono verdi e mauve, per fango, e cielo, limoni e rose... occhi di Federici con metà cuore in cerchi di mandorli rupestri dove cade luce d'Arabia, l'altra metà in qualche avvallamento imperlato di nebbia: con Alpi lontane, follemente nuove... Impazzisco! È tutta la vita che tento di esprimere questo sgomento da Recherche - che io sentivo già bambino, sul Tagliamento, o sul Po, più vicino alle matrici - alla cerchia dei miei isoglotti - sordi, per abitudine a ogni privata, infantile, incerta pre-espressività, dove il cuore sia nudo. Ma io - fidando che qualcosa prima di morire i mille miei tentativi portino ai giudici nell'epoca in cui l'italiano sta per finire perduto da anglosassone o da russo, torno, nudo, appunto, e pazzo, al verde aprile, al verde aprile, dell'idioma illustre (che mai fu, mai fu!), alto-italiano... alla Verderbnis franco-veneta, lusso di atticciate popolazioni fuori mano… al verde aprile - con la modernità d'Israele come un'ulcera nell'anima dove io Ebreo offeso da pietà, ritrovo una crudele freschezza d'apprendista, nelle vicende dell'altra (funebre) metà della vita... Mi rifaccio cattolico, nazionalista, romanico, nelle mie ricerche per «BESTEMMIA», o «LA DIVINA MIMESIS» - e, ah mistica filologia! nei giorni della vendemmia

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gioisco come si gioisce seminando, cól fervore che opera mescolanze di materie inconciliabili, magmi senza amalgama, quando la vita è limone o rosa d'aprile. Merde! Cercare di spiegare come vanno le cose della lingua, senza inferire concomitanze politiche! unità linguistica senza ragioni di vile interesse, senza l'insensibilità di una classe che non sa nulla di elezione gergale-letteraria! Professori del ca., neo o paleo patrioti, teste coglione in tanta scienza, che dal xii al xiv secolo vedono solo testi in funzione di altri testi... Basta: cieco amore mio! Ti eserciterò in ricerche translinguistiche,… (…) Infine, ah lo so, mai nella mia malridotta passione, mai fui tanto cadavere come ora che riprendo in mano le mie tabulae presentiae se reale è la realtà, ma dopo ch'è stata distrutta nell'eterno e nell'ora dall'ossessa idea di un nulla lucente. Ma in questa realtà - la nostra ansimante dietro i destini delle strutture, - per ritardo, per ritardo, nella mora mortuale d'un'epochetta precedente o in anticipo, per dolore della fine del mondo come sua impossibile cessazione – accerto un bisogno struggente di minoranze alleate. Tornate, Ebrei, agli albori di questa Preistoria, che alla maggioranza sorride come Realtà: perdita dell'umanità e ricostituzione culturale del nuovo uomo - dicono gli intenditori. E infatti la cosa è qua: nell'atmosfera d'una piccola nazione, che nella fattispecie è l'Italia - si da un falso dilemma tra la Rivoluzione e un'Entità che vien detta Centrosinistra - con rossore dei Linguisti... Il nuovo corso della realtà è così ammesso e accettato. Tornate, Ebrei, a contraddirlo, coi quadro gatti che hanno finalmente chiarito il loro destino: va verso il futuro il Potere, e lo segue, nell'atto trionfante, l'Opposizione, potere nel potere. Per chi è crocifisso alla sua razionalità straziante, macerato dal puritanesimo, non ha più senso che un'aristocratica, e ahi, impopolare opposizione. La Rivoluzione non è più che un sentimento

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Parto da Pier Paolo Pasolini, non tanto perché, tra i poeti italiani più politicamente impegnati, è quello che, con la poesia Il P.C.I. ai giovani!! (http://www.pasolini.net/poesia_ppp_pciaigiovani.htm ), ha raggiunto il maggior impatto polemico nel vastissimo dibattito sul ’68, ma in quanto declina una situazione politica di trapasso - la fine dell’alleanza tra PCI e PSI, uniti all’opposizione durante i governi DC di centro e centro destra, e l’ingresso dei socialisti di Nenni nei primi governi di centrosinistra – innanzitutto, come problema linguistico e filologico. La consapevolezza, drammaticamente maturata in Pasolini, che “La Rivoluzione non è più che un sentimento”, lo rende Ebreo, aristocratica ed impopolare opposizione, il cui primo proposito di fronte all’indicibile trasformazione politica è quello di ri-trovare la lingua, tornare alla preistoria delle linguadoca per ricostruire i nessi filologici della storia della poesia italiana, prima ancora di dare a quest’ultima un’interpretazione “sotto il segno primario di Marx e quello, a seguire, di Freud”, come scrive nella parte centrale omessa nel testo soprariportato. Pasolini, qualche anno dopo, nell’autunno del 1967, gira Un’ora con Ezra Pound poi trasmesso dalla RAI, nell’ambito della rubrica “Incontri” nel 1968 (un estratto su YouTube http://www.youtube.com/v/0YJSG1C3sF8 ). Non solo un riconoscimento ad uno dei massimi poeti, in Italia negletto, ma più di un’affinità corre tra i due. Comunista l’uno, fascista l’altro, in evidente contraddizione con le loro storie (il fratello Guido di Pier Paolo, fu tra le vittime dell’Eccidio di Porzûs), le due ideologie sono forse state da loro usate più che altro per mascherare la loro inadattabilità, un alibi per farsi credere presenti a dispetto della inconciliabilità del loro anticonformismo. Anticonformismo che però, ed è quello che mi preme sottolineare, quando si tratta di lingua diventa necessità di norma linguistica, quella ricerca e recupero di significato alle parole che scaturisce da ricerca letteraria storica e filologica. In un altro periodo di trapasso, ancor più traumatico, nel campo di concentramento americano di Pisa, alla fine del regime fascista, Puond scrive i “Canti Pisani”: “The enormous tragedy of the of the dream in the paesant’s bent Shoulders Manes! Manes was tanned and stuffed Thus Ben and la Clara a Milano by the heels at Milano

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That maggots shd/eat the dead bullock..."

"L’enorme tragedia del sogno sulle spalle curve del/ contadino/ Manes! Manes fu conciato e impagliato / Così Ben e la Clara a Milano / per i calcagni a Milano / Che i vermi mangiassero il torello morto..." Dove il Manes impagliato è analogo al rossore dei linguisti, si evidenzia anche qui una crisi di fronte agli eventi politici traumatici che si riflette nella storia, o nel mito: là dove c’era norma, dove forte è il nesso tra segno e significato. Ho voluto affiancare le reazione di due poeti di fronte a due fatti storici, che oggi per la maggior parte di noi, sono ritenuti positivi, per sottolineare come la politica per il poeta possa svolgere un funzione di pretesto, una cartina di tornasole dove indirizzare le dissonanza e i problemi della povertà o ricchezza dei significati della lingua. Di fronte alla crisi politica, che per il poeta civile è crisi personale profonda, il punto centrale è che tale crisi non si supera facendo tabula rasa, cercando di recidere radici o annichilendo la tradizione, proposito che troviamo espressa nelle avanguardie del ‘900, ma costruendo semmai delle “tabulae presentiae”. Il metodo empirista di osservazione scientifica delle tabulae, inventato da Francesco Bacone, è qui ripreso da Pasolini evidentemente per applicarsi alla storia della lingua e della poesia: ricostruire i casi positivi della tradizione per arrivare a contraddire, nel senso più proprio di “parlare contro”, la realtà (in)accettata, non a norma, dove il significato delle parole è flebile. Quel lavoro, in cui Pound è più avanti, lo rende “il miglior fabbro”, cioè poeta capace di riempire di significato il linguaggio, seppur con tutte le difficoltà, per il lettore, di una cifra multilinguistica e multiritmica. Chi spiega bene questo lavoro di “prendere in mano le tabulae presentiae”, in termini più generali, è un altro poeta angloamericano, che presento con le parole che Manuel Vázquez Montalbán ha utilizzato in un suo articolo intitolato “La sinistra e la cultura”, apparso nel gennaio 2004 su Le Monde diplomatique: “T. S. Eliot, grande poeta di destra, ha descritto il significato di ogni situazione culturale. Per l'uomo contemporaneo, comprendere che il fatto culturale nasce e si perpetua a partire da un rapporto dialettico tra tradizione e rivoluzione, costituisce l'essenza stessa della cultura. Ad ogni epoca corrisponde

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una tradizione culturale che si scontra con la coscienza critica del momento; e da tale scontro tra il patrimonio culturale di cui tutti noi siamo gli eredi e la coscienza critica, emana la possibilità di una continuità. Eliot ha identificato questo meccanismo di comprensione della cultura, e gli dobbiamo la nostra riconoscenza.” Il patrimonio culturale per il poeta sono i casi positivi della tradizione, mentre la coscienza critica del momento è il contraddire la realtà (in)accettata. Vediamo nello specifico cosa scrive Eliot in “Tradizione e telento individuale” (1919): “La tradizione non è un patrimonio che si possa facilmente ereditare: chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico, (…). Avere senso storico significa essere consapevole non solo che il passato è passato, ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti, e all’interno di essa tutta la letteratura del proprio paese, ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo. (…) Il poeta dev’essere ben consapevole dell’esistenza di una corrente letteraria principale, alla formazione della quale non è detto che concorrano infallibilmente tutte le personalità poetiche più celebrate”. Ritroviamo qui espressa la necessità per il poeta di avere quella che Pasolini definirà tabula presentiae. Possiamo dire, ad esempio che il patrimonio linguistico franco provenzale è comune tanto a Pasolini, sopra esplicitato come intento di tornare alla fonte, quanto a Pound, in cui è presente costante fin dalle sue prime opere, Eliot lo descrive “soprassaturo di cultura provenzale”. Vorrei arrivare così a due conclusioni: La prima è che il primo impegno politico del poeta, al di là che sia “di destra” o “di sinistra”, o quella che è la crisi politica del momento, è quello ribadito da Wystan Hugh Auden in una intervista alla Paris Review: “A poet, qua poet, has only one political

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duty, namely, in his own writing to set an example of the correct use of his mother tongue, which is always being corrupted. When words lose their meaning, physical force takes over.” “Un poeta, come tale, ha un solo dovere politico, cioè nel proprio scrivere fornire un esempio dell’uso corretto della propria madre lingua, che è sempre in continua corruzione. Quando le parole perdono il loro significato, la forza fisica prende il sopravvento”

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retorica che problematica: Può un politico di professione essere poeta? Che sia Mao Tse Tung o Nichi Vendola, hanno il tempo e la volontà di conquistare il senso storico, sono in posizione tale da costruire la tabula presentiae, tale da rendere le loro parole anticonformiste? O è un puro controsenso, e le parole in bocca a un potente, grande o piccolo che sia, non possono che esprimere sempre una qualche forma di conformismo?

La seconda è che tale uso corretto della lingua madre è correlato alle scelte del mainstream in cui si inserisce, alle voci positive che si scelgono nel compilare la propria tabula presentiae. In altri termini ancora, al patrimonio culturale in cui ci si è formati e che si è scelto di approfondire. Se concordiamo che il primo nesso tra poesia e politica è il dovere di una lotta contro la corruzione della propria lingua madre, più delicato è il problema della scelta del mainstream, della tabula presentiae da cui ridare forza e carica al significato alle parole della lingua poetica, tali da contraddire la realtà (pensiamo alla Terra desolata, dove il mese primaverile romantico per antonomasia, diventa il più crudele). Evidentemente una parte del patrimonio culturale di ciascuno deriva dalla propria lingua e paese d’origine. Già questo offre una quantità di materiali sedimentati da studiare e selezionare per la tabula, a cui si aggiungono i sottoinsiemi dei dialetti, e gli insiemi paralleli degli altri patrimoni linguistici. A questo punto mi fermo e facciamoci alcune domande. A quali patrimoni della nostra cultura (italiana, regionale, europea e mondiale) occorre attingere per affrontare l’oggi, per giungere alla tabula presentiae , a quell’esistenza simultanea di cui parla Eliot, cioè a essere cioè poeti contemporanei in grado di contraddire la realtà? A fronte del rischio estinzione della lingua italiana: possiamo fare a meno di lavorare senza un subitanea traduzione in inglese dei nostri versi? Oppure: è una strada ancora percorribile quella di Pound, di un uso “promiscuo” di più lingue insieme? Su un versante più sociologico, e in forma più Circolo dei lettori: incontro dell’11 ottobre 2007

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Maurizio Cecchetti Scrittori, dove sono i non conformisti? La Fiera del Libro chiama a raccolta autori di tutto il mondo. Un fantasma si aggira al Lingotto: la crisi dell’impegno oltre le ideologie e l’industria culturale. Negli anni Trenta fondarono i Congressi internazionali in difesa della cultura e contro i totalitarismi: da Orwell a Bernanos, da Brecht a Tolstoj fino a Hemingway Sono passati circa settant'anni da quando Bertolt Brecht scriveva questi versi rivolti «a coloro che verranno»: «Quali tempi sono questi, quando / discorrere d'alberi è quasi un intollerabile delitto, / perché su troppe stragi comporta silenzio!». Era il 1938, eppure sembrano di oggi. O meglio: viviamo in un'epoca di parole sempre più ecologiche, anzi quasi igieniste, ma di pochissime voci che abbiano voglia di sporcarsi con il fango di un mondo che per molti sta assumendo sembianze apocalittiche, mentre da più parti sale lieto e quasi frivolo il «tutto va ben, madama la marchesa». Gli scrittori forse non possono cambiare questo mondo, ma hanno quantomeno l'obbligo di porsi la domanda: perché va così? Nell'epoca dei regimi dittatoriali, lungo gli anni Trenta, alcuni di loro si riunirono nei Congressi Internazionali degli Scrittori; non che fosse la panacea per tutti i mali, era però una risposta alla preoccupazione suscitata dall'avvento dei fascismi in Europa. Naturalmente, la medaglia ha sempre due facce: dietro un certo anarchismo c'era anche l'opera dei movimenti della sinistra europea e già l'ombra del grande burattinaio sovietico che grazie all'internazionale comunista portava avanti una strategia atta a incrinare il già traballante equilibrio delle democrazie europee. C'era, nondimeno, un vasto fronte che venne poi denominato «non conformista», nel senso che univa scrittori e intellettuali di culture politiche diversissime, animati però da una pervicace volontà di combattere ogni forma di totalitarismo (compreso quello capitalista e democratico). C'è anche l'anniversario tondo tondo, se si pensa al Congresso del 1937 a Valencia, che durò quindici giorni e venne monopolizzato dal dibattito sulla Spagna, la guerra e il fascismo iberico. Si chiedeva, ovviamente, solidarietà per la causa repubblicana. E fu forse il primo caso in epoca moderna di un impegno così massiccio di scrittori e intellettuali (Tolstoj, Benda, Aragon, Bergamín, Brecht, Tzara, Malr aux, Spender, Anna Seghers, Neruda, Alberti, Stern, Hemingway, per dirne soltanto alcuni più celebri). L'eco si allargava agli altri paesi europei: un sondaggio fra gli scrittori inglesi dava un sostegno schiacciante alla causa repubblicana (Auden scrisse il poema «Spain» invitando a prendere le armi, invito che Orwell

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aveva anticipato arruolandosi in una milizia anarchica a Barcellona: poi, però, in Omaggio alla Catalogna registra le magagne che divisero al suo interno la compagine repubblicana e la sua penna quasi si fa racconto senza opinioni della deriva in corso); e qualcosa del genere accadde anche fra gli scrittori americani, col sostegno morale di Hemingway, Faulkner, Hammett, Steinbeck, Th. Dreiser... La Francia aveva tenuto banco già nel 1935, col Congresso di Parigi, dove la squadra di casa sfoggiava nomi come Aragon, Gide, Tzara, Aveline, Rolland, Malraux (che partecipò poi alla guerra di Spagna a capo di una squadriglia aerea e da questa avventura trasse il romanzo L'Espoir). Fu allora che nacque la categoria dell'impegno: e numerosi in Francia furono gli appelli sulla stampa affinché il governo francese prendesse partito: ne firmarono, per esempio, Nizan, Mauriac, Maritain, Eluard o Saint-Exupery. Sul fronte della destra il poeta Paul Claudel scrisse un poemetto in cento versi dedicandolo Ai martiri spagnoli dove difendeva la tradizione della Spagna cattolica. Anche Bernanos aveva cominciato partecipando alla guerra nelle fila della destra, ma divenne poi uno dei nemici più accesi del falangismo. Fu da questa disillusione che trovò la spinta per scrivere un libro tremendo e controverso come I grandi cimiteri sotto la luna. I Congressi di settant'anni fa hanno fatto scuola per un po': nel 1956 e nel 1959 si tennero a Parigi e a Roma i Congressi internazionali degli Scrittori e Artisti neri, e fra i promotori c'era anche Léopold Sédar Senghor, poeta e futuro presidente senegalese. E l'epoca sovietica suscitò altre mobilitazioni ufficiali e clandestine nell'Europa dell'Est e dell'Ovest durante gli anni Sessanta e Settanta, emblematicamente riassunte nelle vicende umane e letterarie di Pasternak e Solzenicyn. Fa riflettere, dunque, una Fiera come quella che si apre domani al Lingotto di Torino dove si parla di confini, di frontiere reali e immaginarie, di globalizzazione e apertura alle culture; arriveranno a Torino scrittori da ogni parte del mondo, ma è già sicuro che questo accade non perché vi sia bisogno di mettere insieme le forze e testimoniare contro i poteri forti di oggi. Cosmopolitismo di un tempo, internazionalismo degli anni Trenta e globalizzazione attuale stanno su sponde diverse e anche opposte. Ciò che un tempo serviva a unire oggi sembra dividere e ciascuno pensa a tirare acqua al proprio mulino, rispondendo al marketing dell'industria culturale. Lo scrittore non produce più idee, immagini, critica, ma merci. E le merci devono avere un target, uno slogan, un prezzo (accessibile ma remunerativo): è l'aspetto appariscente di un totalitarismo più subdolo, quello che equipara il lettore al consumatore, lo rende addomesticabile a un gusto grazie a un principio di esclusione che ha regole ferree: ciò che non rende economicamente, oppure disturba e inquieta, esige fatica e applicazione, critica l'ordine esistente, smonta dall'interno i pezzi del meccano linguistico

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e ne mostra le connivenze col potere; ciò che, in qualche modo, è contro l'industria culturale viene con logica darwiniana sacrificato, negato già nel pensiero. E questo accade forse anche perché l'«internazionale degli scrittori» ha abbandonato da molto tempo il «tutti per uno uno per tutti» considerandolo, in ossequio al luogo comune della fine delle ideologie, un vizio anacronistico. Può essere. Dopo l'«impegno» sembra doveroso guardare ogni appello a far fronte comune con un certo sospetto. Quarant'anni fa Günter Grass - cui l'estate scorsa si è fatto un processo mediatico per aver denunciato in ritardo un peccato in fondo veniale (considerando che venne commesso da un ragazzetto: quanti ce ne sono in Italia come lui, che poi hanno occupato posti di prestigio a destra e a sinistra e pure al centro) -, ragionava sulla «scarsa autostima di scrittori buffoni che scrivono per corti che non esistono»: era una critica al moralismo di chi, volendo essere consigliere del principe in realtà finisce per essere un melanconico ipocrita. Ma di fronte alle scaramucce letterarie, di cui abbiamo avuto nei giorni scorsi in Italia l'ennesimo teatrino di vacue schermaglie, cannibali sì/no (roba per tubi digerenti pelosi e a prova di chiodi), si capisce che oggi Torino e gli altri infiniti luoghifestival sono soltanto ring dove gli sfidanti non combattono per una causa, tantomeno per la vittoria. Ciò che conta è che il pubblico esclami: guarda come se le danno! Accidenti che botta! Adesso lo spezza in due... Ma sai già che è tutto finto. Come in un incontro di wrestling, mero spettacolo. • pubblicato da: "Avvenire", 10 maggio 2007

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Gianna Montanari Appunti su alcuni caratteri della poesia politica, con alcuni esempi a me cari

Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! Quando cerco qualche esempio di poesia politica, il primo testo che mi viene in mente è il sesto canto del Purgatorio. Mi chiedo se ci sia stata epoca nella storia italiana, da Dante in avanti, in cui questi versi immortali non abbiano perfettamente rispecchiato la situazione del momento. E particolarmente attuali, nel seguito dell’invettiva, sono i versi in cui Dante bolla con sdegno i capipopolo: Ché le città d’Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene. In quanto a Firenze: Molti rifiutan lo comune incarco; ma il popol tuo sollicito risponde sanza chiamare, e grida: ‘I’ mi sobbarco!’ Parole pesanti come pietre, che possono ricordarci il linguaggio dei profeti biblici, e che ancora ci fanno partecipare dell’indignazione del sommo poeta, intrise come sono di sdegno e insieme di amore, amore per l’Italia e per la sua città. Una miscela altamente tonica. Io parto dal postulato che la poesia politica sia possibile anche oggi, perché penso, nonostante l’accelerazione della storia degli ultimi vent’anni, che l’uomo e la donna siano sempre gli stessi, che – come dice anche Machiavelli – la natura umana non cambi; e dunque anche oggi, nell’era degli sms, esista, in pochi malcapitati, quella che il Berchet chiamava la tendenza poetica attiva. Ma che cosa intendiamo per ‘poesia politica’? Poesia politica è non solo quella che canta opposte fazioni, quella che esalta o depreca guerre e tirannidi, ma quella che prende in considerazione il comportamento dell’uomo come ‘animale politico’, che vive in relazione con i suoi simili. Venendo a tempi più vicini, penso a Bertolt Brecht. Se Dante, pur nello sdegno, aveva la speranza che le vicende negative della vita terrena avrebbero avuto la loro sanzione e il loro giusto compimento nell’ottica della trascendenza, in Brecht il tono è, forse, più pacato, ma il pessimismo più radicale e sconsolato.

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appello al lettore, vicino o lontano nel tempo, perché raccolga il testimone.

È NOTTE Le coppie Si mettono a letto. Le giovani donne Daranno alla luce degli orfani.

IL PANE DEGLI AFFAMATI E’ CONSUMATO La carne non si sa più cosa sia. Inutilmente Il sudore del popolo è versato. I boschetti d’alloro sono Abbattuti. Le ciminiere delle fabbriche di munizioni Fumano. Da AI POSTERI Veramente io vivo in tempi oscuri! La parola sincera è una follia. Una fronte senza rughe Tradisce l’apatia. Se tu ridi Non hai ancora saputo Il terribile annuncio. Quale epoca! In essa Un discorso sugli alberi è quasi un delitto Poiché implica il silenzio su tante malvagità! ……….. Qui Brecht non colpisce solo i potenti, i padroni della pace e della guerra, ma ogni persona che volga gli occhi dall’ingiustizia e taccia sulle tante malvagità di un’epoca così terribile da non permettere il sorriso. E la violenza entra nelle nostre case, si mette a tavola con noi: Di Nelo Risi, TELEGIORNALE

Di Primo Levi, DELEGA Non spaventarti se il lavoro è molto: C’è bisogno di te che sei meno stanco. Poiché hai sensi fini, senti Come sotto i tuoi piedi suona cavo. Rimedita i nostri errori: C’è stato pure chi, fra noi, S’è messo in cerca alla cieca Come un bendato ripeterebbe un profilo, E chi ha salpato come fanno i corsari, E chi ha tentato con volontà buona. Aiuta, insicuro. Tenta, benché insicuro, Perché insicuro. Vedi Se puoi reprimere il ribrezzo e la noia Dei nostri dubbi e delle nostre certezze. Mai siamo stati così ricchi, eppure Viviamo in mezzo a mostri imbalsamati, Ad altri mostri oscenamente vivi. Non sgomentarti delle macerie Né del lezzo delle discariche: noi Ne abbiamo sgomberate a mani nude Negli anni in cui avevamo i tuoi anni. Reggi la corsa, del tuo meglio. Abbiamo Pettinato la chioma alle comete, Decifrato i segreti della genesi, Calpestato la sabbia della luna, Costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima. Vedi: non siamo rimasti inerti. Sobbarcati, perplesso; Non chiamarci maestri. (24 giugno 1986) Forme di poesia politica adatte al nostro tempo? Credo quelle che non usano un linguaggio altisonante e retorico, prediligendo l’ironia e l’epigramma; quelle che riescono in poche parole a riassumere un intreccio di considerazioni e di emozioni, quelle che fanno appello al lettore, suscitando la sua risposta.

Stando nel cerchio d’ombra Come selvaggi intorno al fuoco Bonariamente entra in famiglia Qualche immagine di sterminio. Così ogni sera, si teorizza La violenza della storia. Poeta vero è chi osa denunciare il male, leggerlo nelle pieghe della storia, sfidando i potenti e la prepotenza delle idee dominanti (penso al Leopardi de La Ginestra, a Alfieri e Foscolo). La sua poesia fa Circolo dei lettori: incontro dell’11 ottobre 2007

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Alessandro Novellini e Grazia Valente

Esiste ancora la poesia politica? Se la domanda presuppone una categoria della poesia denominata “poesia politica” separata dalla “vera” poesia, forse sarebbe meglio parlare di “ poesia d’impegno” che, in momenti particolari della storia umana, portata avanti da veri grandi poeti, ha conosciuto e può conoscere ancora oggi momenti epici. Non vorremmo infatti che si pensasse, parlando di “poesia politica”, a un sottoprodotto, una sorta di poesia di serie B o, peggio ancora, una poesia funzionale a questo o quel potere che, in un dato momento storico, occupa uno spazio politico. Vale a dire una poesia “minore”, destinata a durare poco nel panorama letterario, in quanto troppo legata al contingente. Spostandoci dall’arte poetica a quella pittorica, sarebbe come affermare che “Guernica” è un’opera minore nel percorso artistico di Picasso. La poesia politica, come tutta la poesia, è valida nella misura in cui il poeta ha saputo farsi “politico” in quel dato momento storico, vale a dire ha saputo universalizzare la propria poesia, facendola uscire dallo spazio ristretto della contemporaneità. E’ pur vero che, alla domanda se esista ancora la poesia politica, potrebbe anche accadere di dover rispondere: sì, purtroppo! E non soltanto per l’ovvia ragione che il mondo non è in pace e, quindi non è in pace neanche chi lo abita, e quindi neanche il poeta. E la poesia politica, o d’impegno che dir si voglia, sappiamo che trae il proprio alimento dai conflitti, dalle ingiustizie, dalle guerre, e dalla indignazione che da questi nasce. Ma è anche vero che l’indignazione, in un perverso effetto di trascinamento, porta con sé anche tanta cattiva poesia (non è il caso di fare troppi esempi: valga per tutti l’immagine del famoso cormorano imbrattato di petrolio che ha prodotto un profluvio alluvionale di pessimi versi, carichi di retorica e di buoni sentimenti. Quasi uno tsunami poetico!). Ma, se è vero che molti grandi poeti hanno sentito il bisogno di esprimere in versi la propria indignazione, è del tutto ovvio che non tutti, pur vivendo esperienze di vita attraversate da conflitti sociali, hanno tradotto in versi il proprio disagio. L’artista è, per definizione, uno spirito libero (o così dovrebbe essere). E deriva la propria ispirazione in modo altrettanto libero e soggettivo. Quindi eviteremmo di fare improprie “graduatorie” tra poeti impegnati politicamente e altri che hanno esercitato l’arte della parola volgendosi a temi più personali, o intimisti che dir si voglia. A questo punto ci sembra utile fornire una breve rassegna di alcuni tra i maggiori poeti che, nelle loro opere, hanno dedicato versi ai problemi politici del

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proprio tempo. Tempo che, non diversamente da oggi, era attraversato da conflitti, più o meno grandi. Per restare nella letteratura italiana, lo stesso Dante è stato un poeta “impegnato” poiché nel suo poema ha lanciato strali durissimi contro il potere temporale dei Papi (ahi Costantin di quanto mal fu matre/non la tua conversion ma quella dote/che da te prese il primo ricco patre) oppure contro le lotte intestine tra Guelfi e Ghibellini (ah serva Italia di dolor ostello/nave senza nocchiero in gran tempesta/non madre di provincie ma bordello) fino al grido libertà vo cercando ch’è sì cara/come sa chi per lei vita rifiuta, in cui certamente ha in mente la sua vita grama di esule. Ma, se si spazia anche in altre letterature, restando in tempi a noi più vicini, come non ricordare: - Heinrich Heine e la sua invettiva ne I tessitori slesiani contro l’autoritarismo prussiano e lo sfruttamento dei lavoratori tessili ai primordi della rivoluzione industriale in Germania, alla metà dell’Ottocento; - Walt Whitman, il cantore della democrazia americana contro lo schiavismo degli Stati del sud, e la sua esaltazione dell’opera di Abraham Lincoln con i versi O Capitano! O mio Capitano! in ricordo del suo assassinio nel 1865 da parte di un fanatico reazionario; - Carl Sandburg, il poeta americano degli anni della crescita industriale nel Mid-West, difensore dei diritti dei lavoratori e degli immigrati (Il tram di Halsted); - Bertolt Brecht, il poeta irridente, ironico e implacabile contro la dittatura nazista, costretto all’esilio e oggi riconosciuto come la più grande voce poetica dell’intera Germania unificata ( A chi esita e Brutti tempi per la lirica); -Vladimir Majakovskij, il grande poeta russo, di scuola futurista, che in un periodo di grandi rivolgimenti sociali ha saputo cantare le trasformazioni apportate nel suo Paese dalla grande rivoluzione di Ottobre, grazie all’azione politica di Lenin (Vladimir Ilic); - Pablo Neruda, che ha cantato la lotta della Spagna contro il franchismo, con versi che si richiamano alla rivoluzione libertaria e nazionale di Bolivar contro il colonialismo spagnolo ( Un canto per Bolivar); - Nazim Hikmet, che dalla prigione di Bursa, dove lo ha condannato la dittatura militare turca, lancia il suo grido di resistenza e di fiducia nell’umanità (E improvvisamente la neve); - Louis Aragon, il poeta francese che ha cantato con versi epici, durante gli anni dell’occupazione tedesca, la sua adesione piena al Partito Comunista francese che “gli ha restituito i colori della Francia” (Du poéte a son Parti); - Paul Eluard, il poeta della Resistenza francese, i cui

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versi circolavano di nascosto in copie ciclostilate per rincuorare gli incerti (Avis); - Salvatore Quasimodo, che ha cantato Milano distrutta dai bombardamenti alleati e la dura lotta contro i sistemi repressivi della feroce dittatura di Salò (Alle fronde dei salici); - Umberto Saba, con il ricordo della sua partecipazione, a Firenze, al comizio del PCI nel settembre del 1944, al Teatro degli Artigianelli (Teatro degli Artigianelli) e più tardi il ricordo di un suo colloquio disincantato con un giovane comunista triestino, sostenitore di Tito, a Opicina (Opicina 1947); - Evgenij Evtusenko, il poeta che scopre, nella taiga siberiana dove è nato, vicino alla stazione di Zimà, le tombe dei contadini caduti sotto il fuoco delle Guardie Bianche, nel 1919 (Tombe di partigiani), “che credevano nell’esistenza di dio ma andarono a combattere per la loro terra e si comprese che erano marxisti”; - Pier Paolo Pasolini, il poeta dell’Italia moderna, i cui versi non facili hanno cantato i nostri tempi duri e complicati (Le ceneri di Gramsci); - Mao Tse Tung, nella veste non di capo politico della Cina rivoluzionaria, ma come poeta che, seguendo i ritmi e gli schemi della poesia classica cinese, ci ha dato, con la poesia La lunga marcia, un sintetico connubio tra pensiero e azione. Poi, proprio per dare una risposta alla domanda “Esiste ancora la poesia politica”, diciamo “ sì, esiste” con le poesie di Jessica Care Moore, una giovane poetessa di colore di Detroit che vive e opera a New York. Nel suo poema Nera statua della Libertà la Moore canta con versi duri e sinceri le lotte delle donne e delle minoranze di colore in USA per far valere e rispettare i propri diritti civili ; con la poesia del poeta indiano Ramakanta Rath, Grammatica, sull’incendio di un treno di emigranti nello stato indiano del Gujarat, nel 2002; e ancora con la poesia Palestina, del poeta indiano Novakanta Barua, pubblicate queste ultime due sul numero di settembre 2007 di Poetry. Di tutte e tre le poesie alleghiamo i testi tradotti in italiano.

Nera statua della Libertà

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(Black statue of Liberty)

di Jessica Care Moore (tratta dall’antologia “Listen up”!) …Sto seduta sul retro del bus, perché sono in crisi. E gioco a pallavolo. Non perché mi paghiate per alzarla, dribblarla o nasconderla, Sto parlando alla mia gente di casa per renderla mentalmente libera. Io sono la bellissima statua della Libertà che cammina, parla, respira. Io spazzo le cicche del “crack” fuori dai cortili delle scuole Io nutro il mio uomo quando i tempi sono difficili Quindi, dannazione, dov’è la mia statua? Che cosa deve fare la donna liberata? Incidere il mio nome sul cemento umido Ogni mese pago l’affitto Mettere la mia figura su un francobollo Non sono una prostituta, una sgualdrina o una barbona I miei ragazzi non sono dediti al ”crack”, né lo sono io Voglio vedere le parole: “Va, forte donna nera” Quando il pupazzo Good Year vola in alto Posso cuocere torte, partorire bambini, presiedere rivoluzioni Recuperare gli anelli nelle vasche da bagno, indossare un vestito, meglio jeans sportivi, lasciare i miei capelli sciolti o raccolti in trecce. La mia “aura” è impavida. Così nessuna statua della “grande mela” può creare confusione. Io sono quella che cammina, parla, sopravvive, respira, sono la bellissima nera statua della Libertà.

(Traduzione dall’inglese di A. Novellini)

Per concludere, ribadiamo che la poesia d’impegno esiste ed esisterà sempre nella misura in cui esisteranno ingiustizie, guerre, discriminazioni sociali. E, sottinteso, a condizione che vi siano grandi poeti in grado di tradurre il sentimento collettivo di disagio e di collera, e di farlo diventare poesia. ottobre 2007

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Grammatica

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(Grammar)

Palestina

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(Palestine)

di Ramakanta Rath

di Novakanta Barua

Qui sono stati arsi corpi di uomini, donne e bambini in vagoni ferroviari. Guarda, non vi è una singola persona viva in nessun posto e su entrambi i lati della strada vi sono case distrutte. Circolate. Per andare dove? In un altro villaggio? In un’altra città? E’ lo stesso in ogni luogo. Puzza di corpi bruciati, colli spezzati, stomaci aperti, questo tu hai trovato in ogni luogo.

Li abbiamo alloggiati in prigione perché volevano una casa. Li abbiamo uccisi perché volevano la vita eterna. Quindi trasformammo le loro prigioni in campi di granturco. Che cos’è quella mano che sporge dalla terra? Altre mani germoglieranno da essa – e ci solleticheranno a morte.

(Traduzione dall’inglese di A. Novellini) (Tratta dalla rivista “Poetry” – settembre 2007)

Vi sono grandi buchi sulle pareti delle parole. Non una singola frase ha porte o spiragli. Tutti i nomi propri sono morti o alloggiati in campi profughi. Tutti i leggiadri aggettivi qualificativi hanno traslocato in treno, su camion, o a piedi nell’oscurità della notte. Se alcuni di loro girano ancora intorno devono nascondersi nelle case dei loro parenti. Pochi verbi gangsters che portano armi letali e bombe lacrimogene dominano le strade e i luoghi di mercato. Venite bambini, nelle nuove scuole che abbiamo aperto. Abbiamo licenziato i maestri che insegnavano vecchie grammatiche. Che importa se, d’ora in poi, non potrete dire alle ragazze della vostra classe come sono gli uccelli, i fiori, la luna e l’arcobaleno? Sicuramente passerete da una classe ad una successiva più alta per essere uomini … se soltanto avessi saputo la parola opposta vi avrei detto dove.

Nota. Nel febbraio 2002, 59 persone morirono nell’incendio di uno dei vagoni del Sabarmati Express alla stazione di Godhra, nello stato indiano del Gujarat. L’incidente provocò una delle peggiori rivolte dai tempi dell’indipendenza dell’India, nel 1947.

(Traduzione dall’inglese di A. Novellini) (tratta dalla rivista “Poetry” – settembre 2007)

“Nella misura breve dell’istante haiku” . Incontro presso il Circolo dei Lettori del 22.11.2007

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Domenico Diaferia ESISTE ANCORA LA POESIA “POLITICA”? ESISTE GIÀ LA POESIA “ANTIPOLITICA”?

Il foro di Genova in ricordo di Carlo Giuliani 1.

(da “SE TU SEI”, TRAUBEN ed.) E ora l’abbiamo vista in faccia la morte quella vera annientante e globale, come un’esecuzione: un colpo in fronte e schiacciato sotto le ruote, come dire: sono io il più forte! abbiamo visto in faccia il volto vero del potere, di chi voleva “dialogare”.

Elezioni Ahimè, è l’ora dei santini elettorali, arrivano… di gente onesta laboriosa e degna e quante promesse nei programmi! sembrano proprio convincenti: coi loro suadenti sorrisi elettorali paiono foto di morti – ricordati di me… – su imbiancate tombe di grandi e piccoli poteri.

La vittima sacrificale è stata offerta in pasto al grande leviatano all’idra multiforme e senza forma inafferrabile, come inesistente visibile solo ai mostruosi effetti.

Certo saranno dei santi in piccolo formato almeno comunali, a léggere le loro opere virtuali – peccato, sono solo candidati, perché se sono candidi, non so. 3.5.01

ESISTE ANCORA LA POESIA DI IMPEGNO CIVILE? PERCHÉ NO…. Quei papaveri rossi di maggio Ai margini di corso Casale, tra erbe nuove ribelli al décor comunale, improvvisano l’occhio e la mente quei papaveri rossi! residuo splendore nel grigio invadente sotto l’azzurro sporco di questo cielo di oggi, corrono a mete sicure le auto indifferenti Cos’è questa nostalgia improvvisa e patetica di un palpito antico, di idilli focosi sul verde, di bandiere sciamanti al vento di un mondo nuovo? No, non potete ammainare quei papaveri rossi ribelli marginati ma memori di altre naturali armonie!

Abbiamo visto a migliaia sogni di pace e fraternità compassionevole infranti sotto i duri colpi dell’odio tracotante. E in alto il balletto dei potenti i “Grandi della terra”: omuncoli delegati a pena da altri omuncoli, serrati in gabbie di ferro e oro, prigionieri del loro potere e di altri più grandi invisibili che li trascorrono energici come robot fantocci e arlecchini. 2. Non c’era altro volto ,reale, del pianeta, quello sottomesso e senza voce ancora: attenti a quanto il vulcano, come Etna che si muove, leverà le sue lingue di fuoco e pietra e scuoterà dalle fondamenta le nostre sicurezze ipocrite le mille menzogne dei potenti! 21.7.01

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Bambini ai tempi della guerra

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per colpa di tiranni temuti e venerati?

Nato nel millenovecentoquarantatre, concepito in un sud assolato (festa d’amore tra gli ulivi e i vigneti) sento nella mia carne e nella recondita mente – nel grembo portato su fino alla città bombardata – paura di morte, la fuga da pareti intime di case sventrate, poi uscito a forza in un grido comune di dolore e di vita nel buio oscurato nascosti a un nemico di ferro e di fuoco.

E quale piaga oscura e voglia di riscatto ancora porto da memorie ancestrali di uomini e donne umiliati, fuggiti da zolle spaccate dai soli del sud – dura la terra a zappare e pascolare avare erbe –. Quale fatica amare ancora l’uomo – prigionieri poi di industrie velenose, anche quelle d’altri – l’uomo rapace e uguale da sempre ai quattro angoli del mondo!

Da quali atrocità e necessità di espiazione, da quale sogno di salvezza e nuovi mondi vengono i bambini per patire questa mattanza?

O triste terra, la liberazione allora venne dal fuoco – non c’è altra libertà o altra via? 23.4.05

Vogliono solo giocare anche tra rovine di cui non conoscono nome e ridere in braccio a carezze di mani anche se sporche del sangue dei pensieri, non capiscono i giochi dei grandi, i loro giochi sono diversi, saranno diversi.

PUÒ LA “PIETAS”, UN SENTIMENTO UMANITARIO O RELIGIOSO DARE TESTIMONIANZA?

26.3.03

Impegno Sono un poeta organico

Nascita Nell’oscura notte ho bevuto il latte buono di mia madre insieme alla paura, serrati nella stanza nera sotto il rombo degli aerei della guerra maledetta, strappato a forza col freddo forcipe nell’aria bruciante e tragica, a forza prima del tempo stabilito dalle stelle, per la fuga dei medici in sicuri rifugi d’ospedale. Quel dolore forse porto ancora nel sangue e nella carne: poi nella città bombardata, la fuga sulle braccia paterne da portone a portone, e dietro precipitavano le case, tra i morti per le strade e le macerie la nostra fuga in Egitto e la salvezza. Quale voglia di odio e di vendetta ho bevuto allora da quei pugni impotenti contro un cielo assordante e assurdo

all’uomo quando suona la vita

1943, classe dell’età del ferro Noi nati nella guerra non siamo nati per la guerra concepiti in pause d’amore sotto i lampi della Storia come possiamo non esser nati, figli della paura e della vita, che per un mondo d’amore?

E sia E sia follia d’amore non altro a bruciare il mondo

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marzo 2001 Il sorriso dei Buddha Un messaggio fraterno ai taliban afghani da parte di uno studente buddhista 1. Sorridono i Buddha sempre in forma oltre la forma

2. Distrutti per sempre i buddha di pietra, chi, mussulmano ateo o cristiano, può per sempre distruggere, anche volendo, il buddha interiore?

3. Distruggete la pietra oscura dell’io nei cuori, l’attaccamento ostile a ogni pregiudizio, salvate come potete ogni essere, immagini molteplici del Dio vivificante e misterioso: questo è lavoro coraggioso di veri guerrieri studiate i testi e coglietene l’essenza oltre i tempi: questo è lavoro ispirato di veri studenti non prostriamoci sulla terra cinque volte al giorno ma cinquanta volte cinque, in vera umiltà, perché dalla terra veniamo, alla terra torneremo

“SENZA UTOPIA NON C’È RISO” DICE CLAUDIO MAGRIS: E ALLORA SOGNIAMO E RIDIAMO

I gai mondiali Come mi piacerebbe che i grandiosi della terra signori di guerre care guidassero solo squadroni di calcio e andassero per verdi campi giocando con giovani atleti vogliosi di vita e non altro Come mi piacerebbe che i popoli tutti in dieta o affamati assistessero silenziosi e gratuiti agli spalti non solo a guardare Come vorrei che arbitro e guardalinee fossero tre piccoli marziani un po’ rosa e un po’ verdi imparziali faretti di luce nella notturna partita del mondo 1986

e volgiamo sereni lo sguardo allo spazio libero e senza ostacoli come nostro spirito è azzurro come acqua che disseta deserti, caldo nel sole come occhio vigile di sapienza, caldo come il cuore innamorato di ogni cosa

DEGNARSI D’INDIGNARSI

se volete, e forse bene fate, non guardate al demoniaco occidente, duro e flaccido a un tempo, che ama accumulare ciò che è morto e conservare simboli antichi non per farne ispirazione e vita

Padre, devo pentirmi ora o posso aspettare la prescrizione?

In confessionale

4 Zapatero

non guardate a occidente, né a oriente, guardiamo nel nostro cuore fondo, ascoltiamo i suoi silenzi e nuovi insegnamenti

4.

E dopo tanti tristi, matrimoni in crisi finalmente un’unione gaia! Olé! 5

Dov’era il concreto ora è impermanenza, dove il pieno in sé ora è vacuità Gioiscono i Buddha per gli involontari insegnamenti di nemici e per questo, maestri e più che amici

Parzialità nell’organismo ‘politico’ Un cuore giusto e sano non può che battere a sinistra, se spinge a destra è anomalia, ma i problemi gravi, si sa, sono sempre al centro…

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24.3.01 Ultime proposte di Confindustria

Luca Guglielminetti BREAD 'N' ROSES (2002) A chi ci allevò dicendo: Lavora, consuma e crepa, Con agile flessibilità E dubbia pensione, Offriremo Dolce eutanasia Senza vivisezione Né trapianti, ma Autopsia per la storia Della formazione permanente.

Facciamola finita con questo lavoro flessibile! trasformiamolo in volontariato 25.2.01 Gli altri Vedere gli altri non come mezzi ma come fini – sempre più fini, ahimè quasi inesistenti

Così Lavoriamo non per nobiltà, Ma per sentirci bestie Consumiamo contratti, Contro consumi coatti Crepiamo mille volte e L’ultima non la pubblicizziamo.

11.6.00 Il dubbioso Bulimico il corpo anoressica l’anima – che sia anch’io diventato Istituzione?

IDENTITÀ POST-IT (2002)

3.10.07

Tra avanguardia e retroguardia, Post tutto e pre nulla, Senza dormire stiamo Con belle occhiaie e fogli gialli Sempre vigili sui misfatti - di chi? Ma della vecchia guardia! Con serio sorriso d'artigiani Andiamo a caccia in piazza Portando seco denti Alla pasta d'assenzio In quantità legali

Ulteriori informazione, novità e materiali sul sito web (provvisorio)

La nostra anorressia Nei beni consumati Potrebbe un giorno farci Morigerati savi In piedi all’auditorium Concerto dei tromboni

Nuovo Caffé Letterario http://www.kore.it/CAFFE/poesia_fuoril.htm

MODERNITA’ LIQUIDO SALINA DEL POETA (2007) |Spot| Non è il grillo parlante il concorrente nostro, ma l’abile a coniare il nuovo logo che c’immerge in globo come distanti gocce sole per superficial tenzone Noi manovali in rotta disperse parti in sali in botti d’acqua scure c’è ardua la missiòn Risponder erti in coro rete di sodio bianco cristalli fuor sudati pareti trasparenti gridando: Noi siam qui: c’è OY TIΣ (Nessuno)?

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Giovedì 22 novembre 2007

Nella misura breve dell’istante haiku

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RIFLESSIONI SUL HAIKU di Grazia Valente Un’esperienza personale. Nel pormi le domande: che cosa so io del haiku? Perché sono stata attratta da questo genere di poesia? Quali difficoltà ho incontrato nel comporla? ho dovuto, come succede nei film o nei romanzi, fare un passo indietro e riandare con la memoria alla scoperta iniziale di questo modo di comporre versi. L’esistenza del haiku (1 3 ) mi è stata rivelata dall’antologia Cento haiku (edita da Longanesi), le cui pagine sono ormai color paglierino. Leggevo e rileggevo le brevi composizioni, corredate di commento esplicativo, con la bella prefazione di Irene Iarocci, che ne ha curato anche la traduzione. Dubito di aver ben compreso a quel tempo (l’edizione di cui parlo è del 1982) che cosa fosse veramente il haiku. Solo molti anni dopo, nel venire a contatto con l’Associazione Amici del haiku di Roma e dopo aver preso conoscenza dell’esistenza di un concorso internazionale dedicato al haiku, ho provato a comporne. Va detto che, all’incirca dal 1987, scrivevo regolarmente poesie, caratterizzate dalla brevità. E certamente una delle ragioni dell’attrazione verso il haiku è stata il suo minimalismo, quel suo esserci quasi schermendosi, senza enfasi e senza retorica. Era un po’ lo spirito che animava anche i miei versi, che a volte lasciavano spazi di sospensione che disorientavano il lettore, i quali spesso mi rivolgevano la domanda: - ma è finita così? (la poesia). Questo senso di sospensione lo ritrovavo anche nel haiku. Ciò che invece mi ha reso subito difficoltoso lo scriverne è stata la concretezza che lo caratterizza La mia poesia infatti era sì breve, ma poco concreta, affidata spesso a simbologie e venata di filosofia. Un’altra difficoltà era costituita dalla pressoché totale scomparsa dell’Ego nel haiku giapponese (caratteristica questa che appartiene alla stessa lingua giapponese), mentre nei miei versi la soggettività era spesso una componente essenziale. Un elemento in comune era costituito invece dall’essere il haiku prettamente autobiografico. Scrive Carla Vasio, nella prefazione all’antologia Se fossi il re di un’isola deserta, Ediz. Empirìa, a proposito dell’importanza del kigo (il riferimento alla stagione), : “ …la scelta deve tener conto di molti elementi apparentemente secondari, oltre che dello stato d’animo del poeta, anche della sua età, del suo grado, del carattere, dell’umore, del tempo, del luogo e così via … Un haiku non è mai una divagazione lirica separata dalla realtà del momento esistenziale in cui si trova lo haijin (il poeta di haiku) quando lo scrive: se si leggessero in successione cronologica tutte le poesie di un autore, si scoprirebbe non

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solo il suo sviluppo spirituale e il suo curriculum letterario, ma anche la sua biografia registrata minuziosamente nei momenti più significativi, particolareggiata e insieme fatale per quanto contiene di occasione e di destino congiunti …”. Nel haiku si pratica il “qui e ora”, il famoso “afferra l’attimo” vi trova la sua piena realizzazione. Nei miei versi invece l’elemento autobiografico era posteriore all’evento che li aveva suscitati, apparteneva al mondo della memoria, veniva storicizzato per essere raccontato di nuovo, quasi rivissuto, anche se con i tratti autocritici e di riflessione derivanti dal tempo trascorso . Quindi, autobiografia sì, ma diametralmente opposta al sentimento del haiku, rivolto al presente e solo a questo. Tutto il mio modo di comporre andava quindi ridisegnato. Soprattutto andava affinato lo sguardo verso la concretezza della vita quotidiana, per riuscire a focalizzare gli eventi minimi di cui sono costellate la nostre giornate, scoprendone l’unicità e il contenuto emotivo di cui quasi mai ci rendiamo conto. Un altro elemento essenziale alla composizione di haiku è costituito dalla presenza pressoché costante della natura e dei suoi mutamenti stagionali, suggeriti dalla presenza del kigo (e dirò più avanti dell’importanza, a mio giudizio, di tale elemento nella composizione del haiku). Mi rendevo conto di quanto poco la conoscessi e di quanta superficialità era intrisa la mia presunta capacità di osservazione. Era necessario che imparassi a “vedere” le cose che mi circondavano, e poi a rappresentarle in quella forma breve. Ciò che potevo salvare, del vecchio modo di fare poesia, era quella zona di mistero, quel “non detto” che era anche il fascino del haiku. Ciò che dovevo invece dimenticare era l’uso della metafora, l’esasperato soggettivismo, oltre, ovviamente, alla struttura compositiva. Per quanto riguarda la scansione sillabica di 5-7-5 sillabe, non ho avvertito particolari difficoltà. Dopo un breve periodo di “allenamento”, era come imparare un nuovo passo di danza. Abbastanza presto mi è diventato naturale già “pensare” il haiku in quella forma metrica. “Chiunque può comporre haiku, purché sia dotato di sensibilità e conosca l’uso della scrittura” , dice sornione il Maestro giapponese di haiku Tadao Araki. A volte avvertivo di essere dotata della fine sensibilità di un lampione. Il cammino è stato lungo e faticoso. A volte scrivo versi di 5-7-5 sillabe che non sono veri haiku (questo almeno sono riuscita a capirlo!). Dicono i Maestri che se, nell’arco di una vita, riesci a comporre 5 buoni haiku, sei un haijin. Se riesci a comporne 10, sei un Maestro.

E veniamo all’importanza del kigo. Ma, innanzitutto, che cos’è esattamente? La definizione più comune lo identifica come la parolachiave che indica la stagione. La stagione aveva e ha tuttora la funzione di stabilire nel verso un legame preciso con la realtà quotidiana, con la vita del singolo o della 3 Secondo l’Istituto Italiano di Cultura Giapponese (Roma) non si collettività, con la natura. Il kigo è quindi la paroladovrebbe scrivere, come saremmo portati a fare, “l’haiku”, bensì “il simbolo riguardante la flora, la fauna, avvenimenti haiku”, in quanto la lettera h è una consonante a tutti gli effetti, anche se la pronuncia è aspirata, e ne segue quindi le regole grammaticali. Il modo religiosi o popolari giapponesi, cibi, che sta appunto a corretto di scrivere è quindi “del haiku”, “il haiku”, ecc. , che indicare una precisa stagione. foneticamente risulta per noi abbastanza fastidioso e a volte fa venir Quando un haijin si accinge a comporre un haiku deve voglia di trasgredire. scegliere tra i 25.000 (sì, avete letto bene!) kigo codificati “Nella misura breve dell’istante haiku” . Incontro presso il Circolo dei Lettori del 22.11.2007 40


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quello che meglio esprime l’essenza dell’immagine che egli vuole rappresentare. L’errore più comune, per noi occidentali che non conosciamo il repertorio dei kigo (anche se alcuni di essi sono stati tradotti, ma soltanto in minima parte) è quindi quello di introdurre, in uno stesso haiku, kigo che rappresentano stagioni diverse. Ad esempio, ecco due haiku tratti da “Haiku in Italia” (Ediz. Empirìa), commentati da Tadao Araki: Sera d’estate

quando la trota salta vede la luna G. Vit “Estate. La luna splende sul torrente dove una trota salta sull’acqua. E’ un’immagine che suggerisce freschezza e bellezza come una pittura giapponese, e dà una sensazione piacevole. Tuttavia, nell’haiku giapponese “trota” è un kigo della primavera, “luna” dell’autunno, perciò in questo haiku si confondono le tre stagioni primavera, estate, autunno. Converrebbe quindi toglierne una”. Nuvola a nuvola cuce e scuce la luna marzo riluce C. Serricchio “Contenendo di proposito la parola “marzo”, non può che essere un haiku primaverile, ma il soggetto è la luna, kigo che nella tradizione giapponese indica l’autunno: esiste il kigo “luna primaverile”, il cui uso però rende inutile quello di “marzo”. Se si legge questo haiku seguendo la tradizione giapponese, si ha davvero la spiacevole sensazione di confusione tra primavera e autunno. Questo è un fenomeno imputabile alla mancanza di kigo codificati nell’haiku italiano …”. Forse, viste le difficoltà, a noi occidentali converrebbe tralasciare l’uso del kigo, consapevoli però del rischio, molto probabile, di introdurre nel nostro haiku parole che per noi sono neutre, ma che in realtà sono dai giapponesi usate come kigo. Infatti, per eliminare il kigo, bisogna conoscere il repertorio dei 25.000 kigo! Si direbbe una strada senza uscite. E’ noto che nelle avanguardie poetiche giapponesi spesso il kigo viene eliminato, così come non viene rispettata la classica scansione sillabica di 5-7-5 e viene altresì introdotto “l’uso di parole “nuove”, prima non ammesse nella composizione di un testo poetico”, come scrive Carla Vasio nella prefazione a “Haiku antichi e moderni” – Ediz. Valiardi. Scrive ancora Carla Vasio: “Il kigo è importante, perché senza di esso viene meno la possibilità di individuare nella composizione un preciso punto del tempo sottratto a quel continuo oscillare fra passato e futuro in cui il mondo si dissolve, sentimento della fuga del tempo che è sempre malinconicamente insito nella sensibilità giapponese. Da parte sua il lettore è ricondotto dal kigo al momento in cui si è condensata la sensazione descritta, affinché possa richiamarla e riviverla”. Conclude Carla Vasio: “La brevità delle 17 sillabe a disposizione del poeta di haiku costringe a uno sforzo di

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sintesi e a una precisione di linguaggio che è esercizio di alta scuola, ma non riservato a pochi eletti. Infatti lo haiku richiede una sensibilità particolare nella scelta dell’immagine, nell’uso delle parole, nella composizione dei versi, che non sempre il tecnicismo dei professionisti favorisce…”. E a proposito di ques’ultimo aspetto, sottolineato dalla Vasio, il rischio, a mio giudizio, è quello di comporre haiku artificiosi, avvalendosi di un “repertorio” collaudato, preoccupati soltanto della sonorità, appagati dal risultato esteticamente apprezzabile. Una caratteristica del haiku è invece quella della semplicità, della naturalezza. Semplicità che spesso sembra portare con sé la domanda: - Tutto qui?, e viene quindi trattata con sufficienza, ignorando che la semplicità nella struttura del haiku riproduce le componenti tipiche della mentalità nipponica, e dimenticando che dietro l’apparente semplicità l’atmosfera che lo pervade è caratterizzata da intime profondità, inaccessibili a una lettura distratta. Bisognerebbe quindi rispondere a quella domanda: - è tutto qui? con: - qui è tutto! Viene in mente la favola di Andersen “L’usignolo dell’Imperatore”, con i due usignoli, quello naturale e quello meccanico, che gareggiano tra loro: “ … l’usignolo vero cantava come gli dettava il cuore, quello meccanico ripeteva le stesse note senza mai cambiare …. le canzoni dell’uccellino dei boschi nascevano dai sentimenti, quelle dell’altro da una molla …” Sulla base di queste mie brevi e molto incomplete riflessioni sul haiku, penso sia opportuno accostarci a questo affascinante mondo poetico con umiltà, muovendoci con circospezione e rispetto nei confronti di quella lontana cultura; cercando, per quanto possibile, di comprenderla e sperando, nell’accingerci a comporre haiku, di fare – come si dice – il minor danno possibile. Dal momento che questa non è, né voleva esserlo, una “lezione sul haiku”, mi considero assolta per le omissioni, le inesattezze e le approssimazioni che in essa siano riscontrabili. Ricordiamo, per concludere, queste parole di Tadao Araki, tratte dalla prefazione all’antologia “Se fossi il re di un’isola deserta” – Ediz. Empirìa: “Praticare il haiku per un haijin non è solo comporre poesie, secondo specifiche regole metriche e retoriche, significa anche adeguarsi a un’etica di comportamento che rispecchia un modo diverso di porsi nel mondo e un diverso rapporto con la natura di cui ci si ferma un attimo a contemplare la bellezza e l’instabilità. Inoltre, la brevità di 17 sillabe a disposizione costringe a uno sforzo di sintesi e a una precisione di linguaggio che è esercizio di alta scuola, ma non è riservato a pochi eletti…Si può dire che comporre haiku è alla portata di chiunque abbia sensibilità e conosca l’uso della scrittura. In Giappone si crede che chiunque, consapevole o no, è poeta di haiku, dovunque si trovi e qualunque sia la sua lingua.” In appendice vengono riportati alcuni kigo facenti parti di quel ricco repertorio cui è stato accennato, tradotti dall’inglese. Così, tanto per fare intravedere la complessità e la ricchezza sottesa al genere poetico denominato haiku.

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Elenco di alcuni kigo (indicatori stagionali) tratti dal “Repertorio dei kigo” Primavera (Haru)

Estate (Natsu)

mezzogiorno di primavera fine di primavera estate vicina luna nebbiosa notte velata di nebbia vento chiaro vento dell’est neve rimasta acque di primavera montagne fiorite festival delle bambole arare baco da seta bassa marea molluschi gattini usignolo allodola rondine rane farfalla salice camelia fioritura ciliegi ciliegi piangenti o cadenti fiori dei ciliegi caduta dei fiori dei ciliegi fiori caduti fioritura dei peri tulipani violetta felci

mattino d’estate notte d’estate notte breve fresco estivo caldo piogge di giugno sole bruciante brezza del mattino colline verdi sabbia bruciante cambio di abiti piantatura del riso prugne verdi nuvola di zanzare cerbiatto puledro trota tonno mosca zanzara formiche cicala ragno lumaca bruco peonia iris rosa mimosa crisantemo erba verde

Autunno (Aki)

Inverno (Fuyu)

freddo del mattino giorno d’autunno autunno sereno fine autunno notte d’autunno freddo notturno luna luna crescente notte di luna luna di sera nebbia di fiume rugiada vento d’autunno campi di fiori festa di tutte le anime visita alle tombe taglio del riso solitudine d’autunno cervo salmone libellula d’acqua locusta grillo scarafaggio di terra crisantemi bianchi crisantemi gialli garofani granoturco mele pere castagne noci funghi caduta delle foglie di salice foglie cadute uva cachi

principio d’inverno notte fredda freddo freddo intenso anno che termina fine dell’anno vigilia di fine anno luna gelida nuvole d’inverno prima pioggia invernale acquerugiola invernale gelo gelo rappreso prima neve neve alta grandine ghiaccio sorgere del sole a Capodanno fuoco di legna braciere carbone sandali da neve vestiti di cotone imbottiti orso aquila gabbiano balena lumaca di mare crisantemi d’inverno rape rosse cipolle canne appassite narcisi crisantemi appassiti erba appassita lanugine di erba appassita pini

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HAIKAI di Loris Maria Marchetti

I Poco da dire: la luce precoce si smorza nei quadri.

Brividi dona anche se impalliditi l'ottovolante. 10 Senza colore questo guscio d’autunno dimenticato. 11

2 Rapidamente cercherai di carpire la vita vana. 3 Amica, addio: esaurisce settembre la libertà. 4 Senza capire ritoccava le rose a perdifiato. 5 Cielo di piombo sopra luglio imputato d’aspettazione.

Scommessa amara navigare nel bosco ad occhi chiusi.

12 Noi piangeremo su panchine impregnate di nostalgia. 13 Amate nubi, di mosaici stremati docili involucri. 14 Strenui ed invitti sogni di primavera densi di fiaba.

6

15

“Bimba precoce, con l’anima si fotte non con la fica”.

Sogni d’estate rubano la dolcezza senza ritegno.

“Stolto poeta, stai diventando vecchio e moralista”. 7 Se piange il pesco, petali di farfalle nell’universo. 8

16 Sogni d’autunno tiepidi e ingannatori senza rancore. 17 Sogni d’inverno d’immacolate vette tardivi fuochi.

Inverno pigro, dormi senza rumore volto ad oriente.

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12 Haiku metropolitani di Alessandro Novellini (con commento dell’autore) La città: tra bar, autobus e interni di uffici. Sotto la pioggia e la neve, mentre continua a scorrere il “fiume scuro”. Un paesaggio urbano come fonte di ispirazione per questi 12 haiku, scritti tra il 2001 e il 2006. 1.

nel bar gremito luccicare di sguardi – netto le lenti Vincitore Haiku Contest 1998

2.

marzo in città – sul vetro sporco del bus chiazze di pioggia

3.

vento di marzo – dal WC sul balcone colpo di tosse

4.

sul fiume scuro s’accendono le luci – tonfi di remi

5.

ponte di ferro – sulle travate sghembe un uomo dorme classificato al 7° posto Haiku Contest 2006

6.

sul display verde ho saltato un rigo – dai vetri, nebbia

7.

tardo autunno – ha odore di neve il primo vento

8.

alla finestra socchiusa m’attardo – ultimo quarto

9.

loden serrato nella pioggia d’autunno – sto invecchiando

10.

vene trafitte nella bianca corsìa – cade la neve

11.

sul parabrezza scrivo il suo nome – ghiaccio sottile

12.

squilli a vuoto in uffici deserti – Felice Anno

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Commento ai 12 haiku metropolitani, a cura dell’autore 1. Il passaggio dall’esterno all’interno del locale, pieno di luci e di gente, un po’ confonde e dà la sensazione che tutti guardino noi. Se portiamo gli occhiali, il passaggio dal freddo al caldo del bar li appanna, e allora, con una vena ironica, poiché non si vuole correre il rischio di perdersi qualche sguardo interessante, si dà una pulitina alle lenti, con noncuranza. Haiku senza kigo. 2. I bus cittadini sono spesso impolverati, a causa dell’inquinamento. La pioggia di primavera non è particolarmente violenta, appena una spruzzata. Dall’interno dell’autobus, le chiazze di pioggia miste allo smog sui vetri del finestrino accentuano un senso di trasandatezza e di squallore urbano. Haiku di primavera. 3. Un altro haiku primaverile. Casa di ringhiera (nella nostra città ne esistono ancora molte). Il WC è sul ballatoio, in comune con altri inquilini. Il vento di marzo è particolarmente freddo. Chi occupa la toilette è in balìa degli spifferi. Il colpo di tosse, inoltre, “avvisa” chi sta avvicinandosi che il WC è occupato. Haiku che trasmette un senso di disagio per questa mancanza di privacy. 4. Il sole è tramontato, ma si vuole prolungare il piacere di remare, anche se il fiume ormai è avvolto nel buio. Non si vede il rematore, si sente soltanto il tonfo dei remi. Questo haiku, senza una stagione definita, ha in sé un alone di mistero. 5. Il ponte di ferro sulla Dora. L’uomo che dorme (un operaio nella pausa di riposo, un vagabondo, uno straniero spaesato?) colpisce per il luogo scelto per il riposo: le travate sghembe del ponte. Evidentemente, si tratta di qualcuno abituato a stare in luoghi di fortuna, purché gli consentano tranquillità e silenzio. Il solo rumore qui è quello del fiume che scorre sotto di lui. Un haiku senza stagione, che trasmette un senso di tristezza e di solitudine. 6. Un uomo si accorge, mentre sta lavorando al computer, di aver saltato un rigo nel testo che sta scrivendo. Attribuisce la distrazione alla sua età e alla vista che incomincia a tradirlo, mentre si vede ancora intento al lavoro anche se – pensa – farebbe meglio a lasciar perdere. Uno sguardo alla finestra e alla giornata nebbiosa spinge il lettore all’accostamento tra la vista annebbiata e la nebbia . “Nebbia” è kigo dell’autunno. 7. Una giornata d’autunno inoltrato avvisa che l’inverno non è lontano, grazie al vento freddo che sembra portare con sé l’odore della neve. Torino, del resto, è circondata dalle montagne, e la sensazione non appare inverosimile. 8. Haiku intimista. Una finestra socchiusa e uno spicchio di luna suggeriscono pensieri un po’ tristi, nel passaggio tra una condizione di pienezza, come quella della giovinezza, a una di rinuncia, sia pure ancora non definitiva, come quella che preannuncia la vecchiaia. 9. La pioggia fredda dell’autunno spinge a tenere il cappotto ben abbottonato. Il ricordo va a un’altra stagione della vita, quando nulla sembrava toccarci e pioggia e vento erano soltanto dettagli nella nostra giornata, occupata a vivere le gioie della giovinezza. Probabilmente non indossavamo neppure il cappotto! 10. Atmosfera smorzata sui toni bianchi, che introducono all’ambiente ospedaliero. Il malato è quasi inerte, in balìa della propria malattia e delle cure. Il senso di gelo è accentuato dalla caduta della neve, che spegne i suoni e isola la mente. 11. Haiku invernale. Mentre ci si accinge a salire in macchina, si nota il sottile strato di ghiaccio che riveste il parabrezza. Scatta un ricordo lontano, di quando si era ragazzi e ci si divertiva a scarabocchiare su quella parete improvvisata. Il pensiero porta con sé il ricordo della ragazza che occupava a quel tempo la nostra mente. 12. Ultimo giorno dell’anno. Gli uffici sono deserti. Ma anche in questa importante vigilia festiva, c’è qualcuno che non può fare a meno di cercarci al telefono: qualcosa di urgente, o soltanto la nevrosi di uno stakanovista?

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Il canto dell’haicùculo (ovvero alla maniera degli haiku) di Domenico Diafèria Esiste ancora una capacità di contemplazione, in particolare della Natura, senza devastarla? Forse, in un mondo di chiacchiere, è buon esercizio di stile esprimere, in meno parole possibili, il dicibile e il non dicibile. Proviamo… da Se tu sei, ed. Trauben

Primavera Azzurra brezza e fremito di voli tra aperte viole

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Le carrube ciondolano nere – non arrivano cavalli alati con questa nebbia

Inverno Spolverata di bianco sulla collina e sulla mia barba, che fredda armonia Scia bianca e rosa di monti – voglia di svoltare e libero prendere per valli Voglia di uragano mai esploso sulla città smaniosa e controllata Sono io che canto o il canto canta me? Fredde le gambe a camminare nel parco brullo dei bambini assenti

Nel folto bosco come richiamo antico primo gracidare

Senza stagione

La mente si distende nel sole, piacevole su cose, come reali – assopita la tigre che è in loro

Estate Disteso vociare di cicale, morde il meriggio affocato – starsene ad ombre di frescura Fruscii di frasche al lievitare di venti e di pensieri Il mare è una spianata di luce sotto la luna e tutto tace sopra i colli – un grillo

Autunno Sotto pergolati d’uva bocce di vino su tavoli in legno, è lieve starsene per oasi a sorseggiare il tempo Autunno ha i suoi fulgori tra ricordi appassiti di verde, così i miei anni che amano vini e capezzoli di uve Come un mare le nubi hanno invaso la città dolente: albero di vascello svetta solo la guglia, sotto, boato cupo e vitale

Occhi di ponte sul placido fiume, i due cigni, regali sul torbido specchio di spazzatura Piole dimenticate lungo il fiume: storia non passa di qui se non per strilli di carte Finito il diluvio di paura al fiume, libertà guizzante dei pesci! tornano i pescatori sulla riva Gabbiani in fila sul tronco come nave incagliata e schiuma di cascata al sole Amo questi parchi, di nessuno e di tutti, sono di chi li abita, per un giorno, come la terra Un’isola deserta affiora nel grande fiume in secca, come cuori incagliati Il corvo gracchia nel silenzio e traccia volando i segni del suo esserci

Ulteriori informazione, novità e materiali sul sito web

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“All'origine fu la macchina da cucire" Con Vittorio Marchis e Luca Guglielminetti Letture di Francesca Rizzotti

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da “PONTI SULL’OCEANO” (1914) di Luciano Folgore

Da ITALY di Giovanni Pascoli

[…]

Magnesio

Italy allora s’adirò davvero!

Stecchita la vita da un inverno notturno di magnesio Porcellana della dura elettricità che comprime faccie e spigoli sulla ghisa nera della notte Nicchie di bar d'alluminio

Piovve; e la pioggia cancellò dal tetto quel po’ di bianco, e fece tutto nero.

Crudo bianco dei caffè di smalto

Il cielo, parve che si fosse stretto, e rovesciava acquate sopra acquate!

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O ferraietto, corto e maledetto!

o m b o

Ghita diceva: "Mamma, a che filate? Nessuna fila in Mèrica. Son usi d’una volta, del tempo delle fate. Oh yes! Filare! Assai mi ci confusi

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da bimba. Or c’è la macchina che scocca d’un frullo solo centomila fusi. Oh yes! Ben altro che la vostra ròcca! E fila unito. E duole poi la vita e ci si sente prosciugar la bocca!"

Una donna di maiolica Un cavallo di cristallo Lastroni di palazzi induriti a p i

sui pavimenti a cera delle strade Lineamenti dì ferro contorni a sbarre nette figurazioni di marmo durissimo smorfia della città serrata nei cilindri della tramontana Sorpresa dei nottambuli coi visi incro stati nel ghiaccio della luce elettrica Certo al di là dei muri : ANIME DI PIETRA CERVELLI DI PIOMBO e nelle bische la vita con tratta in uno spasimo dal magnesio del vizioTutto preciso tutto rigido nelle linee violente del freddo anche il sonno: MISERABILE DI BRONZO addormentato sotto l'arco dì granito di un portone

165

La mamma allora con le magre dita le sue gugliate traea giù più rare, perché ciascuna fosse bella unita. Vedea le fate, le vedea scoccare fusi a migliaia, e s’indugiava a lungo

170

nel suo cantuccio presso il focolare. Diceva: "Andate a letto, io vi raggiungo" Vedea le mille fate nelle grotte illuminate. A lei faceva il fungo la lucernina nell’oscura notte.

175

[…]

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Danilo Dolci

Nel paese tanto ricco di tecnica che puoi bere latte e ruttare petrolio, tra scienziati così sapienti da saper inventare bombe capaci di far scricchiolare tutta la terra; nel paese tanto ricco che la gente vi perde le mani ma vi trova la droga (e la gente spia l'attimo in cui finalmente può rilassarsi a ridere); nel paese tanto ricco d'invenzioni che ormai vi è inutile pensare o pericoloso (il suo uomo più buono lavora a organizzare i miserabili per conquistare il pane e una baracca per ambulatorio, tenendosi sul tavolo l'effige del ricco più potente); nel paese tanto ricco di democrazia che metà del suo popolo stima inutile andare a votare (e chi vota, come vota? ); mentre fioriscono lager per la gente di pelle più oscura i ragazzi irrequieti, i grandi irrequieti che non vogliono essere assassini;

Urge imparare dal trovarsi davanti realizzati sogni prima creduti troppo belli per esser veri, a immaginare l'alto bosco mentre pianti eucalipti nella terra arsigna; e dal geranio : se gli spacchi le braccia in monconi infilando ogni stocco nella terra – ricresce tenero il cespuglio padre, si radicano i figli acri inverdendo. Costruendo, l'uomo si costruisce. La città nuova inizia ove la terra respira, ove ognuno respira poesia - antenna miccia cantiere avvertito la terra può schiantarsi invetrando cancrene. Ti aspettavamo al tuo posto: e all'estremo momento non c'eri. Quando insieme si tenta di alzare una trave pesante pericoloso è fingere di forzare con gli altri: o ti impegni con tutti come puoi o avvisi chiaramente e te ne vai. Danilo Dolci, Poema umano, Torino : Einaudi, 1974, pp. 162-163.e p.178

in questo paese tanto ricco - si sa, consuma più del 50 per cento delle risorse del mondo, col 6 per cento di popolazione - : se chiedo a ciascuno di voi amici capelloni semplici o a voi capelloni di lusso, quali sono gli sprechi più assurdi nel vostro paese, siete sicuri di saper rispondere esattamente? Se chiedo a ciascuno di voi che sogna di cambiare la vita sulla terra come si forma il mostro del potere lì, proprio lì, dove vivete, siete sicuri di sapervi rispondere esattamente?

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Luigi Di Ruscio

Per colazione hanno acqua e pane

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DA UNA STAZIONE ALL'ALTRA di Attilio Lolini

il quintaelementare ingegnere onoriscausa

bevono molta acqua

(che si è fatto da sé)

a saliva che hanno devono sputarla sulle mani

(venuto su dal nulla)

perché il martello non scivoli

apre la nuova fabbrica

a mezzogiorno mettono nel brodo d’erbe

elettrodomestica

il solito pane nero al coprirsi del sole se io sono pieno di malinconia per loro è bello tornarsene a casa ridendo sedersi in famiglia giocare con i figli dopo dieci ore di lavoro sulle pietre per quel poco pane e perché la moglie

ministro in vista (moro) per i cazzabubboli di carosello e l'arcivescovo a benedire le macchine acqua benedetta selz

continui a fare per ultimo il piatto perché a nessuno manchi la parte.

ti spruzza questo operai tute bianche in vista

Le ore sei sono l’inizio della nostra giornata

il tricolore sta benissimo

noi siamo l’inizio di tutti i giorni

sulle buzze

inizia il giro delle ore sulla trafilatrice

dei sindaci di sinistra

che mi aspetta con la bocca spalancata inizia la mia danza il mio spettacolo in certe ore entra nel reparto una chiazza di sole e lo sporco nostro è schiarito come nelle immagini dei santi rubo il tempo per una fumata che raspa nella gola

discorso ufficiale non va per niente male rinfresco democratico gli operai tute bianche hanno un tavolo a parte

spio i minuti sul quadrante dal grande occhio e tutto ad un tratto ci scuote l’urlo della sirena ci attende il riposo per la sveglia di domani la suoneria che entra dentro i sogni esplodendoli

Attilio Lolini, Notizie dalla necropoli 1974-2004, Torino : Einaudi, 2005.

ed ecco un nuovo giorno della mia esistenza con l’allegria fuori della mia ragione.

Luigi Di Ruscio Poesie operaie, Roma : Ediesse, 2007

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Cesare Pavese

La fabbrica illuminata

Questa città mi ha vinto, come un mare.

Musica di Luigi Nono, testo di Giuliano Scabia, e un frammento da "Due poesie a. T" di Cesare Pavese; dedicata agli operai della Italsider-Cornigliano

Non è più il cielo quel vuoto lontano che appare tra le case, ma il peso della pietra che strapiomba. Le strade nere o piene di fragore, dove la folla è forza che sommerge, si aprono come abissi. Io mai comprenderò che sia questa torsione d'ogni spirito, questa fatica folle, che ogni giorno riprende sui miei passi all'apparire delle case enormi e al ruggito confuso, all'impazzire di uomini e di luci nella notte. Mai lo comprenderò, se non forse sia il vano struggimento di sentirmi nel petto la stessa forza salda e irresistibile. Se questo è il desiderio mi son soltanto infranto, ho combattuto solo per piegarmi sopra il corpo distrutto. E sulla mia sconfitta contemplo uscire un gran combattimento, due forze sovrumane. Per le alte strade, all'ora del crepuscolo giù dal cielo infiammato, un vento che discende sulle luci già accese, e le tormenta e trasfigura coi vetri, colle pietre. Come raffiche in mare, su uno scoglio. [28 aprile 1929]

II fango è nell'aria di pioggia come tra l'erba del fiume. Nella penembra le finestre velano le luci trepidanti d'umidità. Anche i camini delle fabbriche ne sono impregnati e sporchi. L'unico brivido puro è la freschezza del vento dalle bagnate lontananze.

1. fabbrica dei morti la chiamavano esposizione operaia a ustioni a esalazioni nocive a gran masse di acciaio fuso esposizione operaia a elevatissime temperature su otto ore solo due ne intasca l'operaio esposizione operaia a materiali proiettati relazioni umane per accelerare i tempi esposizione operaia a cadute a luci abbaglianti a corrente ad alta tensione quanti MINUTI-UOMO per morire? 2. e non si fermano MANI di aggredire ININTERROTTI che vuota le ore al CORPO nuda afferrano quadranti, visi: e non si fermano guardano GUARDANO occhi fissi : occhi mani sera giro del letto tutte le mie notti ma aridi orgasmi TUTTA la citta dai morti VIVI noi continuamente PROTESTE la folla cresce parla del MORTO la cabina detta TOMBA tagliano i tempi fabbrica come lager

UCCISI 3. passeranno i mattini passeranno le angosce non sarà così sempre ritroverai qualcosa (Testo reperito in Internet: http://www.cini.it/italiano/04attivita/laportasulretro/porta43.html)

[9 marzo 1928] Cesare Pavese, Le poesie, Torino : Einaudi, 1998.

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Sergio Solmi

Giovanni Giudici

« Dal balcone »

INVERNO A TORINO

Letteratura e industria

III. Per pochi mesi, nel cinquantotto. Avevo casa verso Mirafìori:

Ansioso ogni volta a spiarla, a sorprenderla, dall'auto, dal treno, dal pullmann, l'apparizione notturna, le elitre crudeli d'insetto gigante, picchiettate di luci multicolori, trasvolate da globi di fumo, irte di bandiere di fiamma della « Condor ». Ci vedo come un simbolo ambiguo di questa età convulsa: altri mi dica se indizio di sconfinato avvenire o di fine, di vita o di morte per l'uomo. Ma al solo insorgere improvviso sulla piana oscurata dei suoi incandescenti scheletri in travaglio, al pungermi le nari il suo tanfo di elettrica putredine, più vivace sobbalza il mio cuore che a vista di odorate colline, di beati specchi d'acqua tra boschi. Un emblema del paesaggio mio, del paesaggio che ha cominciato a crescere con me dentro i miei anni, in cui vivo, in cui muoio

mi dava la sveglia al mattino sotto le mie finestre l'assalto dei motori. In quell'inverno m'incontrò uno sguardo severo e cittadino: con vergogna scoprii ch'ero in ritardo, a capo chino - e nitide tutte le cose, nere le fabbriche, assenti i lamenti, le rondini, le rose... IV. Le guide turistiche non parlano dell'O ESSE ERRE di corso Peschiera: fra tante nere fabbriche la più nera, mi disse un vecchio riformista. «In altri modi si manda in galera chi è troppo comunista: l'Officina Speciale Ricambi è uno. Non si può visitare. Non insista». Giovanni Giudici, Prove del teatro, 1953-1988, Torino : Einaudi, 1989

(1962) Sergio Solmi, Poesie, Milano . Mondadori, 1978, pp. 87-88

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Luciano Cecchinel

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Da VIRTÙ VIZIOSE (2003) di Raffaele Crovi IX

BLUES vecchio dell'acciaio (nell'afa di luglio) via, via dallo stridore della fucina di cicale ! poter sputare il frastuono dell'acciaio come bile in un giorno rovente come inferno... ma sopra lo stomaco il cuore acceso assordante altoforno ah, via dalle cicale in gran stridore, tornati da ogni suolo, sono gli andati compagni dell'acciaio che hanno preso a fondere, a colare su nelle fucine del ciclo scoperchiato dell'Ohio

È razionale ti chiedi, il rispetto del reale o la proiezione di uno schema mentale ? Per te, in ogni caso, è ragionevole quel che ti serve e, in quanto tale, è buono e utile anche se contro le regole. Attribuisci la razionalità, meccanica perfezione, alle macchine: all'uomo riservi il diritto di onorare il superfluo e ciò che è futile. Raffaele Crovi, La vita sopravvissuta, Torino : Einaudi, 2007, p. 121

Luciano Cecchinel, Lungo la traccia, Torino : Einaudi, 2005, p.23

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Inediti

Domenico Diaferia

Luca Guglielminetti PROPOSITI (CHEZ VAN GOGH)

J’accuse envers

Le chiamano “morti bianche” quelle dei caduti sui campi di battaglia dei padroni (hanno ancora questo nome?) bell’eufemismo ad addolcire lo strazio della morte sorellastra non invitata alla festa di famiglia bianche come le camicie linde nei lindi uffici della competizione e dello sfruttamento terracqueo degli schiavi nuovi bianche come le coscienze anonime riciclate e ripulite nelle banche insieme ai soldi sporchi bianche come i candidati candidi delegati in Parlamento castellani impotenti o conniventi, a difesa di chi? Ma rosso è il sangue versato sulla terra indifferente, qualunque sia il colore della pelle rossa è la rabbia di chi non ha più bandiere per marciare - erano rosse una tempo, ricordi? -

Elemosinando Erti bordeggiamo Vicoli dismessi e Vivi di rifiuti Per bonifica da oblio. Con lingua caprina A carponi in terra Scaviamo sub archeologie D’industrie pese Per individuare che? O non alternative, Ossa parentali Sotto dinosauri Di cemento verde rivestiti: Che il ponte d’Arles risorga Chetando quesiti d’ossimoro D’affrontare con perizia D’una sol’ vita! Prima dell’immersione Nell’eco artificiale D’una morte biancastra, Vorremmo intravedere Almeno ancora Vincent: Il fremito dei semi Intatti di lillà E girasoli gialli. [MARZO 2004 - GENNAIO 2008]

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LA POESIA SOSPESA TRA LA CITTA’-FABBRICA E LA FABBRICA DELLA CULTURA di Alessandro Novellini

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occuparono di ricerche poetiche, di letteratura come storiografia o di sociologia nella letteratura. I letterati ritornarono ai loro prediletti giardini del Parnaso e i tornitori a fare il loro mestiere, certamente più utile.

Letteratura e Industria Non sono molte le opere in prosa o in poesia che abbiano come tema o come sfondo il lavoro e la realtà industriale. Un tentativo interessante lo aveva fatto Elio Vittorini con la rivista Il Politecnico e, più tardi, nel 1961, con Il Menabò, edito da Einaudi, che ospitava una serie di racconti, poesie, saggi per lo più inediti aventi per tema Letteratura e Industria, i cui autori più significativi erano (cito dal n. 4 del Menabò): Ottiero Ottieri, con Taccuino industriale: esperienza diaristica in prosa di una realtà industriale in Lombardia. Altre opere di Ottieni, sempre sul tema, sono state: Tempi stretti, sulla Milano industriale del secondo dopoguerra e Donnarumma all’assalto, che narra la sua esperienza come dirigente del personale alla Olivetti di Pozzuoli, con la descrizione della prima calata al Sud delle industrie del Nord; Lamberto Pignotti con L’uomo di qualità (forse in riferimento letterario all’opera ben nota di Musil, L’uomo senza qualità): 31 composizioni poetiche di stile ermeticorealista (cito alcuni titoli: Gli interessi del capitale, Il supersfruttamento, La religione della tecnica, Il presente futuro) in cui l’organizzazione industriale è trattata in sottordine all’espressione letterario-esistenziale; Vittorio Sereni che, con Una visita in fabbrica, racconta con una lunga poesia prosastico-discorsiva la sua visita guidata allo stabilimento Pirelli-Bicocca di Milano; Luigi Davì, con Il capolavoro, un lungo racconto autobiografico (Davì è stato in gioventù operaio tornitore) sull’esecuzione del capolavoro di aggiustaggio in una grande fabbrica ci dà una descrizione realistica della situazione politica e sociologica dell’ambiente operaio torinese. Davì, edito da Einaudi, ha pubblicato anche altro racconti di carattere industriale, raccolti in 3 volumi: Gimkana Cross, L’aria che respiri, Il vello d’oro; Vittorini, sul n. 5 del Menabò, continuò il dibattito su letteratura e industria con interventi di G. Bragantin, Italo Calvino, Giansiro Ferrata, Marco Forti, Franco Fortini. Ma il dibattito si sfilacciò in seguito su questioni letterarie , con gli autori bene assestati nelle loro idee e nei loro corporativismi, cosicché tutto si esaurì presto in fumosità specialistiche e le buone intenzioni di Vittorini, che era un po’ un fuorilegge nel panorama letterario italiano, vennero presto ridimensionate. Il mondo letterario ufficiale italiano era troppo impregnato di letteratura classica e umanistica per poter rivolgere ai rapporti fra Letteratura e Industria l’attenzione che meritavano. Chiaramente, questa non era cosa per loro. Dopo il tentativo, comunque meritorio, di Vittorini, la questione Letteratura e Industria venne rapidamente chiusa e i successivi Menabò (ne escono altri cinque) si

2. Ci vorranno successivamente altri scrittori, come Giovanni Arpino, Primo Levi, Paolo Volponi, per mettere in auge con le loro opere i rapporti tra Letteratura e Industria. Arpino tentò con il romanzo Una nuvola d’ira, edito da Mondatori nel 1962, di darci un quadro della vita operaia torinese attraverso il dramma antico dell’amore-gelosia, con i personaggi emblematici, tutti operai, di Matteo, Angelo e Sperata,una Dona Flor di periferia con i suoi “due mariti”, che si esprimono in un linguaggio tecnicopopolare-gergale, immersi in un contesto politicoideologico di sinistra, con la tragedia finale del suicidio dell’uomo più anziano, l’operaio Matteo, che si butta con la moto giù da una scarpata sulle colline delle Langhe. Primo Levi, da autore individualista fuori dagli ancoraggi letterari, chimico-industriale, come si definiva, secondo la sua prima e più importante professione, ci ha dato, con La chiave a stella, la storia di Tino Faussone, operaio artigiano di ceppo piemontese, libero e sicuro della propria esperienza e capacità di lavoro, che se ne va per il mondo ad eseguire montaggi di tralicci industriali. Faussone (e per lui Primo Levi) vede e sa riconoscere la realtà, il conflitto fra chi comanda e chi esegue, ma come un arcangelo operoso si innalza tra i suoi tubi metallici, fissa putrelle, serra dadi e bulloni, salda lamiere e longaroni, effettua giunzioni e collegamenti, prova e collauda valvole e tenute. Il suo linguaggio italo-anglo-piemontese si fa capire grazie alla meticolosità e all’intelligenza dell’operatore anche nei Paesi più lontani Il libro di Levi, come scrive nella prefazione Corrado Stajano, è una sorta di odissea contemporanea e il protagonista è una specie di Ulisse che dall’India alla Russia, dall’Alaska all’Africa, gira con la sua chiave a stella ad alzare con i suoi tralicci un altro monumento, quello della moralità del lavoro. Paolo Volponi ci ha dato con il suo romanzo Memoriale, edito da Garzanti, ambientato tra le colline del Canavese, di carattere prettamente industriale moderno, un capolavoro anche letterario. E’ la storia di Albino Saluggia, un operaio dell’Olivetti di Ivrea negli anni ’50-’60, al culmine del progresso industriale, che nella sua qualità di uomo subalterno, provato dalla guerra e dalla prigionia, incerto, disadattato ed estraneo all’ambiente in cui opera, rappresenta emblematicamente l’estraniamento della classe operaia privata di ogni potere decisionale, anche là dove le relazioni umane, come alla Olivetti, sembrano essere più democratiche. Ritornato dalla guerra e dalla prigionia in Germania e residente con la madre a Candia, sulle rive del lago, a pochi chilometri dalla grande fabbrica, viene assunto come operaio generico dopo un breve tirocinio, aspetta a lungo e

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invano l’aumento di qualifica e il passaggio di categoria, comincia a credere di avere intorno a sé solo nemici, si lascia andare a una crisi depressiva, partecipa agli scioperi contro lo sfruttamento, rimedia una sospensione dal lavoro e una lettera di licenziamento. Quindi ritorna a casa, al suo orto, per lasciarsi morire sulle colline intorno al lago. Ha capito che nessuno lo può aiutare. Volponi., come dirigente a Ivrea delle relazioni con il personale, conosceva bene la realtà industriale moderna, fatta di conflitti sociali e di sfruttamento, anche se mascherata dalle tecniche più sofisticate preparate dagli uffici Tempi e Metodi e volute dalla Direzione. Più tardi, nominato direttore della Fondazione Agnelli a Torino, cercò di far valere le sue idee progressiste e di promozione sociale di fronte alla legge del profitto instaurata dalla Fiat, idee bene espresse nella sua raccolta poetica Con testo a fronte, che non collimavano evidentemente con quelle della Direzione della Fiat e della Fondazione, da cui fu allontanato senza troppi riguardi. Nella poesia La deviazione operaia, tratta dall’opera Testo a fronte, Volponi bene definisce il concetto di “d minuscola” intesa come deviazione dalla norma e come forma di resistenza operaia allo sfruttamento scientifico del lavoro: 3. … d compare sempre a lato tremante su tutti i dati richiesti come indice della deviazione operaia dalla norma e dai testi; d deviazione involontaria, fatica, disattenzione e d deviazione volontaria: espedienti, pretesti di conflitto, opposizione …

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congiunta a un ritocco della curva dei cottimi elevante la percentuale remunerativa, non ebbe possibilità di successo. Più tardi, alla Olivetti, la retribuzione aumentò progressivamente con l’aumento del numero di macchine da scrivere che uscivano dalla linea. La consuetudine comportava il raggiungimento del 96% della produzione. La Commissione interna ottenne un più forte incremento del premio di uniformità per i punti di cottimo a partire dal 92%. Con Volponi si entra nel vivo e in modo coinvolgente nei rapporti tra Letteratura e Industria, abbandonando sofisticazioni letterarie e paraventi di comodo. Il suo esempio di partecipazione civile e politica (fu eletto come senatore per il Collegio di Macerata nelle file del PCI) ci fa capire quanto siano vicini letteratura e impegno sociale, senza afflati retorici, ma puntando sul reale espresso in forma poetica. Esempi di letteratura relativi all’industria sono i reportages diretti degli operai della Fiat esiliati da Valletta alla O.S.R. di Torino (Officina Sussidiaria Ricambi), diventata poi nel linguaggio corrente torinese Officina Stella Rossa, raccolti nel volume Fiat Confino, a cura di Aris Accornero, edizioni Avanti 1959, che hanno dato un valido contributo alla conoscenza della condizione operaia in Italia, dando origine più tardi al documento legislativo conosciuto come lo Statuto dei Lavoratori. Un’altra voce che si può allineare a pieno diritto nei rapporti tra letteratura e industria, non fosse altro che per le posizioni rivestite nella società torinese, è quella di Walter Mandelli, dapprima dirigente del PCI, poi segretario della Federmeccanica, che ha pubblicato il libro Ricordi di fonderia, edito da Marsilio. E’ un libro autobiografico interessante e che bene rispecchia, per l’ambigua personalità del protagonista, la vita operaia torinese negli anni del secondo dopoguerra.

In fabbrica si definiscono, si incasellano, si schedano e poi si ammoniscono e infine si licenziano gli elementi operai K1, K2, K3, ciascuno con le sue peculiarità. 4. … Non sia mai che un K3 abbia la libertà di circolare fra molti operai … Volponi ha creato le sue poesie sulla fabbrica traendole principalmente come ispirazione dall’opera dello psicologo Cesare Musatti Ricerche sui temi dell’organizzazione del lavoro – Studio sui tempi di cottimo di un’azienda metalmeccanica, frutto di una ricerca condotta alla Olivetti per conto dell’Azienda. Il capitolo II del lavoro di Musatti parla di tempo minimo e tempo medio, mentre il capitolo III accenna alla deviazione (d) e al coefficiente di correzione del tempo minimo. Il capitolo VI parla della determinazione del TC (tempo di cottimo) e del sistema salariale. Musatti ha cura di affermare in una nota che la sua ricerca si è svolta nell’estate del ’43, durante la guerra, nel momento in cui le condizioni generali del Paese stavano diventando particolarmente critiche. Per tale motivo il progetto, presentato alla Direzione generale dell’Ufficio Tempi e Metodi per una riduzione del numero delle ore lavorative,

Fa parte integrante del libro una memoria biografica scritta da Mandelli su suo padre Giovanni, dirigente Fiom negli anni del primo dopoguerra, e poi imprenditore in proprio, che considero una delle più valide descrizioni del trapasso dal mondo contadino del nord Italia alla società imprenditoriale moderna. Dopo Volponi, non vedo altri autori italiani di valore impegnati particolarmente nel rapporto letteratura e industria. Si può citare Aldo Busi con il suo romanzo Diario di un venditore di collants, un quadro ironico e veritiero del miracolo industriale nel nord-est d’Italia, vero paradigma dell’attuale società italiana, arrivista e senza scrupoli. Ultimo, ma non minore, il romanzo allegorico di Oddone Camerana Il Centenario (si riferisce al Centenario della fondazione della Fiat – 1899-1999), edito da Baldini e Castoldi che narra, come dice la fascetta, una vicenda ambientata tra le macerie del capitalismo, grottesca e

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corrosiva, nel linguaggio stereotipato dei managers, che raggiunge effetti esilaranti degni di Carlo Emilio Gadda. Come esempio di rapporto tra industria e letteratura citerei ancora il libro dell’ing. Giorgio Garuzzo, Fiat, i segreti di un’epoca - edito da Fazi Editore, con la prefazione di Alain Friedman, giornalista dell’Economist, che ci dà uno spaccato della storia della Fiat dagli anni ’70 alla fine degli anni ’90, vista da uno dei protagonisti. L’ing. Garuzzo, ricordiamolo, è stato per un certo tempo il numero 4 della dirigenza della Fiat. E amerei ricordare, con riferimento alla letteratura in lingua piemontese, un poeta-operaio, Luigi Valsoano, nato a Pont Canavese nel 1862 e morto a Torino nel 1906, di professione meccanico. Egli ci ha lasciato una piccola raccolta di rime piemontesi intitolata Fior del pavé. L’autore lavorò in Piemonte e poi emigrò in cerca di lavoro in Svizzera a La-Chaux-de-Fonds e poi a Liegi. Una delle sue poesie, pubblicate alla fine dell’800 sulla rivista Birichin, dal titolo Ij ciminieje (Le ciminiere), che ricorda i primi scioperi nelle industrie tessili, è diventata una famosa canzone cantata nei cori dei circoli operai: Guarda giù, an cola pianura, ij cimineje fan pa pì fum ij padron dla gran paura as fan goerné da coj die lum. * * coj die lum: così erano chiamati i carabinieri per il cappello a tricorno che ricordava un abatjour.

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Haiku classici giapponesi* §§§

tradotti in metro barbaro da FUJIMOTO YUKO ~ KOJIMA MASATAKA

§§§

Associazione Interculturale Italia-Giappone SAKURA E-mail: postmaster@sakuratorino.it www.sakuratorino.it * Per le traduzioni: © Yuko Fujimoto – Kojima Masataka. Le versioni italiane dei seguenti haiku possono essere riprodotte in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo alle seguenti due condizioni: 1. nessun vantaggio economico dovrà derivare dalla riproduzione delle medesime; 2. ogni citazione dovrà fare riferimento alla pubblicazione sul sito del «Nuovo Caffè letterario»: http://www.kore.it/CAFFE/caffe.htm

1


松尾 芭蕉 Matsuo Basho

1. Stagno vetusto ! Vi balza una rana. E in un pluffete ! è in acqua. [Furuike ya kawazu tobikomu mizu no oto]

2. Fine dell’anno : coi sandali ancora, e il cappello di paglia. [Toshi kurenu kasa kite waraji hakinagara]

3. Alto silenzio. Cicale. In un fremito fendesi il sasso. [Shizukasa ya iwa ni shimi-iru semi no koe]

4. Giorno d’inverno. Ed è un’ombra, in un brivido, sul mio cavallo. [Fuyu no hiya bajoo ni kooru kagebooshi]

2


5. Tenebra, il mare. Il berciare delle anitre, in bianchi barbagli. [Umi kurete honoka ni shiroshi kamo no koe]

6. Tempio di Suma. Odo un flauto celato ne l’ombra del bosco. [Sumadera ya fukanu fue kiku koshita yami ni]

7. Oh che baleni ! Gli aironi stridiscono nel buio fitto. [Inazuma ya yami no katayuku goi no koe]

8. Ormai son vecchio. Già l’alghe mi allappano i denti, e la sabbia. [Otoroi ya ha ni kuyateshi nori to suna]

9. Nella frescura ho trovato un ricovero, ed or m’assopisco. [Suzushisa o waga yado ni shite nemuru nari]

3


10. Per questa strada non scorgesi un’anima. Sera d’autunno. [Kono michi ya aruku hito nashi ni aki no kure]

11. Andiamo, forza !, a vedere, a vestire la candida neve. [Iza yukan yuki mi ni korobu tokoro made]

12. Squallido inverno. Pel mondo, ormai lugubre, sibila il vento. [Fuyugare ya yo wa hito-iro ni kaze no oto]

13. Dopo la pioggia un po’ smunti si levano i crisantemi. [Okiagaru kiku honoka naru mizu no ato]

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与謝蕪村 Yosa Buson

1. Torna l’inverno per il pruno bianco, nel chiaro di luna. [Shiraume no kareki ni modoru tsukiyo kana]

2. La prima neve la terra già vellica. Luna di canne. [Hatsu yuki no soko no tatakeba take no tsuki]

3. Kodaji, il tempio. Nel folto, una donnola. Al vespro, trifoglio. [Tasogare ya hagi ni itachi no Koodaji]

4. Fior di azalee su al borgo, ed il candido riso al vapore. [Tsutsuji saite katayamasato no meshi shiroshi]

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5. Ermo, l’inverno ; però, in fondo all’animo, Yoshino, i colli. [Fuyu-gomori kokoro no oku no Yoshino yama]

6. Sbocci di foglie. Dovunque si sentono rapide in fuga. [Ochi-kochi ni taki no oto kiku wakaba kana]

7. Tacita pioggia sul muschio rammemora tempi remoti. [Shigure oto nakute koke ni mukashi o shinobu kana]

8. Non lungi è l’ospite : ai passi ne scricchiano secche le foglie. [Machibito no ashioto tooki ochiba kana]

9. Stelle il ciliegio nel cielo dissemina illune dell’acqua. [Sakura chiru Nawashiro mizu ya Hoshi tsuki yo] 6


小林一茶 Kobayashi Issa

1. In questo mondo dall’alba già tribola pur la farfalla. [Yo no naka wa choo mo asa kara kasegu nari]

2. Io solo c’ero. Io, solo. E fioccava a l’intorno la neve. [Tada oreba oru tote yuki no furi ni keri]

3. Monti lontani negli occhi riverberan delle libellule. [Tooyama ga medama utsuru tombo kana]

4. Calma, lumaca : tu scàlalo, il Fuji, ma senza affrettarti. [Katatsuburi soro-soro nobore Fuji no yama]

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HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT

da

Fungi from Yuggoth/Funghi di Yuggoth 1929-1930

§ introduzione a cura di Franco Pezzini traduzioni di Massimo Scorsone illustrazioni di Walden §

Poesia “in Progress” – Kore Multimedia – Arshile edizioni

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A distanza di settant’anni dalla scomparsa, parlare di Howard Phillips Lovecraft (1890-1937),

uno dei padri indiscussi del fantastico novecentesco, significa anzitutto scostarne il mito da una serie di pregiudizi, distorsioni ed equivoci e ricondurlo all’ambito più corretto, quello propriamente letterario – una rilettura di cui proprio la poesia lovecraftiana aiuta a cogliere l’importanza. A partire dalla sua espressione più notevole, la raccolta di sonetti dei Fungi from Yuggoth (1929-30), che ben rappresenta i caratteri di fondo della sua poetica, alternando febbrili visioni cosmiche e idillio crepuscolare, enigmatiche sequenze oniriche e riflessioni esistenziali. Della raccolta si offrirà in quest’occasione un’ampia scelta, cercando di recuperare ai testi – già oggetto di edizioni italiane anche recentissime – il ritmo originale e l’assonanza del verso, per rendere la traduzione più prossima alle aspirazioni dell’Autore. §

XIV. Star-Winds

XIV. Venti siderei

It is a certain hour of twilight glooms, Mostly in autumn, when the star-wind pours Down hilltop streets, deserted out-of-doors, But shewing early lamplight from snug rooms.

V’è una cert’ora di uggia vespertina, Specialmente d’autunno, quando il vento Sidereo spira, e ne odi il rio lamento Di là dalla domestica cortina.

The dead leaves rush in strange, fantastic twists, And chimney-smoke whirls round with alien grace, Heeding geometries of outer space, While Fomalhaut peers in through southward mists.

Le morte foglie mettono lor piume, E il fumo, che già il cielo infosca, suole Voltolarsi in falotiche capriole Mentre Fomalhaut brilla tra le brume.

This is the hour when moonstruck poets know What fungi sprout in Yuggoth, and what scents And tints of flowers fill Nithon's continents,

L’ora stregata è quella, allor che il vate I funghi di Yuggòth in sogno coglie; Allor che inébriasi di aromati, e di spoglie

Such as in no poor earthly garden blow. Yet for each dream these winds to us convey, A dozen more of ours they sweep away!

All’alma flora di Nithòn predate. Ma, per quanti miraggi quel fugace Vento ci rechi, assai di più ne sface.

XX. Night-Gaunts

XX. “Scarni notturni”

Out of what crypt they crawl, I cannot tell, But every night I see the rubbery things, Black, horned, and slender, with membraneous wings, And tails that bear the bifid barb of hell.

Da qual sortiscan mai nere sentine Dire non so, per quanto quelle cose – Cornute, e viscide, e di penne ombrose; D’irto caudate, e di tartareo crine –

They come in legions on the north wind’s swell, With obscene clutch that titillates and stings, Snatching me off on monstrous voyagings To grey worlds hidden deep in nightmare’s well.

A notte veda giunger pellegrine Sulle ali di Aquilon ratte, d’irose Pinze munite, e per le calli ascose Dell’incubo mi menin lor rapine.

Over the jagged peaks of Thok they sweep, Heedless of all the cries I try to make, And down the nether pits to that foul lake

Di Thok lambendo le dentate creste Svolano, sorde a chi mercede chiama, Giù nell’abisso, e sino all’atra lama

Where the puffed shoggoths splash in doubtful sleep. But oh! If only they would make some sound, Or wear a face where faces should be found!

In cui lo shoggòth guazza in pigre peste. Ahi, ma se un verso lor mi fosse noto O volto avesser là, dov’è sol vuoto!

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ANNO XII NUMERO 284 - PAG IV

di

IL FOGLIO QUOTIDIANO

SABATO 1 DICEMBRE 2007

Gaia Cesare

D

ura minga”, si mormorava, fuori dai denti, negli ambienti della poesia milanese. “Non dura”, sentenziavano gli addetti ai lavori. Scuotevano la testa, alzavano le spalle, e commentavano: “Nicola Crocetti? Ha deciso di suicidarsi economicamente”. Poi cominciavano le previsioni, tutte fosche: “Chiude fra un anno, no a settembre, forse in estate”. Il più lapidario fu il più esperto, un editore di poesia: “A maggio chiude”, disse. E invece sono passati vent’anni. Vent’anni il prossimo gennaio e “Poesia”, la rivista al centro delle attenzioni di quei letterati affannati a cercare una data da incidere sulla sua lapide, è ancora lì, ed è oggi la più diffusa del suo genere in Europa. Una tiratura media di ventimila copie – con un picco di cinquantamila che ha segnato un record mondiale – duemila poeti pubblicati, tra cui 37 premi Nobel, ventimila poesie e migliaia di foto di poeti, la maggior parte mai viste prima. Un miracolo italiano, insomma. Un miracolo editoriale che approda ogni mese in molte delle maggiori università europee e americane. Un miracolo che è il frutto di almeno due grandi intuizioni e che ha il copyright di un solo uomo, un signore mezzo italiano e mezzo greco che nel 1988, contro ogni previsione, decide di dare alla poesia lo spazio che non aveva mai avuto fino ad allora in Italia. Nicola Crocetti un lavoro ce l’ha già, fa il giornalista, ma da quando era ragazzino ha sempre avuto in testa la poesia. Niente a che vedere con l’aspirante poeta-letterato, col giovanotto che chiede in regalo al papà ricco e famoso una rivista su cui pubblicare i propri versi. Niente a che fare nemmeno con i gruppuscoli di aspiranti poeti, che pubblicano una rivista di poesia, magari chiedendo qualche inedito a firme prestigiose a far da contorno ai loro versi. “Mi accorsi ben presto che c’erano troppe persone che scrivevano poesia e poche che la leggevano. E io decisi di schierarmi con questi ultimi”, spiega Crocetti. La sua prima grande intuizione è proprio questa: la poesia – al di là di quello che comunemente si pensa, della convinzione che si tratti di un fenomeno di élite – in realtà è un imponente fenomeno di massa. Digitate “poetry” su Google, il più grande motore di ricerca su Internet. Il risultato è sorprendente: 124 milioni di pagine (un terzo della parola “God”, Dio, che ne conta 340 milioni). Provate con “poesia”: si sfiorano i 44 milioni e – manco a dirlo – la rivista di Crocetti è la prima della lista. “In Italia ci sono centinaia di migliaia di persone che scrivono, e il fenomeno è diffuso a livello mondiale. Ma io mi chiesi: e

La prima intuizione di Crocetti fu di trasformare la “poetry” in un caso da copertina. Ora le sue pagine sono le più diffuse in Europa quella minoranza che vuole leggere della buona poesia? Cosa deve fare? Dove deve andare?”, racconta Crocetti. Qui nasce la sua seconda brillante intuizione. “All’epoca in Italia c’erano 380 riviste letterarie, molte delle quali si occupavano prevalentemente di poesia, ma che tiravano poche centinaia di copie e avevano una diffusione circoscritta. Io pensai alla provincia, ai centri dove non ci sono librerie. E decisi che la mia rivista doveva essere distribuita in edicola”. Una scelta strategica, fatta vent’anni fa, una buona intuizione di marketing che ha dato i suoi risultati. E lo ha fatto con un budget ridottissimo. “Ovviamente il problema erano i soldi. Un mio amico, un commercialista di Roma, appassionato di poesia, mi disse: guarda che me ne intendo, se vuoi fare quello che hai in mente ti ci vogliono duecento milioni. Io te ne do trenta, il resto devi cercarlo tu. Cercai e non trovai. Tornai dal mio amico e gli dissi: se mi dai i tuoi trenta me li faccio bastare. Mi diede del matto, ma tre mesi dopo l’uscita ‘Poesia’ aveva venduto quarantamila copie. Tre anni dopo, al suo apice, raggiunse cinquantamila copie di tiratura”. Qualcuno potrebbe insinuare che due follie si sono miracolosamente unite, quella dei poeti e quella di un editore squattrinato. “Ghiannis Ritsos, uno dei miei autori più amati, definiva i poeti ‘gli inconsolabili consolatori del mondo’”. Ma a voler essere me-

1970. Lo scrittore Giuseppe Ungaretti in una delle sue ultime foto. Accanto a lui la compagna Nella Mirone

VERSETTI & CROCETTI C’è un editore italiano che ha messo sul red carpet un fenomeno da 20 mila copie e da 37 premi Nobel. La rivista si chiama “Poesia”, compie 20 anni e festeggia un record mondiale no aulici – dice Crocetti – “pazzi lo sono di certo”. “Dedicano la vita a un’attività che se sono fortunati dà loro tre cose: 1) la pubblicazione, per la quale – spiega – devi sottoporti a umilianti richieste e attese; 2) una recensione, per la quale devi sottoporti a umilianti richieste e attese; 3) un premietto, per il quale devi sottoporti a umilianti richieste e attese. Ma non è la follia che io e i poeti abbiamo in comune, semmai la passione. Con una differenza: quella dei poeti è spesso una passione molesta, la mia è una passione generosa. Loro chiedono e io do”. Crocetti è un gentiluomo dalla battuta pronta e dallo stile un po’ anglosassone. A tratti timido, a tratti persino irriverente. La sua decisione di trasformarsi in editore-direttore, dopo due difficili esperienze iniziali, quando affidò la direzione della rivista a due poeti, la liquida così, e tanto basta a capire di che pasta è fatto, un po’ sognatore, un po’ Peter Pan, ma insieme anche lucido e concreto: “Non si possono affidare le proprie utopie agli altri, perché ne fanno scempio. Far dirigere una rivista di poesia a un poeta è come aprire una pasticceria e darla in gestione a dei bambini golosi. Ti mangiano i pasticcini e ti mandano in bancarotta”. Per due anni, quando era trentenne, Crocetti ha girato in lungo e in largo gli Stati Uniti, dopo avere vinto una borsa di studio: “L’America mi ha insegnato a essere pragmatico e professionale. E a pensare in grande”, dice. “La Grecia mi ha educato all’arte e alla bellezza. Non si può essere greci impunemente, dico io”. E per la sua Grecia ha cominciato a occuparsi di poesia, traducendo una settantina di raccolte di versi. Dietro la storia di questo “piccolo editore di piccolo successo” (come dice lui), di questo “self-made man” sconosciuto al grande pubblico, c’è un pezzo di vita che comincia a Patrasso e che conosce presto una brusca svolta. E’ la storia di uno sradicamento, di una famiglia “interrotta”, costretta a lasciare la Grecia perché gli italiani, dopo l’invasione di Mussolini prima e di Hitler poi, finita la guerra, devono pagare. “Mio padre era un proprietario terriero, figlio di immigrati italiani, che in Grecia avevano fatto un po’ di fortuna. Era l’unico di sette fratelli che non aveva voluto prendere la cittadinanza greca solo perché avrebbe

dovuto rinunciare alla religione cattolica e diventare ortodosso, come imponevano le leggi di allora. Finita la guerra gli confiscarono tutti i beni e lo rispedirono ‘al suo paese’. Peccato che né lui, né mia madre né tanto meno io e la mia gemella sapessimo una parola d’italiano”. Crocetti non ama raccontare di sé, né di quel pezzo di passato, che pure spiega come da quel bimbo di cinque anni sia venuto fuori un uomo che ha voluto dedicare la vita alla poesia, cercando di lasciarsi alle spalle i ricordi di anni vissuti tra un collegio e

l’altro, a Firenze, nell’Italia distrutta del dopoguerra. “Ricordo che un giorno di Pasqua mia mamma lavorava e non poteva portarmi a casa, né venirmi a trovare. In collegio eravamo rimasti in due su trecento: io e un ragazzo orfano semiparalizzato dalla poliomielite. Allora i sorveglianti decisero di invitarci a pranzo con le loro famiglie. Fu il giorno più bello della mia infanzia, quella tavola ricchissima, imbandita di ogni prelibatezza. Poi ci portarono al cinema. Fu la mia prima volta, impossibile dimenticare”. Da quel pranzo di Pasqua degli an-

Nicola Crocetti è nato nel 1940 a Patrasso, in Grecia

ni Cinquanta agli inviti recenti negli Stati Uniti, alla Lecture su “Poesia” che fu invitato a tenere all’Università di Yale, di acqua sotto ai ponti ne è passata. Cinque Premi Nobel hanno accettato l’invito di far parte del comitato di redazione della sua rivista. Joseph Brodsky, russo esule in America, uno dei maggiori poeti contemporanei, alla lettera che lo invitava ad aderire, replicò così: “I do not only accept, but I’m honoured”. “Il Nobel irlandese Seamus Heaney, invece, s’informò: ‘Do I have to work? Devo lavorare?’. Gli risposi che era una carica onorifica, e accettò”. Crocetti ha compiuto anche il miracolo di far entrare la poesia in Parlamento. Irene Rivetti, all’epoca presidente della Camera, gli chiese di organizzare una manifestazione di poesia a Montecitorio. “Fu come se un alto prelato entrasse ufficialmente in un bordello”, dice lui. Ogni mese sulla scrivania di Crocetti si accumulano centinaia di libri e manoscritti. Persone di ogni genere ed età che vogliono realizzare il sogno numero uno, la pubblicazione. “Ogni rifiuto è una fucilata che spari, un nemico che ti fai per il resto della tua vita. Ma io ho solo una scialuppa di salvataggio che porta venti persone, e su cui vogliono salire in cinquantamila. O ci salviamo in venti o anneghiamo tutti”. Tra coloro che hanno evitato l’annegamento c’è Alda Merini, che Crocetti riscoprì dopo anni di oblìo, pubblicando un’antologia curata da Giovanni Raboni, che la definì “uno dei più bei libri di poesia degli ultimi quarant’anni”. Ci sono Marina Pizzi, Antonella Anedda, Maria Grazia Calandrone e altri poeti oggi noti. Tante donne, sì, perché “se la cultura ha una speranza di salvezza – dice Crocetti – questa sono proprio le donne, il 70 per cento dei lettori”. Alla fine del 2002 la rivista americana “Poetry”, che in un secolo di vita ha pubblicato i maggiori poeti del mondo, riceve una donazione di cento milioni di dollari, e dal più povero diventa il più ricco magazine d’America. A offrire quella cifra enorme è Ruth Lilly, erede del colosso farmaceutico Eli Lilly, produttore del Prozac, il più diffuso farmaco antidepressivo del mondo. Ruth Lilly fece quella donazione nonostante trent’anni prima i suoi versi fossero stati rifiutati da “Poetry”. Ma per il direttore, Joseph

Parisi, in carica da trent’anni, quella lotteria si trasformò in un disastro. Arrivarono decine di migliaia di richieste di pubblicazione, cominciarono i litigi all’interno della redazione circa l’utilizzo di quel tesoro, l’accusa dei poeti “censurati” di voler far tacere le voci nuove della poesia americana, e in un anno il capitale si ridusse del 40 per cento per investimenti sbagliati. Una debacle, insomma. Tanto che qualche maligno ha avanzato il sospetto che la donazione della Lilly fosse più una polpetta avvelenata che un atto di generosità. Perché come poteva la donna più ricca d’America ignorare gli effetti che una somma così spropositata avrebbe potuto scatenare? “Quando lessi quella notizia sul ‘New York Times’, mi ricordai che avevo ricevuto anch’io una lettera di Ruth Lilly qualche anno prima della sua donazione a Poetry”, racconta Crocetti. “Allora ignoravo chi fosse. La signora aveva letto un mio annuncio sull’inserto domenicale del ‘New York Times’ in cui cercavo anch’io un sostegno economico per la mia rivista, e mi scrisse chiedendo qualche copia-saggio di ‘Poesia’. Le inviai una decina di numeri, ma non successe niente: verosimilmente, una donazione in Italia non sarebbe stata deducibile dalle tasse. Ma, visto quello che è successo a ‘Poetry’, penso che forse ‘Poesia’ l’ha scampata bella”. Ci sono gli aspiranti poeti, insomma, che rischiano di trasformarsi in nemici e poi ci sono i fedelissimi lettori e abbonati a “Poesia”. Tra loro, molti professionisti, avvocati che girano per il Tribunale di Milano con la rivista sotto il braccio, ci sono giovanissimi (12-14 anni!) e perfino due monache di clausura: “Ricevo regolarmente la richiesta di una madre superiora, l’unica a poter autorizzare una spesa per conto di chi ha fatto voto di povertà”, spiega Crocetti. E c’è anche qualche carcerato: “Mi scrivono di essere ‘momentaneamente limitati’ nella loro libertà di movimento e mi chiedono di inviare le copie a un indirizzo, che poi ho scoperto essere quello del carcere di Rebibbia”. “Poesia” che da un paio d’anni è stampata a colori (ma è stata una scelta obbligata, dopo che al tipografo si era rotta l’unica macchina che stampava in bianco e nero) piace. E piace anche perché Crocetti dà un volto ai poeti. O forse piace nonostante questo”. E’ vero, a volte le foto dei poeti sono una piccola ‘galleria di mostri’. Una volta il distributore mi chiama e mi dice: Crocetti, perché ogni tanto non mette in copertina una bella signorina? Ma in un mondo in cui le edicole grondano di immagini con modelle e veline, la mia è una scelta ostinatamente in controtendenza. Faccio vedere le facce dei poeti. Che piaccia o no”.

Con Ungaretti ci fu un rapporto legato a una foto che nessuno avrebbe mai dovuto pubblicare. L’unico che ebbe il permesso fu lui Per avere alcune delle foto che ha pubblicato, Crocetti ha dovuto penare non poco. La maggior parte sono generosamente offerte da Giovanni Giovanetti, fotografo di Pavia, che nell’archivio della sua agenzia “Effigie” conserva circa 115 mila scatti. Poi ci sono quelle inedite, come i celebri scatti “rubati” che immortalano Giuseppe Ungaretti mentre viene imboccato dalla sua ultima compagna, Nella Mirone. “Vidi i provini di quelle foto, le ultime scattate al poeta (che morì pochi giorni dopo), nell’archivio della fotografa milanese Paola Mattioli. Mi disse che non aveva mai stampato quelle foto e che non le avrebbe mai pubblicate senza il permesso di Nella Mirone. Rintracciai l’ultima compagna di Ungaretti, che ai tempi della loro storia d’amore era molto più giovane di lui, e che dopo la morte del poeta si era ritirata in Sicilia. Non si ricordava nemmeno di quelle foto, ma rispose che non voleva fossero pubblicate, erano troppo private. Tornai all’attacco qualche tempo dopo. ‘Ma sì, dopotutto la sua è una rivista seria’, mi disse rassegnata: ‘Faccia quello che vuole’. Chiesi la foto a Paola Mattioli, che me la regalò. Quella copertina è uno dei piccoli vanti della mia rivista perché in quell’immagine, che fece molto arrabbiare la figlia di Ungaretti, Ninon, c’è molta tenerezza e poesia”. Poesia, sì, quel vizio assurdo di Crocetti che a gennaio compie vent’anni.


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