numero 11.
settembre 2005
Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A. 48014 Castelbolognese (RA) ITALY via Emilia Ponente, 1000 www.cerdomus.com Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Jan Guerrini/Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Redazione Valentina Baruzzi Giuliano Bettoli Stefano Borghesi Viola Emaldi Antonella Falco Italo Graziani Vanna Graziani Giorgio Melandri Manlio Rastoni Serena Togni Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Giuliano Bettoli Archivio Italo Graziani Archivio San Patrignano Valentina Baruzzi Jan Guerrini si ringraziano _ Cervia Volante _ Luigi Rivola _ Comune di Modigliana _ per le immagini del Sangiovese e della Mora romagnola: fotografo Fabio Liverani foto tratte da "Viaggio nei prodotti e nella cucina della Valle del Lamone", a cura di Remo Camurani, Fabio Liverani e Giorgio Melandri, Sesto Continente Editore _ per le immagini di San Leo e sulle opere di Pomodoro: Comune di San Leo, fotografo Anna Rita Nanni _ per le foto dell’opera di Cagnacci: fotografo Giorgio Liverani si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca/Divisione immagine Cerdomus Traduzioni Traduco, Lugo Stampa FAENZA Industrie Grafiche ŠCERDOMUS Ceramiche SpA tutti i diritti riservati Autorizzazione del Tribunale di Ravenna nr. 1173 del 19.12.2001
L’
autunno appartiene alla vendemmia, un rito e tradizione intimamente
sentito nella madrepatria del Sangiovese.
Per onorarlo,
ee in questo numero dedica al vino uno spazio importante.
A coloro che attendono la stagione di transizione per antonomasia con l'aspirazione di farsi abbagliare dal colore acceso del fogliame autunnale
ee racconta
la storia dei piĂš grandi e antichi tra gli attori di questa coreografia naturale. Rimarca, poi, approfittando della stagione prediletta dai romantici, la sua inclinazione per gli animi inquieti, i fatti inconsueti, le vicende singolari. E se sono i fanciulli a condannare, tradizionalmente per primi, le raffiche di vento che rapiscono l'estate e la eclissano per un intero ciclo annuale, potrebbe consolarli l'idea di come siano in fondo le stesse che innalzano piĂš vicino al cielo gli aquiloni. La Redazione di
ee
Autumn is the time of harvest, a rite and tradition with a deep-rooted significance for the home of Sangiovese. As a tribute, this issue of ee dedicates a little extra space to wine. For those who always look forward to the season of transition par excellence for the dazzling, fiery colours of autumn foliage, ee has the story of the largest and oldest trees in the region. Also, as autumn is the favourite season of romantics, our other articles touch on such topics as troubled genius, incredible facts and unusual adventures. And if children are usually the first to feel the pinch of the squalls that sweep summer away for another year, they can take comfort in the thought that the very same wind is good for flying kites... The editorial staff of ee
Editoriale
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acqua terra fuoco aria
Manlio Rastoni
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gli alberi monumentali che abitano la Romagna
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I secoli di legno Per lungo tempo a proteggerli è bastato il naturale senso foto d’archivio
di rispetto che infondono e quella sorta di sacralità che da sempre emanano agli occhi di chi si trova al loro cospetto.
Gli alberi sono liriche che la terra scrive sul cielo. Noi li abbattiamo e li trasformiamo in carta per potervi registrare, invece, la nostra vuotaggine. Kahlil Gibran
Ora che la loro voce pare aver perso l’antico carisma, si è reso necessario fissare sulla carta una legge, in passato tacita, per salvaguardarli; per proteggere gli ultimi alberi centenari.
L
a Regione Emilia-Romagna, con specifica legislazione, ha inteso procedere al censimento degli alberi più significativi per imponenza, bellezza e longevità, appartenenti alle specie
arboree, sia indigene che naturalizzate. In Romagna ne sopravvivono qualche centinaio, spesso abbarbicati ad un poggio o torreggianti a fianco di un’antica casa colonica, più raramente inseriti all’interno del tessuto urbano, esibiti come status symbol vegetali nella corte di un antico palazzo o risparmiati chissà come dall’edilizia selvaggia. La loro età pare conferirgli quasi un carattere, un’individualità, a volte un ruolo immaginario. Un buon numero di questi tronchi che hanno saputo così bene attraversare i tempi sono quercie, specie che, non a caso, viene spesso presa a simbolo dell’intera categoria arborea, mostrando in larga misura attributi di solidità e longevità. Un superbo esemplare di questa famiglia, precisamente della specie Quercus pubescens, si innalza solitario oltre i 25 metri a Sarsina (FC), nella frazione Montriolo (località Il Poggio) mentre a Brisighella (RA), un altro immenso albero della stessa specie, dall’alto dei suoi 15 metri d’altezza, sembra voler abbracciare maternamente le case che gli sorgono intorno con la sua colossale chioma di rami sostenuti saldamente da un impressionante tronco che misura oggi più di un metro e mezzo di diametro. In località Fratta Terme a Bertinoro (FC), emblema della collina romagnola, invece, un Quercus sp, che raggiunge la ragguardevole altezza di 24 metri, si conserva ritto sul declivio da cui domina la vallata, mentre non troppo lontano, almeno in linea d’aria, un Quercus pubescens (in località Farneta a Tredozio FC) oppone da secoli al vento che spazza le colline il suo fusto, che arriva a misurare 135 centimetri di diametro. A valle, spesso isolati come antichi baluardi in mezzo alla pianura riposano i vecchi platani romagnoli: nella “bassa”, come il Platanus hybrida di S. Pier Laguna, nel comprensorio di Faenza (RA), con la sua significativa altezza di 26 metri, o, sulla
For centuries, the natural sense of respect they inspire, the almost sacred aura they emanate, was enough to protect them. But now that their voice seems to have lost its power, a law that was once tacitly observed by all has finally been set down on paper to preserve the region’s remaining ancient trees. As part of a special law introduced recently, the region of Emilia-Romagna conducted a census of its most important trees in terms of beauty, size and longevity. The census covered all species, both indigenous and exotic. Several hundreds of these trees were found to be surviving, alone on hilltops or towering above old farmhouse roofs, or more rarely in the thick of towns and cities, exhibited as organic status symbols in the courtyard of an old palazzo or somehow miraculously spared by the onslaughts of development. Their age seems almost to endow them with a character, an individuality, even a function. Many of these long-distance runners of the tree world are oaks, a species known for its longevity and powers of endurance whose form, perhaps significantly, often functions as an icon of the entire family. One superb example, of the species Quercus pubescens, rises alone and magestic to a height of over 25 metres in Montriolo, Il Poggio, Sarsina (FC). In Brisighella (RA) another immense oak,
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via del mare (in località Carpinello, provincia di Forlì), il Platanus orientalis che fa bella
WOOD OF AGES_ THE GIANT TREES OF ROMAGNA
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15 metres high, seems to hold the houses which surround it in a maternal embrace with its colossal mesh of branches which are carried stoutly by a remarkable trunk which is now over a metre and a half in diameter. In Fratta Terme, Bertinoro (FC), is that emblem of the Romagnol countryside, a Quercus sp., which rises to the impressive height of 24 metres on a hillside overlooking the valley, while not too far away – as the crow flies, at least – a Quercus pubescens (in Farneta, Tredozio in FC province) has for centuries resisted the winds that scour the hillside thanks to a trunk that is 135 centimetres wide. Downriver, standing in proud isolation like ancient bulwarks in the middle of the plain, are the old plane trees of Romagna: in the lowlands is the 26-metre high Platanus hybrida of S. Pier Laguna near Faenza (RA), while nearer the sea in Carpinello, Forlì province, is a Platanus orientalis with a trunk which is an incredible 2 metres in diameter. From planes to poplars – the name derives from the Latin populus, a designation which according to legend has its origin in the noise made by its dense foliage when the wind passes through it, said to be uncannily reminiscent of the hum of voices of people – the popolo – gathered in a distant square. Some particularly “loud” examples of this tree are still to be found in Romagna, such as the giant “twins” (the difference between them in height is a matter of just a couple of centimeters) of Pisignano near Cervia (RA), and in Roncadello, Forlì province (FC), whose poplars stand an impressive 30 metres tall and have trunks measuring a metre and a half in diameter. But no account, however short, of the trees of Romagna would be complete without a mention of the last remnants of the immense pine forests which covered the region for so many centuries. If we had to choose a single pine tree as symbol of this largely vanished heritage, it would have to be the gigantic Pinus pinea which for centuries has loomed over Cesena’s Via S. Carlo: an enormous specimen of 28 metres in height which, when seen from a distace, almost seems to subvert the laws of perspective. In Olmatello, province of Faenza, are some equally impressive yet slightly shorter pines of the same species who year after year look on at the slowly changing landscape around them with the impassiveness of creatures aloof from mortal futilities such as the passage of time. Down at sea level in Cattolica (RN) is an impressive example of those rare and ancient trees which have survived despite standing right on the middle of a built-up area: an Ailanthus altissima, commonly known as the paradise tree, which rises to a height of 20 metres among the villas of the residential zone it occupies. It’s a comforting paradox that whether on account of their height or their volume, like the mulberries whose branches range outwards almost to the point that they’re difficult to fit into the lens of a camera, these last surviving giant trees – oak, plane, pine, cedar, linden or horsechestnut – have one advantage over their infinitely more numerous brothers and sisters in the virgin forests and tropical jungles of the world in that their own rarity seems to be their closest ally. And as the giant trees grow steadily rarer, so the survivors grow in value – perhaps even in the eyes of those who so unthinkingly condemned them to their involuntary isolation.
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mostra del suo impressionante tronco di 2 metri di diametro. Il nome dato al pioppo dagli antichi romani: “populus”, secondo una leggenda deriverebbe dal rumore che la sua folta chioma produce col soffiare del vento, molto simile al brusio del popolo riunito in una piazza. Ebbene vi sono ancora alcune di queste “piazze” disseminate in Romagna, ad esempio i due giganti “gemelli” (vista la differenza delle loro dimensioni misurabile in centimetri) che troviamo a Pisignano, nei pressi di Cervia (RA) e a Roncadello, in provincia di Forlì (FC), accomunati dalle colossali dimensioni dei loro 30 metri d’altezza e del metro e mezzo di diametro del tronco. Non si può, tuttavia, illustrare un pur superficiale scorcio degli alberi che abitano la Romagna senza citare gli ultimi discendenti delle sconfinate pinete che per tanto tempo hanno fatto ombra a questa terra. Se dovessimo battezzare un simbolo di questo retaggio, sarebbe indubbiamente il gigantesco Pinus pinea che osserva da secoli coloro che percorrono Via S. Carlo a Cesena: un ciclope di 28 metri d’altezza che, osservato da lontano, pare sovvertire le leggi della prospettiva ottica. Dalle alture dell’Olmatello, in provincia di Ravenna, alcuni suoi fratelli per così dire “minori” osservano invece impassibili il mutare lento del panorama, anno dopo anno, con l’imperturbabilità di chi non è toccato da futilità quali il passare del tempo. Molto più in basso, esattamente a livello del mare (a Cattolica RN), un esponente della rara categoria di piante secolari che sono sopravvissute all’interno di una zona urbana: un Ailanthus altissima, nota volgarmente come albero del paradiso, con i suoi 20 metri di altezza si misura con le palazzine della zona residenziale con cui convive. Che si sviluppino in altezza o, che come il gelso, allarghino la loro chioma al punto da non poter quasi essere contenuti dall’obiettivo di una macchina fotografica, per gli ultimi giganti protetti, siano querce, platani, pini, cedri, tigli o ippocastani, rispetto agli altri simili monumenti lignei che in maggior numero ancora popolano foreste vergini o selve lontane ed esotiche, paradossalmente il migliore alleato pare essere la propria rarità. Il loro diminuire progressivamente di numero, rende infatti gli ultimi superstiti via via più preziosi agli occhi, talvolta, anche di coloro che li hanno condannati ad un’involontaria solitudine.
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Ogni giorno quell’albero mi dà pensieri di gioia. Antico poeta cinese
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D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda. Italo Calvino
È stupefacente come un paese di nemmeno 20.000 anime possa rappresentare il compendio di un territorio e della sua cultura.
E
ppure, è il caso di Santarcangelo. Fondata dai romani più di 200 anni prima di Cristo, sul monte Jovis, a una decina di chilometri da Rimini, la città conserva perfettamente, nell’impianto urbanistico e nelle architetture, le tracce della
sua storia. Attraverso alterne vicende Santarcangelo fu soggetta a domini diversi, ma gli elementi che ancora la caratterizzano giunsero in particolare da due governi: quello dei Malatesta e quello dello Stato Pontificio. I primi regnarono dalla metà del ‘200 per circa due secoli, periodo in cui fortificarono la città con la costruzione della cinta muraria e del primo nucleo della rocca, mentre lo Stato della Chiesa, pur avendo dominato in maniera discontinua, lasciò diverse testimonianze architettoniche fra le quali annoveriamo, come particolarmente significative, l’arco trionfale e la piazza Ganganelli, eretti durante il ‘700, in onore del Papa Clemente XIV, nativo di Santarcangelo. Molto suggestivo appare anche il vecchio borgo, situato nella parte alta del paese, ma ancor più affascinante è ciò che si trova al di sotto. Scavate dentro al monte Jovis, infatti, si trovano più di un centinaio di grotte tufacee. Si tratta di cunicoli sotterranei che ancora oggi rappresentano il mistero della città poiché non è stata accertata quale fosse la destinazione di tali spazi, forse luogo di culti precristiani, forse solo uno spazio adibito a depositi e cantine. In questo contesto diventa importante l’opera di valorizzazione della storia e delle origini di Santarcangelo, ben rappresentata da due notevoli istituzioni cittadine: il Museo Storico Archeologico ed il Museo Etnografico Usi e Costumi della Gente di Romagna. La presenza di tali strutture, unita all’impegno continuativo profuso dalla città nell’organizzazione di importanti iniziative ed eventi culturali, confermano l’intento di Santarcangelo di voler assurgere al ruolo di centro rappresentativo della cultura romagnola. Ecco quindi che all’interno delle sue vie troviamo rinomate osterie e prestigiosi ristoranti, simboli della celebre ospitalità romagnola, nonché della cucina tipica dell’entroterra. Anche le fiere, famose sono quelle di S. Michele e di S. Martino (ancora oggi frequentatissime), in questo contesto paiono proseguire una tradizione legata allo scambio dei prodotti della terra, frutto di un’economia locale da sempre agricola. Indispensabile, inoltre, citare la produzione di tele stampate a ruggine della Bottega del Mangano, consolidamento e continuazione di un’antica arte tipi-
Va l e n t i n a B a r u z z i
camente romagnola tramandata attraverso secoli.
Santarcangelo di Romagna
Santarcangelo, dunque, ormai divenuto un centro noto e rinomato, celebra le tradizioni e le arti di tutta la Romagna, conferendo ad esse prestigio e fascino. Alla ricchezza delle proposte e delle iniziative culturali, si aggiungono infine, a confe-
t ra d i z i o n e p o p o l a re e l e v a t a a p re s t i g i o
rire maggior lustro alla città, i nomi dei tanti artisti a cui la cittadina ha dato i natali.
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SANTARCANGELO DI ROMAGNA_ WHERE LOCAL TRADITION EQUALS UNIVERSAL PRESTIGE It’s amazing how a town of not even 20,000 souls can so completely encapsulate the appeal of a whole region and its culture. And yet Santarcangelo manages to do exactly this. Founded by the Romans over 200 years before the birth of Christ on a site known as mount Jovis, ten kilometres from the modern Rimini, the town preserves its history impressively intact in its architecture and urban fabric. Santarcangelo has had diverse rulers over the centuries, but the heritage which today gives the town its character dates from two periods in particular: those of the Malatesta dynasty and the Papal States. The Malatesta dominion began in the middle of the 13th century and went on for some two centuries, during which time the town walls and the early core of the castle were built. As for the Papal States, although they only exercised an intermittent control over Santarcangelo they left a considerable body of architectural heritage, including the triumphal arch and piazza Ganganelli, built in the 18th century in honour of pope Clement XIV, a native of Santarcangelo. If the old town retains much all its charm, however, more fascinating still is the lower part of Santarcangelo. Here, in the tufa rock of the mons Jovis of the Romans, are over a hundred underground grottoes. Why exactly they are there is a mystery even today – were they used by pre-Christian cults, or were they simply storage chambers?
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Questions like these add merit to the work of two of the town’s most prestigious institutions, the Museo Storico Archeologico and the Museo Etnografico, a folk museum dedicated to the history and tradition of Romagna. These museums function within an important and ongoing programme of major cultural events and initiatives, and reassert the determination of Santarcangelo to play a central role in the culture of Romagna. Down in the streets, meanwhile, a number of prestigious restaurants attest to the celebrated hospitality of Romagna and serve truly excellent local cuisine. Santarcangelo is also famous for its fairs: S. Michele and S. Martino are as busy today as they ever were, and play a major role in perpetuating a strongly agricultural tradition based on a local economy. Also impressive are the printed fabrics of Bottega del Mangano, unique to Romagna and produced here for centuries. Santarcangelo has managed to establish itself as a major cultural centre by celebrating the arts and traditions of the whole of Romagna, and the region gains in prestige and appeal as a result. The town itself, of course, has the added lustre of being the birthplace of so many famous artists.
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Non c’è più da un pezzo, il bellissimo
PONTE DELLE DUE TORRI_ THE BRIDGE THAT BROKE THE VIA EMILIA It still seems like yesterday – even though 163 years have passed. After sixty hours of non-stop rain, the celebrated Ponte delle Due Torri collapsed under the weight of an irresistible torrent. On the morning of 14 September 1842, Faenza woke newly severed from Borgo Durbecco: the bridge that for 600 years had carried the ancient road of Via Emilia across the river Lamone was suddenly no more than a spectacular heap of rubble. Crowded together on the opposing banks of the river, the inhabitants beheld, dumbfounded, the ruin. Since that day no fewer than four bridges have straddled this stretch of the Lamone. And yet, even today, for the inhabitants of Faenza or of the Borgo across the river, when it comes to the bridge over the Lamone what springs to mind is Ponte delle Due Torri, the bridge of the two towers. And in most cases, without ever having seen it except in the drawings of the artist Romolo Liverani (see ee N°9). Ponte delle Due Torri was not the first bridge across the Lamone, of course. The bridge built by the Romans was probably destroyed during the siege of Faenza by Frederick II from 1240 to 1241. Some decades later Faenza had built its “own” bridge, a 70-metre structure of squared pietra spungone stone most of which had been salvaged from the old Roman bridge. A hundred years later the ruling Manfredi dynasty embellished the bridge with their addition of its two stone towers, one at the entrance to the town and the other straddling the bridge above the second pier. Yet a hundred years later they made it even stronger and more beautiful by adding battlements and loopholes to both towers. After the great disaster of 1842, a provisional replacement in wood was built across the Lamone a little upstream. “Provisionally”, it was still there 20 years later! Not until 1862 did work on the new and definitive – and stone – bridge begin. But it soon became clear that the cost of finishing the bridge was going to be unsustainable, and the town decided to cut its losses and threw a metal strut across the river: it collapsed on the day it opened. Not until 1865 was a new, Neville-type bridge built. After dodging hundreds of Allied bombs, the bridge was blown up by retreating German forces in November 1944. This was the iron bridge I remember from my childhood; for six years it was replaced by a functional and inglorious bridge built across the Lamone by the Allies in their last great offensive against then Nazis in April 1945. Finally, in 1951, the present-day reinforced-concrete confection was built to plans by the architect Antenore. The new bridge is called Ponte delle Grazie in honour of Faenza’s patron, Madonna of the Graces. But ask us about the bridge over the Lamone and we inevitably think of Ponte delle Due Torri. One parish, Rione Bianco del Borgo Durbecco, has even made the bridge its local emblem. Plans (or dreams?) to rebuild the original a little further upriver still surface now and again. For even if it’s been gone for so long, the Ponte delle Due Torri is still the real, the only bridge over the Lamone.
Giuliano Bettoli
Il Ponte delle Due Torri v i c i s s i t u d i n i d i u n t ra t t o s o s p e s o d i V i a E m i l i a
Ponte delle Due Torri. Sono ormai 163 anni da quel giorno che, dopo sessanta ore di pioggia dirotta, una fiumana terrificante lo fece crollare.
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visamente divisa dal Borgo Durbecco: il ponte che per 600 anni, portan-
do la Via Emilia sul dorso, aveva valicato il fiume Lamone, era solo una spettacolare rovina. I faentini da una parte ed i borghigiani dall’altra si accalcarono sulle due rive, impietriti dal disastro. Altri ponti, da allora, quasi quattro, si sono susseguiti tra quelle sponde. Eppure, ancora oggi, noi di Faenza e del Borgo, se ci vien da pensare al ponte sul Lamone, nel nostro immaginario è il ponte delle Due Torri che ci salta davanti agli occhi. E pensare che non l’abbiamo mai visto, se non nei disegni di quel grande fotografo disegnatore che fu Romolo Liverani (vedi ee N°9). Sul Lamone, è ovvio, c’era stato anche un ponte romano, distrutto, pare, durante l’assedio di Federico II, tra il 1240 e il 1241. Pochi decenni dopo, i foto d’archivio
faentini avevano costruito il “loro” ponte, lungo 70 metri, in blocchi squadrati di “pietra spungone”, per la gran parte recuperati dal vecchio ponte romano. Poi i signori di Faenza, i Manfredi, cent’anni dopo, vi avevano aggiunto due eleganti torri di pietra, una all’ingresso della città e una a cavallo del ponte, sopra il secondo pilone. Dopo altri cent’anni lo avevano fatto ancora più bello e più forte, coi merli sulle due torri e le feritoie per i soldati sulle spalle. In seguito alla grande rovina del 1842, sul Lamone, un po’ a monte, fu gettata una passerella provvisoria in legno. La “provvisorietà” durò 20 anni! Solo nel 1862 si cominciò a costruire un nuovo ponte, in pietra. Ci si accorse tuttavia che la spesa per ultimarlo sarebbe stata insostenibile e gli amministratori si accontentarono di gettare una travallatura metallica sulle
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due testate: il nuovo ponte, che crollò il giorno del collaudo! Solo nel 1865 spuntò quel ponte di ferro, tipo Newille, che scampato a centinaia di bombe degli aerei alleati, fu fatto saltare dai tedeschi in ritirata nel novembre del 1944. Anche il “ponte di ferro”, il ponte della mia infanzia, ne avrebbe tante da raccontare. Per sei anni fu sostituito da un altro, molto più insignificante: quello che i “liberatori” avevano gettato sul Lamone per attraversarlo verso l’ultima grande offensiva contro l’esercito di Hitler, nell’aprile del 1945. Finalmente nel 1951, stavolta fatto di cemento armato, sul Lamone apparve l’odierno ponte, su disegno dell’ing. Antenore. Si chiama “Ponte delle Grazie”, in onore della Madonna delle Grazie, protet-
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La vita è come un ponte: attraversalo pure ma non pensare di costruirci sopra la tua casa. Antico proverbio indù
u, infatti, la mattina del 14 settembre 1842 che Faenza si svegliò improv-
trice di Faenza. Il nostro pensiero però corre sempre al Ponte delle Due Torri. Il bellicoso Rione Bianco del Borgo Durbecco ne ha addirittura fatto il suo simbolo. Qualcuno progetta (o sogna?) di ricostruirlo, a monte di quello attuale. Insomma: il Ponte delle Due Torri, anche da morto, e da tanti anni, ci costringe a considerarlo il vero, l’unico ponte sul fiume Lamone.
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“Il sangue dei francesi appartiene soltanto alla Francia”, aveva detto con orgoglio, nel 1831, Casimiro Périer. Ed era ben lontano dall’immaginare che proprio il sangue del suo re, Luigi Filippo d’Orléans, appartenesse alla Romagna.
I
l regno di Luigi Filippo iniziò nel 1830: fu la “monarchia di luglio” o “delle barricate”, che segnò una svolta dapprima rivoluzionaria poi moderata della politica francese. Gli avvenimenti parigini di quegli anni ebbero più risonanza di tutte le malvagità che
volevano il nuovo sovrano di Francia figlio del modiglianese Lorenzo Chiappini invece di Filippo duca d’Orléans. Questi, nel 1773, avrebbe viaggiato in incognito con la moglie in stato di gravidanza in quel di Modigliana sotto il nome di Joinville; diversi anni dopo, avendo sposato la causa della rivoluzione del 1789, fu denominato “Filippo Egalité”, ma finì comunque sulla ghigliottina. Ha il sapore di una leggenda il racconto che va dal 1773 al 1778. Non lo rende credibile neanche una sentenza della curia vescovile di Faenza, che nell’anno 1824 dichiarava Luigi Filippo figlio di Lorenzo Chiappini, carceriere di Modigliana, e barattato con una femminuccia nata dalla consorte del duca d’Orléans. La sentenza dava anche per certo che il conte di Joinville, alias Filippo d’Orléans, a causa del rumore scoppiato a Modigliana per il presunto scambio, era stato costretto a ritirarsi nel monastero di San Bernardo di Brisighella. Essendo poi uscito per una passeggiata, fu arrestato, consegnato al cardinale legato di Ravenna e rimandato in patria come uomo libero: era il 1778. Tutto questo venne smentito già nel 1894 da documenti dell’archivio vaticano rintracciati da Leone Vicchi. L’arrestato sarebbe stato non il conte di Joinville, ma Carlo, figlio del conte Lodovico Battaglini di Rimini, un giovane scapestrato, raccomandato dai genitori al Papa, il quale lo affidò alle premure dei frati del monastero di Brisighella. L’intervento papale non bastò al ravvedimento del giovane conte, che poi finì in un reclusorio di discoli appartenenti alle famiglie nobili. Maria Stella, figlia di Lorenzo Chiappini si trasferì in Inghilterra, ove si maritò con il duca di Newborough. All’intera storia del baratto di Modigliana non sono mai stati riconosciuti elementi sicuri di sostegno da parte degli studiosi più documentati. Una diceria probabilmente sfruttata a suo tempo dagli avversari degli Orléans, ma che trova ancora credito nell’immaginazione popolare di molti modiglianesi. foto d’archivio
Alcune strade portano più ad un destino che ad una destinazione. Jules Verne
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Un romagnolo sul trono di Francia? Re Chiappini, in arte Luigi Filippo d’Orleans foto d’archivio
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A ROMAGNOL ON THE THRONE OF FRANCE?_ THE STORY OF KING CHIAPPINI, A.K.A. LOUIS-PHILIPPE OF ORLÉANS
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“The blood of the French belongs to France alone,” boasted Casimir Périer in 1831. He could never have imagined that the blood of none other than his own king, Louis-Philippe, may well have belonged to... Romagna. The reign of Louis-Philippe began in 1830. It was dubbed the reign “of July”, “of the barricades”, and marked a turning point – revolutionary at first, more moderate later – in French politics. And the events in Paris during those years had more resonance, it turned out, than the stories of the scandalmongers who insisted that the new king of France was not the son of Philippe, duke of Orléans, but of one Lorenzo Chiappini from the village of Modigliana. The story begins in 1773, when the duke of Orléans and his pregnant wife, travelling under the incognito of the counts of Joinville, found themselves in the village of Modigliana (as a supporter of the 1789 revolution the duke was known as “Philippe Egalité”, which wasn’t enough to save him from the guillotine). The events of 1773 to 1778 have more than a whiff of the incredible about them, and things took a
still more unlikely turn in 1824 with a judgement of the episcopal court of Faenza, which declared Louis-Philippe to be the son of Lorenzo Chiappini, constable of Modigliana, said to have swapped him while a mere infant for the daughter of the duchess of Orléans. The court also claimed that the count of Joinville, alias Philippe of Orléans, on account of the scandal which the story of the swap had unleashed in Modigliana, had been forced to retire to the monastery of San Bernardo in Brisighella. Having left the monastery on an outing, he was apparently arrested, turned over to the cardinal legate of Ravenna, and sent back to his country as a free man: the year was 1778. However, this whole version of events was exploded in 1894 with the discovery by Leone Vicchi of documents in the Vatican archives which indicate that the man who was arrested was not the count of Joinville but Carlo, the son of count Lodovico Battaglini of Rimini. Carlo was a young degenerate whose parents had commended him to the custody of the pope, who in turn had committed him to the care of the friars of the monastery of Brisighella. Papal intervention was not enough to reform the young count, who ended up in an institution for the wayward scions of noble families. Maria Stella, the “daughter” of Lorenzo Chiappini, moved to England with her husband, Lord Newborough. The case of the swapped babies of Modigliana has never been satisfactorily settled one way or the other by even the most diligent historians. What began as a piece of gossip taken up by the enemies of the duke of Orléans has ended up as one of the most enduring riddles of history. And in Modigliana itself, the story persists, halfway between history and legend.
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osì era per Medio Calderoni. Ad osservarlo all’opera ogni volta si restava stupiti dalla facilità con cui usava le sue grandi forbici – al tusur – come fossero un prolungamento delle dita, e l’ubbidienza delle sue mani
appariva rigorosa, assoluta. Diceva che solo dopo dodici - quindici anni di utilizzo quotidiano si reputava certo di poter tagliare senza dispersione di stoffa, cosa non di scarsa importanza per lui: faceva il tappezziere e maneggiava, talora, tessuti preziosi. Mostrava un’altra spettacolare continuità di gesto: dal palmo della mano destra buttava in bocca un po’ di chiodi, che poi prendeva con la sinistra, preparandoli tra le labbra uno alla volta, e li piantava con un martello piccolo e stretto. Ma, incredibilmente, continuava a parlare! La sua bottega dava direttamente sulla strada, niente vetrina, e nemmeno la porta: tre telai ricoperti di nylon fungevano, al bisogno, da approssimativa serranda. Ma tutto era voluto, perché Medio amava lavorare parlando con la gente. Già a prima vista la sua figura era inconfondibile per due “segni di identificazione”: il gilet cucito con avanzi di stoffa della sua bottega e certe maglie gialle che, ci potevi giurare, comparivano sempre, anche d’inverno, quando si toglieva il cappotto. E in giro lo si vedeva immancabilmente con uno strano carretto a tre ruote, di quelli che usavano gli spazzini una volta; diceva che per il suo mestiere non c’era mezzo migliore. Nonostante la sua innegabile abilità come tappezziere, a rendere davvero famoso Medio a Ravenna sono stati gli aquiloni. Li faceva nei momenti di pausa dal lavoro, e chissà come ci riusciva, sul suo bancone sempre ingombro! Poi, finché non erano finiti, li riponeva nel soppalco della bottega: un aquilone non nasce in una volta sola, ma, perché la colla possa asciugare, ha bisogno di tanti passaggi successivi. Per fabbricare “l’intelaiatura” si serviva di canne comuni (Arundo donax), che spaccava con leggerezza, trasformandole in docili aste, sottili e flessibili. Faceva la colla con la farina, la cuoceva e poi la conservava al fresco, fuori, tra la rosta e il vetro della porta. Non usava l’aceto perché quasi sempre da piccoli si ha una profonda avversione per gli odori forti. Le decorazioni per le sue opere erano le più varie e improbabili, dalle carte delle arance a quelle delle uova di Pasqua, qualsiasi cosa stimolasse la fantasia si adattava perfettamente allo scopo; molto spesso
I t a l o e Vanna G raz iani
Colori dell’infanzia, nel vento a q u i l o n i n e l l a b o t t e g a d i v i a C o r t i a l l e M u ra a R a v e n n a foto d’archivio foto d’archivio
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Subito dopo sai che non lo si dimenticherà più. Ci sono persone che hanno gesti e parole primitivi e naturali, che restano impressi a fondo nella memoria: il loro essere è il modo in cui usano uno strumento. E parlano. foto d’archivio
Parlano, continuando a lavorare con la stessa precisione della nonna quando faceva i calzini.
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I Sensi di Romagna
Guardare è un giocattolo che non si rompe. Piero Pieri Passioni
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COLOURS IN THE WIND_ REMEMBERING KITEMAKING IN VIA CORTI ALLE MURA, RAVENNA erano proprio i suoi giovani “clienti” a procurargli questi materiali banali, che, assemblati nel modo giusto,
There are some people you know you’ll never forget the moment you’ve met them. People whose gestures are so natural, whose words are so essential that they make an indelible imprint on the memory; whose work and the tools they produce it with seem an extension of their own personality. And as they work, they talk, absorbed in their task. Medio the kitemaker was one of these people. Every time I watched him work it was with amazement at the ease with which he wielded his scissors – al tusur in the local dialect – as if they were an extension of his own hands, so completely did they obey the command of his fingers. He used to say that only after a dozen of fifteen years of daily scissorwork was a craftsman able to work with absolutely no waste of fabric – no minor consideration, as Medio was an upholsterer who often worked with exceptionally delicate fabrics. Another spectacular example of his dexterity: with the palm of his right hand he would transfer a pile of tacks into his mouth, taking each tack one at a time in his left hand as he lined up the next one between his lips, driving them into place with a small, narrow-headed hammer. And, incredibly, he kept talking as he did so! Medio’s workshop opened directly onto the street. There was no window, and no door: just three nylon-covered frames that functioned when required as a makeshift shutter. And that was quite alright with Medio, for he loved to talk while he worked. Two “distinctive features” made him immediately recognizable: a waistcoat made of stitched-together offcuts of fabric from his own shop, and certain yellow vests which he never seemed to take off. Around town, he would invariably be seen in the company of a strange three-wheeled cart of the kind once used by road-sweepers; Medio used to say it was just the vehicle for his job. His undeniable skill as an upholsterer notwithstanding, what really made Medio a local hero of Ravenna was his kites. He used to make them during breaks from work, and how he found space to make them on his chronically cluttered workbench was an achievement in itself. His work in progress he kept in a loft above his shop - kites have to be made in stages to allow the glue to dry after each stint. To make the skeletons he used lengths of cane (Arundo donax) which he would deftly split to fashion into slender and flexible rods. He made the glue out of flour, which he cooked until thick then left to set in the cool of the doorway. He never used vinegar because ever since his childhood he had had a tremendous aversion to strong smells. He decorated his kites in the most varied and unlikely ways: orange paper or the wrappers from Easter eggs, anything that fired the imagination served the function perfectly; and on many occasions it would be Medio’s young “clients” themselves who supplied him with everyday found objects that, judiciously assembled, created unusual and fascinating plays of colour. Medio never accepted payment for his kites except in the form of the paper he used to make them, or occasionally some glue or cane. Medio treated his kites like living creatures and he “talked” to them as such; but for him the real magic lay in the giving: he would give them away with the serene contentment of one who works merely to make a child happy. He had the strength, the authority and the personality of a master craftsman. I used to help him now and again, looking and learning as we worked together building little kites, often under the curious and avid gaze of a crowd of little onlookers. I still remember when we worked together for fifteen consecutive nights until by midnight of our final shift we’d finished, cover and frame, the lot. I want a kite, said one kid with those eyes full of innocent desire that never fail to melt the hearts of a parent. If you can wait a little while, answered Medio as he went to fetch his bicycle, I’ll be right back! Over the course of the years I had him make many things for me for special occasions and the like. Always in cane: an enormous aeroplane that he delivered on his dustman’s cart, a Carnival giant, two fighting cocks, a windmill complete with blades. His masterpiece, however, was his “white ship”, a creation that for me will always signify a dream made reality, not only because of the evident complexity of plan and execution but also, and especially, because when it took off it left onlookers incredulous, enchanted, almost rapt with delight. One thing is certain: Medio’s great passion did not die with him. He passed his art on to the apprentices who worked with him and who continue the kitemaking craft today, although their work is not confined to this line. In the 1980s Medio was a founder of the Cervia Volante kite fair, and is largely to be credited for establishing the kite – vulandra or bacalà in the dialect – as the star of an event with international reach. Medio was born in 1913, the same year as my father. He continued working indefatigably with those extraordinary hands of his until he was 90. He’s dead now; and as with everyone who’s no longer with us, the face I always picture is his face the last time I saw him. Medio with his white hair and his spectacles perched on the tip of his nose, surrounded by a group of children, making kites. He saw me and cried: Italo! Come on then, what are you waiting for?
creavano giochi di colore imprevisti e affascinanti. E nessun altro pagamento veniva accettato, se non carta, appunto, oppure in qualche caso colla o canne. I suoi aquiloni erano “vivi” e Medio “parlava” con loro, ma la magia stava nella certezza del distacco: li regalava con la serenità di chi lavora per far contento un bambino. Possedeva la forza, l’autorità, la personalità del “maestro”. Ogni tanto lo aiutavo, per imparare, e insieme costruivamo piccoli aquiloni, di solito davanti agli sguardi curiosi e impazienti di un pubblico infantile. Ricordo benissimo quando lavorammo per, penso, quindici serate consecutive e verso mezzanotte dell’ultima sera avevamo finito tutto, carta e canne. Vorrei un aquilone, dice un bimbo, con quegli occhi pieni di desiderio innocente e fiducioso che suscitano una tenerezza parentale. Medio tranquillamente prende la bicicletta: – Se hai un po’ di pazienza – risponde – vengo subito! Nel corso degli anni, per varie occasioni e feste, gli ho chiesto di realizzare cose diverse, sempre di canne: un enorme aereo sul suo carretto da spazzino, un gigante di Carnevale, due galli da combattimento, le pale di un immaginario mulino a vento. Il suo vero capolavoro, però, “il vascello bianco”, rimarrà sempre il sogno che diventa realtà, non solo per la visibile complessità del progetto e dell’esecuzione, ma soprattutto perché quel volo lasciava increduli e incantati, dava quasi i brividi. Una cosa è certa: la sua grande passione non si è spenta con lui. L’ha saputa sicuramente trasmettere agli allievi che ha istruito nella sua bottega e che ancora continuano questa attività, tuttavia il suo impegno non si è limitato a questo. è stato, infatti, uno dei fondatori, negli anni ’80, della manifestazione Cervia Volante, e gli spetta buona parte del merito se oggi l’aquilone, che in dialetto era la vulandra o e’ bacalà, è diventato il protagonista di un evento di rilevanza internazionale. Medio aveva l’età di mio padre, classe 1913, ed ha continuato a usare le sue mani straordinarie fino a 90 anni, instancabile. Delle persone che non sono più, mi rimane il volto dell’ultima volta che li vedo. Medio, con i capelli bianchi e gli occhiali sulla punta del naso, era in mezzo a un gruppo di bambini, vicino a casa sua e – Italo! Cosa aspetti a darmi una mano?! – faceva aquiloni.
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Cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto. Erbert Herriot
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Passioni
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Uno degli effetti secondari della sudditanza coloniale è spesso l’adozione, da parte del paese che la subisce, delle abitudini ludiche di chi la impone. Se questo fosse un corollario, però, la Romagna avrebbe dovuto, in mezzo alle varie dominazioni di cui è stata oggetto, essere stata anche una colonia cinese.
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osì si direbbe, almeno a giudicare dalla diffusione capillare che il gioco del mahjong, o magiò come più spesso qui lo si sente chiamare, ha in questo lembo d’Italia. Sebbene infatti sia un passatempo che gode universalmente di una
certa notorietà, è soprattutto nelle province di Ravenna e Forlì-Cesena che, dagli inizi degli anni ’20, si sono verificati una serie di eventi e congiunture che hanno facilitato la diffusione del gioco in quasi tutti i bar e le sale da gioco, oltre che naturalmente sulle tavole delle abitazioni private. In Romagna si dice addirittura, in tono spiritoso, che il mahjong viene giocato principalmente in Cina, Giappone e nella provincia di Ravenna. Qui si è così profondamente radicato da trovare legittima collocazione a fianco di più rustici costumi, senza stonare agli occhi di chi da sempre li pratica simultaneamente. Le origini del gioco sono legate ad una leggenda che narra di come il pescatore Sz, durante un'uscita in mare, si trovasse in difficoltà quanto tutti i marinai iniziarono a soffrire di mal di mare. Su suggerimento di un passero (il cui nome cinese è appunto mah-jong), Sz inventò un gioco intagliando da alcune canne di bambù 144 tessere sulle quali raffigurò dei simboli. I marinai impegnandosi nel gioco superarono la nausea e la pesca andò a buon fine. I segni sulle pedine rappresentavano canne di bambù, caratteri, circoli (detti "palle"), venti, draghi, fiori e stagioni. I bambù, i caratteri e i circoli sono contrassegnati da numeri che vanno da 1 al 9, per ogni numero ci sono quattro pedine. I venti sono contrassegnati da una E (Est), una S (Sud), una W (Ovest), e una N (Nord), per ogni vento ci sono 4 pedine. Quattro pedine anche per ogni drago, i draghi in tutto sono 3: rosso, verde e bianco. Vi sono, infine, 4 fiori e 4 stagioni, contrassegnati da 1 a 4 ed una sola pedina per ognuno. Sentir parlare di venti, draghi e bambù (rigorosamente in dialetto romagnolo stretto) può far sorridere, ma in fondo bisogna considerare che le regole sono piuttosto simili a quelle del più
Manlio Rastoni
ordinario gioco di carte “scala 40", con un sistema di calcolo del punteggio maggiormente sofisticato, che ben si presta
Mahjong
alla messa in palio di una posta in denaro; particolare, questo, di una certa rilevanza nella psicologia romagnola comune (vedi ee N°6). Azzardando uno studio della rotta che ha percorso attraverso la Romagna questo esotico gioco da tavo-
i l p a s s a t e m p o d e l C e l e s t e I m p e ro c h e h a s o l c a t o i l m a re
la, pare evidente (come peraltro comprovato storicamente) che sia giunto dalla Cina attraverso il porto di Ravenna. Per
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bligo di segnalare che il gioco del mahjong gode di un certo favore anche in veneto, in particolare a Venezia.
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Non smettiamo di giocare perché diventiamo vecchi, diventiamo vecchi perché smettiamo di giocare. Autore ignoto
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dovere di equità, e per nulla togliere al valore storico-antropologico del viaggio in Cina di Marco Polo, corre, però, l’ob-
MAHJONG_ FROM CHINA TO ROMAGNA One of the frequent collateral effects of colonialism is the adoption by the country subjected to colonial rule of the leisure habits of the colonizer. If this is a sufficient condition, however, then Romagna must have been a colony of imperial China... It would be an inevitable conclusion, the Chinese occupation of Romagna, if the popularity of the game of Mahjong – or Magiò as it’s frequently called locally – in this part of Italy was anything to go by. Although it’s a game which is known pretty much everywhere, it has enjoyed a special popularity in the provinces of Ravenna and Forlì-Cesena since the early 1920s. Nowadays, the game is an indigenous inhabitant of thousands of bars and gaming rooms, not to mention private dwellings. In Romagna people like to quip that Mahjong is mainly played in China, Japan, and Ravenna province. So deeply rooted is the game here that it finds legitimate acceptance alongside other more indigenous pursuits and customs; it may be exotic, but it’s authentic too. The origins of the game are explained in a local legend of a fisherman named Sz. Every time his boat put out to sea his crew fell seasick and were unable to fish. At the suggestion of a bird (mahjong is Cantonese for “sparrow”), Sz invented
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a game with bamboo shoots which he cut into 144 tiles and decorated with symbols. By concentrating on the game his crew forgot their seasickness and a good catch was ensured. Various symbols are depicted on the tiles: bamboo, Chinese characters, circles (or balls), winds, dragons, flowers and seasons. The bamboo, character and circle suits are each numbered from one to nine, with four tiles to each number. The wind tiles are marked with the points of the compass – N, E, S and W – with four tiles for each wind. The dragon tiles come in three colours – red, green and white – with four tiles of each colour. Lastly come the four flowers and four seasons, each tile marked from 1 to 4, with only one tile for each number. Now, all this talk about dragons bamboo and the four winds may strike us as exotic to the point of ridiculous (especially when the conversation is conducted in the broad local dialect), but the rules of the game of mahjong are fairly similar to common-or-garden games like gin rummy. The points system is much more sophisticated, however, and this makes it ideal for playing it for money – a detail of no little significance if we consider the Romagnol fondness for gambling (see ee issue 6). As to how mahjong first arrived in Romagna, it’s a historic fact that it came from China via the port of Ravenna. Not to take anything away from the historic and anthropological value of Marco Polo’s journey to China, however, duty compels us to acknowledge that mahjong is also popular in the Veneto, and Venice in particular.
Passioni
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foto di Fabio Liverani
Dio non ha fatto che l’acqua,
ma l’uomo ha fatto il vino. Victor Hugo
1 Serra_ (aziende presenti nella zona: Cesari, Tre Monti, Tenuta Cà Lunga, Tenuta Poggio Pollino, Fattoria Monticino Rosso, Ferrucci). Questo territorio rappresenta il confine nord per il Sangiovese di Romagna che qui risente di un clima decisamente continentale, poco mitigato dalla rilevante distanza dal mare. In generale i vini possiedono un frutto più fresco, vivace, floreale e la piena maturazione richiede più che altrove un grande sforzo in vigna. (producers present in the zone: Cesari, Tre Monti, Tenuta Cà Lunga, Tenuta Poggio Pollino, Fattoria Monticino Rosso, Ferrucci). This district lies on the northernmost reaches of the Sangiovese region. With the sea a good way distant, the climate is unmistakably continental. In general the wines of this area are fresher, livelier, more flowery, while the grapes require more intensive care than elsewhere.
5 Predappio_
foto d’archivio
foto di Fabio Liverani
(producers: Berti, Tenuta Valli, Tenuta Pandolfa, Tenuta Godenza, Nicolucci, Poderi dal Nespoli, Tenuta Arpineto). Oral tradition in Romagna records that this district was an important source of vine grafts, attracting visitors from near and far. The wines are lightly floral, with vivid fruity notes and dryer tannins. The grapes of this district are distinctive too for their elongated shape.
2 Faenza-Brisighella_ (aziende: Trerè, Gallegati, La Berta, Francesconi, Rontana). Comprensorio estremamente particolare a cominciare dal microclima che qui permette da sempre una diffusa coltivazione dell’olivo con risultati straordinari. I vini hanno una piacevolezza marcata, immediata, aromi floreali e, in generale, una vivida freschezza.
G i o rg i o M e l a n d r i
Sangiovese di domani i d i s t re t t i e n o l o g i c i d i d o m a n i
Nel 1974 Gian Vittorio Baldi, eclettico intellettuale - importante regista e produttore cinematografico - percorreva le colline di Romagna, terra alla quale era legato da un bisnonno brisighellese, inseguendo un sogno: produrre grandi vini in quella zona che vantava una presenza storica della vite ma che si trovava completamente fuori dal circuito della qualità.
R
ipercorriamo oggi quelle strade alla ricerca dei caratteri dei diversi territori del Sangiovese di Romagna e lo facciamo segnando una continuità con quella ricerca-simbolo, senza strumenti scientifici, con la nostra sensibilità e con la sola esperienza di tanti vini
assaggiati. Sono circa 130 i chilometri che si possono percorrere sulla Via Emilia costeggiando le colline comprese nella Doc del Sangiovese di Romagna: partendo da Castel San Pietro Terme, alle porte di Bologna, si può arrivare fino a Cattolica che, sul mare, segna il confine con le Marche. Un territorio enorme, un grande involucro all’interno del quale si affollano topos differenti, microzone, diversità. Sulla base delle caratteristiche emerse dalla degustazione dei vini abbiamo individuato dei territori, sette per l’esattezza, che non esauriscono la zona ma che crediamo particolarmente vocati e con peculiarità molto diverse. A guidarci, Remigio Bordini, l’agronomo che da Castelluccio in avanti ha lavorato con tutte le principali aziende romagnole impegnate nella ricerca della qualità. SANGIOVESE LOOKS TO THE FUTURE In 1974, film director and producer Gian Vittorio Baldi was touring the hills of Romagna, a region to which he was connected through a great-grandmother who hailed from Brisighella. Baldi had a dream for these hills: to produce great wines in a zone with a long tradition of winemaking but practically nothing in the way of prestige. This article follows the Sangiovese wine trail in the same way as Baldi toured the hills of Romagna years earlier - without scientific instruments but with our senses, and a keen appreciation of wine, as our guides. The Via Emilia threads for around 130 kilometres through the Sangiovese region, from Castel San Pietro Terme near Bologna to Cattolica, overlooking the sea near the borders with Marche. It’s an enormous area, and it’s rich in diversity and local peculiarities and microclimates. Our tour covers seven different areas classified by the character of their wines; it’s not an exhaustive itinerary but one which, we believe, well illustrates the variety of Sangiovese country. Our tour guide is Remigio Bordini, an agronomist who has worked with many Romagnol wineries looking to improve the quality of their produce.
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6 Bertinoro_ (aziende: Celli, Tenuta Diavoletto, Fattoria Cà Rossa, Giovanna Madonia, Tenuta La Viola, Fattoria Paradiso, Villa Trentola). Tradizionalmente territorio di Albana (che qui vanta una lunga tradizione), ha oggi scoperto una vocazione per il Sangiovese che lo porta ai vertici della produzione romagnola. I vini sono meno austeri di quelli della zona di Predappio nonostante una struttura più possente che richiede tempi lunghi di maturazione. Possiamo riconoscere due diverse esposizioni: la parte che guarda la pianura e il mare (cioè la parte rivolta alla Via Emilia) e la parte di Montemaggio, che rimane a monte del paese.
(producers: Trerè, Gallegati, La Berta, Francesconi, Rontana). A district which is quite different from the others, not least because of its microclimate. Olives are widely grown here, with exceptionally good results. The wines are immediately likeable, with floral aromas and a zesty freshness.
3 Modigliana_ (aziende: Fattoria Zerbina, Castelluccio, Il Pratello, Villa Papiano). Questo distretto si differenzia da quello di FaenzaBrisighella più per ragioni microclimatiche e per una diversa vegetazione che per gli aspetti geologici. I vini hanno qui grande carattere ed una personalità decisa che rispecchia un territorio più selvaggio e duro. In generale il Sangiovese non fatica a trovare una certa potenza ed una marcata austerità.
(aziende: Berti, Tenuta Valli, Tenuta Pandolfa, Tenuta Godenza, Nicolucci, Poderi dal Nespoli, Tenuta Arpineto). Questo territorio è considerato nella tradizione orale romagnola uno dei più vocati, tanto che spesso, in passato, si arrivava qui, anche da lontano, a prendere le marze per gli innesti. Il quadro aromatico è limitatamente floreale e mostra piuttosto un frutto molto evidente, con una maggiore austerità e durezza di tannini. Anche qui è segnalata tradizionalmente la presenza di sangiovesi ad acino ellittico.
foto di Fabio Liverani
(producers: Fattoria Zerbina, Castelluccio, Il Pratello, Villa Papiano). The difference between this district and FaenzaBrisighella is more a question of climate and vegetation than geology. The wines are strong on character, with a distinctive personality as strong and austere as the countryside.
(producers: Celli, Tenuta Diavoletto, Fattoria Cà Rossa, Giovanna Madonia, Tenuta La Viola, Fattoria Paradiso, Villa Trentola). Traditionally a region more associated with Albana (which has long been cultivated here), Bertinoro has recently discovered a vocation for Sangiovese which makes it among one of the biggest producers in Romagna. The wines are less austere than those of the Predappio zone, despite their greater robustness which requires long maturing times. The district comprises two distinct parts, one overlooking the plain and the sea (i.e. the slopes facing Via Emilia) and another in Montemaggio, uphill from the town.
7 Covignano_
4 Oriolo dei Fichi-Vecchiazzano_
(aziende: San Valentino, San Patrignano, Podere Vecciano, Tenuta Amalia). I vini prodotti in questa zona sentono decisamente l’influenza climatica del mare ed hanno un carattere più mediterraneo e solare. Generalmente sono pronti abbastanza presto ed esprimono eleganza e grande maturità di frutto. Le uve di Sangiovese qui maturano con circa 10 giorni di anticipo rispetto alla zona del faentino. È da queste colline, precisamente dai dintorni di Verrucchio, che arriva il delicatissimo Sangiovese ad acino ellittico caratterizzato da una buccia sottile, da un fruttato evidente e da tannini leggeri e soffici. Qui evidentemente le condizioni climatiche sono sempre più favorevoli.
(aziende: Drei Donà, Calonga, Tre Monti, Poderi Morini, Leone Conti, Spinetta). Una zona con un terreno diverso ed assai particolare, caratterizzato dalla presenza di sabbie che affiorano spesso nelle arature. I vini di questo territorio hanno grande profondità e quando posseggono strutture molto ricche necessitano di tempi lunghi di affinamento (soprattutto nella più calda zona ad est, verso Vecchiazzano). All’opposto, andando verso Oriolo (ed in particolare verso Santa Lucia) i terreni diventano pianeggianti, i climi più freschi e si producono vini decisamente più pronti. (producers: Drei Donà, Calonga, Tre Monti, Poderi Morini, Leone Conti, Spinetta). A district which owes its peculiar character to the presence of the sandy soils which can often be seen lightening newly ploughed fields. Its wines are renowned for their depth and body, which means they often need especially long maturing periods – especially in the warmer zone towards Vecchiazzano in the east. Over towards Oriolo and Santa Lucia, however, the terrain levels out and the cooler climate produces much earlier wines.
(producers: San Valentino, San Patrignano, Podere Vecciano, Tenuta Amalia). The wines produced in this zone clearly reflect the influence of the nearby sea and have a more Mediterranean, solar character. In general they’re ready quite young, with plenty of elegance and fruitiness. The grapes are ripe here about 10 days earlier than in the Faenza reaches of the Sangiovese region. The slopes around Verrucchio are home to a delicate, elongated grape with an exceptionally thin skin. The wines are bright and fruity, with light, floating tannins. This area benefits from an exceptionally good and reliable climate.
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Enogastronomia
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Carlo Zauli
Esperti di vite
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ulle colline di Coriano, che dominano il mare di Rimini, si estendono su 83 ettari i vigneti di San Patrignano, attualmente vitificati a Merlot, Cabernet
Sauvignon, Cabernet Franc, Sangiovese e Sauvignon. La produzione è di circa foto d’archivio
foto d’archivio
i v i n i d i S a n Pa t r i g n a n o
900 ettolitri di vino all’anno, 120.000 le bottiglie. Il prossimo obiettivo di San Patrignano è però quello di raggiungere a breve i cento ettari vitati ed arrivare ad una produzione di 400-500 mila bottiglie all’anno. Un progetto ambizioso, che arriva a concretizzare il programma di espansione e valorizzazione della vocazione enologica partito nel 1996, dopo l’incontro con l’enologo di fama internazionale Riccardo Cotarella. Un passo che comporterà l’inevitabile, e già previsto, ampliamento della cantina, oltre alla riorganizzazione della struttura che comprenderà anche un laboratorio chimico. Struttura, quest’ultima, indispensabile per un’azienda che esegue anche trenta-quaranta analisi al giorno al fine di tenere costantemente le uve ed il vino sotto controllo e disporre di tutti i dati relativi alle loro caratteristiche in tempo reale. La nuova cantina, che dal punto di vista operativo è già stata utilizzata nella vendemmia 2003, con i suoi 5700 metri quadrati di superficie complessiva è dotata di impianti ed attrezzature tecnologicamente avanzati per garantire la perfetta resa in ogni fase di lavorazione. La struttura si annuncia già come un impianto estremamente innovativo, ad onorare il riconoscimento conferito dal ministro delle Politiche agricole, Alemanno, per “aver recato un determinante contributo allo sviluppo della viticoltura ed alla valorizzazione dell’enologia italiana”.
sp ec ch io
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TASTING NOTES_ THE WINES OF SAN PATRIGNANO
Montepirolo_ Colli di Rimini Cabernet DOC - Uve: Cabernet Sauvignon 85%, Merlot 10%, Cabernet Franc 5%
On the hillsides of Coriano overlooking Rimini and the sea beyond, the vines of the San Patrignano estate occupy an area of 83 hectares currently planted with Merlot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Sangiovese and Sauvignon grapes. At present, the estate produces around 120,000 bottles every year. San Patrignano is now setting its sights on extending its cultivated area to a hundred hectares and increasing its production to 400-500,000 bottles a year. It’s an ambitious project which the estate has been pursuing via an expansion and improvement programme first launched in 1996 after a visit by the internationallyrenowned oenologist Riccardo Cotarella. A programme of this scale inevitably entails enlargement of the estate’s cellars, which are to be refurbished to incorporate a laboratory for chemical analysis – a essential facility for an estate which requires thirty or forty analyses every day to constantly monitor the quality and characteristics of grapes and wines. With a total area of 5,700 square metres, the new cellars have been in operation since the 2003 harvest and are equipped with the latest in advanced technology to ensure perfect control over every phase of the winemaking process. With more still to come, these exceptionally modern facilities have already earned the approval of Italy’s minister for agricultural policy, Gianni Alemanno, for their “decisive contribution to the development of Italian winegrowing and the excellence of Italian wines”.
Rubino cupo, estratto che macchia il bicchiere, archetti belli e fitti. Impatto immediato ed armonioso, dolce, di vaniglia, confettura di frutta rossa e nera, tutto ben miscelato con note balsamiche, china, sottobosco e una minima vena erbacea. Morbido, accarezza dolcemente il palato, poi esplode con potenza e profondità. Tannini opulenti e levigati, persistenza lunga; chiude con una nota fruttata e di cioccolato fondente. Consigliato l’abbinamento con stracotto alla piacentina Avi_ Sangiovese di Romagna Riserva DOC - Uve: Sangiovese 100% Di profondo ed intenso color rubino, con al naso note intense dove la frutta rossa si amalgama a dei buoni
a. c.
se c.
de ll ’u om o.
lo
sentori di legno. Si percepiscono infatti note di caffè, di tabacco e di spezie. In bocca è opulento e molto potenMontepirolo_ Colli di Rimini Cabernet DOC - Grapes: Cabernet Sauvignon 85%, Merlot 10%, Cabernet Franc 5% Dark ruby with a light sediment that stains the glass; good, well-defined legs. Has an immediately sweet and harmonious impact with hints of vanilla, red and blackcurrant preserve, well combined with notes of balsam, cinchona, undergrowth and am almost imperceptible vein of herb. Soft and caressing on the palate at first before revealing all its depth and power. Opulent, smooth tannins, with good persistence; finishes with a fruity, dark chocolate note. Goes well with casseroles.
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Noi_ Colli di Rimini Rosso DOC - Grapes: Sangiovese 60%, Cabernet Sauvignon 20%, Merlot 20% Attractive yet dense ruby in colour. Strong aromas of ripe red fruit accompanied by more restrained notes of violet, vanilla, red and green pepper, sweet tobacco and a delicate nuance of cocoa. Enveloping and full-bodied with smooth tannins, a long, full persistence and an elegant finish. Matured in 2000-litre oak barrels and then in Allier barriques for around twelve months. Goes particularly well with rack of lamb.
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Avi_ Sangiovese di Romagna Riserva DOC - Grapes: Sangiovese 100% Deep, intense ruby in colour, an intense nose combining red fruit and a pleasant wood aroma, with background notes of coffee, tobacco and spices. Opulent and powerful in the mouth, with a dense, enveloping character and strong tannins. Wood aromas give it a slightly dry finish. A wine with an impressive aromatic range which is good with meat and game stews.
I Sensi di Romagna
te, grasso e avvolgente, con i tannini in grande evidenza. Si avvertono bene anche quelli del legno, che conferiscono una lieve nota asciutta in chiusura. Con la sua gamma aromatica importante, si presta agli abbinamenti con gli umidi sia di carne rossa che di cacciagione Noi_ Colli di Rimini Rosso DOC - Uve: Sangiovese 60%, Cabernet Sauvignon 20%, Merlot 20% Presenta un bel rosso rubino di spessore, lucente. Offre all’olfatto una composizione di frutta a bacca rossa nettamente matura, dolci note di viola, vaniglia, pepe rosa e verde, tabacco dolce ed una lieve sfumatura di cacao. Avvolgente all’ingresso, conferma ampiezza anche in bocca, con tannini dolci e levigati, persistenza lunga e piena ed un finale elegante. Maturato in botti di rovere da 20 ettolitri e in barrique di Allier per circa dodici mesi. Notevole l’abbinamento con carrè di agnello.
Enogastronomia
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G
ià in antichi testi del 1° sec. d.C. autori come Columella, Varrone e Plinio il Vecchio trattavano di un “sus gallium” (maiale dei Galli), da molte fonti considerato il progenitore certo della Mora di Romagna, razza autoctona e molto pregiata di suino della
provincia di Ravenna, che in questa zona è sempre stata allevata allo stato brado e semibrado. A detta di Lucio Moderato Columella, nel suo “De Re Rustica”, le sue carni erano saporite e magre proprio perché questi animali erano nutriti da ghiande e radici che trovavano tra le colline in cui pascolavano liberamente. Primi e principali allevatori di questo speciale verro furono i Galli Togati Boi, popolazione celtica che occupava le tre regioni della Gallia Insubra, Cisalpina e Cispadana, di cui Strabone Amanasio scrive che “Roma era quasi nutrita dalle greggi di maiali che qui si pascolavano”. I Galli Boi erano inoltre molto abili nella lavorazione delle carni e tra i vari salumi, trasportati di volta in volta a Roma in quantità, diremmo oggi “industriali”, spiccava l’ottima “Murtatum” (mortadella in latino), che l’Aldovrandi, nel 1570, descrive come un grosso salame cotto, ricco di spezie e droghe, tra cui il mirto, da cui il nome. Grande invidia per quest’abbondanza dell’allora “sus gallium” provano gli attuali allevatori, che cercano di risollevare il numero di capi appartenenti a questa razza quasi estintasi negli ultimi cinquant’anni. Il nome di “Mora” fu coniato nel 1942, proprio per il colore tipico di questo suino, un marrone scuro tendente al nero, ma con le parti inferiori di colore roseo. Fino agli anni ’50, infatti, era un animale domestico molto diffuso e negli allevamenti di questa zona ne erano presenti più di 22.000. Particolare peculiare fisico di questo suino è la “linea sparta”, una sorta di criniera formata da una serie di setole irte e dure che percorrono tutto il dorso dell’animale, legandone l’aspetto al suo antenato cinghiale, chiamato nel medioevo “porcus silvestrus”o “singulares” (da cui poi il francese sanglier e l’italiano cinghiale), dandogli un’immagine antica, come di un animale che non si è voluto adattare ai tempi, ma ha altresì mantenuto le caratteristiche che lo rendono unico nel suo genere. Se il riconoscimento di un tempo nei confronti della Mora avveniva tramite raffigurazioni delle scene pastorali scolpite nelle cattedrali romaniche della Pianura Padana o dipinte in quadri e affreschi medioevali o rinascimentali, oggi si manifesta tramite l’inserimento della “specialità” del prodotto derivato dalla Mora di Romagna da parte di Slow Food, all’interno del Piano Regionale di Sviluppo Rurale della Regione Emilia-Romagna e in seno a molte altre iniziative di promozione del prodotto che le hanno per-
Nessuno può essere saggio a stomaco vuoto.
foto di Fabio Liverani
La Mora di Romagna
foto di Fabio Liverani
Antonella Falco
foto di Fabio Liverani
messo di ricevere recentemente anche la denominazione DOP.
George Eliot
sapori salvati all’estinzione THE MORA OF ROMAGNA_ A DELICACY THAT RESISTS EXTINCTION
foto d’archivio
Dai lauti banchetti di Galli e Romani, le prelibatezze prodotte dalle carni di Mora (o Castagnola) di Romagna, continuano ad essere presenti sulle nostre tavole regalandoci gusti che hanno attraversato i tempi quasi immutati.
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I Sensi di Romagna
Ever since the lavish banquets of ancient Rome, the delicacies made from the pig known in Romagna as the mora or castagnola have graced our tables and delighted our palates with flavours that have come down through the ages practically unchanged. As early as the 1st century authors such as Columella, Varro and Pliny the Elder wrote of a sus gallium or Gallic pig which many still consider the direct ancestor of the mora of Romagna, a local breed of pig which in its home province of Ravenna is always bred in a feral or semi-feral state. As Latin author Columella wrote in his De Re Rustica, the reason the flesh of this pig was so lean and tasty was that the swine was fed on acorns and the tubers it rooted out of the ground as it roamed freely. The first people to raise the mora were the Galli Boi, a Celtic tribe which occupied the regions of Insubrian, Cisalpine and Cispadane Gaul. Strabo writes that “Rome was practically sustained by the produce made from the pigs which pastured here.” The Galli Boi were also skilled in treating the meat, and among the many charcuteries that were exported to Rome in quantities we would now call “industrial” was the celebrated murtatum which the naturalist Aldovrandi described in 1570 as a large cooked sausage flavoured with herbs and spices, among which myrtle, hence the name mortadella. The sus gallium is now the breed of choice for many farmers who are seeking to boost its numbers, which in the last fifty years have fallen to the brink of extinction. The name “mora” dates only to 1942, and derives from the colour of the pig, a deep chestnut verging into black with a pinkish paunch. And yet, until the 1950s the Romagnol mora was widely kept as domestic livestock and probably numbered over 22,000 in the farms of the region. One of the physical peculiarities of this breed of pig is its “esparto line”, a crest of bristles which runs down its back, which explains its medieval designation of porcus silvestrus or porcus singulares, from which derive the French sanglier and the Italian cinghiale. This crest gives them an outmoded look, as if they were evolutionary failures – although in reality they’ve preserved the characteristics that make them unique in their class. But if the mora now seems to belong more to the age of the figure portals of the Romanesque cathedrals of the Po valley or to the frescoes of the Middle Ages and Renaissance, its enduring quality is attested by its inclusion as a speciality in the Slow Food movement, part of the rural development plan of Emilia-Romagna, and in countless other initiatives designed to promote a product which recently received DOP protected designation status.
Enogastronomia
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BEYOND SURFACE AU DELA DE LA SURFACE
fotografo Giorgio Liverani
Tra le pellicole cinematografiche dedicate a grandi pittori, manca ancora una biografia su Guido Cagnacci,
foto d’archivio
uno dei più originali pennelli italiani del Seicento, artista borderline dalla vita errabonda e turbolenta, perfetta da trasformare in una sceneggiatura.
L
a vicenda ha inizio a Santarcangelo di Romagna, città feconda di felici ingegni, il 13 gennaio 1601 quando, nella casa del conciapelli
fotografo Giorgio Liverani
L’artista è il fratello del delinquente e del mentecatto.
Matteo Cagnacci, viene alla luce Guido, genio “bello e dannato”. Controcorrente e inquieto fin dall’infanzia, si avvicina alla pittura nella città natale come autodidatta, per continuare, a diciassette anni, la propria formazione a Bologna presso la bottega di Guido Reni, e poi a Roma, dove abita con Guercino. I due amici, senza un soldo in tasca, ma animati dalla memoria di Caravaggio, frequentano le trattorie, incontrano artisti e vivono l’atmosfera bohemien di quel periodo in cui Roma era l’indiscussa capitale dell’arte europea. A ventisette anni torna a Rimini dove lavora per le compagnie religiose e T. Mann
una pittura realistica e contrastata, tipica della giovinezza, diversa da
S e re n a To g n i
quella più luminosa e sensuale della maturità. Le committenze sono
Il Caravaggio sconosciuto ai più
numerose, ma il temperamento trasgressivo lo conduce in un grosso guaio penale: stringe un patto segreto di nozze con l’amante Teodora Stivivi, la ricca vedova Battaglini, e tenta di fuggire con lei. I parenti della donna, tuttavia, sventano il piano e invalidano il contratto, non aggiornato alle norme tridentine, condannando la vedova alla reclusione e il pittore all’efotografo Giorgio Liverani
G u i d o C a g n a c c i , a r t i s t a b o rd e r l i n e d e l ‘ 6 0 0 : u n a s c e n e g g i a t u ra a n c o ra d a s c r i v e re
laiche, realizzando pale d’altare di estrema modernità, caratterizzate da
silio. Inizia così il peregrinare forzato, prima nella periferia di Rimini, in compagnia della giovane modella e amante travestita da ragazzo, poi a Forlì, Cesena, Faenza, Bologna: la sua fama lo raggiunge ovunque, seguita dalle truppe papali, costringendolo sempre più lontano. Nel 1648 giunge a Venezia sotto il falso nome di Guido Raldo Canlassi da
GUIDO CAGNACCI_ A SCREENPLAY WAITING TO BE WRITTEN There are many films about great painters, but none has yet been made about the life of Guido Cagnacci, one of the most original Italian artists of the Seicento whose turbulent life of adventures and misadventures contain all the ingredients of the perfect screenplay. Cagnacci “the beautiful and the damned” was born in the house of his tanner father Matteo Cagnacci in Santarcangelo di Romagna, a town which has produced more than its share of geniuses, on 13 January 1601. A restless, contrary spirit from his earliest days, he was a self-taught painter who moved to Bologna at the age of seventeen to train in the studio of Guido Reni. He then moved to Rome, where he lived with Guercino. The two friends, penniless but fired by the example of Caravaggio, lived from hand to mouth and from tavern to tavern, in an ambience populated by artists and bohemians during a period in which Rome was undisputed capital of European painting. At the age of twenty-seven Cagnacci moved to Rimini, where he worked for lay and religious orders, painting altarpieces of an unsettling modernity characterized by a realism and youthful dash which are quite different from the more luminous, sensual works of his later years. Commission followed commission, but his irascible, anti-conformist temperament soon landed him in trouble. Cagnacci entered into a secret marriage pact with his lover, the rich widow Teodora Stivivi, and the two schemed to elope together. But Stivivi’s family found out, and foiled the lovers’ plan by having the pact declared invalid as not sanctioned under
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I Sensi di Romagna
the reformed legislation of the Council of Trent. Stivivi was sentenced to a life of reclusion and her painter lover to exile; they ran away, and thus began Cagnacci’s long years as an itinerant painter, first in the environs of Rimini in the company of his model and lover, who dressed as a boy to avoid recognition, and then in Forlì, Cesena, Faenza, and Bologna. Cagnacci’s notoriety caught up with him everywhere he went, and the papal troops were always hot on his heels, forcing him to wander ever further afield. In 1648 he arrived in Venice under the false name of Guido Raldo Canlassi da Bologna. Here he put an end to his religious output to work solely to private commissions, usually costume paintings imbued with a charming theatricality, allegorical works featuring diaphanously-draped women in the guise of biblical or historical figures such as Mary Magdalene, Judith or Cleopatra. The remarkable success of his ten years in Venice led to him being invited to the Viennese court of emperor Leopold I. He died in Vienna three years later. The damnatio memorie which for centuries has condemned Cagnacci to an ill-deserved oblivion can be wholly explained by his volatile and rebellious conduct in an age where unquestioning conformity was all. One final detail is a telling footnote to the curses that posterity has heaped upon him: the small house on the canal of Cesenatico that according to tradition the painter bought as a boudoir for his lovers remained uninhabited for nearly a century – then mysteriously burnt down one night.
Bologna e abbandona definitivamente la produzione religiosa per servire la committenza privata, che richiede tele con donne discinte rappresentate sotto le vesti di Maddalene, Giuditte, Cleopatre e allegorie varie, vere e proprie rappresentazioni in costume, dotate di una coinvolgente teatralità. Nei dieci anni di attività veneziana riscuote notevole successo, tanto che, ormai sessantenne, viene invitato dall’imperatore Leopoldo I alla corte di Vienna, dove si spegne tre anni dopo. La damnatio memorie che ha condannato per molti secoli il santarcangiolese a un ingiustificato oblio è, dunque, da imputare esclusivamente alla condotta di vita irrequieta e ribelle in un secolo che imponeva calma e conformismo. Ignobile fortuna è toccata anche al capanno che il pittore, secondo la tradizione, acquistò sul canale di Cesenatico come boudoir per le sue amanti: dopo la sua morte rimase disabitato per quasi un secolo e poi andò misteriosamente a fuoco.
Arte
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ARNALDO POMODORO_ A TRIBUTE TO CAGLIOSTRO As a heretic, an excommunicate and an impenitent, he has been refused a church burial. His body was interred on the extreme periphery of the west-facing slopes of the hill, halfway between the two guard posts known locally as the palazzetto and the casino, on land belonging to the apostolic chamber of Rome, on this the twenty-eighth day of the aforementioned month, at eleven o’clock in the evening. With this entry in the register of deaths of August 1795 in the parish archives of San Leo, Luigi Marini Arciprete gives the burial place of the self-styled Count of Cagliostro, the enigmatic figure whose name has been linked ever since with the fort of San Leo. And in the same town, noted Romagnol artist Arnaldo Pomodoro has dedicated a sequence of works to the myth of Cagliostro. Right on the summit of the town, the impregnable fort of San Leo functioned as a high-security prison during the rule of the Papal States. In 1791 Cagliostro was imprisoned in a cell in the oldest, dankest part of the fort. He spent the final four years, four months and five days of his life here, an ignominious end to the glittering international career of a magician and miracle-worker whose name had once been on the lips of every court in Europe. Such were the charisma and popularity surrounding his persona that even the news of his death was shrouded in rumour: his body had magically vanished at the moment of his death, some claimed, while others insisted he wasn’t dead at all. So what do we know for sure about this enigma, the Count of Cagliostro? He was born Giuseppe Balsamo in Palermo in 1742. His name is to be found in just two surviving documents, both of which relate to his prison sentence and confinement in the fort of San Leo; the first describes him as a common delinquent – the real (i.e. political) reasons for his detention concealed under several layers of trumped-up charges – while the second gives a terrible account of the imprisonment of the “heretic”. Even today the story of Cagliostro is richly interlarded with legend and mystery, and in our own times is celebrated in San Leo in the form of a sequence of sculptures by Arnaldo Pomodoro - an adept like Cagliostro, but of art, not magic. Born in Morciano di Romagna in 1926, Pomodoro spent his childhood and adolescence in Montefeltro, the place he calls home: “I grew up there, I have it inside me all the time.” In 1998 Pomodoro returned to the land of his youth with a series of bronze sculptures based on the imprisonment and sudden death of Cagliostro. Strategically located at various points in the town, the sculptures blend effortlessly with their environment while linking together in a chain whose final destination is the castle itself. Here, from the window of Cagliostro’s cell a metal sculpture hangs suspended in the air, like the prisoner’s soul finally departing through the bars of his window. It’s a gesture which releases the ghost of Cagliostro from its secular confinement while at the same time invoking the right to freedom of thought and knowledge. “The sculptures in the fort of San Leo are totally imbued with the spirit of the place,” says Pomodoro. “My work fits in well there.” And, we might add, brings some of its own mystique to a place whose stark contrasts of light and dark seem to elicit insights into the sacred mysteries themselves.
fotografo Anna Rita Nanni
fotografo Anna Rita Nanni
Arnaldo Pomodoro
fotografo Anna Rita Nanni
fotografo Anna Rita Nanni
Viola Emaldi
foto d’archivio
Artista è soltanto chi sa fare della soluzione un enigma. Karl Kraus
i l s u o o m a g g i o a l f a n t a s m a d i C a g l i o s t ro A lui, quale eretico, scomunicato, impenitente, si nega la sepoltura ecclesiastica.
la condanna e la detenzione al Forte di San Leo; la prima lo addita come delinquente comune – svariati capi d’imputazione celano le
Il cadavere viene tumulato sull’estremo ciglio del monte dalla parte che volge ad occidente,
ragioni reali di un’accusa di natura politica – mentre la seconda descrive la terribile reclusione dell’eretico. Da allora di tempo ne è tra-
a metà strada circa fra i due edifici destinati alle sentinelle, quelli che il popolo
scorso ed ancora la storia s’intreccia con il mistero avvolgendo questo personaggio oggi celebrato a San Leo dalle opere di Arnaldo
chiama il palazzetto e il casino, in un terreno di proprietà della romana camera ‘apostolica’,
Pomodoro, come lui mago, ma dell’Arte. L’artista è romagnolo (Morciano di Romagna, 1926) ma ha trascorso l’infanzia e la giovinezza
il giorno ventotto del mese suddetto, alle ore ventitrè.
nel Montefeltro, «in quei luoghi sono cresciuto, li ho sempre dentro di me», e qui è ritornato per lasciare le sue opere. La separazione
C
on quest’atto di morte, conservato all’Archivio parrocchiale di San Leo, Luigi Marini Arciprete indica, nell’agosto 1795, il luogo di
dal mondo e dalla vita subita da Cagliostro è stata dopo alcuni secoli (1998), elegantemente espressa da Pomodoro in una serie di scul-
sepoltura del Conte di Cagliostro, enigmatico personaggio la cui fama è ormai indissolubilmente legata al Forte di San Leo e da qui
ture in bronzo.
all’opera del noto artista romagnolo Arnaldo Pomodoro.
Disseminate lungo gli scenari migliori del paese, le opere diventano parte dell’ambiente e formano un armonioso percorso che condu-
In vetta al borgo fortificato, l’inespugnabile Rocca fungeva da carcere speciale dello Stato Pontificio. All’interno di una cella, calata
ce alla rocca. Qui, una scultura volante e leggera come il pensiero, fuoriesce dalla finestra della cella nella quale il conte fu imprigio-
nella parte più antica dell’edificio, il conte fu recluso dal 1791 per quattro anni, quattro mesi e cinque giorni, ponendo così fine alla
nato. Una triplice inferriata sostiene la fuga dell’anima. Pomodoro libera il fantasma di Cagliostro dalla clausura e con lui il discorso si
sua carriera internazionale di mago e taumaturgo. Il suo fascino, genio e popolarità in vita furono tali da far parlare tutte le corti
allarga alla libertà del sapere, del conoscere. «Le opere alla Rocca di San Leo sono così permeate dello spirito del posto... I miei lavori
d’Europa e credere, al momento del trapasso, che il corpo si fosse magicamente volatilizzato o addirittura che egli non fosse per nien-
s’integrano bene in quegli spazi» commenta l’artista, mentre il paesaggio si accende di misticismo e netti contrasti di luce accompa-
te morto. Certo è il suo vero nome: Giuseppe Balsamo, nato a Palermo nel 1742. Le sole documentazioni esistenti su di lui riguardano
gnano i visitatori ai sacri misteri.
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Arte
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Territorio I secoli di legno_ gli alberi monumentali che abitano la Romagna Wood of ages_ The giant trees of Romagna Santarcangelo di Romagna_ tradizione popolare elevata a prestigio Santarcangelo di Romagna_ where local tradition equals universal prestige
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Storia Il Ponte delle Due Torri_ vicissitudini di un tratto sospeso di Via Emilia Ponte delle Due Torri_ the bridge that broke the Via Emilia Un romagnolo sul trono di Francia?_ Re Chiappini, in arte Luigi Filippo d’Orleans
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Passioni
A Romagnol on the throne of France?_ The story of King Chiappini, a.k.a. Louis-Philippe of Orléans
Colori dell’infanzia, nel vento_ aquiloni nella bottega di via Corti alle Mura a Ravenna Colours in the wind_ remembering kitemaking in via Corti alle Mura, Ravenna Mahjong_ il passatempo del Celeste Impero che ha solcato il mare Mahjong_ from China to Romagna
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Enogastronomia Sangiovese di domani_ i distretti enologici di domani Sangiovese... looks to the future Esperti di vite_ i vini di San Patrignano Tasting notes_ The wines of San Patrignano La Mora di Romagna_ sapori salvati all’estinzione The mora of Romagna_ A delicacy that resists extinction
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Arte Il Caravaggio sconosciuto ai più_ Guido Cagnacci, artista borderline del ‘600: una sceneggiatura ancora da scrivere Guido Cagnacci_ A screenplay waiting to be written Arnaldo Pomodoro_ il suo omaggio al fantasma di Cagliostro Arnaldo Pomodoro_ A tribute to Cagliostro