A L M A M AT E R S T U D I O R U M UNIVERSITÀ DI BOLOGNA F ACOLTÀ DI L ETTERE E F ILOSOFIA Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione
ELABORATO FINALE DI LAUREA IN Semiotica II
L U X U R Y B R A N D I D E N T I T Y I L C A S O C H A N E L
Relatore Prof.ssa Giovanna Cosenza
Sottocommissione: Prof.re Roberto Grandi Prof.ssa Giovanna Cosenza Prof.re Celestino Ferrari
Sessione II - Novembre Anno Accademico 2009-2010
Presentato da: Nicolò Montevecchi
Introduzione
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Capitolo 1
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1.1 La teoria della classe agiata: base della moderna concezione del consumo
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1.2 Lusso e moda: così simili e così diversi
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1.3 Continuità e discontinuità: strategie nella gestione del brand
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1.4 Identità di marca ed esperienza cognitiva
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1.5 Verso la semiotica della moda
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Capitolo 2
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2.1 Comunicare il brand di lusso: strategie di comunicazione pubblicitaria
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2.2 Comunicare il brand di lusso: significato di marca
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2.3 Ereditarietà, etica ed estetica
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Capitolo 3
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3.1 Coco: la determinazione di una donna
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3.2 L’advertising Tv di Chanel No.5: etica ed estetica di un profumo
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3.3 L’identità: un look atemporale
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3.3.1 Essenziale: la catena dorata
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3.3.2 Essenziale: i fili di perle
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3.3.3 Essenziale: la camelia
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3.3.4 Essenziale: il bianco e il nero
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Conclusioni
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Bibliografia
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A chi con sincera critica e onesto parere ha commentato tanto la stesura di questo testo, quanto la mia vita, suggerendo, come in una bozza, le modifiche da apportarvi.
NICOLÒ MONTEVECCHI - LUXURY BRAND IDENTITY: IL CASO CHANEL
Introduzione
Cronologicamente antecedente alla nascita delle odierne concezioni di marketing e di pubblicità, il sociologo ed economista statunitense Thorstein Veblen tracciò nel suo saggio “La teoria della classe agiata1 ” i fondamenti di un pensiero sorprendentemente attuale. Egli seppe cogliere gli aspetti comportamentali di quella che, nel corso del XX secolo, si consolidò come l’attuale società dei consumi fondamentalmente dominata dal concetto di ostentazione. La proprietà privata dei beni è intrinsecamente legata alla connotazione simbolica che essi posseggono: all’oggetto, al bene posseduto, viene associato un valore più o meno riconosciuto dal tessuto sociale al quale ci si riferisce. Questo valore ha dunque la capacità di trasformarlo da semplice possedimento in un vero e proprio plus della persona, un ‘di più’ che ne esalta il prestigio e lo status sociale. Vi è quindi una sostanziale evoluzione anche nella concezione di ricchezza: lo scopo non è più, come accadeva in passato, accumularla ma mostrarla, esplicitando così la propria collocazione sociale a quelli con cui si è soliti confrontarsi. Si entra in questo modo in un circolo vizioso dove, se è vero che possedere un numero e una tipologia di beni pari al gruppo sociale di riferimento contribuisce ad un personale senso di benessere, il superamento di questa parità produrrà un appagamento nell’individuo costituendo così un aumento dell’agonismo sociale che sfocerà in un maggiore divario fra gli individui. In questo contesto agonistico si delinea poco a poco la nuova figura del consumatore postmoderno2 , estremamente più attento che in passato alla componente comunicativa e simbolica del bene che intende acquistare e desideroso di soddisfare non più esclusivamente i bisogni 1 Veblen, T 1899 2 Fabri, G 2007
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tangibili e primari ma che, ora più che mai, si orienta verso l’impalpabilità delle emozioni, dell’estetica e delle esperienze d’uso. Una tendenza che porterà nel tempo ad una transizione nelle modalità di fruizione dei beni dove l’acquisto non viene più mosso dalla reale necessità ma dal desiderio di soddisfare il proprio immaginario. Il settore del lusso evolve così in modo da assecondare in primis questo bisogno associando alle qualità materiali e formali del bene, qualità emozionali che si aggiungono al valore di esclusività insito per antonomasia nel bene di lusso. Caratteristiche che esplicitano, come detto, il modus vivendi del consumatore e non più solo il suo status. Il “fruitore - tipo” di questa categoria di beni ricerca in essi il mezzo per esacerbare la propria appartenenza ad una élite che condivide il medesimo stile di vita, appartenenza legittimata dal possesso di beni ritenuti ‘superiori’ per qualità, fattura, prezzo. I produttori operanti in questo settore sono consapevoli dell’evoluzione del loro target in questo senso: il compratore non si accontenta più di sterili informazioni sulla qualità e funzionalità del prodotto; nasce il bisogno di costruire intorno al marchio una identità che racchiuda un universo simbolico di grande attrazione, capace di trasmettere i valori alla base del marchio nel quale il consumatore possa riflettercisi. Il marchio, non più solo un nome stampato sul prodotto, diventa l’elemento portante della comunicazione fra l’azienda ed il fruitore finale grazie al patrimonio simbolico che custodisce contribuendo alla creazione di un fitto sistema immaterialmente affascinante e seducente che sfocia nella odierna comunicazione del luxury brand caratterizzata da valori costituenti il così detto lifestyle prima ancora di una dimensione funzionale del prodotto. La trasmissione dei valori fondamentali del marchio, del suo patrimonio storico e artistico, diviene allora essenziale. Il marchio di lusso, come quello di moda, si presta particolarmente al caso poiché sinonimi di adesione a determinati modelli, valori, modus vivendi. La comunicazione di moda abbandona dunque la mera comunicazione del prodotto in favore della propria identità di marca gettando così le basi discriminanti secondo le quali 6
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un prodotto diventerà, agli occhi del consumatore, immediatamente distinguibile da quello di una casa affine. L’elaborato costituirà un percorso tanto storico quanto interdisciplinare affrontando nel primo capitolo la problematica dell’evoluzione dei consumi negli anni dal punto di vista sociologico e transitando poi nel terreno squisitamente semiotico dei capitoli successivi dove cercherò di individuarne le caratteristiche salienti, fino a giungere infine al caso di riferimento rappresentato da Chanel dove, dopo una breve parte introduttiva alla storia della fondatrice e della Maison, cercherò di analizzare le scelte in fatto di comunicazione ed il capitale simbolico che esse trasmettono.
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Capitolo 1
Sin dai tempi più remoti la necessità di distinguersi dagli individui propri simili è stata determinante nelle dinamiche di ogni società. La distinzione e segmentazione, sia che fosse in classi, caste o ceti, ha da sempre servito allo scopo fornendo agli appartenenti una sorta di etichetta che li ponesse alternativamente in una posizione di rilievo o meno rispetto agli occhi dei simili. Gli indici di appartenenza ad un determinato status sociale li possiamo reperire sotto ogni aspetto della quotidianità, dalla forma d’espressione dell’attore preso in esame, alle pietanze di cui si ciba, dal portamento all’abito. Fondamentalmente ci si riferisce così facendo al suo bagaglio simbolico fatto di beni materiali e immateriali che egli sfoggia costantemente e più o meno inconsciamente, per marcare e riaffermare il proprio status, per definire la sua posizione. In questo capitolo vedremo come Veblen, nella sua teoria formulata ben prima della nascita delle moderne concezioni di marketing e comunicazione di prodotto, denota un allora innovativo aspetto della proprietà privata legato non più alla pura necessità di sussistenza ma intesa come segno distintivo e di prestigio sociale utile a mettere in evidenza la propria persona. Lo scopo non è più dunque accumulare ricchezza, ma esporla mediante l’acquisto di beni ‘di livello1’, tanto economicamente quanto esteticamente, che denotino il proprio status. Il “volere qualcosa più degli altri2 ”, definizione di lusso secondo l’autore, permea così le strategie di comunicazione dei brand operanti nel lusso, come vedremo accadrà per Chanel che saprà creare una costellazione di concetti nei quali il consumatore postmoderno che si definirà nel tempo potrà riconoscersi. Ma cosa è classificabile come ‘lusso’? 1 Veblen, T 1899 2 ibid.
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1.1 La teoria della classe agiata: base della moderna concezione del consumo Thorstein Veblen (1857 - 1929) redasse questa critica al consumo statunitense nel 1899 prendendo spunto da una indagine sociologica sulle società arcaiche. Egli giunse all’osservazione della nuova borghesia americana caratterizzata dal possesso e l’ostentazione di beni di notevole peso economico, possesso mirato al solo scopo di emulare i propri pari denotando un prestigio sociale e una classe di appartenenza ben precisi nel proprio immaginario. La deduzione di Veblen evidenzia quindi che, se nei contesti storicamente precedenti le società feudali il possesso della ricchezza era intrinsecamente legato alla superiorità bellica (i beni posseduti erano stati quasi sempre razziati), al contrario, a partire dalla società di tipo feudale la ricchezza assume nel tempo una connotazione sempre più psicologica e immateriale. Il bene viene posseduto in funzione del prestigio sociale che è in grado di comunicare e diviene quindi un mezzo per appagare il proprio ego, per soddisfare una necessità rarefatta e intangibile. Il ruolo di maggior rilievo lo assume in questo modo il concetto di rispetto inteso come il rispetto che ti viene concesso dai tuoi vicini. In quest’ottica diverrebbe dunque essenziale il possedimento di tanti beni quanti quelli posseduti dagli individui con i quali ci si intende confrontare: una sorta di soglia di sicurezza psicologica che sfocerebbe in un ‘di più’ piacevolmente appagante. Il risvolto di questo agonismo sociale è costituito da un sentimento di cronica insoddisfazione personale fino quando l’individuo non vincerà il paragone, ma ciò costituirà semplicemente un circolo vizioso poiché una volta raggiunta la soglia per la quale si tendeva, si porrà il nuovo limite del livello immediatamente superiore e via dicendo. Per Veblen quindi il raggiungimento del ‘livello di riferimento’ è una illusione, una utopia in continua evoluzione e crescita fin quando gli attori in gioco tenderanno al raggiungimento della così detta rispettabilità finanziaria alla cui base risiede l’agiatezza vistosa, unico mezzo per conquistare il rispetto degli altri.
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Sarà durante il periodo post rivoluzione industriale che questa tendenza si consoliderà, quando cioè, in concomitanza con i primi stadi dello sviluppo economico, i consumi della classe agiata eccederanno lo stretto indispensabile alla sussistenza. Il fenomeno del consumo vistoso si espande in questo periodo in modo capillare nelle società industriali, nelle metropoli, dove il fenomeno dell’imitazione è maggiormente marcato a causa della netta distinzioni fra i ricchi industriali e la classe operaia. In questo contesto i gruppi “inferiori” cercano appena loro possibile di imitare quelli sovrastanti impossessandosi dei beni che veicolano quel determinato status, beni che però nel medesimo istante perdono di valore simbolico non essendo più intrinsecamente legati ad uno stile di vita specifico e che vengono, di conseguenza, abbandonati in favore di altri in cui riconoscersi maggiormente. Si ritrova in questo modo un circolo vizioso nel quale vi è una vera e propria rincorsa al confronto che da luogo al ciclo vitale del bene che viene così idealizzato, desiderato, raggiunto e, infine, ‘scaricato’ in favore di un nuovo prodotto nel quale identificarsi e diversificarsi.
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1.2 Lusso e moda: così simili e così diversi Fino ad ora abbiamo parlato indiscriminatamente di lusso riferendoci a quella categoria di beni generalmente di difficile accesso, senza soffermarci sulla reale connotazione del lusso, ammesso che vi si possa dare una definizione unanime. Etimologicamente legato al latino, il termine luxus, sostantivo, denota sovrabbondanza ed eccesso, e si accosta all’aggettivo luxus (-a, -um), ovvero slogato, lussato. Il lusso moderno è quindi indice di esagerazione di sovrabbondanza? Sì, se si considera la prima accezione, ma se si prende in analisi la seconda, esso può altresì veicolare il concetto di lussazione, di slogatura, ovvero, in definitiva, di una distorsione1 di ciò che, in caso contrario, sarebbe normalità. La normalità, nel contesto, viene identificata come la dimensione seriale del vivere caratterizzata dalla riproducibilità e dalla massificazione. Ecco allora che la caratteristica prima dei beni di lusso è quella di tracciare una linea di demarcazione e rottura con il concetto di produzione seriale tipico del largo consumo. La massificazione antagonista del lusso, il largo consumo di cui sopra, è rappresentata dalla moda. Per lungo tempo i due termini sono stati confusi. Simmel, nel suo saggio La Moda 2 redatto nel 1976, afferma che:
La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di un appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono [..] nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi [...] Così la moda non è altro che una delle forme di vita con le quali la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale si congiungono.
Tuttavia, malgrado la definizione si sovrapponga in parte agli studi di Veblen, vediamo che la sostanziale differenza con il lusso risiede nella periodicità e limitata durata temporale della moda. L’oggetto di moda gode quindi di una certa fugacità a causa del suo continuo (e ciclico) rinnovamento, mentre l’oggetto di lusso rappresenta così la continuità, la 1 Il dizionario DeAgostini riporta: “Slogatura: distorsione, lussazione articolare.” 2 Simmel, G. 1895
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sedimentazione e la trasmissione di valori etici ed estetici1 . Moda e lusso possono quindi coesistere, ma solo per brevi lassi temporali nei quali la moda sposa la modernità proponendo novità mutevoli perfettamente allineate alla frenesia dei tempi d’oggi e, poiché effimere e fugaci, percepite come illimitate. Ecco quindi che la moda si affianca al lusso in qualità di suo momentaneo sostituto: essa offre un appiglio provvisorio a chi vuole sottolineare la propria indipendenza e distinzione pur mantenendo un certo distacco. Il parallelo con la logica Vebleniana avviene nei processi di imitazione attuati nel contesto moda, dove essi, come per i generici beni di lusso, procedono dall’alto verso il basso (il cosidetto trickle-down2 , o sgocciolamento) inducendo un abbandono della “nuova moda” da parte delle classi più agiate nel momento in cui essa diviene appannaggio di tutti. Il prêt-à-porter ha così una funzione di securizzazione psicologica, è uno strumento di partecipazione indiretta attraverso il quale, grazie alla democratizzazione della moda, tutti possono, seppure per un breve periodo di tempo, raggiungere il livello ideale teorizzato da Veblen. Se è vero, quindi, che in passato lusso e moda erano perfettamente sovrapponibili in quanto un prodotto di moda era di per sé lussuoso, il grande cambiamento dei nostri tempi è costituito da una progressiva separazione dei due fenomeni che procedono ora per vie distinte. Storicamente, nelle società tradizionali caratterizzata da un elevato divario sociale, il lusso era tutelato legalmente dalle così dette “leggi suntuarie”, la protezione del lusso era così rigida da consentire il fenomeno di esibizione ostentativa teorizzata da Veblen. In seguito, al contrario, in concomitanza con lo sviluppo della società industriale e la relativa scomparsa dei meccanismi di protezione, nonché il miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno privilegiate, l’esclusività di questa 1 In questo caso si parla di etica nel senso etimologico del termine, come patrimonio di valori insito in un soggetto: si fa quindi riferimento alla storia del marchio. 2 Simmel, G 1895: teoria secondo la quale il meccanismo di diffusione della moda e dei beni di lusso è identificabile in una goccia che cade dall’alto verso il basso, dalle classi sociali agiate alle masse, e che si estende in seguito orizzontalmente grazie ai meccanismi di imitazione per poi venire rimpiazzato, in un nuovo ciclo, da quello della distinzione.
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categoria particolare di beni viene minacciata. Le nuove condizioni venutesi a creare costringono ad una transizione verso un tipo di protezione economica caratterizzata dall’elevato prezzo d’accesso che limita la domanda. In teoria, quindi, tutti possono acquistare il bene, ma il prezzo elevato garantisce una sorta di selezione passiva. Con l’avvento del consumismo di massa però anche questo mezzo di protezione viene a vacillare. L’impiego esponenziale di risorse nella comunicazione del marchio avvenuto nel periodo del boom1 ed il relativo benessere economico contribuiscono a fornire un accesso ai beni pregiati da parte delle masse. Al giorno d’oggi, quindi, la protezione di questa categoria di beni viene relegata ad una ulteriore forma maggiormente articolata caratterizzata dalla simultaneità del possedimento di un bene. Ecco quindi che se in passato per distinguersi bastava sfoggiare una borsa firmata, oggi la medesima borsa conserva il suo carattere di lusso se e solo se viene posseduta insieme ad un altro prodotto che ne rafforzi il significato trascinando il consumatore in una contestualizzata ridondanza simbolica conosciuta solo dagli appartenenti a quella categoria: non più, in definitiva, un oggetto, ma una composizione articolata di beni che costituiscono lo stile di lusso inaccessibile come lo erano i singoli beni in precedenza.
1 in riferimento alla seconda metà del Novecento dove si riconobbe il così detto boom economico che vide nascere il concetto di consumismo, la classe impiegatizia ed una Italia sempre più industriale.
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1.3 Continuità e discontinuità: strategie nella gestione del brand Parafrasando la celebre frase di Chanel “La moda passa, lo stile resta1 ” e ponendola in corrispondenza con il pensiero di Flaubert secondo il quale sia la continuità che costituisce lo stile, è chiaro il riferimento all’opposizione fra moda e stile che pone l’attenzione sulla relazione fra il marchio ed il tempo. A che punto della vita di una marca avviene la transizione da “fatto di moda” a “fatto di stile”? Ci viene in aiuto in questo caso la distinzione in categorie semantiche di continuità e discontinuità operata da Floch. Poiché la grande differenza fra un marchio di lusso ed uno di moda risiede nell’inscrizione del primo in un ciclo di lunga durata, il rapporto con il tempo è, almeno inizialmente, il medesimo della gestione dell’identità stilistica. Individuiamo nel quadrato semiotico2 offerto da Floch queste categorie.
Fonte: Curcio, A.M. 2007: 42
La prima categoria che incontriamo è costituita da quelle marche che pongono l’accento sulla propria discontinuità, sull’assenza di un riferimento al passato e su una imprevedibilità del futuro. È il caso di Christian Dior con l’incontro di John Galliano, l’attuale direttore artistico della Maison: egli non considera il patrimonio stilistico precedente in favore di una visione personale della moda, mutabile ad ogni collezione e per questo tanto rischiosa quanto spettacolare.
1 cit. orig. “Fashion fades, only style remains the same” in Gidel, Henry Coco Chanel - La Biografia 2 modello di quadrato semiotico già adoperato in Sémiotique, marketing et communication per la definizione dei viaggiatori tipo nella metropolitana di Parigi.
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L’espressione contraria è costituita dalla non discontinuità e abbraccia in parte il fulcro di questo elaborato: quelle marche che fanno della trasmissione e dell’ereditarietà il valore cardine della propria identità. È il caso di marchi così detti patrimoniali come Louis Vuitton, Hermès, Patek Philippe, maison di lusso cristallizzate in una sorta di istituzione volta alla (ri)produzione della medesima identità stilistica negli anni, indipendentemente da quale che sia il direttore artistico. La non continuità costituisce, al contrario, la totale rottura, il “colpo di stato” e la “prodezza”. La storia del marchio viene bruscamente interrotta, accantonata, in favore di un nuovo inizio. Strategia vincente solo nel caso di marchi che necessitano di nuova vita, o in presenza di un direttore artistico dotato di abilità innate nel saper gestire una nuova identità di marca partendo da zero. L’ultima strategia, infine, è quella su cui porremo l’accento nel delineare, nei prossimi capitoli, l’identità del marchio Chanel. La continuità costituisce la transizione del marchio nel tempo e l’adeguazione delle sue caratteristiche. In Chanel il gusto e la filosofia a cardine del marchio, così come erano stati interpretati dalla fondatrice, vengono mantenuti e rivisitati da Karl Lagerfeld per adeguarli ai canoni moderni.
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1.4 Identità di marca ed esperienza cognitiva È dunque il concetto di coerenza ad essere alla base dell’identità di un brand di lusso: il sapere coniugare il proprio patrimonio simbolico e storico all’evolvere delle necessità contemporanee. Se è vero che fino ad un passato non troppo distante la marca, il nome stampato sul prodotto, altro non era che quello, al giorno d’oggi assistiamo ad una importante inversione di tendenza che vede i brand, in particolar modo quelli operanti nel luxury businnes, incentrare la propria attenzione e le proprie strategie sulla gestione del brand stesso. Avremo così il celeberrimo monogramma di Louis Vuitton, che campeggia su ogni prodotto in maniera ridondante e declinata in ogni forma e maniera, il famoso motivo a righe incrociate di Burberry, le due “G” di Gucci, analoghe al caso che a noi sta a cuore, le “C” di Chanel, derivate dalle iniziali della sua fondatrice, Gabrielle “Coco” Chanel. Ecco allora che il prodotto diviene immediatamente riconoscibile fornendo quella sicurezza sociale teorizzata nei capitoli precedenti che ha alla base, lo ricordiamo, l’identificazione dell’individuo e il suo inserimento in un gruppo. Ma come avviene questo riconoscimento nella marca? Presupposto che la differenza sostanziale fra due prodotti del medesimo segmento, poniamo due borse da viaggio, risieda nel marchio, esse sono identiche strutturalmente e si differenziano per il solo brand riportato sul canvas 1, si può affermare dunque che il procedimento di branding2 avviene sostanzialmente in maniera inconscia nel consumatore che assume una posizione nella scelta del prodotto. Il valore della marca, ovvero “la differenza di prezzo che il consumatore è disposto a pagare per il prodotto brand rispetto al corrispettivo senza marca3”, è di fondamentale importanza poiché costituisce, in questo caso, una forte discriminante. 1 il tessuto che costituisce la valigia 2 per branding si intende, negli studi di Communication Design, l’insieme di attributi tangibili e intangibili che, sintetizzati in un segno, il marchio, rappresentano in modo univoco e distintivo una data azienda. Il processo di branding in questione è dato dall’associazione fra segno e significato che avviene, in via teorica, nella mente del consumatore 3 Cappellari, R 2008
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L’esperienza di fruizione di beni di lusso ha assunto nel tempo quindi una connotazione prettamente cognitiva. Il luxury good non è più vincolato al reale valore d’uso ma tende ad una immaterialità simbolica. Un borsone di Vuitton, un abito di Brioni, un foulard di Hermes avranno, agli occhi del pubblico, una propria ‘anima’ e verranno percepiti come incentivo alla personalità e allo status di chi li indossa. Questo processo di forte caratterizzazione trasporta il brand in un contesto di difficile sostituibilità che contribuisce a fidelizzare il cliente permettendogli di offrire il fianco all’imposizione di un premium price1 a volte molto elevato diminuendo la sua sensibilità al prezzo. Più alta sarà la brand reputation, maggiore sarà il prezzo che il fruitore sarà disposto a pagare per ottenere il bene. La strategia da seguire è dunque volta a creare un legame forte fra il marchio ed il cliente, costruire una coscienza di marca tale che il consumatore possa rispecchiarsi in quell’insieme di pensieri, filosofie, sensazioni veicolate dal marchio. Questo, soprattutto nel marchio di moda, è costituito dall’identità stilistica, dall’insieme di codici permanenti che caratterizzano nell’arco del tempo i prodotti di una maison e veicolano negli anni la personalità del fondatore. Facendo un breve excursus nello specifico, si pensi a Chanel, che dall’inizio del Novecento mantiene una forte connotazione tanto femminile quanto carismatica. Il contesto in cui nacque la Maison è quello della prima Guerra Mondiale dove si assistette alla progressiva emancipazione femminile: le donne abbandonarono lo sfarzoso abbigliamento dei secoli precedenti per abbracciare la comodità. Con i mariti al fronte, la figura femminile si trova sola ad affrontare i problemi di una famiglia avvolta dal tremendo contesto bellico. Chanel seppe riconoscere il setting offrendo loro abiti confezionati nel medesimo tessuto delle divise dei mariti, comodi e sempre eleganti, chiave stilistica della donna determinata che caratterizzerà la comunicazione futura della maison. 1 Secondo Michael Porter (economista), “un’impresa si differenzia dai concorrenti quando fornisce qualcosa di unico che abbia valore per i suoi acquirenti” (Porter, 1985). Per fare in modo che il prodotto sia differenziato, vi è la necessità che esso sia in qualche modo unico; deve avere, cioè, caratteristiche, siano esse reali o percepite, non riscontrabili in altri prodotti concorrenti, e che queste caratteristiche abbiano un valore per gli acquirenti tale che essi siano disposti a pagare. La differenza massima di prezzo che in questo modo il produttore può imporre al consumatore viene detta premium price
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Il brand deve quindi essere prima di tutto in sintonia con le aspettative del consumatore, saperle interpretare e, spesso, anticipare. Ma prima di tutto deve sapere evolvere con esso nel tempo accompagnando la metamorfosi costantemente, pena la perdita di fedeltĂ . In Chanel questa evoluzione del marchio avvenne con il passaggio della direzione artistica alla morte della fondatrice. Karl Lagerfeld, il successore, ha saputo conciliare la modernitĂ imposta dal nuovo secolo ai canoni della fondatrice proponendo un prodotto sempre riconoscibile, ma anche innovativo.
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1.5 Verso la semiotica della moda Celebre per lo studio in merito denominato Il Sistema della Moda (1976), Roland Barthes è senza dubbio precursore degli studi semiotici applicati alla moda. Coadiuvato da studi storici e sociologici relativi al costume, Barthes indaga e ritrova in essi una forte carenza strutturale in quanto essi trascurano l’aspetto istituzionale del fenomeno: in nessuno degli studi di carattere storico-sociale fatti fino a quegli anni emergeva il costume inteso come “struttura i cui elementi, di per sé privi di valore, risultano significanti solo in quanto legati da un insieme di norme collettive1 ”. Il sistema, quindi, comprende quell’insieme di norme che tollerando, interdicendo, giustificando o obbligando - regolano l’assortimento vestiario di un individuo. Alle basi del costume vi è dunque l’appropriazione di una forma da parte della società; a questo proposito, gli storici e sociologi secondo Barthes dovrebbero interessarsi al modo in cui l’indumento individuale si inserisce in un contesto formale e regolamentato. Barthes propone allora il parallelo fra linguaggio e vestito: così come l’abito, anche il linguaggio è simultaneamente sistema e storia, individualità e collettività, poiché rappresentano entrambi strutture complete costituite dalla coesistenza di forme e norme; una fitta rete relazionale dove la modifica di un solo elemento costituisce la trasformazione di tutto l’insieme. Barthes considera quindi la linguistica, poiché disciplina consolidata, come base per la costruzione di schemi utili all’analisi del fenomeno. Analogamente ai due aspetti emersi dal Corso di Linguistica Generale (Saussure, 1916), secondo il quale il linguaggio umano può essere studiato sotto l’aspetto della langue (formale e sociale) e della parole (pragmatico e individuale), Barthes trasla il concetto applicandolo al vestito: [...] sembra utile distinguere una realtà, che proponiamo di chiamare “costume”, corrispondente alla langue di Saussure, e una seconda realtà, che chiameremo “abbigliamento”, corrispondente alla parole. La prima, realtà istituzionale e sociale, è indipendente dall’individuo, è una sorta di riserva sistemica all’interno della quale il singolo organizza la propria tenuta; la seconda è una realtà individuale, vero e proprio atto del “vestirsi” attraverso il quale l’individuo attualizza su 1 Barthes, R 1976
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di sé l’istituzione generale del costume. Costume e abbigliamento formano così un insieme generico al quale proponiamo di riservare il nome di “vestito” corrispondente al “linguaggio” di Saussure.1
La scelta di un abbigliamento a discapito di un altro è dunque dettata dal gruppo sociale di appartenenza: determinati accorgimenti o carenze (bottoni non allacciati, usura dei vestiti, disordine, vestiti improvvisati...) costituiscono così la dimensione individuale del vestito, utile in analisi dal punto di vista psicologico ma meno rilevanti in questo contesto di evoluzione che punterà l’indice maggiormente sul fenomeno “costume”. Esso, al contrario dell’abbigliamento che veicola poche informazioni personali, identifica le relazioni fra individuo e gruppo. Una distinzione blanda e in continua metamorfosi poiché fenomeni di costume possono divenire fenomeni di abbigliamento: si pensi alla moda che propone di volta in volta modelli che verranno adottati, in seguito, nell’abbigliamento, e viceversa. La moda allora rappresenta sempre un fenomeno di costume. Elaborata da specialisti, si propaga su scala collettiva costituendo un fenomeno d’abbigliamento che si inserisce nell’individualità. Ma la moda stessa, a monte, risente delle costrizioni sociali, del contesto storico, che trascendono dalla creatività e dall’estro del direttore artistico; e parallelamente opera sulle scelte individuali del singolo che, inconsciamente, crederà di scegliere sulla base di gusti personali che al contrario saranno dettati da codici estetici e sociali. È proprio quando si parla di codici però che sorge il problema nell’analisi di un oggetto di moda. Se, come abbiamo visto nel capitolo 1.2, fin quando vigevano le leggi suntuarie gli abiti erano regolamentati da codici iper-codificati2
che non lasciavano spazio ad ambiguità,
estremamente è diverso il discorso attuale riguardante la moda. Si tratta di un codice ipo-codificato dove “impercettibili sfumature del significante possono dar luogo a rilevanti scarti nell’universo semantico3”; un codice 1 Barthes, R 1977 2 Baldini, M 2005:22 3 ibid.
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rudimentale, essenziale che utilizza i convenzionali simboli tattili e visivi di una cultura per produrre un risultato ambiguo ed allusivo, in mutazione. Considerata questa mutevolezza, prima di attribuire un determinato significato ad un abito bisogna dunque tener conto del contesto, della persona che lo indossa, l’occasione o il luogo. Inoltre, un abito non necessariamente significa la medesima cosa nel corso degli anni o per altre persone, anche nella stessa sfera sociale. L’ostacolo principale alla comprensione di una moda, scrive Edward Sapir sull’enciclopedia1 alla voce Fashion, è la mancanza di una conoscenza precisa dei simbolismi inconsci relativi ad una determinata cultura. In questo particolare e problematico contesto, emerge la necessità di rendere, di conseguenza, un brand riconoscibile e attualizzabile da il più ampio bacino di clienti possibili, veicolando un brand image plausibile per più culture differenti fra loro, pianificando una strategia di comunicazione dell’universo di marca.
1 Sapir, E 1935:141
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Capitolo 2
Esaurite le premesse di carattere sociologico utili per introdurre l’argomento a contestualizzare il soggetto della tesi, procediamo ora con l’analisi delle strategie di comunicazione nel peculiare segmento di mercato dei così detti luxury goods. Sempre più, la pubblicità permea la quotidianità di ognuno di noi veicolando messaggi, brand values, che noi interpretiamo e nei quali sappiamo riconoscerci: valori e simboli che ci trasportano inconsciamente in una dimensione di dipendenza dal prodotto. Nell’arco del tempo, dalla nascita della pubblicità nel XIX secolo con l’avvento del manifesto pubblicitario, abbiamo assistito ad una evoluzione nel concetto di comunicazione pubblicitaria, determinata dalla sempre più presente componente emozionale e simbolica che ha via via soppiantato la referenzialità del prodotto in favore di un appeal più intimo e soggettivo. Concederò una breve introduzione su quelle caratteristiche proprie della pubblicità degli ultimi anni per concentrarmi poi sulla comunicazione della marca e scendere così nel campo della comunicazione del luxury brand in modo da introdurre l’ultimo capitolo dell’elaborato riguardante Chanel.
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2.1 Comunicare il brand di lusso: strategie di comunicazione pubblicitaria Le ultime due decadi de XX secolo hanno decretato il trionfo della pubblicità. Le aziende, perfettamente consce delle potenzialità del mezzo pubblicitario, coadiuvate dal nascente consumismo di massa, scelsero di investire enormemente in essa. Ben presto però la situazione si ripiegò su se stessa, il mercato pubblicitario divenne saturo costringendo il consumatore ad una sorta di rifiuto nei suoi confronti. Se da un lato la pubblicità, intesa come mezzo, subì un declino, il fenomeno della marca riuscì a trarne giovamento grazie all’estrema competizione ed la conseguente omologazione dei prodotti finali. Le aziende cercarono così spasmodicamente di delineare caratteristiche di esclusività per differenziare la propria offerta. Questa nuova tendenza delle aziende trova presto un riscontro nella figura del consumatore di fine millennio, sempre maggiormente in cerca di nuove forme di gratificazione psicologica che gli permettano di scavalcare la mera utilità materiale del bene. La sedimentazione nel tempo e la reiterata coerenza con lo stile di marca permette al consumatore di riconoscere immediatamente i codici nel quale identificarsi e identificare il bene ricercato. Il linguaggio metaforico e simbolico sul quale si fonda il “discorso di marca” diviene così un segno visibile e immediato che riesce a comunicare il senso completo del brand in modo tale che non sia più solo il prodotto stesso ad essere riconoscibile, ma anche il solo packaging (per esempio) possa rimandare all’universo di marca. Nel caso di Chanel basti pensare al sempre presente abbinamento nero/oro o nero/bianco, tanto nel prodotto quando nelle confezioni, stile inconfondibile della Maison che ha permesso attraverso più di un secolo di riconoscere il marchio in ogni sua declinazione. In questo modo è sufficiente vedere le due “C” intrecciate per riconoscere e ricordare in maniera vivida tutte le particolarità del marchio, il suo bagaglio simbolico e storico.
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La comunicazione pubblicitaria assume così un ruolo di fondamentale importanza nella costruzione e nel mantenimento della percezione del lusso associato al marchio. Essa permette, nell’insieme delle percezioni visive e testuali utilizzate negli annunci come nei prodotti multimediali, all’osservatore di cogliere le caratteristiche salienti della marca o del prodotto poiché è innato nell’individuo il processo di inferenza di determinati attributi quali il prestigio, il sogno, la qualità associata ad un oggetto. Il ruolo della comunicazione pubblicitaria nel veicolare un determinato livello di status di un bene si palesa, quindi, nell’adozione di uno specifico patrimonio lessicale utile nell’associare al prodotto la filosofia e gli attributi idealizzati dal produttore. Uno dei mezzi più semplici ed efficaci per veicolare questi valori è l’associazione al bene reclamizzato di un altro prodotto o personaggio che gode di uno status già riconosciuto. È il caso, per esempio, dei testimonial come accade nella totalità delle pubblicità televisive di Chanel. Allo scopo di rafforzare il messaggio trasmesso, vengono utilizzati in questo contesto elementi lussuosi che forniscano un contorno, uno sfondo efficace e ridondante che ne potenzino i connotati. Il colore oro, nello specifico, è da sempre utilizzato in questo caso nella progettazione: lo si trova spesso in ogni parte dell’annuncio, quale che sia il mezzo. L’ambientazione, quindi, si basa sull’assunzione che il possedimento dei beni da parte di un individuo ne rivelino determinate informazioni (il prodotto è in genere presentato in mano a personaggi carismatici, benestanti, di classe). Dall’altro senso, si denota come gli individui cerchino di trasmettere informazioni su loro stessi attraverso scelte di consumo oculate e pianificate. La scelta di un capo di abbigliamento, di una vettura o di semplici attività ricreative sono utili per l’assegnazione reciproca di determinati livelli di status sociale. Il consumatore fruisce passivamente della comunicazione pubblicitaria per estrapolarne determinati attributi di status da associare alla marca: esso utilizza l’immagine per identificare gli elementi distintivi di uno stile di lusso ed applicarli, in seguito, al proprio ideale di consumo. È chiaro a questo punto quanto sia tattico enfatizzare gli 24
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elementi utili ad individuare la dimensione aziendale in un prodotto pubblicitario. Goffman nel 1979 definì gli annunci pubblicitari come “non descrittivi della vita reale, bensì descrizioni iper-ritualizzate del modo in cui le persone ritengono dovrebbe essere (e vorrebbero fosse) il proprio ambiente di riferimento. La pubblicità quindi è un insieme fittizio di simboli culturalmente costruito in cui inserire il prodotto da reclamizzare. Grant McCracken, antropologo statunitense, nel 1988 propose tre fasi nel processo di creazione dell’annuncio pubblicitario che prevedono così in primo luogo l’identificazione delle caratteristiche, i valori che si vogliono associare al bene; ne segue l’identificazione di dette caratteristiche nell’ambiente culturale circostante, il così detto setting, dove l’ambientazione verrà creata ad hoc per comporre l’annuncio; ne succederà, in conclusione, la creazione di componenti verbali e visive che sottolineino e richiamino le “proprietà” in ridondanza completando così il processo di trasferimento di significato dal contesto descritto nell’annuncio al bene reclamizzato.
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2.2 Comunicare il brand di lusso: significato di marca Approfitto di un breve excursus storico per introdurre l’argomento: nel corso degli anni vi è stato una progressiva evoluzione nella gestione del brand di lusso determinata dal sostanziale passaggio da un modello di businness singolo alla logica manageriale articolata delle odierne holding multinazionali. Ciò implica una serie di attenzioni maggiori: se in passato il creatore/imprenditore si occupava del solo marchio vincolato ad una ristretta cerchia di prodotti, con il fenomeno dell’estensione di marca, ci si trova a fare fronte ad una nuova necessità, quella di potenziare il sistema di valori intrinsechi della marca in modo che essa possa “coprire” una più vasta area. Al giorno d’oggi il primo passo effettuato per implementare il senso di marca è quello di associare strettamente ad essa la figura del suo imprenditore o stilista, facendo quasi diventare quest’ultimo testimonial di se stesso. È il caso di Lagerfeld per Chanel: l’immagine costruita del personaggio, i “suoi” colori e linee, l’impostazione e lo stile, rispecchiano i valori e le connotazioni simboliche del marchio e, ancor più, fanno del personaggio il portavoce di ciò che era il patrimonio relazionale della fondatrice senza, però, rubarle la scena (basti pensare alle foto che ritraggono lo stilista nei laboratori della Maison o negli uffici sempre attorniato di immagini ritraenti Coco). L’attività dello stilista è, quindi, sempre di primaria importante nelle pubbliche relazioni del marchio, ma non sufficiente nel creare la domanda per un oggetto che, la maggior parte delle volte, è superfluo oltre che eccessivamente costoso in rapporto al valore d’uso. La chiave è trasformare l’acquisto in una esperienza. I quattro passaggi teorizzati da Chevalier e Mazzalovo conducono il consumatore dalla percezione della marca fino all’acquisto effettivo: il significato di marca è la chiave di volta del processo, se ne illustrano, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, i punti salienti transitandoli graficamente nel prodotto pubblicitario rendendone possibile la memorizzazione. Viene da sé che se una marca non ha significato, ovvero 26
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non ha una solida base su cui fondare la propria comunicazione, sarà impossibile metterne a punto una strategia: ciò che non comunica un “senso” non può creare un desiderio. Ma come definire e soprattutto trasmettere in modo immediato questi valori di marca, questi concetti astratti e quasi filosofici? La via più ovvia, come ci suggerisce Marrone ( Il discorso di marca, 2007), è quello di esprimere l’universo tematico di marca tramite la denominazione, ovvero quando il tema1 viene esplicitato dallo stesso brand name. Esso, indipendentemente dalla sua origine, è il fulcro del marchio intorno al quale si dipana la costruzione della sua immagine, dentro il quale si condensa il patrimonio simbolico della marca. Se si prende per esempio il caso di Nike, vi troviamo “innatamente” la tematica della vittoria, in Magnum quella della grandezza, in Smart ,la scaltrezza, l’intelligenza. Il processo di significazione insito nel nome proprio della marca è quasi sempre quello dell’antonomasia: un nome del tutto arbitrario, proprio e senza un significato specifico, diviene portavoce di un significato forte in quanto segno di una marca di successo: è il meccanismo della così detta motivazione a posteriori. Ecco allora che come Marlboro è sinonimo per antonomasia di una vita selvaggia, avventurosa; Harley Davidson rinvia a uno stile di vita duro, burbero; Chanel, nel nostro caso, diviene così sinonimo di classe ed eleganza tale che basti il solo logo, le celebri “c” intrecciate, per rievocare il patrimonio simbolico. È dunque a livello visuale che il logo si trova a svolgere un ruolo analogo a quello del nome proprio, cioè quando egli è presente in modo netto e perfettamente riconoscibile, in grado di trasmettere l’universo di marca nella medesima maniera. Talvolta però, si incontrano loghi che invece di esibire tratti figurativi chiari, unanimi e distintivi, si dotano di elementi così detti figurali, ovvero di particelle visive astratti in modo tale da consentire una interpretazione variabile al momento della ricezione, moltiplicando così le linee di senso che vi si articolano intorno. 1 Dimensione tematica: per — del prodotto si intende l’organizzazione formale dei contenuti che la compongono in una struttura tale che siano percepibili e comprensibili al pubblico (p.e. la CocaCola veicola il tema di una America spensierata, giovane, di buoni sentimenti, “colorata”; chi consuma la bevanda si crede, quindi, possa assorbire tutto ciò)
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Ma è ancora una volta un discorso labile, quello appena fatto: il marchio si nutre del sociale che lo circonda, è specchio di valori ma assorbe dal contesto in cui cresce giorno dopo giorno trasportando al suo interno ideologie, gusti, tendenze che prima non erano state preventivate, ma che ora vengono metabolizzate e ripresentate da un punto di vista simbolico dando così l’idea di una continua attualità. È il caso delle pubblicità, nelle quali, soprattutto tramite i mezzi multimediali, si può notare la sostanziale evoluzione di un marchio e del suo inglobamento di valori attualizzanti che vanno via via ad affiancare il patrimonio storico. Il tema discorsivo della marca è dunque in perenne evoluzione, difficile da identificare univocamente se non in breve lasso temporale. Ve ne si dà quindi una traduzione progressiva, sia internamente alla sfera discorsiva d’appartenenza (l’universo economico-sociale della marca), sia esternamente rispetto ai discorsi sociali che lo circondano, laddove lo stesso confine fra interno ed esterno viene esso stesso ridisegnato di volta in volta tangendo l’identità profonda del marchio.
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2.3 Ereditarietà, etica ed estetica Ma di cosa si tratta quando si parla di identità di una marca? Nel paragrafo precedente abbiamo parlato a più riprese del patrimonio simbolico che un marchio possiede, dei valori che trasmette. Cerchiamo ora di descrivere l’importanza dell’identità, come formarla, gestirla e dunque analizzarla. Per poter analizzare e comprendere l’identità di un marchio di lusso bisogna comprendere in cosa essa consista, separando la sua essenza dalle percezioni variabili che produce nei consumatori1 . Analogamente alle estensioni della marca di tipo commerciale (si pensi a Lacoste, che oltre alle famose polo produce anche portafogli, profumi, accessori per lo sport), l’identità può essere considerata una estensione con una forte componente umana caratterizzata da una specificità e dalla sua durata nel tempo. Il brand identity può essere riassunto come “la capacità di una marca di essere riconosciuta come unica, nel tempo, senza confusione, grazie agli elementi che la individualizzano2 ”. L’identità rappresenta dunque il fulcro della marca intorno alla quale elaborare le strategie stilistiche e commerciali, la base di ogni susseguirsi di direzione artistica. Nata negli anni Venti come “anima corporativa”, termine coniato da Bruce Barton3, il concetto di identità s’è sedimentato solo negli anni Ottanta con l’esplosione della pubblicità. Esso, infatti, designava in un senso limitato tutto ciò che poteva identificare la marca, in stretta correlazione con la produzione pubblicitaria. Sarà con il pubblicitario francese Séguéla che l’analisi delle marche verterà maggiormente sull’aspetto psicologico, sul loro stile e sul loro carattere, iniziando a prendere le distanza dal concetto di immagine. Essa, l’immagine, diviene dunque la percezione che il consumatore ha della marca; al contrario l’identità si riferisce alla sostanza, alla sua espressione attraverso ogni canale, in ogni manifestazione della marca stessa. 1 Chevalier, M; Mazzalovo, G; 2008:110 2 ibid. 3 Bruce Fairchild Barton (05/08/1886 - 05/07/1967): politico scritto e pubblicitario statunitense, ha fondato BDO divenuta poi BBDO (Batten, Barton, Durstin & Osborn) e lavorato al naming di General Motors e General Electrics.
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L’analisi della produzione di significato di un marchio, ovvero della sua manifestazione percepibile, presuppone che le marche siano sistemi che producono senso1 . Trattandosi di un ambito squisitamente semiotico, ci viene incontro nello studio Jean-Marie Floch con uno strumento denominato “cerniera” [fig. 2]. Esso permette di stabilire diversi livelli di definizione di universo di marca. Tutti i segni, quindi, sono articolati in virtù di una cerniera, una liaison, tra significante (l’espressione della marca) ed il significato (il contenuto), separando così il contenuto dal contenente permettendoci di porre l’attenzione sulle invarianti che costituiscono la riconoscibilità della marca nel tempo.
fig. 2 - Livelli di analisi o di definizione del brand universe Fonte: Mazzalovo, G; Chevalier, M. 2008
La cerniera ci permette di caratterizzare l’identità del marchio mediante la sua espressione (l’estetica) ed il suo contenuto (l’etica). In primo luogo è interessante notare come, da un punto di vista estetico, cioè della tipizzazione dell’immagine, delle stilistiche e cromatiche, i marchi nord europei quanto quelli nord americani si rifacciano sostanzialmente ad una estetica di stampo classico. Come vedremo nell’analisi del total look di Chanel, marchi come Lanvin, Vuitton, Jil Sander, ma anche esulanti dalla moda come Audi, si rifanno ad un preciso schema estetico caratterizzato da: • Linee nette e contorni definiti: elementi riconoscibili • Forme chiuse, visibili nell’interezza e piane • Spazio segmentato in zone autonome • Simmetria 1 Chevalier, M; Mazzalovo, G; 2008:110
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• Saturazione dei colori D’altro canto, brand più mediterranei come i nostrani Dolce&Gabbana o Versace, ma anche le spagnole Deƨigual o Loewe, hanno una caratterizzazione marcatamente barocca dove si riconoscono, al contrario: • Linee curve ed intrecci, ombre • Forme aperte, in connessione fra di loro • Spazio “coeso”, non vi è suddivisione in zone autonome ma esse hanno senso solo nell’insieme • Forte presenza di volumi creati dal movimento delle forme • Colori profondi, pieni Ma cosa accade quando l’identità del brand diventa la sua immagine? Il problema è analogo alla comunicazione interpersonale: se è vero che l’identità del brand è di natura emissiva e l’immagine ricettiva, un parallelismo può essere fatto tra le informazioni che io voglio dare di me e quelle che effettivamente vengono recepite. Il messaggio deve sottostare ad un inquinamento, mutamenti, omissioni e variabili che costituiscono la naturale dinamicità del processo comunicativo. L’identità della marca deve essere quindi il più in linea possibile con quella del consumatore e nella formazione della sua corrispettiva estetica bisogna tenere conto della cultura degli individui che ne adotteranno il prodotto. All’interno delle rappresentazioni sociali della marca, vi possono essere molteplici interpretazioni, per questo il messaggio da trasmettere deve essere il più omogeneo, chiaro e permanente possibile. Coerenza e permanenza dell’identità non significa però sedimentarla. L’evoluzione deve esserci, pena la scomparsa dell’appeal. Chanel seppe innovare negli anni Venti, ma seppe anche rinnovarsi nelle decadi successive trasportando e declinando all’evoluzione culturale della società i propri canoni. Ecco quindi che una identità rigida o colma di vincoli e limiti mal si adatterà all’evoluzione del mercato. Si tratta di un equilibrio fra il modellare l’estetica del marchio adattandola al tempo (ma senza 31
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stravolgerla) e scremarne l’etica valorizzando i valori (mi scuso per il gioco di parole) più in sintonia con il mercato. Evoluzione non è quindi sinonimo di sconvolgimento delle invarianti viste nello schema poco sopra, ma operare marginalmente, di fino, senza alterare la sostanza della marca, come vedremo in seguito analizzando sommariamente l’iter storico delle pubblicità di Chanel No.5, cartina di tornasole di questo equilibrio fra evoluzione estetica e mantenimento etico.
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Capitolo 3
Interamente dedicato alla figura di Coco Chanel e alla sua omonima Maison di moda, questo capitolo ci permetterà di addentrarci nell’universo simbolico del marchio grazie ad una breve introduzione sulla biografia della stilista. Conoscere il background dell’artista risulta necessario per delineare i tratti salienti delle sue opere e la filosofia alla loro base. In seguito si analizzerà il caso emblematico della comunicazione televisiva del prodotto commerciale più famoso del marchio, il profumo “No.5”, che ci transiterà nel vivo dell’elaborato dove cercherò di evidenziare e analizzare le connotazioni stilistiche, grafiche e cromatiche caratteristiche dei prodotti della Maison; quella costellazione di minuscoli e, ai più, insignificanti dettagli che ci permettono di riconoscere un prodotto Chanel da quelli dei marchi concorrenti.
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3.1 Coco: la determinazione di una donna
Cresciuta sin dalla giovane età in un orfanotrofio, Gabrielle Chanel, detta Coco, nacque a Saumur il 19 agosto 1883. La madre Jeanne, commerciante come il padre, morì quando Coco aveva soltanto dodici anni. Il padre, Albert, poco incline alla vita familiare e dedito ai vizi, non potendo accudirla, decise di affidare lei e le sorelle, Julia e Antoinette, ad un orfanotrofio. Sarà nei periodi di vacanza dagli zii a Varennes, vera e propria fuga dal carcereorfanotrofio, che Gabrielle sentirà per la prima volta parlare di moda. La zia Costier le insegnerà a cucire e le trasmetterà la passione per i cappelli. Non li acquistava confezionati, bensì comprava forme in feltro che poi avrebbe tagliato e modellato. Grazie a queste elementari pratiche casalinghe Gabrielle capì che il cucito poteva
Coco Chanel ritratta nel 1936 dall’amico Jean Cocteau: abito da sera, gioielli e capelli raccolti
essere molto più di una utile monotonia. Ormai diciottenne, fuggita da un matrimonio combinato nell’orfanotrofio di Obazine, Gabrielle viene accolta come convittrice all’Istituto Notre-Dame di Moulins. All’età di quasi vent’anni, nel 1902, Gabrielle lascia il collegio con l’aiuto delle
fonte: O’Hara Callan, G 2009:60
religiose che si impegnano a “sistemarla” in una ditta specializzata in forniture per sarte e corredi. Presto affiancherà un secondo lavoro dove confeziona, su richiesta di alcuni clienti, abiti e gonne in orario extralavorativo, mansione che le consente di incrementare l’altrimenti esiguo salario e di scoprire quell’innata resistenza al lavoro che la caratterizzerà per tutta la vita. Licenziata poco tempo dopo a causa di un terzo lavoro come cantante nei café-concerto, lavoro che le valse il nomignolo di Coco, 34
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Gabrielle trova in questo momento di stallo un ulteriore slancio: le clienti affezionate continueranno a rivolgersi a lei privatamente per le sue produzioni fornendole così un introito stabile e, soprattutto, l’indipendenza che cercava da sempre. Annoiata dalla vita a Moulins, si trasferirà nella città termale di Vichy abbagliata dal miraggio di poter cantare in pubblico. Presto questo sogno svanirà lasciando una Coco affranta ma pur sempre determinata. Sarà in quel periodo che conoscerà, a ventitré anni, il maresciallo Etienne Balsan, erede di una famiglia proprietaria di industrie tessili. Appassionato di equitazione, Etienne Balsan avrà la capacità di avvicinare a questo mondo la giovane Coco che sin da piccola considerava il cavallo come solo mezzo di locomozione. In quegli anni scopre l’eleganza dell’incedere, del galoppo, la fierezza del portamento delle bestie e gli abiti dei fantini impettiti nelle casacche di seta e i pantaloni bianchi: luccichii che la trascineranno a fare la cavallerizza. È negli stessi anni in cui convivrà con Balsan nella tenuta di Royallieu che Coco si avvicinerà all’alta società dell’epoca, conoscendo un ambiente che fino ad ora aveva sempre guardato di lontano. In concomitanza con quegli anni, scoprirà il piacere degli abiti maschili: Coco “ruba” a Etienne le camicie, le cravatte ed i lunghi mantelli sportivi con gli alamari facendosi riconoscere come una un po’ eccentrica ma che contribuiranno ad accrescere la stima da parte delle amiche di Etienne che si rivolgeranno a lei per farsi confezionare i celebri cappelli. Nel corso degli anni successivi, Coco, stanca di questa attività clandestina, inizia a pensare di aprire una boutique che abbia una immagine importante, in una zona rinomata di Parigi: tra Rue Royale e l’Opéra. Nel 1910 Gabrielle acquista, con il supporto del nuovo amante Boy Capel, amico di Balsan, un grande appartamento al numero 31 di Rue Cambon dove installerà il suo atelier: Chanel Modes. È proprio in quella via che nascerà il mito di Chanel, il modello di femminilità del Novecento plasmato sull’ideale di donna determinata, dedita al lavoro, sportiva, dinamica e autoironica. Negli anni Venti, poco dopo l’apertura della boutique, quest’ultima diventerà sin da subito polo di 35
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interesse per la moda di quella generazione, ma la consacrazione vera e propria la avremo dieci anni dopo con la nascita del celebre tailleur: un pantalone dritto o una gonna lineare sormontata da una giacca di visibile taglio maschile. Lo stile d’ora in poi sarà inconfondibile e una certa androginia sempre palpabile nelle sue sempre femminili creazioni. Chanel seppe rivisitare la moda del secolo adattandola ad una donna sportiva, comoda, libera tanto nei movimenti quanto formalmente. Nel 1916 ispirata dagli uomini al fronte e dalle donne costrette a sopperire la mancanza in fabbrica, adottò per le sue creazioni il jersey1, tessuto appannaggio della classe operaia, che contribuirà a creare il sempre presente contrasto “frivolezza femminile” - “praticità maschile”. Lo stile di Chanel muta negli anni seguendo la società: il tailleur si accorcia rimarcando l’emancipazione femminile, gli abiti si arricchiscono di catene dorate e accessori per sottolinearne la discreta ricchezza. Lo stile, abbiamo detto, muterà negli anni a seguire anche dopo la morte della stilista, avvenuta all’età di 87 anni in una stanza del celebre Hotel Ritz di Parigi, quando la direzione artistica passerà di mano a Karl Lagerfeld. Di vitale importanza, questa breve divagazione storica, ci consente di cogliere la massiccia presenza dei brand values nei prodotti e nella comunicazione del marchio. Come vedremo nel capitolo successivo, la creazione di profumeria più celebre della Maison, No.5, sarà fra i massimi esempi dell’identità stilistica della casa in quanto portavoce nel tempo dei codici stilistici e dei valori impressi dalla fondatrice.
1 stoffa realizzata a maglia rasa, prodotto della maglieria industriale, risulta elastica sia in larghezza che in lunghezza e può essere realizzata con qualsiasi fibra tessile [fonte: O’Hara Callan, G. 2009]
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3.2 L’advertising Tv di Chanel No.5: etica ed estetica di un profumo Attraverso gli anni, dalla nascita della comunicazione mediatica di prodotto, il marchio Chanel è da sempre rimasto intrinsecamente legato ai valori della sua fondatrice. Il concetto tutto femminile di eleganza, di sobrietà e understatement vengono costantemente ripresi in ogni strategia pubblicitaria organizzata dal marchio. Coerentemente con quanto detto nel capitolo precedente, vedremo ora, analizzando brevemente la storia delle campagne audiovisive del prodotto, come per No.5 l’etica sia sempre stata mantenuta nel corso degli anni, cesellando secondo i canoni del mercato l’estetica della comunicazione. Sin dagli anni ’50, il marchio Chanel ed il suo celebre profumo, la fragranza No.5 proposta dal chimico e profumiere Ernest Beaux all’allora giovane Coco, sono fortemente legati all’immaginario collettivo della seduzione. La stessa fondatrice chiese ai profumieri di produrre una fragranza che incarnasse una femminilità unica e senza tempo, distinguibile sempre. Da qui nacque No.5, un nome che nome non è, il numero del quinto flacone che il profumiere propose a Chanel, adottato per non confondersi fra i nomi, a detta di lei, ridicolmente altisonanti della concorrenza. I decenni successivi furono costellati dalla comunicazione del prodotto. Complice la dichiarazione di Marylin Monroe, che ammise di coricarsi vestita di due sole gocce di N°5, il profumo venne naturalmente associato al concetto di bellezza, seduzione, femminilità, ricercatezza. Venne così il turno di Carole Bouquet e Catherine Deneuve, portavoce della bellezza “made in France”. Se alla Deneuve venne riconosciuto il merito di scolpire una volta per tutte il nome del profumo nell’immaginario degli spettatori (si ricordi, nei tardi anni 70, lo spot dove, 37
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rivolgendosi a una platea, la Deneuve pronuncia il celebre slogan “Sapete cosa volete: Chanel”), la vera svolta narrativa la si deve a Carole Bouquet negli anni ’80 con due spot emblematici. Nel primo una femminile Bouquet vestita di un tailleur rosso bacia teneramente sulla fronte un signore attempato seduto alla poltrona del suo attico in un grattacielo per poi saltare alla guida di una sportivissima Ferrari nera e perdersi nel deserto. Qui sedurrà un giovane benzinaio e, alla fine dello spot si lancerà in un abbraccio sensuale con un uomo in camicia. Il commercial terminerà con l’attrice poggiata appena, con leggerezza, sulla bottiglia del profumo, che pronuncia lo slogan “Condividi la fantasia... Chanel No. 5”. Ecco allora la chiave di volta della filosofia della Maison: gli spot devono trasmettere l’immagine, ovviamente rivisitata in chiave moderna, della fondatrice. Successo, potere ma anche seduzione e, ancora, femminilità, divengono i cardini degli spot a venire. Il secondo spot recitato da Carole Bouquet [fig.1] vede fig.1
l’attrice vestita di una
morbida vestaglia di seta chiara che ne esalta le forme. Lo scenario è costituito da una camera, probabilmente una stanza d’albergo, di vago gusto art nouveau. Nell’ambiente regna la penombra, fuori dalle finestre si può udire chiaramente un temporale. L’aria che si respira è a metà strada fra il noir e il cinema erotico. Un uomo vestito elegante, di un abito nero, in perfetta contrapposizione simbolica con la purezza della candida e morbida vestaglia dell’attrice, le si para davanti. Vi è uno scambio di battute, lei con fare malizioso gli parla all’orecchio, i suoi occhi incrociano prima quelli dell’uomo e poi corrono sulle labbra di lui. La carica sensuale della scena è chiara e palesata dalle movenze dell’attrice che stringe tra le unghie smaltate rosso vivo la tipica bottiglia da farmacista, nascondendola dietro alla schiena quasi fosse una pozione d’amore. La donna, che nello spot precedente rappresentava l’emancipazione, il successo all’ennesima potenza, è ora ancora più femminile e dannatamente sensuale. Può essere la donna più potente del 38
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mondo (si pensi alla Bouquet alla guida della Ferrari) ma non potrà mai rinunciare a un bacio o un abbraccio. Ecco che ancora una volta la protagonista di un commercial rispecchia in parte i valori culturali e sociali del tempo: emancipazione e carriera, sì, ma sempre con l’estrema femminilità della Maison. Sin da questi spot l’aria “francese” inizia così a permeare gli spot di Chanel: il riferimento alle atmosfere della città natale della stilista sono via via sempre più chiare a partire da ora. I richiami sempre più palesi a Parigi e alla Francia negli spot tanto di Chanel quanto delle altre marche di lusso francesi, contribuiranno a consolidare il doppio filo che lega Parigi al lusso. Questo sarà l’ulteriore filo conduttore dei seguenti prodotti pubblicitari televisivi. Chanel conclude il millennio con due spot, andati in onda nel 1998 il primo, e pochi anni dopo il secondo, curati per la prima volta da una figura estremamente conosciuta nel panorama cinematografico. La regia è affidata infatti a Luc Besson (noto regista e sceneggiatore di pellicole d’azione come “Il quinto elemento” o “I fiumi di porpora”). La trama di entrambi ricondurrà ad una moderna cappuccetto rosso che, in veste di ladra, tenterà di sottrarre un flacone del noto profumo. Nel primo spot [fig.2], che venne fig.2
realizzato con la collaborazione dell’italianissimo Milo Manara, la vediamo percorrere un corridoio
fig.3
fig.4
sospeso all’interno di un sylos [fig. 3] (interessantissimo riferimento a “1984”, commercial girato da Ridley Scott per Apple [fig. 4] dove una donna armata di martello si scontra con il grande fratello di Orwelliana ispirazione) e si insinua nel caveau di Chanel dove campeggiano intere pareti di bottiglie. L’oro e il rosso vivo dell’abito sono i colori predominanti dell’immagine: ancora una volta lusso e sensualità, opulenza ed erotismo. La ladra riesce nell’intento e
ruba il flacone del prezioso ed iconico 39
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profumo, corre verso la porta quando dietro di lei si intravede un lupo che la insegue. Lei spalanca la porta, si gira e lo zittisce maliziosamente. Nello sfondo si vede chiaramente la Tour Eiffel illuminata. Il secondo [fig.5] riprende essenzialmente la
fig.5
filosofia del precedente, viene cambiata solo l’ambientazione. Questa volta siamo al Musée d’Orsay. Il nostro cappuccetto rosso ruba ancora una volta il prezioso profumo, si salva ammutolendo i lupi che la inseguono con il suo solo fascino e si dissolve nel nulla lasciando in primo piano un portone dorato aperto sulla vista della Torre illuminata: ancora una volta ecco veicolati due dei valori fondamentali della Maison, il lusso (la ricchezza del prodotto in termini di ricerca, di unicità della fragranza) e la sua provenienza (la città della moda per eccellenza, la patria dell’haut de gamme). L’evoluzione e la crescente complessità degli schemi narrativi negli spot di Chanel, ci ha portato, nell’arco di pochi lavori, da un semplice slogan recitato al termine di un monologo faccia alla macchina da presa, fino ad un articolato messaggio pregno di retorica e simboli che invita il potenziale fruitore del prodotto ad effettuare una ricerca nel proprio patrimonio cognitivo e bagaglio culturale. Il culmine si ebbe alla fine del 2004 quando venne presentato nel prime time di un giorno di dicembre, lo spot diretto da Baz Luhrmann, celebre per aver ripreso la splendida Nicole Kidman in Moulin rouge!. La trama del film è breve ma non lineare. Le riprese, ovattate e sottoesposte, tese a creare un ambivalente alone tanto romantico quanto drammatico, mostrano e dipanano una narrazione articolata in un susseguirsi di flashback e flashforward, di débrayages ed embrayages che guidano lo spettatore secondo un percorso prestabilito che gli consenta di cogliere i punti salienti del racconto negli esigui centoventi secondi del filmato. I punti salienti del racconto sono pochi e facilmente riconoscibili dal target (sono le ore 20 e 30, le famiglie sono a tavola, il range di età è tanto ampio quanto sensibile alla tematica: l’amore contrastato) e 40
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riconducibili al patrimonio della Maison. Troviamo ancora la sensualità racchiusa nella sinuosa e avvenente Kidman nei panni di una attrice che fugge esasperata dai flash dei fotografi; la metropoli quasi sempre ripresa in notturna tempestata di loghi “Chanel” che brillano qua e là incontrastati; e ancora una volta il rosso e l’oro, quasi sempre predominanti in ogni scena. Analizzando il prodotto audiovisivo in quanto testo, e considerandone quindi gli aspetti semiotici, emerge sin dalla semplice distinzione dei ruoli tematici l’evoluzione della comunicazione pubblicitaria televisiva di Chanel. Se negli anni ’80 il perno delle strategie era la veicolazione dell’immagine emancipata della donna, in questo spot l’accento viene posto, sì sulla donna di successo, ma altrettanto sulla sua ricerca di un tempo ed uno spazio intimo, esterno ai riflettori e al pubblico. Ecco allora che Chanel trasla, muta e si adegua ai canoni moderni caratterizzati dalla frenesia, dal voyeurismo, dalla ostentazione pubblica e spasmodica pur rimanendo ancorata ai suoi capisaldi. L’immaginario del marchio, la filosofia e il concetto di linearità, tanto plastica (la linearità delle forme, la pulizia degli abiti) quando formale, nell’aspetto sociale (eleganza, femminilità “pura”) prescindono dal contesto culturale e creano all’interno della sua trasposizione cinematografica un sistema simbolico secondario e a sé stante analogamente a quanto accade nello stile, che analizzeremo nel paragrafo successivo.
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3.3 L’identità: un look atemporale Chanel, ben prima che un logo riconoscibile al mondo, era un look, ovvero una proiezione di sé studiata nell’aspetto fisico, nell’abbigliamento. Nel caso di Chanel non si può però parlare di un look ma del total look, dell’insieme di complementi che costituiscono la silhouette femminile secondo Coco Chanel, dalla testa ai piedi. Il look di Chanel, sin dalla sua creazione, è stato caratterizzato da una riconoscibilità immediata grazie a determinati elementi che ne permettono una identificazione pressoché istantanea. Lo stesso Karl Lagerfeld, attuale AD della Maison, nel 1993 in occasione della pubblicazione del primo catalogo Chanel, dipinse cinque tavole con lo scopo di mostrare l’evoluzione della casa di moda. La prima venne intitolata “Les
Lagerfeld, K. 1993 fonte: Floch, J.M. 2004:1
éléments d’identification instantanée de Chanel” [fig.1] e ha come sottotitolo un pragmatico “Il patrimonio spirituale di Chanel”. Vi troviamo la celebre scarpa bicolore, la borsa “2.55” matelassé, una spilla a forma di croce, la camelia ed un bottone con inciso il logo della Casa. La seconda delle tavole si intitola “Le triomphe de Coco” [fig.2] e mostra tre silhouette femminili abbigliate di cui una, di tutto punto, con accanto la dicitura “Le sac, les bijoux, les chaussure, le camélia, les boutons, les chaînes, tout est là”. In effetti è come dice: la figura in primo piano racchiude gli elementi costitutivi del patrimonio stilistico, quelli che, analogamente in linguistica, potremmo definire come unità della manifestazione sintagmatica della 42
Lagerfeld, K. 1993 fonte: Floch, J.M. 2004:2
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silhouette di Chanel. Collocando storicamente queste unità, emerge sin da subito la loro essenzialità: Chanel ha depennato nelle sue creazioni tutto ciò che non fosse strettamente correlato alla funzione prima dell’abbigliamento. Il vestito deve servire, essere pratico e confortevole: ripudia le tasche minuscole e puramente estetiche come anche i bottoni senza senso, dona un “gioco” alla schiena delle giacche perché “vi si possa giocare a golf come allacciarsi le scarpe”. Il vestito deve servire la libertà del corpo. Ecco che il look di Chanel, da un punto di vista della semiotica figurativa, mostra un contenuto narrativo volto a descrivere la conquista della libertà individuale declinata nella sua modernità e, quindi, nella sua costante evoluzione. La donna di Chanel è ora sullo stesso piano dell’uomo, è emancipata e in sua concorrenza. Il tessuto con cui fabbrica gli abiti ne è la dimostrazione: il jersey. Ancora una volta, dal punto di vista figurativo, i significanti dell’universo lavorativo maschile vengono assunti e conservati nelle creazioni con lo scopo di correlarli all’esatto contrario: la femminilità. I capelli corti, il tessuto degli abiti, come le cravatte, i berretti ed i gilet sono gli elementi distintivi di questo fenomeno. Una vera e propria inversione di significanti e significati dell’identità sessuale socialmente definita che concorse alla costituzione di quella che sarà, negli anni a seguire, la femminilità secondo Chanel: inequivocabile. È quindi chiaro che, dal punto di vista figurativo, il look di Chanel porta con sé due discorsi: da un lato la femminilità esaltata grazie al paradosso, dall’altro un riferimento alla conquista della libertà del corpo tutto rapportato al contesto storico. Il total look narra quindi di una donna alla scoperta della sua libertà. Ma questo total look concretamente che cos’è? È una sagoma, una silhouette, che occupa uno spazio, una forma sensibile, tangibile, ammirabile. Scelte di luce, di materiali, di colori ne compongono il risultato finale facendo di esso un prodotto visuale, plastico. Di primo acchito, la cosa che salta maggiormente all’occhio è che le unità che compongono il look sono identificabili e, soprattutto, apprezzabili singolarmente. Questo significa che se da un punto di vista 43
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semiotico vi è un sistema di relazioni fra i componenti visivi, da un punto di vista estetico, esso è presente solo in parte. Questo senso di nettezza contribuisce a dare all’insieme un’impressione di aplomb, di stabilità, di rigore. Analizziamo brevemente la silhouette tipo: 1.Le scapre: il fondo e le punte nere delle calzature forniscono un senso di chiusura della figura, di netta separazione dal terreno sulla quale si fonda e allunga il beige. All’opposto, in testa, troviamo un taglio di capelli disegnato, squadrato, definito, appena sopra ad un collo ben visibile che contribuisce a segmentare la figura. 2.Il “peso”: gli abiti, i tessuti, sono appesantiti con cordoncini o catene dorate. La caduta che essi compongono definisce i lineamenti con la medesima precisione di cui sopra, disegnando i contorni e, di conseguenza, la profondità della silhouette. 3.Gli accessori: bracciali, spille, collier, sono presenti con discrezione. Il ruolo di primo piano è dato alla linearità e alla pulizia del look. Masse accessorie possono “esprimersi” ma senza appesantire il senso generale. 4.La luce: i colori cardine delle produzioni Chanel (beige, nero, rosso soprattutto) insieme ai dettagli in diamanti, perle grigie, oro, contribuiscono alla luminosità degli abiti. Il materiale con cui son concepiti, jersey e tweed in particolare, afferra la luce e la trattiene facendo sì che non si perda in fastidiosi riflessi. Abbiamo così identificato quelle caratteristiche salienti dei prodotti Chanel, caratteristiche formali, topologiche
e cromatiche
intrinsecamente legate alla visione classica1 . Contrapposta alla visione barocca, essa non è intesa come corrente epoca storica dell’arte occidentale, bensì come punti di vista, visioni. Ora, dal punto di vista pratico, vi è la
1 Come la intese Abraham Zemsz, ovvero sistemi visuali analizzabili dal punto di vista semiotico e costituenti il patrimonio di immagini, dipinti, disegni. (Zemsz, A Les optiques cohérentes, Actes sémiotiques - Documents EHESS-CNRS, Paris, 1985)
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necessità di dotare di un “senso semiotico” queste visioni, ovvero di dotare ciascuna di esse di un piano d’espressione e di uno di contenuto. In generale, la visione classica è caratterizzata dalla predominanza della linearità. Le figure, e le parti delle figure, sono nette e separate da contorni. Ogni parte che compone l’immagine è a sé stante ed estrapolabile, isolata. Al contrario la visione barocca predilige il concatenamento, il dettaglio contribuendo a una sensazione di generale dinamicità, tutta opposta alla stabilità suggerita dalla visione classica. Le figure di stampo classico costituiranno dunque forme chiuse, delimitate, immagini nelle immagini, mentre quelle di stampo barocco parranno in evoluzione, espansione. In Chanel le due visioni coesistono in equilibrio: gli effetti plastici del barocco, gli accessori, la loro interdipendenza, si riconoscono nel total look ma godono sempre e comunque di una localizzazione circoscritta, in equilibrio con la linea dritta e netta del look in generale. Il gioiello, in particolare, concorre nella significazione dell’abito: non è più in primo piano per la sua singola preziosità ma per il rapporto che esso ha con gli altri dettagli che contribuiscono a rendere prezioso e lussuoso l’abito analogamente a quanto detto riguardo il lusso nel capitolo 1.2. Un bricolage, quindi, di stili e visioni, di unità spostate da un sistema semiotico ad un altro: la scelta di un tessuto per le sue qualità tecniche si rivela essere poi una scelta dettata sul gusto estetico, sulla tattilità. Queste scelte rifletteranno poi la silhouette come un fatto di stile proprio grazie alla contrapposizione di configurazioni classiche e barocche degli accessori e dei dettagli essenziali che vedremo brevemente di seguito.
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3.3.1 Essenziale: la catena dorata La catena dorata identifica una borsa 2.55 al primo colpo d’occhio, sia che essa sia intrecciata ad una striscia di cuoio nelle borse sportive da giorno, sia che sia sola in tutta la sua lunghezza, per la sera. Fra i codici di Chanel, la lunga tracolla d’orata è senza dubbio fra i più famosi e riconoscibili. Concepita per dare più libertà alle mani delle donne, la tipica catena dorata è presente anche in numerosi capi di abbigliamento, soprattutto giacche e cardigan, con lo scopo di impreziosirli discretamente e di dar loro una maggiore pesantezza. La catena, come abbiamo detto, è presente in moltissimi accessori del total look come bracciale dell’orologio “Première” disegnato per Greta Garbo. Facente parte delle reminiscenze attinte dalla ricchezza dell’arte russa e bizantina, la brillantezza
Collezione Haute Couture P-E 2005 Fonte: Stiletto n° 5, 05/05/2005:30
dell’oro o dell’acciaio si impone al pari del nero e del bianco, vero marchio di fabbrica della Maison, incarnando profondamente lo stile e la personalità della fondatrice: secondo Chanel il solo vezzo concesso alla sobrietà erano gioielli e collane.
3.3.2 Essenziale: i fili di perle Christian Dior disse di Coco Chanel che rivoluzionò la moda con un semplice pullover nero e dieci giri di perle. Ed è vero, le perle sono la grande passione della creatrice: vere o finte che siano, pulite e rotonde o intarsiate in stile barocco, applicate su una croce o sul cinturino di una scarpa col tacco, le perle bianche incarnano, insieme alla catena, lo stile di Chanel conferendo al look predominato dal nero, una lucentezza elegante e discreta, ponendo l’accento sul contrasto fra le linee nette degli abiti e la morbidezza delle curve delle perle. 46
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Collier, cinture, spille per i capelli ma anche pochette da sera interamente ricoperte, le perle sono presenti in ogni stagione da quando Karl Lagerfeld ne ha reintrodotto il metodo di lavorazione
3.3.3 Essenziale: la camelia Di tanto in tanto appare nelle collezioni, soprattutto primaverili, quelle più inclini ai fronzoli e ai vezzi. Perché Chanel scelse la camelia? Se ne sa poco a riguardo, in realtà: si narra che sia a causa del primo bouquet di fiori che Boy Capel (capitolo 1.1 Biografica) le donò. Ma la camelia è anche sinonimo di bellezza discreta, di elegante femminilità, raffinata. La sua rotondità geometrica si accorda perfettamente al contesto squadrato delle linee di Chanel: la possiamo trovare declinata in ogni creazione.
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Ideata in origine in tessuto bianco, aveva il semplice scopo di adornare e arricchire l’abito scuro, analogamente alla funzione svolta dalle perle. Sviluppata in seguito in velluto, seta, cuoio, ma anche in porcellana per i capi di alta moda, viene accostata ai materiali e ai colori scelti di volta in volta per le stagioni risultando così in un accessorio onnipresente nelle collezioni.
3.3.4 Essenziale: il bianco e il nero Lo sport e l’eleganza, femminilità data da tessuti “maschili”, classico e barocco: lo stile di Chanel nasce dalla coesistenza dei contrari, dal gioco di opposizioni. L’abito nero, di taglio diritto, impreziosito e illuminato da fili di perle bianche e rotonde o da camelie; la confezione bianco e nera e la stessa etichetta del profumo No.5, bianca, semplice applicata sulla bottiglietta come fosse una produzione casalinga; oppure lo stesso logo della 47
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Maison, stampato bianco su sfondo nero, o viceversa. Il bianco e il nero sono le due facce dell’anima della fondatrice come lei stessa ammise: “Ho detto che il nero era tutto. Il bianco è lo stesso. Sono di una bellezza assoluta. È l’accordo perfetto. Guardate [per esempio] una donna vestita di bianco o di nero ad un ballo: non si vede che lei. 1”. Ed è di parola: le collezioni, tranne rari casi di trame variopinte (ma pur sempre attinenti ai canoni), e senza considerare il rosso, altro colore di rilievo nella couture di Chanel, si destreggiano sempre secondo questi due colori. Camice bianche sotto tailleur neri, le celebri scarpe da sera con la punta nera, ma anche gli
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stivali interamente bicolore o lo splendido J12, l’orologio ideato da Jacques Helleu2, interamente scolpito nella ceramica bianca o nera. Ritroviamo i colori anche nella cosmetica, dove il nero intensifica uno sguardo e il bianco lo drammatizza in un gioco di ombre che per Coco Chanel “sono altrettanto belle che il viso stesso3” Prescindendo dalle mode, la dualistica coppia incarna ancora oggi l’essenza dell’eleganza e del lusso idealizzata dalla creatrice, sottolineando come la semplicità estetica sia di più gradevole effetto rispetto ad uno sfarzo caotico e ridondante.
1 Morand, P 1996 2 Jacques Helleu: è stato direttore artistico di Chanel Profumi e Chanel Orologeria per 51 anni, fino al 1 Ottobre 2007, quando morì a Parigi. 3 ibid.
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Conclusioni Abbiamo visto nel corso dell’elaborato che il concetto di lusso nasce dalla società ed evolve insieme ad essa tessendo un legame biunivoco: da un lato esso ha un ascendente sul comportamento, sulle azioni degli individui che lo adottano come indice di prestigio, dall’altro son proprio gli individui, i fruitori dei beni di lusso, a ridefinirne le connotazioni di volta in volta. Ciò che in passato è nato come appannaggio di pochi, è divenuto grazie alla nascita del consumismo globale indice della propria estrazione sociale dando alla luce sostanzialmente due fenomeni: in primo luogo ciò che Veblen ha definito lo “sciupio vistoso”, ovvero l’ostentazione del possedimento, ed in secondo luogo il progressivo delineamento di un nuovo consumatore sempre più attento al valore simbolico e “sociale” dell’oggetto a discapito della sua funzionalità. È su queste due nozioni che si è via via strutturata a partire dagli anni Ottanta, una strategia di comunicazione peculiare dei luxury brand, quella basata sulla definizione di valori aziendali che consentano da una parte la differenziazione del marchio nella variegata moltitudine offerta dal mercato, e dall’altro una forma di adozione selettiva da parte del consumatore. Il consumatore moderno, come abbiamo visto, ha soddisfatto ampiamente i propri bisogni primari e si concentra ora sulla esperienza di acquisto: deve essere entusiasmante, appagante, coinvolgente. L’acquisto deve tramutarsi in una avventura, un mezzo di gratificazione ed evasione, sensazioni trasmesse dall’atto in sé ancora prima che dalle caratteristiche peculiari del prodotto. Egli ha bisogno di riconoscersi nel marchio e di vedere in esso una estensione del suo essere. I brand in questo modo non saranno più un semplice nome, un logo stampato sul prodotto, ma si fanno portavoce di un sistema simbolico in perenne mutazione, al pari passo con il mercato a cui si 49
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riferiscono. Nell’elaborato è stata presa in analisi la maison Chanel poiché è stata pioniera in questo caso, concentrandosi sin dal principio su una strategia di comunicazione del proprio universo di marca fondata sull’ereditarietà dei valori della fondatrice. Il dualismo del marchio, le sue contraddizioni e contrapposizioni, la semplicità estrema delle linee, hanno dettato nel tempo i canoni di uno stile divenuto esso stesso simbolo di femminilità imprescindibile, giunto ai giorni nostri attraverso due guerre mondiali e innumerevoli modificazioni del tessuto sociale. Gabrielle Chanel, prima, e Karl Lagerfeld dopo, hanno saputo costruire nell’arco di quasi un secolo, una immagine del marchio tanto ancorata al passato storico della fondatrice, quanto attuale nella sua estetica, coniugando sapientemente stili, visioni e creatività che hanno avuto il potere di giungere fino ad oggi pressoché immutati e quindi riconoscibili dal pubblico a colpo d’occhio. Le scelte cromatiche del packaging dei prodotti, l’appeal estetico sempre essenziale ed elegante, il marcato romanticismo1 degli spot televisivi e la stessa comunicazione del brand in senso lato (basti pensare che la stessa azienda francese mi ha fornito il materiale di cui avevo bisogno semplicemente domandandoglielo), contribuiscono a formare una idea del marchio vincente, sempre sulla cresta dell’onda anche se non à la mode. È la continuità di cui si è parlato nel capitolo 1.3, dimostrazione che una difficile scelta quale si rivela essere quella di mantenere inalterati nel tempo i canoni di un marchio di moda, se ben strutturata e declinata negli anni, fornisce due grandi vantaggi: la fedeltà del pubblico, di importanza vitale per un marchio, e la perenne riconoscibilità. A più riprese si è parlato di declinare nel tempo i tratti essenziali del brand, di adeguarli al contesto. Floch delineò quelli della Maison Chanel nella sua opera “L’indémodable total look de Chanel2”, molti anni prima della stesura di questo elaborato, eppure dopo tanto tempo li ritroviamo a
1 nel senso etimologico del termine, strutturati, soprattutto negli ultimi anni, come veri e propri romanzi trasporti sul piccolo schermo. 2 all’interno di Floch, J.M. Identités Visivuelles (1995)
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costituirne l’odierno total look, semplicemente arricchiti, plasmati intorno alle necessità dei consumatori, ai gusti, all’epoca. Analogamente la medesima cosa è successa ai prodotti pubblicitari: Chanel ha saputo sfruttare appieno il potere mediatico adattandosi alle innovazioni tecnologiche. Da spot reclamizzanti il prodotto affiancato ad una testimonial (fra i modelli di comunicazione pubblicitaria più semplice) si è giunti a veri e propri cortometraggi caratterizzati da una trama avvincente ed articolata capace di trascinare, come nell’ultimo caso analizzato, lo spettatore al suo interno, fornendogli la chiave per leggere il testo e viverlo in prima persona: riconoscercisi. Ecco allora il punto di forza della strategia di comunicazione adottata da Chanel, un sapiente mélange di romanticismo e marketing che coinvolge e avvolge il consumatore del nuovo millennio fornendogli un bouquet di simboli che richiamano ora il potere, ora una discreta eleganza, ora la discreta femminilità di una donna sì, determinata, ma sempre donna. Particolari di racconto durato decine di anni che, parafrasando la Calefato (Lusso, 2003:30), dona linfa al prodotto stesso suscitando il desiderio di essere posseduto proprio in virtù della vita che reca nascosta al suo interno, quell’alone etereo e quasi mitologico che alcuni prodotti possiedono; che trainano il luxury brand nella costellazione dei marchi senza tempo.
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