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Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica Diploma Accademico di Primo Livello in graphic design indirizzo comunicazione di impresa Anno Accademico 2012/13 Candidato Nicolò Volanti Relatore Gianni Latino

Progetto grafico Nicolò Volanti Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

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Nicolò Volanti



“Le anatre depongono le loro uova in silenzio. Le galline invece schiamazzano come impazzite. Qual è la conseguenza? Tutto il mondo mangia uova di gallina.â€? Henry Ford



INTRO Perchè è bello essere sinceri

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CAPITOLO 1 La pubblicità, una vecchia signora Bill Bernbach e la rivoluzione creativa

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CAPITOLO 2 Quella gonna sempre troppo corta Il manifesto deontologico dell'Adci

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CAPITOLO 3 Meno carta, più pixel

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CAPITOLO 4 Comunicare fuori dallo schermo Coordown e l’integrazione vera

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PILLOLE Qualche domanda a Federico e Giorgio

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La tutela delle idee è la priorità

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La reason why del buon governo

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PAROLE CREATIVE I termini più comuni della pubblicità

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INTRO Perchè è bello essere sinceri. La pubblicità. Una presenza continua e massiccia, una compagna silenziosa di ogni nostra giornata, che c’è sempre accanto anche (e soprattutto, forse) quando meno lo vogliamo. Si alza con noi la mattina quando accendiamo la tv per ascoltare le notizie del giorno, la ritroviamo per le strade della città diventate costellazioni di manifesti che pubblicizzano pantaloni a vita bassa, profumi e voli low cost. Si intrufola tra le pagine dei nostri giornali, intasa le buche delle lettere condominiali e ormai anche quelle digitali delle nostre email. Una presenza talmente eccessiva e fastidiosa da cui è nato in maniera ovvia e naturale, nella maggior parte delle persone, un senso di repulsione radicato, un pericoloso connubio che lega l’eccesso di esposizione ai messaggi pubblicitari al pensiero di un’intrinseca inutilità di ciò che si vuole comunicare. Sentimento che ha radici profonde, già quando nel 1957 un professore di giornalismo a New York, Vance Packard, pubblica un famoso saggio¹ sulla pubblicità e sul legame tra commercio e persuasione. S’intitola “I persuasori occulti” e non è certo un titolo che anticipa una lode. Oppure soltanto un anno prima quando Howard Chase, il presidente della Pu11


blic Relation Society of America dichiara proprio al riguardo dello stesso argomento: “La pretesa dichiarata di plasmare o influenzare la mente dell’uomo mediante le tecniche che applichiamo (ai messaggi pubblicitari), ha creato in molti di noi un senso di profondo disagio morale”. Una storia non nuova quindi, un disagio che non nasce oggi ma che è cresciuto negli anni fino a lambire i moderni strumenti digitali, saturando la percezione che il pubblico oggi ha della pubblicità: fastidiosa, prepotente e inutile. Un interessante studio risalente al 2005 del settimanale americano “The Economist”, afferma che l’americano medio è esposto ogni giorno a circa 3000 messaggi pubblicitari o promozionali e che due terzi si sente “costantemente bombardato” da questi ultimi. Un enorme paradosso per l’intero sistema della comunicazione commerciale, perché tanto più quest’ultima vuole avvicinarsi alla gente, tanto più la gente sembra allontanarsene. Una frattura che si è creata negli anni, in Italia in particolar modo nell’ultimo ventennio, quando a esempi di buona comunicazione si sono contrapposti messaggi lesivi, spesso inutili o banali. Tutto questo, negli anni, ha incancrenito il sistema portandolo a partorire messaggi non solo inutili e fastidiosi per il pubblico, ma inefficaci e dannosi per la stessa committenza. E allora perché un testo come questo, che cerca invece di raccontare la buona pubblicità, inizia proprio con una critica così dura e aspra nei suoi confronti e a proposito dei suoi contenuti? Il motivo è che per giustificare l’esistenza, come questo testo cercherà di dimostrare, di una comunicazione commerciale e 12


sociale corretta, efficace, eticamente condivisa ma soprattutto non invasiva è necessario partire proprio dal pensiero comune, che è utile considerare non soltanto come rappresentante di una visione predominante all’interno della società, ma soprattutto perché portavoce di una verità, di un malcontento che non è difficile percepire e che ha portato sfiducia nei consumatori, nel pubblico, all’interno di un sistema in cui i valori veri e condivisi sembrano distanti da spot televisivi sempre più edulcorati, banali, annunci lontani da una condizione di reale utilità nei confronti del consumatore. Malcontento che a cascata si è riversato anche su chi con la pubblicità ci lavora ogni giorno, su clienti privi del coraggio necessario a lanciare campagne con un forte respiro sociale, spesso impossibilitati a farlo perché come una crudele giostra che gira sempre su se stessa, non conoscono esempi positivi della pubblicità che funziona e che, guarda caso, fa crescere i fatturati senza raccontare bugie, cercando di favorire invece lo sviluppo sociale o, senza grandi pretese, provando a divertire incuriosendo o stimolando il dibattito. Perché nonostante la sua presenza prepotente, della pubblicità la gente comune, che non lavora all’interno delle agenzie, centri media o strutture collegate, conosce decisamente poco. E spesso ne conosce ancor meno il direttore di una piccola realtà aziendale italiana, il gestore di un locale in centro o il manager di una struttura ricettiva in riva al mare. Quello che dovete aspettarvi da questo testo è di conoscere un po di più di un settore vasto, come quello della pubblicità, di cui spesso si sente parlare in maniera sommaria e di cui si conoscono solo i risvolti negativi, specie in un paese come il nostro dove 13


sembra di essersi fermati, già stanchi, ai piedi di monti carichi di opportunità creative che invece all’estero vengono scalati con vigore. Una raccolta di esempi utili di una pubblicità altrettanto utile e vera, con approfondimenti su cosa significa fare pubblicità, sul valore che questo lavoro ha, sull’impegno delle persone coinvolte in ogni singola campagna e sui risultati ottenuti. Nessun tecnicismo, nessuna pretesa di impartire lezioni da manuale, solo il semplice augurio di incuriosire e portare un pizzico di cultura pubblicitaria in più, in maniera semplice e informale. Perché se da un lato è vero che questo settore ha bisogno di profondi e necessari cambiamenti da parte di chi crea messaggi, dall’altro lato è indispensabile accompagnare il pubblico verso una realtà di qualità che esiste già, non solo all’estero ma anche, come si vedrà, nel nostro paese. Perché un consumatore critico, come ormai oggi è doveroso dire, non deve soltanto accorgersi della qualità dei prodotti ma anche dei messaggi con cui questi sono raccontati e magari, con giudizio, pretendere lui stesso una comunicazione di qualità. Questa sarebbe una vittoria e una svolta. Quando sarà il consumatore a chiedere una pubblicità più coerente e utile saremo sicuri che i cambiamenti messi in atto troveranno un pubblico pronto ad accoglierli e ad apprezzarli. È certamente un processo lungo e non semplice, ma i tempi per provarci sono arrivati. La bella pubblicità è pronta per essere raccontata.

1 - Vance Packard, I persuasori occulti, 1965

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CAPITOLO 1 La pubblicità, una vecchia signora. A differenza di quanto comunemente si possa pensare, la pubblicità ha radici storiche molto antiche che risalgono addirittura agli anni in cui, a Pompei, durante le elezioni cittadine, erano affissi sui muri (o addirittura pitturati sopra) i simboli e i nomi dei candidati da votare, con tanto di slogan personale e altre informazioni per gli elettori. Questa è la forma più simile al nostro modo di rapportarci con la comunicazione pubblicitaria rintracciabile nella storia antica. Il significato ambiguo legato alla pubblicità e la logica comunicativa che ne stà alla base, nasce e si sviluppa invece in ambito greco, periodo storico in cui la retorica rappresentava la summa di quelle conoscenze filosofiche e comunicative atte a persuadere un pubblico, sia che si trattasse di una difesa giuridica, sia di un qualsiasi argomento di interesse condiviso. Il problema nasce proprio sul significato storico che lega la comunicazione pubblicitaria alla qualità del persuadere. L’oratore, che ne era per questo il rappresentante massimo, veniva così descritto da Platone, nel Georgia: “il retore è senza dubbio, in grado di parlare contro tutti e su tutto, si da persuadere, in breve, la massa su tutto quel che vuole”. 15


Una figura descritta e raccontata come in grado di convincere attraverso poteri quasi magici di cui non si conosceva l’origine, che associavano l’oratore quasi ad un alchimista della parola, venerato e temuto allo stesso tempo. Tecniche che si trascinano nel tempo fin quando l’ars oratoria romana, grazie anche al contributo fondamentale di Cicerone, esaltò la figura del retore attribuendone con tacito giudizio qualità magiche, raccolte nella facoltà non solo di persuadere il pubblico, ma di commuoverlo e creargli piacere. Da questo costrutto storico deriva la retorica moderna che si riflette esattamente nei tantissimi messaggi che raccontano le merci più diverse e che rendono i pubblicitari i nuovi retori del nostro secolo. Tutto ciò porta con sé anche i problemi che nascono, in chiave moderna, dall’alone di mistero che sta dietro l’arte della persuasione pubblicitaria che oggi assume significati ovviamente differenti, concentrandosi su un problema estremamente rilevante, ovvero la differenza tra l’antica persuasione e il moderno convincimento. Qual è la differenza maggiore, infatti, tra persuadere e convincere? Se decidiamo di persuadere qualcuno su un particolare argomento o pensiero, lo spingiamo a definire giusto, non sempre a rigor di logica, quel dato argomento. Non c’è uno scambio vero tra emittente e ricevente a causa della mancanza di “rilevanza” nel messaggio, ovvero di un’argomentazione condivisa che lega i due protagonisti dello scambio comunicativo. Convincere, invece, significa condividere un pensiero comune e rendere rilevante e duraturo nel tempo un concetto condiviso razionalmente e senza forzature. 16


La pubblicità, questa vecchia signora

È ovvio pensare come debba esserci il convincimento e non la persuasione alla base di una buona logica pubblicitaria. Come afferma Umberto Eco: “il discorso pubblicitario riesce a convincere l’utente solo di ciò che esso conosce (crede) o desidera già”. 1 L’evoluzione dei tempi coinvolgerà profondamente questo modo di pensare e comunicare, eventi importanti come l’invenzione della stampa a caratteri mobili, la diffusione di libri a basso costo e la rivoluzione economica ed industriale avuta origine in Inghilterra, definiranno e modificheranno il significato stesso e i valori più profondi del saper comunicare. Un esempio ne è la prima forma di comunicazione commerciale, molto simile a quella odierna, risalente al 1459, anno in cui il tipografo inglese William Caxton iniziò a stampare degli annunci testuali che pubblicizzavano i suoi libri, cominciando a distribuirli nella città di Londra, nelle librerie e nei caffè letterari. Questi primi annunci non avevano un preciso ordine cronologico di pubblicazione, erano dei semplici annunci di testo che lo stesso editore pubblicava a sue spese immediatamente prima dell’uscita di nuovi volumi. La diffusione del quotidiano, a livello europeo è la miccia che diede origine ad un proliferare veloce e strutturato di annunci commerciali, di carattere industriale o relativi a servizi privati. Una diffusione che coinvolse tutta l’Europa occidentale e che ebbe il suo culmine in Francia nei successivi trent’anni, quando ad esempio un medico di professione, Théophraste Renaudot, fonda il Bureau d’Adresses, una sorta di agenzia che si occupa di pubblicare un foglio di avvisi, chiamato “Feuille du bureau d’adresses”, in cui venivano inseriti annunci pubblicitari, ma con la particolarità di essere esclusivamente a pagamento. 17


Una nuova possibilità per gli editori europei che spinti dalla diffusione e dalla praticità dei nuovi metodi di stampa, contribuirono a fondare “fogli pubblicitari” nelle maggiori città, con esempi prestigiosi come l’inglese Mercurius. del 1640, diventato successivamente, come anche il suo precedente francese, un vero e proprio quotidiano celebre e conosciuto grazie proprio alle entrate pubblicitarie della réclame. Termine quest’ultimo che accompagnerà lo sviluppo della pubblicità tradizionale alla fase moderna, passando per il secolo scorso, quando dai primi del 900 s’inizia a parlare di comunicazione commerciale in maniera più strutturata e rigorosa date le necessità comunicative totalmente nuove, frutto di una rivoluzione industriale che porta sul mercato migliaia di nuovi prodotti accessibili ad un mercato sempre più vasto. Un prodotto moderno che porta alla nascita del consumatore moderno, che ha adesso la possibilità di scegliere, giudicare le merci e ampliare le sue abitudini di consumo. All’interno del quadro del nuovo ciclo consumistico nascente, ancora una volta bisogna analizzare il modo in cui la pubblicità viene definita e considerata a livello sociale e di come, ancora una volta, il significato più comunemente riconosciuto la descriva come qualcosa di velatamente scorretta, nonostante la rilevanza sociale ed economica raggiunta proprio in quegli anni. Analizzando, infatti, il significato etimologico del termine “rèclame”, parola francese con cui comunemente la pubblicità veniva (e in alcuni casi ancora oggi) indicata in quegli anni, scopriamo che il suo significato etimologico, che deriva dal latino reclamare, clamare, è un termine che racchiude un sottile ma altrettanto determinante valore negativo, come ci 18


La pubblicità, questa vecchia signora

dimostra già di per se la definizione del vocabolario Treccani: “Sinonimo ormai meno comune di pubblicità, come attività intesa a dare la più ampia diffusione a un prodotto o servizio, ai suoi pregi, alla sua utilità e convenienza […] – è tutta réclame, per sottolineare che le qualità decantate di un prodotto o servizio non corrispondono affatto alla realtà…”. Qualcosa, quindi, lontana dalla verità. Un significato che era talmente radicato nel pensiero comune da spingere, nel 1920, Egisto Rogero, a scrivere un saggio professionale dedicato proprio alla tecnica pubblicitaria intitolato “ Come si riesce con la pubblicità”, dove decide di promuovere il termine italiano “pubblicità”, privo in origine di quel significato negativo e sentendo così la necessità di darne quasi un nuovo corso, allontanandosi quindi dalla “rèclame” artistica e poco efficace per abbracciare tecniche più scientifiche e mirate. “In questo libro si parla di pubblicità ma – non è del tutto ozioso il premetterlo – non si fa della rèclame. Ed occorre intenderci subito sul divario che corre fra pubblicità e rèclame. La prima è la signora, o signorina, d’ufficio; seria, dignitosa, conscia del lavoro importantissimo che è chiamata a svolgere dal momento in cui si asside al suo tavolo di lavoro. La seconda – la rèclame – è la commessuccia sbrigliata, un po’ sfacciatella (spesso e volentieri anche troppo) che corre per la strada tirandosi la gonnellina su e giu, un po troppo, per mostrare le calze trasformate e che fa voltare la gente a guardarla sul marciapiede. Diciamo anche: la 19


Manifesto per Olivetti. Marcello Dudovich. 1921


La pubblicità, questa vecchia signora

pubblicità è una vera scienza ed insieme un’arte tutt’affatto moderna, che si prefigge una meta serissima e necessaria per il benessere di tutti. La rèclame troppo spesso è la forma pedestre, chiassosa, puramente mercantile e senza preoccupazioni di buon gusto, della pubblicità”. Ma perché, già nel 1920 quindi, si sentiva una cosi forte necessità di differenziare queste due visioni di pubblicità? Il tutto, se si analizza attentamente è abbastanza evidente. La prima concessionaria di spazi pubblicitari venne fondata a Milano nel 1863. Tra fine dell’800 e durante tutta la prima metà del 900, il mercato pubblicitario italiano (ed europeo), per la realizzazione degli annunci si affidava ad artisti e scrittori. Pittori, illustratori commissionati dagli inserzionisti, realizzavano annunci molto simili a vere e proprie opere d’arte, esaltando il prodotto a oggetto simbolo, scettro di consumo per la nuova classe sociale borghese, l’unica al tempo a potersi permettere i nascenti prodotti che riempivano i primi grandi magazzini che nascevano velocemente in tutta Europa e in Italia, specie in grandi centri come Milano e Napoli. I cartellonisti più famosi, (così erano chiamati gli artisti che realizzavano i manifesti) come Jules Chéret in Francia o gli italiani Marcello Dudovich, Fortunato Depero e Gino Boccassile, diedero vita ad una lunghissima serie di lavori in cui il prodotto era il contorno narrativo per vere e proprie opere artistiche che raccontavano, non tanto in maniera mirata quanto favolistica, legata più alla sfera del sogno e del bel vivere, un discorso di potere del prodotto, “il fascino dell’oggetto” (un poter essere), “la forza della fabbrica” (un poter fare) e la 21


realizzabilità di un acquisto (un poter avere). Esempi italiani di notevole interesse sono i manifesti per La Rinascente di Milano o i grandi magazzini Miele di Napoli. Questo tipo di comunicazione resta però un discorso fra omologhi. Chi realizza i manifesti e chi poi comprerà il prodotto appartengono infatti alla stessa classe sociale, condividono gli stessi interessi e attingono ad un bagaglio socio culturale molto simile. È un po’ l’affermarsi, molti anni dopo, della logica retorica della rilevanza del messaggio tra emittente e ricevente. Nella scena del consumo di massa, ancora nella sua fase embrionale, mancano le distinzioni di target, ovvero di gruppi sociali diversi a cui associare messaggi differenti e mirati. E nella réclame coesiste proprio questo genere di visione, una comunicazione d’artista in cui prevale una “forma”, anche se artisticamente valida, piuttosto che un “rigore scientifico” del messaggio. L’artista esprime il suo mondo e lo offre al prodotto, mentre invece nella nuova pubblicità o advertising, come verrà più avanti nuovamente reinterpretata grazie all’ influsso di conoscenze provenienti dalle nuove agenzie di origine anglosassone, il prodotto o l’azienda non sono semplicemente un riferimento esterno, ma parlano in prima persona con il loro pubblico, dando origine ad uno scambio che si definisce all’interno di promesse che il pubblico riceve e che diventano quindi il motivo principale per l’acquisto. Il passaggio definitivo tra queste due visioni della comunicazione commerciale in Italia, se si volesse definire un evento e una data, avviene grazie alla nascita dello studio Boggeri, nel 1933, per opera di Antonio Boggeri che a Milano riunisce intorno a se e soprattutto all’interno dello studio, nel corso 22


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degli anni, grandi maestri italiani e stranieri provenienti dal mondo dalla grafica, della pubblicità e del design. Nomi famosi tra i quali troviamo Bruno Munari, Franco Grignani, Max Huber, Bob Noorda e Marcello Nizzoli. All’interno dello studio, ci furono le prime sperimentazioni atte ad applicare la fotografia alla grafica, grazie all’influenza e alle tecniche apprese da due grandi maestri del tempo, come Man Ray e Laszlo Moholy-Nagy. Ebbe il suo massimo splendore tra la fine degli anni cinquanta e la metà degli anni settanta, quando si occupò d’importanti aziende a livello nazionale e internazionale, come Pirelli, Olivetti e Roche. Le nuove sperimentazioni grafiche promosse dallo studio contribuirono in maniera decisiva al rimodernamento della grafica italiana e questo ha avuto in seguito un’immediata ripercussione sulla pubblicità commerciale in quegli anni iniziava la sua fase evolutiva coinvolgendo i marchi più famosi della nascente industria del bel paese. Nel frattempo, dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, la forte crisi economica del 1929 contrae notevolmente i consumi e l’industria americana, forte di uno spirito necessario a ripartire per ridarne vigore, sposta la sua attenzione non più sul mero obiettivo di vendita ma sul modo in cui comunicare i prodotti in maniera efficace e quindi, solamente dopo, come naturale obiettivo, riuscire a vendere quegli stessi prodotti in un mercato nuovo, che stava ricominciando a ripartire. Nasce da li a qualche decennio il mito di Madison Avenue, famosa strada di New York in cui si concentravano le più grandi agenzie pubblicitarie e le menti più geniali che teorizzarono e misero in pratica le moderne tecniche di marketing. 23


Rosser Reeves che teorizza la “Unique selling proposition”, quella caratteristica fondamentale che serve a raccontare un prodotto e metterne a fuoco la sua qualità, per favorirne la vendita divenendone il vero fulcro di scelta per il consumatore. In poche parole il motivo che spinge all’acquisto. Mentre se analizziamo il lato spiccatamente creativo, proprio durante quei decenni nascevano diverse visioni legate al modo di approcciarsi alla pubblicità. Personalità importanti che diedero vita ad agenzie pubblicitarie di altrettanto spessore, teorizzarono metodi e procedimenti utili a definire approcci differenti ma ugualmente efficaci. Leo Burnett sosteneva che in pubblicità fosse necessario utilizzare un linguaggio semplice, vicino all’uomo di strada, basato più sugli aspetti emozionali piuttosto che su una visione rigorosa e pragmatica. David Ogilvy puntava invece a costruire un’immagine di marca (ovvero quello che definisce il suo carattere) forte e precisa, cercando di unificare argomentazioni convincenti e fascino del prodotto. Bill Bernbach, un grande maestro per chi lavora in pubblicità fu il fautore di una rivoluzione creativa che promuoveva non soltanto una pubblicità vera e senza inutili fronzoli, ma che univa il rigore scientifico allo humor, in grado di esaltare le caratteristiche dei prodotti raccontandone, ogni volta, i lati più autentici e più vicini ai consumatori.

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La pubblicità, questa vecchia signora

Dall’alto in basso Siparietto della sigla di Carosello. Carmencita e Caballero mascotte dell’azienda Lavazza.


La scientificità nata dagli studi di questi come di tanti altri personaggi, all’interno dell’advertising americana, iniziò a prendere sempre più piede all’interno del mercato europeo e italiano fino all’apertura di nuove filiali internazionali nei poli commerciali più importanti come Roma, Milano e Torino, trasformando definitivamente il mercato pubblicitario italiano con quell’impronta strutturale e creativa tipicamente anglosassone di cui parlavamo precedentemente, decretando di anno in anno la chiusura dei piccoli studi grafici ancora legati ad una visione artistica e personale della pubblicità. Unica eccezione l’agenzia Armando Testa di Torino, che manterrà inalterata una sintesi espressiva a cavallo tra il nuovo corso e i precedenti lavori di matrice artistica, grazie anche al suo fondatore omonimo, pittore, artista e grande visionario. L’agenzia inventò personaggi che è facile ritrovare o ricordare con piacere ancora oggi, come Carmencita e Caballero per la società Lavazza, l’ippopotamo Lines o il messicano del caffè Paulista, solo per citarne alcuni. Questi personaggi sono simbolo di un’altra particolarità e unicità tutta italiana in questo settore: Carosello. Trasmissione e siparietto pubblicitario del dopocena Rai, iniziò le sue trasmissioni nel 1957 e si presentava come un vero contenitore di promozioni commerciali che avevano però un format particolare, realizzato ad hoc per la televisione pubblica italiana. Lo spot vero e proprio, in questo caso più corretto chiamarlo codino, era trasmesso solo alla fine di uno sketch dalla durata di un paio di minuti che era completamente slegato dal soggetto del prodotto pubblicizzato che, appunto, appariva soltanto alla fine, accompagnato molto spesso da un 26


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testimonial che coincideva con l’attore o attrice recitanti nello sketch o in altri casi da vere e proprie mascotte (la più famosa, che molti ricorderanno ancora è stata il pulcino Calimero). Questo format anomalo, se si considerano gli annunci pubblicitari televisivi che negli stessi anni erano trasmessi in tutta Europa, era frutto di un pensiero che reputava la pubblicità non solo non necessaria, ma addirittura eccessiva all’interno dei primi spot radiofonici e televisioni. In questo modo la Rai, unica emittente televisiva italiana, per non rinunciare ai proficui ricavi pubblicitari, realizzò questa tipologia di format che riportò notevole successo e che trasformava la pubblicità in un vero e proprio evento assimilabile all’intrattenimento o al varietà, poiché dietro ogni spot e relativo sceneggiato, lavoravano importanti attori, sceneggiatori, come in un vero e proprio spettacolo, concentrato però in poco più di un paio di minuti. Una sorta di garanzia di qualità televisiva che escludeva il prodotto da una mera e singola logica di consumo e lo legava invece a un concetto (al tempo considerato più accettabile) d’intrattenimento famigliare. Una logica questa che funzionò per diversi anni, ma che trovò il suo punto di rottura negli anni 80, con la nascita delle televisioni commerciali che diedero spazio a un numero maggiore di sponsor, abbassarono i costi per la messa in onda degli spot e moltiplicarono l’esposizione ai diversi messaggi. Sono anni in cui purtroppo la qualità, in maniera neanche troppo latente, lasciò spazio alla quantità spinta dall’euforia di una nuova rinascita italiana fatta di consumo, sfarzo e di uno stile di vita decisamente più elevato. 27


La professione del pubblicitario diventò anche da noi sinonimo di prestigio senza accorgersi però che mentre la curva di apprezzamento cresceva, la qualità dei messaggi pubblicitari scendeva sempre più in basso, ritrovandosi in una pericolosa spirale fatta di cliché e vecchi costumi ormai lontani dalla società che da lì a poco, negli anni novanta, si sarebbe nuovamente trasformata, iniziando un processo (che ci coinvolge ancora oggi) in cui il prodotto diventerà non solo status sociale, ma scelta ragionata basata sulla concreta partecipazione attiva dell’opinione dei consumatori. Un malcontento che, in relazione alle vendite e alla validità d’immagine delle marche, si riflettè nella nascita degli hard discount, che sembravano annullare tutte le teorie di differenziazione del mercato di consumo e in cui, per logici motivi, la pubblicità ne restava completamente estranea. Non era raro, (e non lo è neanche oggi), trovare prodotti che imitavano, quasi al limite del plagio, confezione e veste grafica dei prodotti top gamma, restituendo agli occhi del consumatore uno svilimento del prodotto e facendo suonare un campanello d’allarme alle agenzie di comunicazione e ai top spender, che percepivano tutto ciò come un declino evidente delle strategie di comunicazione che avevano accompagnato i fiorenti anni ottanta. Una logica che continuò per tutto il corso degli anni novanta, con alti e bassi dettati da cambiamenti sociali, una forte crisi economica e dinamiche relazionali definitivamente cambiate. Sono gli anni dei primi telefonini, della tv via cavo, più avanti degli sms e dei primi abbozzi di world wide web. Tutto diventava più fluido, interconnesso e interattivo. Una fluidità della comunicazione che arriva a caratterizzare e caratterizzarci sino ad oggi, dove 28


La pubblicità, questa vecchia signora

paradossalmente il mercato pubblicitario trova per la prima volta la concreta possibilità di emanciparsi fuori dalle logiche di annunci stampa, comunicati radio o affissioni pubblicitarie in giro per la città, riaffermandosi e rimodellandosi attraverso i nuovi media digitali, in un’ottica legata più a forme informative piuttosto che di semplice intrattenimento, o magari un mash-up di entrambe.I nuovi media e internet in particolar modo, diventano per questo piattaforme indispensabili per il nuovo corso di una comunicazione aperta, che forse non si definisce neanche più pubblicità, ritenendo questo termine ormai molto riduttivo, ma come un insieme di proposte dedite all’acquisto di un bene che raccolgono intorno a se variabili nuove e creative, coinvolgendo l’utente e lanciando messaggi che esulano dal semplice atto d’acquisto (anche se, professionalmente parlando, resta commercialmente una priorità), ma che coinvolgono sviluppo sociale, definizioni valoriali e una nuova etica di consumo. Non c’è forse stato tempo migliore per dare una svolta alla pubblicità per come più comunemente la conosciamo. Si continuano a fare errori e sperimentazioni, ma ci sono tanti esempi di come questa strada, certamente difficile ma necessaria, sia stata già imboccata da molti professionisti ed agenzie per dare a questo settore una svolta che, sicuramente, ne cambierà dinamiche e contenuti in maniera permanente. 1 - Umberto Eco, Analisi semantica di un caso pubblicitario, in Sipra, 1972.

Guarda la pubblicità (RAI) Carosello, sigla d’apertura - www.goo.gl/3bTlm

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Bill Bernbach e la rivoluzione creativa “Tutti noi che nella nostra professione usiamo i mass media siamo i modellatori della società. Possiamo volgarizzare questa società. Possiamo brutalizzarla. O possiamo aiutarla ad elevarsi più in alto” Sono parole di Bill Bernbach, brillante pubblicitario e uomo del secolo scorso, diventato un simbolo per la pubblicità e un riferimento per chi la crea. Ha promosso quella che viene considerata una vera “rivoluzione creativa”. Nato nel Bronx, nel 1911, da una famiglia modesta, frequenta tutte le scuole pubbliche della città di New York e si specializza in letteratura inglese, continuando a studiare musica e gestione aziendale. La sua carriera non inizia in pubblicità, ma lavora nell’ufficio spedizioni delle distillerie Schenley da dove però, data la sua dote per la scrittura, prova a scrivere dei piccoli annunci per i prodotti che ogni giorno gli scivolano tra le mani e uno di questi lo invia all’agenzia pubblicitaria che cura la comunicazione della distilleria, la Lord&Thomas. Poco dopo, lo stesso annuncio viene pubblicato così per come Bill lo pensò in un giornale locale senza però alcuna menzione all’autore originale. Ma il presidente della compagnia, venuto a conoscenza del fatto, decide di promuovere Bill al reparto marketing e pubblicità dell’azienda. Dopo un paio di anni è assunto come scrittore presso la Weintraub, dove incontra Paul Rand, famosissimo graphic designer del tempo e a cui resterà legato per la vita. Ma è solo 31


con l’incarico di copywriter all’interno dell’agenzia Grey che Bill, conoscendo Ned Doyle, allora account e vice presidente dell’agenzia Phyllis Robinson, inizia la sua vera ascesa nel mondo dell’advertising. Nel 1949 nasce infatti l’agenzia di cui è uno dei soci fondatori: la DDB, Doyle Dane Bernbach, con un budget inizialmente ridotto ed un parco clienti limitato tra i quali spicca il grande magazino Ohrbach’s ma che, da li a pochi anni, si sarebbe arricchito di clienti e molte campagne pubblicitarie prestigiose come quelle per Volkswagen che diventarono, come nel caso dell’annuncio del maggiolino, esempio di humor ed efficacia commerciale in pubblicità. Proprio con questa sua ultima campagna, sicuramente la più famosa, possiamo raccontare come la pubblicità per Bill racchiuda non soltanto caratteristiche prettamente commerciali, ma di verità, etica e humor verso il suo pubblico. La Volkswagen sbarca in America nel 1949 con il Maggiolino e vende nel primo anno di presenza sul mercato soltanto due veicoli in tutta la rete di vendita americana. L’insuccesso è dato non soltanto dal fatto che la vettura fosse sconosciuta, ma soprattutto dalla scarsa rete di assistenza e in maniera altrettanto importante perché il maggiolino andava contro corrente all’american way of life, al pensare in grande degli americani che nelle automobili si traduceva in vetture di grossa cilindrata, grandi, possenti, simboli della nuova classe media, molto distanti dall’esile, tozzo e neanche tanto performante Maggiolino tedesco. Dieci anni dopo la sua uscita americana, la Volkswagen decide di affidare il suo budget pubblicitario di 800.000 dollari, certamente più basso rispetto ai budget milionari dell’industria di Detroit, proprio all’agenzia DDB, 32


La pubblicità, questa vecchia signora

decretandone da questo momento il vero successo. Il Maggiolino è piccolo, di cilindrata poco potente, lontano dal modo di pensare americano? Perché allora nascondere questa differenza che ne è alla base? Meglio invece metterla in evidenza e trasformarla in valore, in benefit aggiuntivo e reale per il pubblico. Convertire così i difetti in virtù ed essere onesti sul prodotto. Un principio, quello dell’onestà, in cui Bernbach credeva moltissimo e che diete lo slancio per l’annuncio stampa più famoso della storia della pubblicità. Pagina intera, quasi completamente bianca, un piccolo Maggiolino in alto a sinistra, un’unica headline, un unico concept principale, potente, rilevante: “Think small”, un completo ribaltamento del pensare in grande americano, promosso come vantaggio piuttosto che svantaggio. Niente inutili fronzoli o richiami patinati, solo la verità, sincerità e schiettezza di un prodotto nuovo, europeo, che voleva e poteva offrire al consumatore la semplicità, il risparmio e la garanzia di una rete di assistenza notevolmente ampliata. Dal lancio della campagna, che comprenderà negli anni numerosi annunci, il mercato Volkswagen in America crescerà sempre di più, tant’è che nel 1967, su un totale di circa 700.000 auto straniere vendute, ben 430.000 sono della casa tedesca. Un successo questo che è diventato il simbolo di una comunicazione concreta che riesce non solo ad avere una forma, ma che porta a risultati reali, in cui un pizzico di genio e di coraggio nel pensare e promuovere un messaggio innovativo e controcorrente, ha trasformato e determinato il successo di una grande casa automobilistica europea nel corso degli anni. 33


Bill Bernbach muore nel 1982, dopo aver creato un network pubblicitario internazionale, la DDB, esistente ancora oggi e lasciandoci un’idea di pubblicità positiva, pulita ed efficace. Bob Levenson, amico e collega, scrisse sulla sua lapide: “Elevò la pubblicità ad arte e il nostro lavoro a una professione. Fece la differenza”.

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CAPITOLO 2 Quella gonna sempre troppo corta Sulla pubblicità e la rappresentazione dell’immagine della donna si sono scritti fiumi di pagine, per la maggior parte di critica, verso una rappresentazione stereotipata e non raramente offensiva del corpo e delle capacità intellettive tipiche delle donne. E non si può nascondere che tutto ciò sia frutto di una visione contorta di clienti e creativi pubblicitari che non hanno avuto scrupolo nel favorire l’incancrenirsi e il ripetersi d’immagini lesive e sicuramente non vantaggiose per una comunicazione di tipo commerciale. Ovviamente, ricordiamoci sempre che, come in ogni categoria lavorativa, anche in pubblicità non esiste un pensiero univoco o un diktat ideologico che imponga una rappresentazione corretta dell’immagine femminile, ed è proprio per questo motivo che la visione stereotipata e volgare che spesso ne risulta non è visione di un’intera categoria professionale e a favore di questa importante distinzione a esempi di cattiva comunicazione se ne contrappongono infatti molti altri in cui la donna viene messa al centro di discorsi comunicativi efficaci e corretti. Rappresentare, infatti, un corpo femminile nudo o senza una sua logica che lo lega alla scelta (e di conseguenza, quindi, trasformarlo in oggetto) è sbagliato non solo a un livello 35


squisitamente etico ma anche commerciale nei confronti del marchio che se ne fa promotore e garante del messaggio. La maggior parte delle campagne in cui si fa uso errato del corpo femminile sono destinate alle stesse donne, madri e lavoratrici che idealmente dovrebbero esserne rappresentate. Il cortocircuito sta nel pensare a un prodotto dedicato alle donne attraverso lo stereotipo di donna immaginato invece dall’uomo. A questo proposito è utile citare l’analisi di John Berger che descrive la visione di genere nei termini di una spettacolarizzazione del corpo: “Gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne e le donne osservano se stesse mentre vengono guardate. Ciò determina non soltanto la maggior parte delle relazioni tra uomini e donne, ma anche il rapporto delle donne con sé stesse. Il sorvegliante che la donna ha dentro di sé è maschio: il sorvegliato è femmina. Ecco dunque che ella si trasforma in oggetto, e più precisamente in oggetto di visione”.¹ Non è neanche la nudità in se, contrariamente a quel che si pensa, a creare disagio o incongruenza comunicativa. Se si esce dalla logica squisitamente pubblicitaria ne sono un esempio le rappresentazioni di donne, madonne, vergini e dee che hanno accompagnato la rappresentazione della nudità femminile dall’arte classica greca sino al più moderno rinascimento italiano senza risultare e apparire in alcun modo volgari o passibili di censura. Secondo Daniela Brancati, imprenditrice nel settore della comunicazione, il ruolo femminile all’interno della logica pubblicitaria è definibile in tre aspetti e macro aree principali che ne definiscono gli stilemi più comuni. 36


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In primo luogo la donna è utilizzata così frequentemente perché è nello stesso tempo la principale responsabile d’acquisto per la maggior parte dei beni di consumo. Una logica corretta se si pensa al secondo punto evidenziato, in cui la donna è considerata “oca giuliva”, immagine monodirezionale di casalinga e madre impegnata tra pulizie e cucina, senza nessun tipo di interesse differente. Ulteriore similitudine associativa è quella di considerare donne e pubblicità all’interno di uno stesso ruolo, quello seduttivo. “Se chiedete ai pubblicitari perché ridicolizzano la figura femminile, li sentirete rispondere: noi non inventiamo, siamo soltanto lo specchio della società, dei suoi malesseri, umori e malumori. Insomma, dicono, come lo specchio noi non creiamo l’immagine, riflettiamo quella che c’è. Ma questo non li assolve come loro penserebbero. Infatti di immagini della realtà ce ne sono tante: lo specchio ne riflette soltanto una, quella che gli mettiamo di fronte. Che cosa mettere di fronte allo specchio lo scelgono i pubblicitari”.² Ma se il corpo nudo e volgarizzato è così ampiamente utilizzato, ci sarà forse un effettivo ritorno di vendita o notorietà del prodotto? Altro interessante contributo è quello che Beppe Severgnini ha scritto sul Corriere della Sera del 14 novembre 2002: “Com’è possibile che metà della pubblicità italiana contenga immagini sessuali, allusioni sessuali,richiami sessuali, doppi sensi sessuali? Perché acque minerali, aeroplani, automobili, aperitivi, birre, caffè, cellulari, ciclomotori, cinture, cioccolatini, condizionatori, cucine, dentifrici, digestivi, divani, dopobarba, gelati, gioielli, mostre d’arte, 37


orologi, prosciutti, scarpe e software gestionale scelgono il sesso per farsi pubblicità? Mi ha risposto il “creativo” di una di queste campagne: “Lo facciamo perché il prodotto venga notato. Infatti lei l’ha notato e ne scrive”. Secondo uno studio promosso dall’istituto di ricerca Nielsen nel 2011 dal titolo “Women of Tomorrow”, da un campione di donne di 21 paesi differenti, esce fuori che le donne interessate alla pubblicità, ovvero quelle che si informano attraverso i messaggi commerciali (con la televisione come primo canale d’informazione), ne sono si influenzate ma non riscuotono in loro la fiducia necessaria a coinvolgerle nella fase d’acquisto. Questo significa che, nonostante la ricerca non fosse focalizzata solamente per i messaggi pubblicitari con al centro la rappresentazione della donna, c’è un divario tra ciò che apparentemente non crea disagio e ciò che invece in maniera più profonda si radica nel pensiero di chi è esposto al messaggio (in questo caso, la visione falsata della bellezza, del corpo, dei ruoli sociali attribuiti alle donne). Per favorire una cultura pubblicitaria sana in Italia l’ADCI, art directors club italiano, l’associazione che unisce chi lavora nel settore della creatività, pubblicità e comunicazione, ha redatto un manifesto deontologico, con gli obbiettivi che i soci si impegnano a seguire e la visione di una pubblicità eticamente corretta anche in riferimento al ruolo della donna. A riguardo, è utile citare uno dei punti del manifesto, quello che riguarda l’uso degli stereotipi: “Una certa dose di stereotipi è necessaria in pubblicità come in ogni forma di comunicazione di massa. Ma l’abuso di stereotipi e cliché relativi 38


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ad etnie, religioni, classi sociali, ruoli e generi favorisce il consolidamento di pregiudizi e ingessa lo sviluppo sociale, ancorandolo a schemi culturalmente arretrati e dannosi. Dunque occorre usare gli stereotipi con attenzione e consapevolezza, sempre chiedendosi se una soluzione alternativa non sia possibile e migliore”. Una volontà quindi di tutelare e rispettare l’immagine femminile e non solo. Da parte degli utenti e consumatori è possibile segnalare personalmente le campagne, spot o annunci stampa ritenuti offensivi scrivendo direttamente allo IAP, istituto di vigilanza pubblicitaria che controlla, esamina ed eventualmente censura tutta quella comunicazione ritenuta offensiva e ingannevole. Questo per non dimenticare che avendo gli strumenti è più facile contrastare la cattiva pubblicità e lasciare spazio soltanto a quella positiva, divertente, anche nei confronti delle donne. Sono tanti infatti gli esempi in cui l’associazione di un prodotto o messaggio con delle donne o citandone ruoli, atteggiamenti o problemi tipici, ha creato campagne con messaggi non solo interessanti ma alla base di un sentito dibattito all’interno della società, che esula la sola vendita di un prodotto. È il caso di Dove, notissimo marchio a livello mondiale, distribuito da Unilever, portavoce di una famosissima campagna per la “Bellezza autentica” nata per focalizzare l’attenzione sull’immagine distorta del corpo femminile e sui ritocchi digitali che spesso vengono utilizzati proprio in pubblicità, falsando quindi una visione sana della bellezza. La campagna, sviluppata per un lancio globale, nasce nel 2004 in un’agenzia 39


Dall’alto sinistra in basso Due delle donne utilizzate per la campagna Dove Pro Age. Frame finale tratto dallo spot Evolution con la ragazza dopo la fase di fotoritocco. 40


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pubblicitaria di Dusseldorf, la Ogilvy & Mather che, esaminando interviste e sondaggi proposti ad un campione di 3200 donne di età compresa tra i 18 e 24 anni provenienti da dieci paesi differenti, scoprì che soltanto una piccolissima parte è contenta del proprio aspetto fisico, scoraggiata da modelli troppo distanti dalla reale fisicità femminile. Da questo presupposto la campagna comincerà a svilupparsi in diverse fasi. Nel 2006 viene istituito il “Fondo Dove per l’autostima”, che promuove incontri e seminari con le donne per parlare dei problemi legati alla non accettazione della propria immagine. Da febbraio del 2007 esce successivamente a livello mondiale la campagna stampa e tv della nuova linea Dove Pro-Age, dove le modelle sono donne di mezza età fiere di mostrare il loro corpo nudo ma non volgare, con tutte le rughe e i segni del tempo senza avere, per questo motivo, alcun imbarazzo. Passano pochi mesi, esattamente in ottobre, quando online, sul sito dedicato e su Yotube viene pubblicato e condiviso il cortometraggio “Evolution”, forse il fulcro dell’intera operazione, visualizzato da milioni di persone in tutto il mondo e riproposto in tv, durante dei talk show, con articoli su internet ed interventi radio. Il video mostra una ragazza normalissima, come tante, che viene sottoposta ad una seduta di make-up e ritocco digitale “accelerato” per un set fotografico. Il tempo di registrazione viene “compresso” per enfatizzare la trasformazione del viso, che passa da acqua e sapone a un uso massiccio di trucco. Dopo questa prima fase inizia l’ulteriore ritocco con un software digitale per arrivare alla fine, quando la ragazza, quasi irriconoscibile, appare nella sua bellezza falsata in un manifesto pubblicitario. Il cortometraggio vince due importanti premi 41


al festival pubblicitario di Cannes nel 2007 e viene apprezzato dalla critica di settore e non. Efficacia della campagna sostenuta dai dati di crescita. Dall’inizio del 2005 la Dove aumentò il suo fatturato del 12% e l’anno successivo di un altro 10%. Alla campagna però, nel 2008, viene contestato di utilizzare immagini ritoccate per gli annunci della linea. Critica mossa da Lauren Collins : “I mentioned the Dove ad campaign that proudly featured lumpier-than-usual ‘real women’ in their undergarments. It turned out that it was a Dangin job. ‘Do you know how much retouching was on that?’ he asked. ‘But it was great to do, a challenge, to keep everyone’s skin and faces showing the mileage but not looking unattractive’ La Unilever risponde alla critiche affermando che la campagna del 2005 non ha subito modifiche mentre invece gli annunci del 2007 riguardanti la linea Dove Pro-Age hanno subito solo un leggero ritocco per rimuovere la polvere dai corpi delle modelli. Un esempio, questo, di come sia possibile avvicinare la gente a un prodotto che, come logico si voglia ottenere, ricava certamente profitto dalla vendita della propria linea, ma che lo fa attraverso un uso attento del mezzo pubblicitario, incoraggiando una promozione che avanza in maniera parallela a messaggi utili e coinvolgenti. Altro riferimento è lo spot realizzato dall’agenzia Ogilvy di Johannesburg, in Sud Africa, a favore della lotta contro l’aids. Lo spot racconta la storia di una donna, Selinah, malata di aids, che decide di farsi filmare per novanta giorni consecutivi dall’inizio della cura con farmaci retro virali. In maniera inversa, in altre parole dal novantesimo sino al primo giorno, 42


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l’inquadratura scorre fissa, sul letto in cui la donna riposa, raccontando il cambiamento di quel volto da sereno e sorridente a scarnito e sofferente, anticipando in questo modo, data la visione “inversa” dello spot, l’efficacia della cura che aiuta realmente a combattere la malattia. Un messaggio forte che non a caso ha visto protagonista una donna, che in Africa soffre, oltre che della malattia, di discriminazioni sociali e culturali molto forti. Nelle prime quattro settimane dal lancio, le donazioni individuali verso l’associazione che fa capo al progetto, la Topsy8, sono aumentate del 95%, lo spot è stato trasmesso gratuitamente in tv e al cinema per un valore di esposizione di circa 200.000 $, coprendo la maggior parte delle tipologie media, dai giornali, al web alla tv e sono stati promossi seminari e documentari in Sudan e negli Stati Uniti per raccontare la storia di Selinah e l’importanza delle cure contro la malattia.

Selinah, prima e dopo il trattamento raccontato nello spot.

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Ma la donna, insieme i suoi ruoli, rappresenta oggetto di critica, all’estero cosÏ come in Italia, soprattutto nelle comunicazioni che riguardano i settori della cosmesi e in particolar modo della moda. Gli esempi di corpi nudi, oggetti del desiderio o con le sembianze di manichini scarniti con il solo scopo di mostrare gli abiti non mancano di certo. Ma anche una categoria merceologica del genere, dove si tende sempre a pensare che non ci sia via d’uscita se non il mostrare delle sterili immagini patinate, offre degli esempi di qualità in cui la promozione di abbigliamento aiuta a riflettere e si cala nelle problematiche moderne.

Uno dei soggetti della campagna Piazza Italia. 44


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È questo il caso di un noto brand di abbigliamento italiano, Piazza Italia, nato nel 1993 e che conta oggi più di 130 punti vendita, tra diretti ed in franchising, sia in Italia che all’estero. Nel 2012 viene infatti lanciata la campagna che, sotto il claim “sponsor della gente comune”, si fa portavoce di modelli veri, giocando anche sul doppio significato del termine e raccontando, attraverso gli annunci, delle testimonianze di donne (e uomini) impegnate nel sociale o che si sono resi portavoce di valori o azioni attraverso gesti a favore della legalità, l’altruismo e la correttezza. Un modo per calarsi nella realtà vera e autentica sfruttando il mezzo pubblicitario come motore di conoscenza, per promuovere modelli valoriali corretti. La campagna, fotografata da Carlo Furgeri Gilbert, è stata realizzata dalla Diaframma Adv sotto la direzione creativa di Stefano Ginestroni che così ne racconta la nascita: “In questo momento più che mai sentivamo la mancanza di modelli positivi, gente in grado di rendere il nostro paese, un posto migliore. Da questa necessità è nata l’idea della nostra campagna, un’idea molto semplice: utilizzare come testimonial dei “veri” modelli, persone capaci di trasmettere dei valori”.3 I due ultimi esempi rappresentano messaggi con un costrutto importante, specie nei valori che vogliono trasmettere. Questo non significa però che, anche in situazioni più semplici, divertenti, non si possa giocare con uno stereotipo e renderlo accattivante, condivisibile e magari riderci un po’ su. Il dimagrimento e le diete sono, in questo senso, un punto importan45


te specie se si analizza un target femminile. Si potrebbe immediatamente associare l’immagine della donna tra profumi, creme ringiovanenti e trattamenti di bellezza a un messaggio inverso a quello espresso dalla campagna Dove. E non si cadrebbe certamente in errore. Il problema è sempre lo stesso: spesso il fulcro della comunicazione ruota intorno ad un rimedio favolistico, stereotipato e per nulla interessante. È questo il vero problema da risolvere. Un altro caso interessante a riguardo che merita sicuramente un’analisi è lo spot che P&G, famosissima multinazionale americana che produce e gestisce a livello globale una miriade di prodotti, principalmente per la cura della casa e della persona (Dash, Duracell, Ariel solo per citarne alcuni), ha promosso in concomitanza delle olimpiadi 2012. La sua più grande campagna a livello globale che ha visto al centro il ruolo della donna nella veste di mamma. Il lancio, avvenuto il 17 aprile in tutto il mondo, esattamente cento giorni prima l’inizio delle olimpiadi, ha visto capeggiare lo spot in cui si vedono quattro madri di diverse etnie e classi sociali provenienti da quattro città diverse (Los Angeles, Rio De Janeiro, Pechino e Londra) impegnate nelle attività comuni che ogni giorno si svolgono in famiglia mentre, nello sfondo narrativo, incitano i figli a dare sempre di più nello sport, con un susseguirsi di storie che ne raccontano man mano i successi fino ad arrivare ai traguardi più grandi, come, appunto, le olimpiadi. Alla fine dello spot, il marchio P&G è sorretto da un messaggio forte: “Fieri di sostenere le mamme” (che nella versione inglese recita invece “Proud sponsor of Moms”). 46


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47 spot P&G. Due frame dello


Un’ impostazione classica e protesa verso un marcato coinvolgimento emotivo che racconta il ruolo della donna come mamma, attraverso le fatiche e le gioie di vedere i propri figli crescere e ottenere i traguardi sperati (non solo sportivi). A livello commerciale una mossa importante e non banale, quella di comunicare il nome della multinazionale piuttosto che i singoli brand, affermando quindi il valore superiore che tutti i prodotti facenti capo a P&G hanno già nel loro dna aziendale. Il lancio dello spot è stato sorretto e anticipato da una campagna che già dal 2010 ha inserito la figura della mamma all’interno del piano di comunicazione (la mamma, per P&G, rappresenta la prima consumatrice dei propri prodotti). Marc Pritchard, Global Marketing and Brand Building Officer di P&G, conferma a riguardo il cambio netto della comunicazione: “P&G is in the business of helping moms”. Lo spot ha avuto un notevole successo ed ha commosso milioni di persone in tutto il mondo. Ma il ruolo della donna all’interno della campagna com' è stato affrontato? Ci sono, a riguardo, due correnti di pensiero opposte. La prima corrente di pensiero afferma che la donna è stata resa protagonista di un costrutto narrativo reale in cui il ruolo di madre ne rafforza la presenza (non solo scenica, ma di contenuti) e la veridicità del messaggio. La corrente opposta reputa invece lo spot specchio di una rappresentazione stereotipata e, ancora una volta, legata all’immaginario comune della donna alle prese sempre e solo con le faccende domestiche, i figli e la casa. I volti afflitti delle donne presenti nello spot ne sono una testimonianza. 48


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Interessante il commento che Giovanna Cosenza scrive sul suo blog: “Sono una che piange davanti ai film (in questo caso lo spot P&G), perciò ho pianto. […] Con una malinconia aggiuntiva, a spot finito, che mi viene dal constatare che, ancora una volta, si rappresentano le madri completamente sole. Dei padri ci sono pochissime tracce: davanti al televisore, nella famiglia cinese, e con un braccio sulla spalla della donna, nella coppia di colore. E ancora una volta si consolano le madri della loro immane fatica e solitudine dicendo loro che sono eroine, fate, superdonne, sante da adorare. Mica solo in Italia: in tutto il mondo”.4 Il lavoro promosso da P&G, al di là da ogni ragionevole critica, deve far riflettere sulla diversità di lettura che uno stesso tema può suscitare. Nel caso specifico inoltre se di critica si parla, la si affronta solamente ad un livello di “rappresentazione parziale” e non di lesa dignità del corpo o funzione femminile. Questo dimostra che, se il concept alla base del messaggio pubblicitario è costruito attingendo da verità e logiche derivanti dalla vita reale delle persone, il messaggio non soltanto arriva ma stimola l’opinione comune in un’analisi spontanea, elevando quindi non solo il dibattito sul tema ma la popolarità del brand in generale. Questo per ricordarci che, ancora una volta, più che una questione femminile nel dibattito pubblicitario, bisognerebbe parlare di contenuti eticamente corretti, che riguardino le donne ma non solo. L’efficacia di un messaggio si misura anche attraverso questa consapevolezza, basilare nella formulazione dei contenuti pubblicitari. E se si riesce a tenerne conto, non solo il messaggio sarà di qualità, ma sarà unilateralmente condiviso. Da uomini e donne. 49


Il manifesto deontologico dell’ Adci “Noi soci ADCI siamo consapevoli del fatto che la comunicazione commercialediffonde modi di essere, linguaggi, metafore, gerarchie di valori che entrano a far parte dell’immaginario collettivo: la struttura mentale condivisa e potente, tipica della culture di massa, che si deposita nella memoria di tutti gli individui appartenenti a una comunità, e ne orienta opinioni, convinzioni, atteggiamenti e comportamenti quotidiani. Il nostro mestiere è raccontare le offerte dei nostri clienti attraverso narrazioni efficaci. Ironia, humour, paradosso, appartengono al patrimonio storico del miglior linguaggio pubblicitario. Sono, fra i molti tratti distintivi della pubblicità, forse i più popolari e apprezzati, se e quando vengono impiegati con competenza, precisione e misura. Per questo crediamo, come professionisti e come individui responsabili, di dover assumere, condividere e promuovere un insieme di princìpi che servano da positivo fattore di sensibilizzazione e orientamento etico per chi, ogni giorno, crea e diffonde linguaggi e simboli. Ad animarci non è un intento censorio, che non ci appartiene, ma il desiderio di portare un contributo positivo alla crescita, non solo materiale ma anche culturale, di questo paese. In questo spirito sottoscriviamo otto semplici appelli che auspichiamo possano essere raccolti e condivisi anche al di fuori dell’Art Directors Club Italiano. Non solo dagli altri colleghi che si occupano – in vari modi – di comunicazione, ma anche dagli enti e dalle imprese per cui lavoriamo e da chiunque abbia l’opportunità, oltre che la responsabilità, di veicolare messaggi attraverso i media. 50


Quella gonna sempre troppo corta In linea generale, i princìpi cui ci ispiriamo sono già tutelati da altri organismi e, nei casi di infrazione più sospetti, dal codice civile. È nostro intento contribuire, con questo appello, a modificare modalità di comunicazione che, pur lecite formalmente, possono tuttavia favorire il consolidarsi di stereotipi negativi e il deteriorarsi della cultura collettiva.”

Onestà La fiducia è uno dei pilastri su cui si fonda ogni società civile. Tradire la fiducia di altri esseri umani è una forma di inquinamento morale che rende tutti più vulnerabili. Per questo noi soci Adci ci impegniamo a evitare espedienti retorici tesi a creare aspettative che il prodotto o il servizio pubblicizzato non sarà mai in grado di soddisfare. Fuorviare il pubblico a cui parliamo indebolisce il nostro stesso lavoro. Bellezza Noi soci Adci ci impegniamo a lottare ogni giorno contro la trasandatezza, la sciatteria, la trascuratezza e la volgarità, virus la cui diffusione va a discapito della bellezza. «Tutti noi che per mestiere usiamo i mass media contribuiamo a forgiare la società. Possiamo renderla più volgare. Più triviale. O aiutarla a salire di un gradino». (Bill Bernbach). Appropriatezza Ogni volta che creiamo un messaggio noi soci Adci ci interroghiamo sulla sua appropriatezza. I nostri messaggi entrano nelle case e nelle vite altrui: dobbiamo chiederci se quello che a noi pare appropriato lo sia anche per gli altri. La vera creatività non risiede nella trasgressione fine a se stessa, ma nel reinventare la norma aprendole prospettive nuove e fertili. 51


Rispetto Noi soci Adci siamo consci che con i nostri messaggi non dobbiamo mai offendere gli altrui diritti e meriti. Nemmeno quando sono i committenti a spingerci in questa direzione, perché accontentarli significherebbe procurare un danno a tutto il sistema. Se la pubblicità non rispetta gli esseri umani nella loro individualità e nella loro differenza, questi smetteranno di rispettare la pubblicità. Sta già accadendo. Correttezza Noi soci ADCI ci rifiutiamo di favorire con il nostro lavoro rappresentazioni gratuite di violenza, in tutte le sue forme: fisica, verbale, psicologica, simbolica, morale. Siamo contrari a promuovere direttamente o indirettamente qualunque tipo di discriminazione, in quanto è essa stessa una forma di violenza. Intelligenza Il fatto che la pubblicità debba essere chiara, diretta e comprensibile a tutti non implica che debba essere stupida, né che si debba trattare da stupido il suo pubblico. Noi soci Adci condanniamo e combattiamo il ricorso alla stupidità sia come espediente retorico, sia come scorciatoia per guadagnare facili consensi. Difenderne l’utilità a fini comunicativi è un alibi cinico e mediocre, tipico di chi disprezza i suoi simili e di chi è incapace di produrre o riconoscere idee nuove. Per ridurre ciò che è complesso a semplice, senza essere semplicisti e conservandone tutta la ricchezza, occorre – parola di B.Russell – la dolorosa necessità del pensiero.

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Pudore Consideriamo la sessualità libera da condizionamenti un grande valore, per la donna e per l’uomo. Il nudo in sé non può recare offesa, come l’arte stessa ci ha insegnato attraverso innumerevoli esempi. Ma giudichiamo profondamente scorretto ridurre i corpi umani a oggetto sessuale da abbinare a un prodotto in modo incongruo e pretestuoso, al solo scopo di rendere quest’ultimo desiderabile. Questo schema pavloviano è, oltre che inefficace nel promuovere l’autonomo valore del prodotto, immorale, perché svilisce l’esperienza e l’identità umana. Il manifesto è firmato da Pasquale Barbella, Massimo Guastini e Annamaria Testa. Per altre informazioni a riguardo potete visitare il sito ufficiale dell’associazione all’indirizzo adci.it 1 - John Berger, Questione di sguardi, Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità, Il Saggiatore,Milano, 2002. 2 - Daniela Brancati, La pubblicità è femmina. Ma il pubblicitario è maschio Sperling & Kupfer, Milano, 2002. 3 - pragmatiko.it/2012/03/22/piazza-italia-sponsor-della-gente-comune 4 - Perché lo spot Procter & Gamble sulle mamme fa piangere, Giovanna Cosenza Blog, http://goo.gl/TmA75 Guarda la pubblicità (Unilever) Dove Evolution - http://goo.gl/1iaZ2 (Topsy8) Selinah - http://goo.gl/gVEM3 (P&G) Thank you mom - http://goo.gl/FnUJo

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CAPITOLO 3 Meno carta, più pixel Non poteva esistere un titolo di apertura del capitolo più ampio ma nello stesso tempo più adatto a raccontare come la pubblicità, nella forma classica in cui siamo abituati a conoscerla, sta evolvendosi in forme digitali sempre più complesse che utilizzano la rete come strumento di diffusione dei messaggi. E tutto ciò avviene con strumenti, modalità e interattività diversissime e con vari gradi di interazione. Se pensiamo a noi stessi come fruitori di messaggi pubblicitari, ci accorgiamo che negli ultimi dieci anni il tempo speso davanti quelli che una volta erano i media maggiormente utilizzati per la diffusione dei messaggi pubblicitari, (la televisione in primis) è diminuito drasticamente a favore di un uso più intenso di internet e degli smartphone, anch’essi ormai quasi perennemente connessi alla rete. Da un rapporto della Gsm Association infatti, mediamente il cellulare è utilizzato 25 minuti per navigare in rete e solamente 12 per sms e telefonate. In più, gli accessi ai vari social network da cellulare sono più che duplicati nel corso degli ultimi due anni (Nel 2013 gli accessi mobili a Facebook toc55


cano i 680 milioni, Twitter 120 milioni, Linkedin 46 milioni e Foursquare 30 milioni). Viviamo in una socialità fatta di un interscambio continuo ma soprattutto non più dettato da un rapporto passivo, come telespettatori da varietà del sabato sera con quell’ unica possibilità di decidere se cambiare canale oppure no. Adesso è l’utente finale a detenere lo scettro per decidere dove e quando prestare attenzione, merce rarissima quest’ultima, specie per la pubblicità. Proprio in quest’ottica di profondo rinnovamento, la pubblicità si è anch’essa trasformata (forse mantenendo ancora qualche retaggio che deriva dalle vecchie logiche del passato) adattandosi, diventando interattiva, virale e spostandosi verso una logica d’intrattenimento che, in maniera non invasiva, cerca di sedurre l’utente per evitare il “cambio canale” o meglio dire, “cambio di pagina web”. All’interno del nuovo mondo digitale è però interessante scoprire come sempre più analisti ed esperti del settore ipotizzino, per i prossimi anni, un ritorno a sistemi di interattività di piazza, slegati dall’onnipresenza di strumenti digitali, primi fra tutti i social network e gli strumenti di live update. Bruno Giussani, responsabile europeo del Ted (il più importante evento di innovazione a livello mondiale), scrive in un articolo su Wired Italia: “Se la parte virtuale è una cacofonia, per ritrovare ordine abbiamo bisogno di concretezza e fisicità. Proprio perché ad una conferenza dobbiamo partecipare con la nostra persona, riusciamo finalmente ad imporci una priorità. Infine, salire su un palco e parlare davanti un pubblico, continua a rispondere ad una stessa antichissima esigenza umana. Come cento o tremila anni fa, abbiamo 56


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bisogno di raccontare la nostra storia e di ascoltare quelle degli altri: emozioni, osservazioni, esperienze, insegnamenti. Credo che nel 2013 la circolazione delle idee passerà sempre di più dalla fisicità”. 1 Si può immaginare una nuova ecologia sociale dominata da individui, quindi, che diventano hub informativi importanti con una possibilità di interscambio informativo che passa dall’uno all’altro utente senza alcuna mediazione. La pubblicità si sta ridefinendo proprio in questi termini, spostando il focus più che sulla promozione generale del prodotto, verso una più attenta sintesi emotiva che, con il linguaggio specifico dei social, potremmo identificare attraverso l’uso di “hashtag”, ovvero elementi chiave su cui la comunicazione commerciale verterà, identificandosi con gruppi di utenti diversi da loro, ma accumunati, appunto, da un’unica sintesi di valori. All’interno dell’ambiente digitale dei social inoltre, l’informazione pubblicitaria è avvertita in maniera notevolmente differente. Il social media report 2012, uno studio promosso dall’istituto di ricerca Nielsen riporta come dato statistico (riferito al campione di utenti americano) che il 33% degli utenti web afferma che la pubblicità all’interno dei social networks è più noiosa di altre tipologie di promozioni online, ma che il 26% è maggiormente propensa ad un acquisto se l’informazione ricevuta arriva attraverso amici in comune o suggerimenti ad interessi condivisi. Questo dato spiega come le dinamiche digitali favoriscano un passaparola stimolato da una precisa necessità di informazione che non avviene a caso, ma in base agli interessi e opinioni raccolte dall’utente. 57


Gli utenti con i brand sui social network 70%

Ascoltano pareri di altri utenti

65%

Ricercano informazioni aggiuntive sul prodotto, brand o servizio

53%

Lasciano un parere positivo sul prodotto

50%

Lasciano un parere neutro sul prodotto

47%

Condividono sconti o incentivi

FONTE: Nielsen, Social Media Report 2012. Su campione di utenti americani.

La raccolta dati è quindi fondamentale. Un punto che ha suscitato non pochi dibattiti, specie per quanto riguarda le possibili violazioni sulla privacy e che vede coinvolti i networks sociali e di ricerca, primi fra tutti Google e Facebook. Fare pubblicità su internet significa imbattersi in una miriade di possibilità diverse, alcune con un totale sviluppo online, altre con la possibilità di integrare online e vita reale. Per sintetizzare in maniera semplice, possiamo racchiudere la comunicazione online in quattro categorie principali che però non rappresentano categorie fisse, ma hanno tra di loro un continuo contagio ed interscambio. Comunicazione virale La pubblicità virale è quell’insieme di annunci che si diffonde in maniera “virale”, con le stesse meccaniche di un virus, in maniera spontanea, attraverso il passaparola degli utenti o la 58


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condivisione di contenuti. Internet è la piattaforma principale per la sua diffusione ma non è raro che fenomeni nati sul web si diffondano in seguito anche fuori dalla rete, dando origine a dibattiti sociali o politici. Solitamente, le campagne virali di maggior successo sono diffuse attraverso video o brevi film di qualche minuto con un concept molto coinvolgente, condivisi dagli utenti che ne decretano il successo. Comunicazione multipiattaforma Questo genere di comunicazione, che può essere commerciale o sociale, si sviluppa utilizzando internet ma con lo scopo (o attraverso) iniziative che coinvolgono le persone nella vita reale, sia con azioni che danno origine alla campagna, sia attraverso un vero e proprio programma a lungo termine che mette il coinvolgimento diretto degli utenti come base della comunicazione. Spesso queste campagne diventano a loro volta virali, dimostrando come non sia possibile definirle all’interno di schemi rigidi. Advertgames e mobile apps Gli advertgames sono delle applicazioni online che, attraverso il gioco, cercano di diffondere e promuovere un messaggio pubblicitario. Si sono notevolmente diffuse negli ultimi anni grazie a Facebook che ne permette lo sviluppo all’interno del social network. Il vantaggio di questa tipologia di strumenti è che agli occhi degli utenti spesso non vengono percepiti come veicoli pubblicitari (essendo dei veri e propri videogames o strumenti di produttività) e quindi vengono usati senza particolari reticenze. Si potrebbe fare un parallelo ai più comuni servizi internet che usiamo tutti i giorni. 59


Dalla posta di Gmail, gratuita ma con la pubblicità all’interno, fino a Youtube, che inserisce trenta secondi di pubblicità prima dei video. Gli advergames sviluppati all’interno di Facebook, inoltre, hanno la possibilità di raccogliere le informazioni personali e utilizzarle per inviare messaggi pubblicitari più diretti. Le applicazioni mobili sono invece quelle che abitualmente scarichiamo gratuitamente sui nostri tablet o smartphone e che contengono all’interno un piccolo banner (solitamente inserito in maniera non invasiva) in cui a rotazione appaio annunci pubblicitari in maniera mirata. Big data collection Più che una categoria vera e propria in cui si sviluppano le campagne pubblicitarie, con big data collection è utile indicare tutte quelle azioni mirate alla raccolta statistica di dati, incluse preferenze, opinioni politiche, sondaggi d’opinione, attività quotidiane. Senza addentrarsi in complicati leggi del marketing, l’immagine più comune è quella della fanpage di Facebook, che raccoglie utenti che condividono lo stesso interesse per un prodotto o per un’ attività, artista o azione di interesse pubblico. Questo permette la creazione di un bacino d’utenza fidelizzato che si relaziona direttamente al brand. Per non perderci nel mare magnum di questi numerosi strumenti, li analizzeremo poco alla volta e con esempi specifici di campagne reali, in modo da capire sul campo il funzionamento, gli obiettivi e i risultati ottenuti. La maggior parte della comunicazione pubblicitaria che si sviluppa attraverso la rete è di tipologia virale con uno sviluppo su più media differenti, in maniera contemporanea. 60


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Il brand della campagna

All’interno della comunicazione integrata, un esempio che ci aiuta a capire l’importanza e la complementarietà tra mondo reale è virtuale è Small Business Saturday, un’iniziativa promossa da American Express negli Stati Uniti a favore dei tanti piccoli commercianti che vendono merce al

dettaglio. Un’idea che nasce dal web ma si sviluppa e si diffonde fisicamente, in fasi differenti, tra i negozi locali di città diverse. L’idea di base di American Express è quella di stimolare i consumatori americani ad acquistare merci provenienti e vendute da piccoli imprenditori locali ed è con questo obiettivo che nasce la Small Business Saturday, un movimento e una giornata specifica dell’anno, quella dopo il giorno del ringraziamento, a metà tra il venerdì nero e il cyber monday, due delle più importanti giornate nazionali americane dedicate allo shopping. Dal lancio, American Express contava di raggiungere un platform di 1 milione di fans sulla pagina Facebook dedicata, la piattaforma da dove ha origine l’evento. Per il lancio sono stati utilizzati annunci testuali che venivano pubblicati direttamente sul social network e che American Express ha fornito gratuitamente a più di 10.000 piccoli imprenditori, molti dei quali non avevano mai utilizzato strumenti di comunicazione online. Inoltre, per stimolare i consumatori ad acquistare durate la giornata dell’evento, per ogni 25$ spesi attraverso il circuito American Express, ne venivano rimborsati altri 25$. 61


Parte della comunicazione online su Facebook

Facebook ha rappresentato il cuore dell’iniziativa, l’hub fondamentale, accompagnato però da una massiccia promozione nei negozi, con l’organizzazione di eventi specifici e addirittura un riconoscimento di livello istituzionale. I dati finali della campagna dimostrano, dal canto loro, un successo imponente e soprattutto con un reale ritorno d’investimento. La pagina Facebook dedicata ha raggiunto entro i primi mesi la cifra record di 1.4 milioni di fans, la campagna ha ricevuto 3500 citazioni dalle testate giornalistiche online e su carta stampata. Più di 100.000 esercenti hanno scaricato il materiale promozionale da affiggere sui loro negozi. “Facebook ci ha permesso di aumentare la connettività tra le persone, creando un senso di comunità attorno ad un valore portante che ha guidato i consumatori verso acquisti locali. Una

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possibilità che non avremmo avuto in alcun modo senza l’uso di questo strumento”2 afferma Jonh Hayes, Responsabile marketing di American Express. Questo è un esempio di come una comunicazione basata su interessi reali e soprattutto legata alla fisicità di un’azione possa rappresentare e decretare un successo commerciale notevole, evidentemente superiore ad un eguale investimento pubblicitario su media tradizionali come la radio o la televisione. Abbiamo visto come American Express sia riuscita a spostare il focus dalla vendita alla condivisione di un interesse, creando una comunità solida che ne condivide i valori. Un altro famosissimo brand multinazionale, Nike, se vogliamo, è andato ancora più avanti, definendo e definendosi all’interno di uno stile di vita (e quindi di consumo dei suoi prodotti) legato non più soltanto all’attività fisica come siamo abituati ad intenderla, ma al movimento in generale, invitando tutti i suoi seguaci a considerarsi quasi dei piccoli atleti professionisti svolgendo le più comuni attività quotidiane: camminare, fare la spesa, correre dietro un taxi. Nel 2012, dopo aver legato qualsiasi suo prodotto all’attività fisica (scarpe, felpe, materiale sportiamo) Nike lancia il “Nike+ Fuelband” un braccialetto dal design molto minimale in grado di conteggiare, se indossato durante la giornata, ogni nostra attività quotidiana, dallo sport agonistico al semplice su e giù delle scale, memorizzando il numero di passi, la quantità di calorie bruciate e il tempo trascorso. I dati vengono immagazzinati con la possibilità di essere poi trasferiti e salvati su altre periferiche, pc, smartphone o pubblicati direttamente sui profili personali del propri social networks. 63


Una mossa, questa, che da parte di Nike è una rivoluzione perché da semplice brand legato alla produzione di beni fisici diventa promotore di servizi e di un’esperienza immateriale, sensoriale. Il braccialetto non è infatti un semplice gadget abbinato ad un prodotto classico ma viene venduto separatamente in tutti gli store Nike e negli Apple Store come vero e proprio device. Il target si fluidifica. Allargando il concetto di sport come “mettersi in movimento”, allora tutti diventiamo degli sportivi. Non a caso lo slogan per questo prodotto è:“Life’s sport. Make it count”. La campagna di comunicazione online, in questo caso, ha interessato quattro social network differenti. Su Youtube sono presenti spot e video che descrivono il funzionamento pratico del prodotto mentre invece su Pinterest viene creato il “Nike+ Arm Party”, ossia una raccolta di immagini che raccontano il braccialetto utilizzato in contesti diversi e lo descrivono come un vero e proprio accessorio alla moda. Questa scelta dipende dalla settorialità che il brand ha all’interno di quest’ultimo social network, dove la parte da leone è della divisione donna, che infatti nell’account Nike Woman conta più di 8000 seguaci. Diverso invece Twitter, utilizzato per incoraggiare gli utenti a retwittare gli status della community. Facebook, infine, rappresenta l’hub fondamentale e portante per tutta la campagna. Intorno alla pagina ufficiale del Nike+ FuelBand si raccolgono più di 150.000 fans con i quali il brand interagisce attraverso la creazione di eventi (in particolare negli Stati Uniti) che invitano ad una partecipazione e ad un uso collettivo del dispositivo Nike e stimolandone l’uso attraverso le foto o video postati dagli altri utenti. 64


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In alto, il packaging del prodotto. In basso screen dei dati nella schermata utente.


L’importanza dell’interattività continua, reale o virtuale, è il filo conduttore dell’analisi di queste due campagne. Lo stesso elemento che possiamo trovare in un progetto, questa volta italiano, realizzato dall’agenzia Leo Burnett per Montblanc nel 2012, per celebrare i 190 anni dell’invenzione del cronografo da parte di Nicolas Rieussec, ispiratore dell’omonimo cronografo della casa francese.

Due frame tratti dallo spot vincitore The Beauty of a Second.


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Il progetto prende il nome di “The Beauty of a Second” ed è un contest online, presentato dal regista tedesco Wim Wenders, che invita tutti gli utenti ad inviare, attraverso il sito creato appositamente, un frammento video di 1 secondo esatto che rappresenti la bellezza di quel breve istante o, come dice lo stesso regista: “la vita stessa, un secondo alla volta”. Dopo la fase di invio dei video, gli utenti stessi sono stati chiamati a votare i migliori tra i quali, alla fine, Wim Wenders ha scelto i vincitori. Il significato reale che sta dietro un’operazione come questa e come tante altre non è scontato. La realizzazione di materiale promozionale e condivisibile creato dagli stessi utenti, nella piena consapevolezza delle nuove possibilità offerte dagli strumenti digitali. Apparentemente sfugge, in tutto questo, il momento della promozione pura. Ed effettivamente non c’è. Montblanc diventa un narratore di storie prima che un venditore di se stesso e raccontando la bellezza che ognuno di noi è in grado di trovare in un solo secondo si definisce come promotore di emozioni e, di conseguenza, i suoi prodotti ne sono lo strumento. La campagna vince, nello stesso anno, i Cannes Lions, importante premio internazionale di pubblicità e viene ripreso, citato e analizzato da numerose testate giornalistiche. Nonostante questo genere di operazione non abbia avuto lo stesso riverbero di American Express con il suo Small Businesses Saturday, ha sicuramente associato il brand alla percezione emozionale che noi abbiamo dei momenti, anche quelli più brevi, che viviamo ogni giorno. Inconsciamente, chi ha avuto modo di incontrare questa campagna, la conserverà per sempre. 67


Un aspetto interessante di tutta la nuova comunicazione pubblicitaria e promozionale è la sua viralità, ovvero la propensione alla condivisione spontanea da parte degli utenti. Ogni nuova campagna, specie di brand internazionali, contiene all’interno uno o più elementi che, rappresentando il perno di condivisione dell’operazione commerciale, aumentano le possibilità generali di diffusione, legandosi ad un mezzo nuovo e complementare. Questo ci spiega perché campagne apparentemente di matrice classica, come ad esempio uno spot televisivo, diventano improvvisamente popolari e condivisi ad esempio attraverso Youtube superando addirittura le visualizzazioni del medium classico a cui erano destinate. Il termine virale sta infatti a significare la possibilità di una condivisione continua e spontanea del messaggio. A questo proposito, è utile citare i sei punti descritti da Ralph F. Wilson, esperto di ecommerce e web strategy. Secondo Wilson, il viral marketing deve: • Offrire servizi e prodotti gratuiti, o quantomeno una parte della promozione deve contenere un elemento a costo zero che stimoli il vantaggio effettivo. • Essere facile da trasferire ad altri, ad esempio ad amici e conoscenti. • Essere facilmente scalabile, ovvero modificabile durante la fruizione del messaggio. • Contenere motivazioni e comportamenti comuni. • Utilizzare risorse e reti di diffusione contemporanee, internet e i nuovi media fra tutti. • Approfittare delle risorse degli altri, ed utilizzare la capacità diffusiva dei singoli individui. 68


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Ancora una volta quindi, devono coesistere all’interno del messaggio un forte senso di appartenenza da parte del pubblico che si manifesta solo se il lato emotivo e partecipativo del messaggio è ben evidente, la velocità del mezzo di diffusione è adeguata e, ovviamente, l’azione diffusiva sia di per se gratuita. Tantissime campagne di comunicazione, online e offline, focalizzate prevalentemente sull’aspetto diffusivo, hanno tenuto conto dei punti descritti sopra, ma per comprendere in maniera più semplice come tutto il meccanismo funziona, possiamo citare T-Mobile, società di telefonia inglese che, sfruttando internet e in particolar modo Youtube come mezzo di diffusione del messaggio, ha raggiunto (e continua a raggiungere) milioni di persone in tutto il mondo realizzando dei flashmob legati al tema della condivisione (il loro slogan a livello aziendale, utilizzano nella comunicazione è “Life is for sharing”). Flash mob (dall’inglese flash: lampo, inteso come cosa rapida, improvvisa, e mob: folla) è un termine coniato nel 2003 per indicare una riunione, che si dissolve nel giro di poco tempo, di un gruppo di persone in uno spazio pubblico, con la finalità comune di mettere in pratica un’azione insolita. Il raduno viene generalmente organizzato via internet (email, social networks) o telefonia cellulare. Le regole dell’azione possono essere illustrate ai partecipanti pochi minuti prima che questa abbia luogo o possono essere diffuse con un anticipo tale da consentire ai partecipanti di prepararsi adeguatamente. Generalmente la finalità dei flash mob è di intrattenimento o spettacolo ma il termine è usato anche per eventi e performance organizzate a fini politici, commerciali, di lucro o di protesta. (Wikipedia) 69


Il primo flashmob realizzato da T-Mobile risale al gennaio 2009 ed è, non solo per una questione temporale, il più famoso di una lunga serie che ha accompagnato la comunicazione della compagnia telefonica inglese. Ci troviamo nella stazione ferroviaria di Liverpool, abbondantemente (ma in modo discreto agli occhi dei passanti e dei viaggiatori) attorniata da telecamere pronte a registrare ciò che sarebbe accaduto da li a poco. Improvvisamente infatti, dall’ala centrale della stazione, al suono di musica che nel frattempo inizia a diffondersi in tutta la stazione, piano piano e poco per volta semplici passanti (consci ovviamente dell’operazione) iniziano a ballare senza un apparente motivo e così sempre più gente, tra lo stupore dell’altra metà di viaggiatori ignari di tutto. In un susseguirsi di brani dance e walzer, tutta la gente presente in stazione balla e chi non lo fa, stupita di trovarsi in una situazione così coinvolgente, inizia a filmare e scattare foto con il proprio cellulare. È certamente difficile descrivere a parole la sensazione di coinvolgimento e sorpresa di queste operazioni ma è il fondamento che permetterà l’uso virale dello spot derivante dalle riprese dello stesso evento che da qualche migliaio di persone presenti in quel momento in stazione sarà visto e condiviso da milioni di utenti attraverso la rete e in particolar modo Youtube. Il fattore fondamentale che spinge un utente a condividere un video in cui un centinaio di persone balla in maniera improvvisa all’interno di una stazione ferroviaria è proprio l’immedesimazione e il coinvolgimento emotivo. 70


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71 Una scena dalle riprese del flashmob “Home for Christmas”


Guardare quel video di qualche minuto è come trovarsi lì, in quel momento e il fattore sorpresa si manifesta immediatamente di fronte a noi, reagendo esattamente come le persone che, dalle balaustre della stazione, hanno iniziato a scattare foto. Si innesca immediatamente la condivisione e la voglia di rendere partecipe il nostro vicino, i nostri amici. Un meccanismo che genera sempre più curiosità e interesse, a livelli crescenti, perché l’azienda che si è fatta promotrice del flashmob non ha, volta per volta, condiviso il contenuto, ma ha affidato a terzi, gli utenti, questo compito che a loro volta sono stimolati a seguire perché il video deriva da una condivisione spontanea dalla propria cerchia di conoscenti, siti visitati o suggerimenti. T-Mobile ha realizzato altri tre flashmob diventati spot virali: • Trafalgar Square Song dove migliaia di persone si sono cimentate in un karaoke collettivo sulle note di Hey Jude. • Welcome Back che ha visto protagonisti cantanti e cori che, cantando a cappella, hanno accolto i passeggieri al terminal arrivi dell’aeroporto di Heathrow. • Home for Christmas nel 2012, questa volta per la divisione America, all’interno del centro commerciale di Woodfield nei pressi di Chicago, un gruppo di ragazze tutte di rosa vestite (colore istituzionale dell’azienda) ha dato vita ad un movimentato e melanconico musical live di auguri tra i corridoi del centro. Quest’ultimo flashmob, nonostante il suo carattere spontaneo è stato diretto addirittura da un regista, Alfonzo Gomez.

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Legata alla partecipazione attiva è anche l’ultima macro categoria dell’advertising online, quella degli advergames. Il termine advergame ha origine da una crasi linguistica tra le parole “advertising” e “gioco” ed indica tutti quei prodotti che hanno come obbiettivo principale la diffusione di un brand e la memorizzazione dello stesso da parte degli utenti, attraverso un contatto ludico del prodotto. I primi esempi che possiamo associare alla categoria hanno origine a metà degli anni ’90, ma è solamente dall’inizio del 2001 che si cominciano a sviluppare prodotti più strutturati ed efficaci. La partecipazione attiva dell’utente e la parte ludica sono il cuore di questi prodotti promozionali ma non bisogna confonderli con le vari applicazioni o giochi che, online, servono solamente ad incrementare traffico su se stessi (come le innumerevoli applicazioni Facebook, che hanno proprio come obbiettivo quello di aumentare l’utenza interna). Il brand è il punto fermo su cui attenzionarsi, l’unico elemento realmente importante da promuovere. Bill Gates, nel 2004, durante un summit dell’industria pubblicitara, cita gli advergames dicendo: “La tecnologia sta cambiando la pubblicità, i consumatori non subiscono più qualunque messaggio gli venga inviato, dobbiamo trovare il modo di raggiungere gli utenti senza annoiarli». Il marketing che spinge e favorisce questi prodotti ha da se degli obiettivi precisi, primo fra tutti lo sviluppo della brand awareness, ossia la crescita della consapevolezza del brand che è veicolato dall’advergame che si accompagna, successivamente, ad altri obiettivi come il ricordo della marca, il raggiungimento di un’ampia fascia di consumatori, specie quelli più 73


propensi all’uso delle nuove tecnologie digitali, la costruzione di una relazione duratura che equivale quindi ad una fidelizzazione degli utenti, aumentare l’efficacia di azioni svolte, dallo stesso brand, su altri canali di comunicazione e infine, punto importantissimo, collegare al momento ludico valori specifici da associare al brand promosso. La nascita dell’advergames si attribuisce a due ragazzi americani, Dan Ferguson e Mike Bienrliski che nel 1988 diffusero via mail un gioco in cui era protagonista l’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton. Il gioco ha avuto un così grande successo che dopo poco tempo i due ragazzi furono chiamati a collaborare con grandi multinazionali (come Nokia) all’interno dei loro reparti di comunicazione. Dan Ferguson racconta, sul loro videogame: “L’ispirazione ci è venuta nel 1998, osservando uno dei primi fenomeni di Internet, la gif animata del piccolo bambino danzante che tutti si passavano via e-mail, inoltrandolo ad amici e parenti. Abbiamo capito che, se un’azienda avesse inserito il proprio nome e numero sul file, sarebbe riuscita a guadagnare migliaia, forse milioni di impression gratuite, semplicemente sfruttando l’effetto virale. E così, il primo aprile del 1998 abbiamo lanciato un giochetto ispirato alla parodia politica di Bill Clinton e delle sue scappatelle con Monica Lewinsky”.3 Ma esiste un antenato precedente al gioco sviluppato dai due ragazzi. È un videogame per Atari 2600 chiamato Pepsi invaders (graficamente molto simile al classico Space Invaders) 74


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che fu prodotto appositamente e successivamente distribuito in sole 125 copie ai manager della Coca Cola durante un meeting ad Atlanta. Si invitava a giocare e a distruggere gli alieni con la propria navicella. Peccato che gli alieni formassero proprio il testo Pepsi Cola.

Pepsi Invaders, il primo advergame promosso da Coca Cola.

Nel nostro paese, il primo Advergame legato alla promozione di un brand è stato realizzato per Ferrero, nel 1999. Cocco Game, questo era il nome del gioco, permetteva di vincere premi e giocare online inserendo un codice che i bambini avrebbero trovato all’interno degli ovetti Kinder. È stata la prima azione strutturata di questo tipo, a cui ne sono seguite successivamente molte altre, coinvolgendo prodotti e aziende differenti.

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1 - Bruno Giussani, Wired Italia. Gennaio 2013. 2 - Jonh Hayes, relazione e case history Facebook di American Express. 3 - http://it.wikipedia.org/wiki/Advergame

Guarda la pubblicitĂ (Nike) Fuel+ - www.goo.gl/mqMaV (Montblanc) Beauty of a second - www.goo.gl/Dn7xC (T-Mobile) Trafalgar Square Song - www.goo.gl/OrxEK (T-Mobile) Welcome Back - www.goo.gl/uYELx (T-Mobile) Home for Christmas - www.goo.gl/Wdwo6

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CAPITOLO 4 Comunicare fuori dallo schermo I nuovi strumenti digitali, come abbiamo visto, rappresentano uno snodo importante per tutta la nuova comunicazione, pubblicitaria ma non solo. Offrono numerosissimi vantaggi e risorse a costi nettamente inferiori di quelli che si dovrebbero affrontare sui media tradizionali. Ma dal considerare questi strumenti come estensioni da utilizzare a vantaggio dell’intera campagna ma non in maniera esclusiva, fino una visione paradisiaca del digital “tutto compreso”, inteso quest’ultimo come se fosse la panacea di una comunicazione sicuramente efficace soltanto perché utilizza la modernità e la fluidità della rete e degli strumenti di condivisione sociali, il passo è breve e rischioso. Il web, Facebook e tutti i nuovi canali informativi di interscambio rappresentano, appunto, strumenti non esclusivi in grado di amplificare campagne e messaggi che, ad esempio, si sviluppano completamente fuori il contesto digitale ma che non per questo risultano meno efficaci e permeanti. La comunicazione pubblicitaria offline è un settore complesso e vastissimo in cui si mescolano competenze e possibilità infinite. Possiamo trovarci di fronte ad una campagna stampa su 77


un quotidiano nazionale che richiama però a una promozione online, raggiungibile con il proprio smartphone. Oppure imbatterci in un ambient, ovvero una messaggio che si sviluppa attraverso i tradizionali manifesti lungo le vie della città o all’interno di spazi pubblici come la metropolitana o le stazioni, che unisce al classico manifesto stampato un elemento interattivo in più, che si sviluppa sul territorio, li, tra e per le persone che in quel momento lo vedono di fronte a loro. Addirittura, potremmo trovarci all’interno di un evento, molto simile ad un flashmob come quelli analizzati nel precedente capitolo, ma con la differenza che questa volta il messaggio viene raccontato in maniera diretta e l’evento non si esaurisce in pochi minuti, ma si basa su un costrutto narrativo che ci accompagna, se così si può dire, attraverso quello che il brand vuole ancora una volta comunicarci. Prima di analizzare le campagne che faranno da esempio, all’interno di questo capitolo, della comunicazione lontana da schermi e pixel, è giusto accennare brevemente alle possibilità con le quali è possibile realizzare pubblicità offline. La comunicazione in tv, radio e attraverso annunci su carta stampata, rappresentano le forme più conosciute e ad oggi le più diffuse di comunicazione offline. Sino agli inizi del 2000 e queste tre macro aree racchiudevano la maggior parte delle campagne sviluppate in ambienti non digitali. Ma con l’esplosione del web e il conseguente nuovo approccio culturale degli stessi consumatori sono nate forme alternative di promozione tradizionale e tra le tante e minuziose tipologie spiccano fra tutte l’ambient e il guerrilla. 78


Comunicare fuori dallo schermo

L’ambient marketing è una tiplogia di comunicazione non convenzionale che sfrutta i luoghi di incontro e di ritrovo degli utenti per la diffusione del messaggio pubblicitario. L’obiettivo che sta alla base di questa strategia è quello di differenziarsi dai numerosi messaggi presenti nell’ambiente e collegare il proprio a quello La campagna Hoover del 2007. specifico luogo, per darne ovviamente maggior risalto e rilevanza. L’ambient marketing fa parte della categoria più ampia dello street marketing e rappresenta una comunicazione più fresca che si rivolge a target numericamente più ridotti ma potenzialmente più ricettivi, giocando soprattutto sull’aspetto sorpresa. Per capire meglio la particolarità di questa categoria possiamo citare una famosa campagna ambient di Hoover, brand di aspirapolveri domestiche che nel 2007, su degli aerei di linea, ha applicato negli oblò passeggeri un messaggio: “per una dimostrazione del prodotto, rompere il vetro”. O il gigantesco e altrettanto particolare billboard di Gillette installato a Soho, New York, dove all’immagine stampata sul manifesto di Derek Jeter, capitano della squadra locale, gli Yankees, veniva fatta letteralmente la barba, passando uno strato di pittura bianca per poi eliminarlo, a simulare il rito della rasatura, ripetuto per una settimana. Ecco il messaggio 79


Il manifesto Gillette nelle strade di New York.

che si fonde con l’ambiente. Inusuale trovare l’invito a rompere il vetro, promosso guarda caso da un’azienda che vende aspirapolveri o addirittura il manifesto che ogni giorno cambia aspetto, con il viso più o meno fresco di rasatura. Fattore sorpresa, elemento straniante, memorizzazione del messaggio. Il guerrilla è anch’essa una tipologia di street marketing basata sulla sorpresa ma a differenza dell’ambient non si definisce all’interno di ambienti particolari, ma sfrutta indistintamente luoghi o ritrovi in cui transita un consistente numero di persone. La definizione esatta di guerrillia marketing risale al titolo di un libro scritto nel 1984 da Jay Conrad Levinson, dove lo stesso autore iniziò ad analizzare tutti quei metodi di promozione a basso costo e non convenzionali.

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Comunicare fuori dallo schermo

Tutte queste tipologie di promozione si basano su metodi misteriosi e sorprendenti. La diffusione del messaggio può avvenire attraverso delle installazioni, poster, stickers diffusi in città, in modo da aumentare la curiosità degli utenti e il passaparola, anche attraverso i media ma in maniera indiretta (word of mouth e buzz). Colpire il target nel momento d’azione e nelle attività quotidiane, stimolandone l’acquisto. Il messaggio vero e proprio sarà diffuso soltanto alla fine, o, spesso, non rappresenta di per se il vero fulcro dell’operazione. Le campagne di guerrillia sono nella maggior parte dei casi caratterizzate da un livello molto alto di creatività che va a compensare il budget ridotto di realizzazione. Il problema del budget quindi, in questo caso, non rappresenta di per se uno svantaggio, ma contribuisce a rendere l’ operazione fortemente creativa e di maggiore impatto verso il pubblico. Queste due macrocategorie che non di rado si mescolano e si ritrovano concettualmente vicine nei metodi di diffusione del messaggio possono essere raccontate attraverso validi esempi di campagne realizzate nell’ultimo decennio a livello internazionale. Iniziamo l’analisi con un caso emblematico di campagna che ha dato addirittura origine ad una teoria che trae origine direttamente da comportamenti sociali. “The Fun Theory” (la teoria del divertimento) si basa sul concetto che il comportamento umano, anche il più radicato, possa essere cambiato attraverso degli stimoli percepiti come divertenti. Volkswagen, la famosa casa automobilistica, ha finanziato un’intera campagna pubblicitaria, in Svezia, basata appunto su questa teoria e applicandola alla vita quotidiana di 81


persone comuni. L’agenzia DDB di Stoccolma ha sperimentato la teoria in tre situazioni differenti, da cui sono nati tre video diventati virali che hanno spopolato in rete e fatto parlare di se in tutto il mondo. La prima situazione si sviluppa all’interno di un parco pubblico dove all’interno di un comune cesto per i rifiuti viene inserito e nascosto un rilevatore di movimento che, attivandosi ogni qualvolta viene gettato qualcosa, emette il classico suono che simula una caduta in uno spazio profondo. Ovviamente, il cestino misura al massimo poco più di un metro e l’effetto sonoro, straniante nell’ambiente e nell’oggetto in se, provoca la curiosità e il divertimento dei passati. L’efficacia dei risultati lo dimostra: il singolo cestino ha raccolto in un giorno 72 chili di rifiuti, a differenza di una media di 42 chili dei cestini dello stesso parco. Divertendosi, la gente ha gettato più rifiuti. La seconda situazione è forse più comune della precedente e si sviluppa all’uscita della stazione della metropolitana di Odenplan dove gli scalini sono stati trasformati in tasti di pianoforte extralarge che ovviamente, ogni volta che ci si passava sopra, suonavano una nota. L’abitudine di prendere le più comode scale mobili, poste di fianco, viene interrotta. Nel giorno stesso dell’installazione, più del 66% dei passanti preferisce salire dagli scalini sonori. Nell’ultimo caso invece un bidone per la raccolta differenziata è stato modificato come se fosse un videogames: per ogni rifiuto si accumulavano punti.

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Comunicare fuori dallo schermo

L’installazione all’uscita della metropolitana di Odenplan.

Una campagna che ha vinto i Webby Awards, considerati gli Oscar di internet e che ha lanciato un sito dedicato all’iniziativa, promuovendo la teoria del divertimento come strumento utile ad affrontare i problemi quotidiani, raccontando inoltre i dietro le quinte della campagna e promuovendo infine il brand come portavoce di questo interessante processo e strumento creativo. È ugualmente divertente, anche se questa volta il divertimento non è alla base di una teoria vera e propria, il progetto promosso da Coca Cola, a livello mondiale, durante tutto il 2012. Questa volta la trasformazione riguarda i classici distributori di lattine, simbolo della massiccia presenza del gigante del beverage nei luoghi pubblici, scuole e uffici di tutto il mondo. L’agenzia londinese Definition6 ha trasformato il distributore automatico in un oggetto interattivo, che di volta in volta si approccia in maniera differente con le persone che comunemente cercano di acquistare una bibita.

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L’intera campagna ruota questa volta su un altro valore di richiamo, la felicità. È da questo presupposto che i distributori modificati, sparsi in luoghi precisi, in più città diverse del mondo, iniziano a comunicare con i consumatori in maniera completamente differente da come, solitamente, siamo abituati a percepire queste macchine, asettiche e fredde. In un centro commerciale di Istanbul, ad esempio, per tutta la giornata di San Valentino, è stato installato un distributore che si attiva solamente per le coppie che, per avere una lattina, vi si devono baciare proprio di fronte.

Il guerrilla Coca Cola all’interno di un collage americano.

Ma l’episodio il cui video è stato maggiormente visto e diffuso in rete riguarda il guerrilla realizzato all’interno di un collage americano. Questa volta, il solito distributore brandizzato Coca Cola, di volta in volta, sorprende i ragazzi che cercano di acquistare la bevanda in maniera del tutto inaspettata. Dallo sportello in basso esce un braccio che porge delicatamente una bottiglia di Coca e un mazzo di fiori ad una ragazza. 84


Comunicare fuori dallo schermo

Oppure, piuttosto che una sola bottiglia, a una ragazza incredula continuano ad uscire bottiglie, che lei man mano offre ai suoi compagni, tra le risate generali. E infine la sorpresa finale, un filone di pane imbottito lungo un paio di metri, tra gli applausi e un suono da luna park che proviene dal distributore. L’effetto sorpresa, più che la bottiglia omaggio o il mazzo di fiori, è il vero elemento efficace dell’intera operazione. Come afferma il direttore creativo della campagna, Paul Iannachino: “Quello che Coca Cola voleva ottenere era una senso di felicità che avrebbe creato un legame emotivo con il brand. Gli studenti coinvolti in questo video sono stati colti di sorpresa nella vita di tutti i giorni, e questo particolare momento li ha stupiti. Abbiamo usato dei campioni omaggio di Coca Cola per sorprendere le persone ma quello che volevamo ottenere erano principalmente felicità e sorrisi. La chiave è il coinvolgimento, sia trovandosi li che rivedendo il video su Yotube, i campioni omaggio sono solo dei catalizzatori”. 1 Non è banale ne scontato sottolineare il valore della gratuità all’interno di simili operazioni di comunicazione, perché assumono proprio grazie ad un valore di condivisione senza pretese la forza che le rende interessanti anche dal profilo virale (e quest’ultimo si, crea probabile profitto). Il 18 dicembre del 2008 Luca de Biase scrive su Nòva24 un interessante editoriale che può essere collegato al tema dello sviluppo della gratuità nella realizazione e fruizione di messaggi di matrice virale: “I più grandi successi di questi giorni, da Facebook a Twitter, non sono partiti da un modello di business, ma da un modello di relazioni sociali che i blog aveva85


no esplorato a fondo. Quei successi sono basati sull’ipotesi secondo la quale bisogna offrire un valore d’uso in cui poi cercare il valore monetario. E quel valore d’uso deriva dal servizio al bisogno fondamentale che la rete soddisfa meglio di ogni altro strumento di comunicazione: il bisogno delle persone di esprimersi e connettersi, donando tempo e idee per ricevere attenzione e reputazione. […] In questo contesto, le relazioni tra le persone sono appunto generatrici di senso, dunque di valore, ma sono gratuite per definizione, anche se per svilupparsi hanno bisogno di piattaforme che costano. È chiaro che i gestori di queste piattaforme devono riuscre a farle fruttare anche monetariamente, ma non riusciranno a trovare un profitto se lo cercheranno in modo tale da mettere a repentaglio il valore d’uso, la qualità relazionale, l’innovazione sociale che le loro piattaforme offrono, servono e abilitano”. L’altro valore della comunicazione che nasce nella fisicità dell’ambiente è l’ambiente stesso, inteso come luogo di scambio, interscambio che non ha un bisogno necessario e imprescindibile della rete, un ambiente comunitario che riesce, proprio perché libero da schemi precostituiti, ad aumentare l’efficacia del messaggio che si mescola e si mimetizza con ciò che lo circonda, fisicamente e non. All’interno della logica appena analizzata è utile raccontare un’ ottima campagna realizzata dall’agenzia italiana Jwt di Milano con la direzione creativa di Bruno Bertelli e Cristina Boccassini per Heineken, nel 2010. Sullo sfondo dell’iniziativa l’attesissimo match Real Madrid-Milan e uno scherzo che 86


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ha coinvolto centinaia di tifosi. Proprio questi ultimi, tra cui erano presenti, non a caso, giornalisti, a loro insaputa sono stati coinvolti in uno scherzo e costretti dalle mogli, fidanzate o direttori di lavoro, ad assistere la sera del match ad un concerto di musica classica all’auditorium Mahler di Milano. Ormai rassegnati arrivano in teatro dove un quartetto d’archi inizia a intonare una noiosissima melodia accompagnati, sullo sfondo, da un maxischermo dove una mano scrive su dei fogli di carta dei versi di una poesia. Dopo circa venti minuti però, invece che i soliti versi poetici, la mano inizia a scrivere frasi inusuali per quella precisa situazione, come: “Difficile dire di no al capo?” “O alla fidanzata?”. In sala si inizia a capire che quelle frasi sono rivolte proprio a loro, ai tifosi che non hanno saputo dire di no alla fidanzata, o ai giornalisti che non hanno rifiutato l’invito del capo a vedere il concerto e a rinunciare all’attesa partita di calcio. Dopo pochi secondi, ad ormai scherzo svelato, il quartetto intona il classico jingle Heineken e sul maxischermo inizia la diretta di Real Madrid-Milan. Uno scherzo, una sorpresa inaspettata e una campagna che vince decine di premi nei più prestigiosi festival pubblicitari europei. Una campagna che, come lo stesso Pietro Maestri spiega durante il workshop organizzato da Yahoo allo IAB Forum del 2010, “Se volete non è una campagna per come veniva intesa fino a pochi anni fa. Non ha televisione, annunci stampa. Abbiamo deciso di creare un evento. Non è uno spot, non è un’affissione. Se poi non ci fosse stata la rete non sarebbe diventato così famoso e conosciuto a livello planetario”. 2 Gaetano De Stefano, giornalista sportivo della Gazzetta dello 87


Sport e vittima anche lui dello scherzo, scrive qualche giorno dopo un articolo sul suo giornale e commenta: “Uno scherzo; una candid camera. La partita in diretta e in alta definizione. E così il pubblico apparentemente raffinato e colto si trasforma in un popolo di barbari, pronti a immolare i gemelli dei polsini o il collier di marca per un gol di Pippo o Pato. [...]. Caro Ludwig Van Beethoven, per una sera ce lo puoi permettere: ma chissenefrega delle tue sonate. Guarda che meraviglia Pirlo. E Pato? Due gol da sballo. L’Auditorium è una bolgia e finisce tra cori da stadio e abbracci e baci, mentre sullo schermo passano le immagini delle vittime dell’atroce scherzo. Comprese le mie. Mi sento osservato, ma mi becco anch’io la mia razione di applausi”. 3 Questo esempio ci racconta quanto sia importante investire in capitale umano all’interno della comunicazione, non solo per un fattore di competenza ma di relazioni. Nessuna pubblicità patinata potrà mai raccogliere gli stessi sorrisi di sorpresa che sono stati invece la giusta conclusione dell’evento in auditorium. Questo perché si è puntato sul prodotto attraverso lo studio attento del capitale umano che il proprio target non solo possiede ma che mette in comune. Si potrebbe quasi parlare di capitale pubblicitario, parafrasando il significato stesso di capitale umano come “l’insieme di conoscenze, competenze, abilità, emozioni, acquisite durante la vita da un individuo e finalizzate al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici, singoli o collettivi”. Una pubblicità che continua a vendere ma attraverso una reazione spontanea che si fonde completamente con l’ambiente in cui essa stessa si sviluppa. Prima di chiudere il capitolo c’è un’ altro esempio di comu-


Comunicare fuori dallo schermo

L’evento Heineken all’interno dell’ auditorium Mahler di Milano.

nicazione, anche questa volta italiano, da raccontare per affermare ancora una volta che non serve necessariamente la rete per far parlare e favorire la diffusione massiccia di un messaggio, ma anche una semplice affissione che tocca però un tema forte e scottante, può diventare l’argomento di dibattito principale sia online che in televisione, in maniera del tutto spontanea. È il caso di Ikea e della campagna realizzata per promuovere l’apertura del nuovo store a Catania, di cui si è occupata l’agenzia milanese 1861United nel marzo del 2011. L’apertura del nuovo store è stata accompagnata da eventi di piazza creati appositamente da Ikea, dalla distribuzione dei primi cataloghi nelle buche da lettera della città e da una classica campagna 89


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stampa multi soggetto nei formati più comuni. Uno di questi manifesti però ha suscitato più curiosità degli altri. In primo piano ci sono due uomini, mano nella mano e di spalle, che sembrano appena usciti da uno store Ikea. Il ragazzo di sinistra infatti porta la famosa busta gialla per gli acquisti. In alto, un’unica frase campeggia sull’immagine, “Siamo aperti a tutte le famiglie” e immediatamente accanto l’immagine dell’Ikea Family, la fidelity card dedicata agli acquisti familiari. Per rimarcare maggiormente il messaggio, il testo della campagna, sempre sul manifesto recita: “Siamo aperti a tutte le famiglie. Noi di Ikea la pensiamo proprio come voi: la famiglia è la cosa più importante. Ed è per questo che abbiamo pensato alla carta Ikea Family”. L’evidente collegamento al dibattito dell’opinione pubblica sui diritti della comunità omosessuale è fin troppo evidente. Ed infatti, una campagna dedicata ad una singola città come Catania, raccoglie le attenzioni dei media nazionali. Quasi tutti i giornali nazionali ne parlano, nascono dibattiti anche molto accesi su un tema così scottante, la polemica cresce e il messaggio paradossalmente raggiunge un pubblico più vasto, lontano e non interessato all’apertura del nuovo store di Catania. Il dibattito si concentra sul significato e non sul prodotto, senza dimenticare comunque la portata commerciale che ne è insita alla base. Nascono pareri favorevoli e contrari. Klaus Davi ne parla in tv dicendo che “Contrasta a gamba tesa contro la nostra Costituzione. È offensivo, di cattivo gusto” o l’esponente Pdl Giovanardi ne fa addirittura una questione da discutere in parlamento: “L’Ikea è libera di rivolgersi a 91


chi vuole e di rivolgere i propri messaggi a chi ritiene opportuno. Ma quel termine ‘famiglie’ è in contrasto contro la nostra legge fondamentale che dice la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”. 4 Insomma, l’esempio che se il fondo di verità della comunicazione coincide con un problema reale, il dialogo favorisce uno scambio anche su temi come questo, che rappresentano ancora un sostanziale tabù all’interno del clima politico italiano.

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CoorDown e l’integrazione vera. È bello raccontare di bella pubblicità. Ancora di più se riguarda il sociale ed è stata sviluppata interamente in Italia. È l’esempio della campagna per CoorDown, che avvalendosi di un attento e inteligente uso di più media differenti, ha saputo mettere in atto un progetto autentico che rappresenta, di per se, quanto la comunicazione, nel senso alto del termine, aiutare e favorire lo sviluppo sociale. E merita di essere raccontata in maniera dettagliata e puntuale direttamente dal comunicato stampa ufficiale. Cos’è CoorDown Oggi in Italia vivono circa 38mila persone con la sindrome di Down, una condizione genetica caratterizzata dalla presenza di un cromosoma in più nelle cellule di chi ne è portatore. La conseguenza di questa alterazione cromosomica è una forma di disabilità caratterizzata da un variabile grado di ritardo nello sviluppo mentale, fisico e motorio. CoorDown nasce nel 2003 con lo scopo di attivare e promuovere azioni di comunicazione unitarie e condivise tra le diverse associazioni italiane che si occupavano di tutelare e promuovere i diritti delle persone con sindrome di Down. Oggi riunisce 73 associazioni italiane e rappresenta l’organismo ufficiale di confronto con tutte le Istituzioni. Ogni anno organizza due importanti appuntamenti: la Giornata Nazionale delle persone con sindrome di Down e la Giornata Mondiale sulla sindrome di Down (il 21 marzo). 93


Lo scopo è quello di promuovere una cultura della diversità, di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche legate alla sindrome di Down, di combattere i molti pregiudizi che ancora accompagnano queste persone - anche linguistici: ad esempio l’uso dispregiativo del termine “mongoloide” – e i numerosi casi di discriminazione, spesso sulla base dei tratti somatici, come il divieto di accesso alle attrazioni in alcuni parchi divertimento. Le persone con sindrome di Down, se messe nelle condizioni migliori, possono raggiungere un buon livello di autonomia, possono studiare e svolgere con impegno una professione, praticare una disciplina sportiva a livello agonistico o guidare una macchina. È fondamentale garantire loro gli stessi diritti e le stesse opportunità di chiunque altro. Il CoorDown, attraverso le sue campagne di comunicazione, vuole favorire una piena integrazione nel mondo del lavoro, nella scuola, nello sport. C’è ancora molta strada da fare: solo il 13% delle persone con sindrome di Down (dati del 2011) lavora stabilmente, la scuola spesso non mette a disposizione il sostegno necessario e i continui tagli alle politiche sociali non aiutano le famiglie e le attività sul territorio. Rispetto ad alcuni anni fa, tuttavia, l’informazione sulla sindrome di Down è molto migliorata e ci sono numerosi esempi positivi di inclusione. La campagna “Integration day” del 21 Marzo 2012 ha contribuito a promuovere, in un modo efficace e originale, il valore dell’integrazione.

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La strategia di comunicazione L’obiettivo della campagna era quello di beneficiare della Giornata Mondiale sulla sindrome di Down per comunicare l’importanza dell’integrazione nella società. In particolare, il target della campagna era formato da tutte quelle aziende del paese che potessero offrire un’opportunità di lavoro. Garantire alle persone con sindrome di Down una maggiore autonomia, infatti, assicurerebbe loro un futuro più sereno. Soprattutto quando, raggiunta una certa età, potrebbero non esserci più genitori o parenti in grado di prendersi cura di loro. Nel momento in cui è stato affrontato il progetto, l’agenzia era consapevole del fatto che parlare di “integrazione” in un messaggio pubblicitario poteva non essere abbastanza. Il modo migliore per comunicare qualcosa, infatti, non è dirla, ma realizzarla sul serio. Questa è stata la filosofia sulla quale si è basata la campagna ed è per questo che è stato deciso di realizzare un esempio eccezionale, ma concreto, del tipo di integrazione che si voleva promuovere.

La campagna “Integration day” Per la sola giornata del 21 Marzo, Giornata Mondiale sulla sindrome di Down, in televisione è andata in onda una versione alternativa degli spot di alcuni tra i più importanti marchi nazionali ed internazionali, preziosi partner del progetto. Nella versione alternativa, un attore dello spot originale è stato sostituito da un attore con sindrome di Down. E così, l’elegante 95


attore con la barba che danza soavemente nello spot di Illy è stato sostituito da un altrettanto elegante attore con sindrome di Down. E lo stesso è successo nello spot dell’Amaro Averna, di Pampers, di Toyota e di Cartasi. Anche nella campagna stampa di Enel, di Carrefour e di Toyota, per il 21 Marzo, i modelli originali sono stati sostituiti da modelli con sindrome di Down. Infine, secondo la stessa logica, persone con sindrome di Down hanno sostituito eccezionalmente le presenze abituali all’interno di vari programmi tv (“Le Iene” e “La prova del cuoco” sono solo un esempio). “Recentemente, la comunicazione sta esplorando nuovi linguaggi - dice Agostino Toscana, Direttore Creativo Esecutivo di Saatchi & Saatchi -. Un semplice spot tv o una campagna stampa, oggi non bastano più. È per questo che, ultimamente, Internet (ed in particolare i social network) stanno assumendo un ruolo fondamentale. Ma è proprio vero che soltanto Internet, essendo un mezzo flessibile e malleabile, può essere innovativo? È davvero impossibile utilizzare in modo inedito i mezzi tradizionali? Io credo che la nostra campagna abbia dimostrato come i media tradizionali, se utilizzati in modo inaspettato, abbiano ancora molto da dire”. Alessandro Orlandi, Direttore Creativo di Saatchi & Saatchi, aggiunge qualcosa riguardo ai tre fattori che secondo lui, sono importanti per il successo di una campagna: il budget, il tempo e il coraggio. “Non sempre si ha bisogno di tutti e tre per realizzare una campagna di livello. Spesso bastano solo due di questi fattori. Nel caso della campagna Inte96


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gration Day non avevamo budget, difficilmente disponibile per una campagna sociale. Ma avevamo tempo, visto che la campagna è stato ideata ad Ottobre del 2011. Ed abbiamo ricevuto, da parte di CoorDown, grande coraggio. Non era facile, infatti, accettare qualcosa che non fosse il solito spot, ma che fosse una vera e propria operazione della quale era impossibile immaginare il ritorno. È stata proprio la novità a decretare il successo della campagna”. Giuseppe Caiazza, Amministratore Delegato di Saatchi & Saatchi e Managing Director Automotive Business per l’Europa, conclude poi affermando quanto sia importante, per progetti così ambiziosi, avere la collaborazione di tanti professionisti, dentro e fuori l’agenzia. “Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il contributo di una grande quantità di persone, nello spirito della participation che guida ogni progetto di Saatchi & Saatchi. In primo luogo abbiamo ricevuto l’appoggio incondizionato dei nostri clienti che hanno immediatamente sposato questa operazione mettendo a disposizione i loro spot o le loro campagne stampa. Poi ci sono stati tutti i miei colleghi di Saatchi & Saatchi, dai creativi, agli account, ai producer che hanno aggiunto, ognuno a suo modo, un piccolo ma decisivo mattoncino alla campagna. Poi ci sono state case di produzione, fotografi e registi che hanno prestato un po’ del loro tempo per la realizzazione della versione alternativa. E, infine, i centri media che sono riusciti, compito non semplice, a trovare degli spazi speciali per il 21 Marzo. Tutta l’operazione è stata la dimostrazione che insieme si possono fare grandi cose”.

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Annuncio Enel normale.


Annuncio Enel nella giornata mondiale sulla sindrome di down.


I Risultati La campagna ha ottenuto dei risultati davvero importanti: il TG1, il TG3 e Sky Tg24 le hanno dedicato un servizio; il Corriere della Sera (con uno strillo in prima pagina), la Repubblica, la Stampa ed altri autorevoli quotidiani nazionali le hanno dedicato un articolo. E così anche periodici ad alta tiratura come Vanity Fair. È stato poi calcolato che, in un solo giorno, la campagna, anche grazie all’eco mediatica, ha raggiunto 18 milioni di persone (circa un terzo della popolazione italiana) guadagnando spazi in earned media pari ad un valore di 5 milioni e mezzo di euro. Ma, ancora più importante, le richieste di informazioni da parte di aziende interessate ad integrare persone con sindrome di Down nelle loro strutture, nella settimana successiva alla campagna, sono salite. La campagna ha ottenuto risultati senza precedenti anche all’ultima edizione del Festival Internazionale della Creatività di Cannes. Integration Day, infatti, è stata premiata con 7 Leoni d’oro e 1 Leone di bronzo. Un risultato, questo, che nessuna agenzia italiana aveva mai ottenuto nella storia del festival. L’Italia, infatti, difficilmente riesce a competere con le altre nazioni a Cannes. Paesi come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Germania, il Brasile, l’Argentina portano a casa sempre decine di Leoni, mentre l’Italia deve solitamente accontentarsi di pochi riconoscimenti. Il successo della campagna Integration Day ha contribuito, peraltro, al raggiungimento del record assoluto di Leoni vinti in totale dalle agenzie italiane al Festival di Cannes: ben 17. 100


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Ma quello di Cannes non è stato l’unico riconoscimento. “Prima che la campagna uscisse, eravamo molto fieri di questo nostro lavoro, inteso come mero pezzo di comunicazione – sottolineano Luca Lorenzini e Luca Pannese, creativi del progetto - e, limitandoci a guardare l’esecuzione, stavamo dimenticando il motivo più profondo della campagna. Poi, un sabato, in un albergo nella periferia di Milano, abbiamo presentato il progetto all’assemblea di CoorDown. L’audience era composta dai presidenti delle varie associazioni aderenti al Coordown. O, detta in un altro modo, era composta da genitori di persone con sindrome di Down. Abbiamo mostrato il video di presentazione. Un genitore in prima fila ha alzato la mano e ha parlato con la voce rotta: “A volte siamo noi genitori i primi a non credere possibile l’integrazione per i nostri figli. Oggi è una delle prime volte in cui la vedo realizzata concretamente e in cui la diversità di mio figlio è semplicemente una cosa normale. Grazie”. È così che abbiamo vinto un altro Leone, il più prezioso”. Sono tanti gli insegnamenti che si possono trarre dal progetto Integration Day, ma sono forse due i più importanti. Il primo è che nessun mezzo è realmente vecchio finché viene utilizzato in modo nuovo. Il secondo è che la comunicazione deve osare per essere efficace. Chi osa riesce ad emergere e chi emerge fa parlare di sé, che si tratti di una questione sociale o di un prodotto commerciale.

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1 - http://mashable.com/2010/07/21/coke-happiness-machine 2 - http://goo.gl/Mh7T5 3 - http://goo.gl/hzMsZ 4 - http://goo.gl/ze44A

Guarda la pubblicitĂ (Volkswagen) The fun theory, trash. - www.goo.gl/gkZV0 (Volkswagen) The fun theory, bottle. - www.goo.gl/HtwHc (Volkswagen) The fun theory, subway. - www.goo.gl/qMyNc (Coca Cola) Happiness Machine - www.goo.gl/nMBFp (Heineken) Auditorium - www.goo.gl/wR16Z

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PILLOLE Pensieri sparsi di buona creativitĂ

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Qualche domanda a Federico e Giorgio Per capire davvero cosa significa fare della buona comunicazione, ho fatto qualche semplice domanda a Federico Ghiso e Giorgio Cignoni, direttori creativi in Alkemy. Una piccola testimonianza dall’interno del settore.

Cosa significa realizzare della buona pubblicità? Significa tante cose. Perché i soggetti chiamati in causa sono tanti. È buona pubblicità quando le persone ne parlano. Quando il prodotto si vende. Quando il brand viene ricordato. Quando le persone la vedono e non cambiano canale o nel caso di altri mezzi si soffermano a leggere ed approfondire. È buona pubblicità quando esce dagli spazi media acquistati e arriva a guadagnarsene altri, cioè diventa mainstream e tutti ne parlano: giornali, telegiornali, la rete, si creano e moltiplicano le parodie, le citazioni diventano di uso comune. Tutto questo vuol dire fare una buona pubblicità, quando alla fine ad essere contenti sono il cliente, l’agenzia e i creativi che ci hanno lavorato. Con la buona pubblicità alla fine ci guadagnano tutti. Ed è un buon motivo per provare sempre a farla. Come possiamo distinguere la buona pubblicità da una comunicazione invece poco corretta? Quando non succede niente di quanto descritto sopra. 104


Pillole

La pubblicità vuole sempre e soltanto venderci qualcosa? Ovviamente sì. L’ha sempre fatto e - anche se in forme diverse lo farà sempre. In senso stretto ci vende un prodotto per il quale possiamo essere predisposti a spendere o non spendere il corrispettivo per acquistarlo. In senso più ampio ci vende una visione del mondo, un punto di vista, una filosofia. In linea di massima tutto quello che è comunicazione è sempre un tentativo di vendita di qualcosa. Perchè non bisogna avere paura della pubblicità? Perché la pubblicità non fa paura. A meno che non sia brutta pubblicità, intendendo con questa definizione quella che tratta le persone con poco rispetto per la loro intelligenza. La pubblicità mantenendo sempre la sua missione che è vendere - è un fenomeno culturale che rappresenta la società a cui si rivolge esattamente come fanno i film, le canzoni o i libri. E nessuno - dotato di libero arbitrio e all’interno di una società non integralista - ha paura di questi fenomeni. Chi e perchè deve continuare ad investire in comunicazione, proprio adesso? In generale chi ha qualcosa di interessante da dire. Ma anche chi ha coraggio. Voglia di affrontare una sfida in un mercato meno disposto a spendere. Confrontarsi con mezzi nuovi. Mettersi in gioco. Insomma only the brave. E i coraggiosi di solito ce la fanno. Quindi ben venga il coraggio in comunicazione, sia da parte delle agenzie, sia da parte dei clienti. 105


La tutela delle idee è la priorità Lavoriamo con una materia intangibile che già ad indicarla materia, letteralmente si sbaglia. Le idee sono in pubblicità l’essenza stessa di questo mestiere, senza di loro diventa inutile tutto, dal Macbook a Photoshop. Gli ultimi anni della creatività italiana sembrano accompagnati da un imperativo troppo frequente “svendita”, con il significato intrinseco di creatività più a buon mercato per non perdersi l’occasione di accaparrarsi più clienti. Ragionando in questo senso si è arrivati ad un finale dove campeggiano gare non pagate e un impoverimento del settore della comunicazione. E a ben vedere non è solamente colpa dei clienti. Quella degli ultimi anni è una pirateria inversa, paragonabile a quella dei cd musicali o dei film. Mi spiego meglio. Anche nell’industria dell’intrattenimento si ha a che fare con prodotti “immateriali” (come le idee creative) ed è per questo che la pirateria, resta si un furto, ma con una particolarità: non ruba nulla di concreto. A differenza di un ladro d’auto che, rubando l’auto al proprietario gli impedisce di usarla, essendo un bene totalmente materiale, scaricare un cd musicale o un film non significa materialmente rubare il bene in sè, ma il furti in questo caso diminuisce il profitto relativo che l’autore potrebbe ricavarne. In pubblicità avviene più o meno la stessa cosa ma questa volta è spesso il sistema a piratare se stesso. Svendendo una campagna di comunicazione svendi l’idea che ci stà alla base. 106


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La percezione di qualità in questo senso cala come immediata conseguenza e perde valore l’idea, unico bene che dovrebbe essere costantemente tutelato insieme al valore di chi lavora per pensarla e realizzarla. Perché se la svendita creativa porta il prezzo a valori sempre più bassi, il livello percepito sulla qualità di quella proposta andrà sempre più giù. Mentre invece, se il prezzo richiesto è in linea con i costi di produzione, è si più alto, ma il cliente avrà più consapevolezza e stima del prodotto su cui ha investito il suo budget. Se da un lato le case discografiche fanno sistema perché hanno capito l’importanza di tutelare l’immaterialità dei loro prodotti, l’industria pubblicitaria sembra, in larga parte, ancora non capirlo. E a ben pensarci, la nostra tutela sarebbe molto più semplice, perché non dovremmo combattere in un mercato aperto ma in un settore in cui l’idea creativa e la sua realizzazione hanno (e non può prescindere da averla per puntare alla qualità) un carattere sartoriale, realizzato su misura per singolo cliente. E se si iniziasse a basare il profitto sullo sfruttamento creativo dell’idea? Qualcosa che vada oltre il vecchio 15% d’agenzia. Forse nel mondo in cui la leggerezza dei bit ha surclassato la pesantezza della plastica e del ferro, questo concetto potrebbe iniziare a prender piede, se proposto correttamente e all’interno, ancora una volta, di un’ottica di sistema.

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La reason why del buon governo “Truth well told”, diceva una delle più importanti multinazionali della comunicazione pubblicitaria, la McCann-Erickson, ovvero “la verità raccontata bene”. Nella palude profonda delle recenti elezioni (2013), un richiamo simile dal mondo pubblicitario suona quasi a monito del futuro di un governo ingovernabile dove più che verità è venuto fuori un sentimento di rivoluzione, una presa della Bastiglia che annunciata, forse, lo era da tempo ma che è stata presa un po sotto gamba o, per meglio dire, favorita da una comunicazione non sempre puntuale. E ne diventa esempio per un’ analisi di come la comunicazione, anche in politica, assume importanza primaria. Lasciando da parte le logiche politiche e di programma, le recenti elezioni riflettono l’importanza politica del verbo, della parola detta ma in particolar modo di quella sottintesa. I candidati come venditori e le promesse come tante unique selling promise che hanno rivelato la forza e la disgrazia dei diversi schieramenti, reduci da una campagna elettorale che, come in un qualsiasi supermercato della provincia italiana, ha visto trionfare il packaging più brillante o la promessa di un bianco ancora più bianco. I tre protagonisti principali della battaglia (Grillo e la rivoluzione dal basso, Bersani con la presunta vittoria in mano e Berlusconi con la rimonta sul piatto) hanno utilizzato logiche seduttive e logiche di esposizione molto differenti.

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Beppe Grillo e il suo movimento Cinque Stelle nasce dalla convergenza di due fattori predeterminanti alla sua formazione: internet e delusione diffusa della vecchia politica. Un posizionamento nuovo ma soprattutto precedente a tutti gli altri che poi, in coda, ne hanno seguito la strada. Una USP che grida forte “tutti a casa” e sprizza “rinnovamento” da ogni ricciolo bianco della nuova figura di comico politico. La supporting evidence è chiara e palese specie adesso che in parlamento Grillo c’è arrivato davvero: gente comune, scelta attraverso consultazioni online, niente professioni ma donne e uomini, giovani, studenti, un vero sogno liberale anti casta, in poche parole, un prototipo di politica (e non come molti pensano di anti politica) che mancava negli scaffali parlamentari. Hanno conquistato una grossa fetta di mercato elettorale, la sfida sarà restarci su quegli scaffali e soprattutto lavare più bianco per come dicevano in campagna elettorale. Pierluigi Bersani rappresenta invece la sicurezza di un top spender che improvvisamente sa di essere superiore agli altri, senza nessun evidente supporto, sa di lavare più bianco degli altri o, verosimilmente, percepisce la delusione tra gli altri prodotti sul mercato e sicuro quindi di una vittoria con notevoli punti e margini di profitto, si adagia su una comunicazione di rinforzo, ragionando in termini continui di comparazione con l’avversario, proponendo demo di macchie di governi precedenti che si dissolvono immediatamente con “l’Italia giusta” di cui lui è portavoce. Il classico problema di assenza di una certa USP, svantaggiata da un continuo cambio di packaging, le lotte intestine sulla figura di leader, oscillanti tra Bersani e Renzi e figure al margine 109


di vendita come Vendola, hanno svantaggiato la brand image generale che, in un pallore grigiastro si è fatta avanti in termini troppo poco chiari per una evidente immagine di cambiamento. Non sono bastate neanche le primarie a capodanno, che palesano una sfavorevole supporting evidence e un altrettanto poco chiaro time planning, visto che, a capodanno, tutto si pensa tranne che andare a votare il proprio leader di partito. Un pericoloso connubio che, insieme a vendite evidentemente sfavorevoli rischia di portare il marchio nel limbo pericolosissimo dei discount, specie se in una situazione di stallo come questa, provi ad entrare in partnership (economica e politica) con brand decisamente discordanti, come il Pdl. Silvio Berlusconi è un po come uno di quei prodotti che, ben o male, in casa non manca mai. Sia che piaccia, sia che non piaccia. Un po come il liquore, che anche in una famiglia di astemi non può non esserci, perché agli ospiti, un bicchierino si deve pur offrire. Ha permeato la società italiana diventando da semplice top spender, un brand di riferimento, un multimarca che spazia dalla politica, alla televisione, ai giornali, alle assicurazioni fino all’abbigliamento. Un mostro del consumo, una multinazionale nazionale. E forte di questo predominio la campagna elettorale ha avuto toni a tratti violenti nelle proposte, senza aver timore di rincorrere un direct marketing al limite della correttezza, portavoce di una USP chiarissima e forte: basta austerità. Certo che la reason why è forse l’elemento più debole della strategia, ma sicuramente ha avuto a supporto promesse stratificate e ragionevolmente vendute negli anni. Un predominio che, nonostante sia stato intaccato da evidenti fatti e avveni110


Pillole

menti, ha mantenuto la sua forza, spinto da una campagna (poi riflessa per intero nell’ultimo periodo di elezioni) fatta di riproposte non nuove ma diversificate, la trasformazione della politica in aziendalismo e una ossessiva ripresa di un packshot sempre uguale, alla fine di ogni spot, campagna, manifesto, tanto da non lasciare spazio a linee di prodotto nuove, facendo così sentire ancor più rassicurato un pubblico spaesato e mediamente poco informato. Certo è che al di la di paragoni, chi non realizza, ancora oggi, l’importa della comunicazione e in particolar modo quella politica, non avrà mai una chance di proporre novità e idee coerenti con i bisogni del paese, anche se questi devono passare per una visione più di “pancia” che di “ragionato consenso”. Bisognerebbe capire che l’obbiettivo è giungere ai vertici per il cambiamento e che questo è possibile solo attraverso un coinvolgimento si ragionato, ma che passa dalle profonde radici del sentimento comune. Non c’è da stupirsi poi, che dagli exit pool ai risultati reali ci sia uno scarto tanto evidente. Uno scarto, alla fine, che sta tutto li, nella capacità di entrare in empatia, di convincere senza ingannare. In due parole, saper comunicare, anche in politica.

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PAROLE CREATIVE I termini più comuni della pubblicità

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Account La figura professionale che all’interno dell’agenzia di pubblicità ha il compito di curare i contatti con i clienti. Il suo compito è fare da tramite con l’agenzia, tradurre le esigenze di marketing del cliente in strategie di comunicazione, presentare il lavoro svolto dai creativi al cliente, prestare attenzione a tutto il processo di realizzazione di una campagna e corregge eventualmente dei passi di produzione. Affissione Rappresenta la pubblicità esterna, realizzata con apposite strutture su cui vengono inseriti manifesti, in luoghi esterni. I formati più comuni di affissione sono il manifesto 100×140 cm. e il poster 6×3 metri. L’affissione è uno strumento di comunicazione adatto per messaggi brevi e di forte impatto visivo, ma inadatto alla comunicazione di messaggi molto articolati o con esigenze esplicative. Agenzia Struttura che realizza per conto terzi servizi di consulenza, progettazione, produzione e diffusione di idee e materiale pubblicitario. Un’agenzia di pubblicità, sulla base delle esigenze di marketing del cliente, sviluppa le strategie di comunicazione, realizza creativamente campagne pubblicitarie di cui cura la realizzazione in ogni fase produttiva, fino alla loro veicolazione sui mezzi di comunicazione. Art Director Nell’agenzia pubblicitaria è la figura creativa responsabile della parte visiva dell’annuncio. Lavora sempre al fianco di 114


Parole creative

un copywriter, con cui forma la cosiddetta “coppia creativa”. L’art director deve possedere cultura artistica, fantasia, gusto estetico, competenze relative alle varie tecniche di disegno, pittura, elaborazione elettronica delle immagini, produzione fotografica, cinematografica e televisiva. Audience Termine in uso nelle pianificazioni strategiche dei mezzi di comunicazione, indicante il gruppo di persone raggiunte da un messaggio pubblicitario durante un determinato periodo di tempo. Awareness Consapevolezza, conoscenza, ricordo (spontaneo o aiutato) di un prodotto, di una marca o di una campagna pubblicitaria. Benefit Il vantaggio che un prodotto offre al potenziale consumatore. All’interno della copy strategy è la promessa principale su cui si deve basare il lavoro dei creativi. Bodycopy Elemento testuale descrittivo dell’annuncio stampa. Contiene di norma lo sviluppo e l’approfondimento dell’argomentazione di vendita introdotta dall’headline. Brainstorming Riunione in cui, sulla base di una metodologia precisa, un gruppo di persone espone liberamente le proprie idee su 115


un determinato argomento, senza condizionamenti e senza giudizi negativi. In pubblicità il brainstorming si usa solitamente per cercare un’idea creativa o per trovare il nome a un nuovo prodotto. Brand image L’immagine che un prodotto di marca ha presso il pubblico dei consumatori. È un elemento fitto di risvolti psicologici, che si costruisce negli anni attraverso la comunicazione pubblicitaria e difficile da cambiare una volta acquisito. Ciò rende la brand image particolarmente delicata e importante in un piano di comunicazione. Claim Breve testo in cui si concentra l’argomentazione di vendita. È la frase destinata a rappresentare la campagna di un dato prodotto e a identificarsi con esso durante tutto il corso della campagna stessa. Nel linguaggio comune il claim viene anche denominato slogan, termine più generico che può però identificarsi anche con l’headline o con il payoff. Copy strategy Documento strategico comprendente le argomentazioni di vendita e gli elementi fondamentali da utilizzare per l’elaborazione creativa di una campagna pubblicitaria. I punti essenziali della copy strategy sono: il benefit, la Reason why, il Target, il Tone Of Voice.

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Parole creative

Copywriter Figura professionale specializzata nella redazione di testi pubblicitari. Insieme all’art director forma la coppia creativa nell’agenzia di pubblicità. Il copywriter ha solitamente un’educazione umanistica, a cui deve essere aggiunta capacità di sintesi, flessibilità stilistica, nozioni di marketing e, soprattutto, creatività. Direct marketing Forma di marketing con la quale l’azienda entra in contatto diretto con il cliente, telefonicamente (telemarketing) o tramite posta (mailing). Altre forme di direct marketing sono il couponing, esercitabile tramite stampa, e l’invito, posto all’interno di annunci stampa o televisivi, a scrivere o telefonare. Strumento del direct marketing è il database, archivio di nominativi e indirizzi corredato di statistiche e informazioni in grado di individuare con la massima precisione possibile il potenziale cliente da contattare. Direttore creativo Figura professionale responsabile del reparto creativo di un’agenzia di pubblicità. Il direttore creativo è un copywriter o art director esperto, che sceglie di volta in volta la coppia creativa più adatta, ne supervisiona l’operato, sceglie tra le proposte creative quella da presentare al cliente. Headline L’headline ha la funzione, insieme al visual, di attrarre l’attenzione del lettore sul messaggio pubblicitario e di esprimere il concetto creativo su cui si fonda la comunicazione. 117


Impulse buying “Acquisto d’impulso”, atto di acquisto che il consumatore non aveva precedentemente previsto. I prodotti che si prestano a un acquisto d’impulso (oggetti di prezzo basso e di comune utilità, quali pile, rasoi usa e getta, gomme da masticare, ecc.) sono appositamente disposti sul punto vendita in maniera strategica (per esempio, nei supermercati, vino alle casse) e la loro probabilità di essere scelti dal consumatore è strettamente legata alla forza e alla qualità della loro brand image. Manifesto Foglio stampato per affissione. Il formato dei manifesti pubblicitari è solitamente pari a 70×100 cm. o 100×140 cm., ma si possono avere altre misure, con il variare del supporto dell’affissione. Marketing Insieme di competenze e di attività manageriali volte a gestire le risorse e le attività di un’azienda in funzione delle esigenze e delle preferenze dei consumatori a cui sono diretti i beni o i servizi che l’azienda stessa produce. Mass media Mezzi di comunicazione di massa. I mass media (televisione, stampa, affissioni, cinema, radio) sono mezzi in grado di raggiungere un elevato numero di persone.

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Merchandising Insieme delle operazioni da svolgere sul punto vendita per richiamare l’attenzione dei potenziali clienti e promuovere l’acquisto di un determinato prodotto. Spesso le operazioni di merchandising sono svolte nel contesto di una campagna pubblicitaria e promozionale, soprattutto nel caso del lancio di un nuovo prodotto. Il merchandising, che comprende anche la vetrinistica, di solito è curato direttamente dalle aziende o dalla distribuzione. Payoff Detto anche Company Claim o Baseline, in riferimento alla collocazione in fondo alla pagine negli annunci stampa e nelle affissioni. Il Payoff è la frase conclusiva di un comunicato pubblicitario, legata però, a differenza del Claim, più all’azienda (o alla marca), che al singolo annuncio. Il payoff solitamente accompagna per molti anni la comunicazione di una marca o di un’azienda, di cui sintetizza e rappresenta lo spirito. Plus Il vantaggio offerto al consumatore che distingue il prodotto dai suoi concorrenti. Nella copy strategy il plus è l’elemento fondamentale della promessa; nelle agenzie che ne fanno uso, il plus coincide con la U.S.P. Portfolio Raccolta dei lavori migliori realizzati da un’agenzia o da un creativo.

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Reason why All’interno della copy strategy è l’argomentazione razionale che giustifica e supporta la promessa. Slogan Breve frase che sintetizza lo spirito di un prodotto o di una marca. Questo termine è ormai in disuso nel linguaggio pubblicitario, sostituito, a seconda dei casi, da headline, claim o payoff. Spot Breve cortometraggio pubblicitario. La durata di uno spot è solitamente di 30”, ma può variare dai 7” ai 90”. In Italia, dagli anni ‘50 al 1977 La comunicazione pubblicitaria televisiva è stata rappresentata dal programma “Carosello”, caso unico nel panorama pubblicitario mondiale, caratterizzato dall’inserimento di un codino pubblicitario alla fine di una scenetta. Strategic planning Reparto dell’agenzia di pubblicità specializzato nella traduzione degli obiettivi di marketing del cliente in strategie di comunicazione. Testimonial Personaggio che con la propria presenza all’interno di un messaggio pubblicitario, solitamente nella veste di consumatore del prodotto pubblicizzato, si pone come garante della qualità del prodotto stesso e della credibilità del messaggio. Il testimonial è solitamente un personaggio famo120


Parole creative

so, scelto sulla base di un’affinità diretta o indiretta con il prodotto, ma può essere anche una persona comune, rappresentativa del target di riferimento. Tone of Voice Il “Tono di voce” con cui si comunica il messaggio pubblicitario. Può essere autorevole, ironico, scientifico, a seconda del prodotto e, soprattutto, del posizionamento e della brand image che si vuole attribuire al prodotto e alla marca pubblicizzati. USP Acronimo di “Unique Selling Proposition”, argomentazione di vendita unica, corrispondente con una caratteristica del prodotto che lo differenzia da tutti i concorrenti, sulla quale si concentra tutta la forza della comunicazione. La U.S.P. è stata creata nel 1940 da Rosser Reeves, e di questo pubblicitario sintetizza l’approccio razionale e pragmatico alla comunicazione pubblicitaria.

Il glossario dei termini è stato gentilmente fornito dall'agenzia Artebit di Catania. www.artebit.it

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BIBLIOGRAFIA Qualche utile informazione in più I testi che seguono mi sono stati utili per la stesura di questo volume, mi hanno permesso di approfondire argomenti, conoscere aspetti nuovi ed esplorare zone d'ombra. Sono testi che reputo utili per l'approfondimento di un argomento, come la comunicazione, che è difficile racchiudere in un unico progetto. Li consiglio personalmente, uno per uno.

Barry Pete, The advertising concept book. A complete guide to creative ideas and campaigns, Thames & Hudson, 2009. Coviello Michelangelo, Figure retoriche e pubblicità. Ricettario per art director e copywriter. Franco Angeli, 2009. De Bono Edward, Creatività e pensiero laterale. Manuale di pratica della fantasia, Biblioteca Universale Rizzoli, 2007. De Lisio Geppi, Creatività e pubblicità. Manuale di metodologie e tecniche creative, Franco Angeli, 2003. 123


Gladwell Malcom, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti, Biblioteca Universale Rizzoli, 2011. Hegarty John, Hegarty on advertising. Turning intelligence into magic, Thames & Hudson, 2011. Iabichino Paolo, Invertising, ovvero se la pubblicitĂ cambia il suo senso di marcia, Guerini e Associati, 2009. Luiss Steve, WOW Experience. Il marketing oltre il prodotto, Fausto Lupetti Editore, 2011. Luiss Steve, WOW Experience. Il marketing oltre il prodotto, Fausto Lupetti Editore, 2011. Mancina Mara, Bill Bernbach e la rivoluzione creativa. Il mito di un personaggio e di un movimento che hanno cambiato la storia della pubblicitĂ , Franco Angeli, 2007. Munari Bruno, Da cosa nasce cosa, Editori Laterza, 2009. Packard Vance, I persuasori occulti, Einaudi, 1989. Pricken Mario, Creative Advertising. Ideas and techniques from the world's best campaigns, Thames & Hudson, 2009. Sullman Luke, Hey Whipple, Squeeze this. A guide to creating great advertising, John Wiley & Sons, inc, 2008.

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Testa Annamaria, La pubblicità. Suscitare emozioni per accendere desideri, Il mulino, 2007. Testa Annamaria, La trama lucente. Che cos'è la creatività, perchè ci appartiene, come funziona, Rizzoli, 2010. Verrasto Valeria, Psicologia della comunicazione. Un manuale introduttivo, Franco Angeli, 2004. Volli Ugo, Il nuovo libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare, Il Saggiatore, 2010. Zanacchi Adriano, Il libro nero della pubblicità, Iacobelli, 2010.

Per ulteriori approfondimenti sui temi della creatività, pubblicità e comunicazione in generale, segnalo dei siti web in cui trovare utili informazioni e risorse.

Nuovo e Utile www.nuovoeutile.it

Advertising Age www.adage.com

Blog Adci blog.adci.it

Ninja Marketing www.ninjamarketing.it

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