Arte e storia delle Madonie. Studi per Nico Marino Vol. IX

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Arte e storia delle Madonie Studi per Nico Marino Vol. IX A cura di Gabriele Marino Rosario Termotto

Associazione Culturale «Nico Marino»


Arte e storia delle Madonie Studi per Nico Marino, Vol. IX A cura di Gabriele Marino e Rosario Termotto Associazione Culturale “Nico Marino” Cefalù PA, 31 ottobre 2021 ISBN 978-1-387-92327-4 Atti della nona edizione e altre ricerche Cefalù — Sede della ProLoco, via Carbonari 30 Lunedì 23 dicembre 2019 Contributi di: Santa Aloisio Amedeo Tullio Claudio Gino Li Chiavi Arturo Anzelmo Rosario Termotto Domenica Barbera Elvira D’Amico Bruno De Marco Spata Marco Failla Angelo Antonio Faraci Giovanni Fatta Giuseppe Giugno Nadia Gugliuzza Nuccio Lo Castro Giuseppe Spallino Patrizia Bova Antonio Contino Giuseppe Esposito Salvatore Giglio Impaginazione e grafica: Gabriele Marino


Arte e storia delle Madonie Studi per Nico Marino Vol. IX Atti della nona edizione e altre ricerche Cefalù, Sede della ProLoco, via Carbonari 30 23 dicembre 2019 a cura di Gabriele Marino Rosario Termotto Associazione Culturale “Nico Marino”

Cefalù Ottobre 2021



Indice Nota di cura Nico Marino (scheda bio–bibliografica)

011 013

Ricerche — IX edizione (2019) SANTA ALOISIO: Una coppa “megarese” dalla necropoli greco-ellenistica di Cefalù

019

AMEDEO TULLIO: Frustuli di antiche Cefalù al di sotto dell’ex Monastero di S. Caterina

027

CLAUDIO GINO LI CHIAVI: Un contributo sulla scultura lignea della prima metà del secolo XVIII in Sicilia. Note documentarie inedite ed alcune precisazioni sull’attività di Pietro Marino «sculptor lignaminis» 041 ARTURO ANZELMO: Giuseppe Dattolino, Faber lignarius opere dulcis civis Panhormi. Appunti e documenti (1614-1624)

057

ROSARIO TERMOTTO: La bottega dei Mendoza di Castelbuono e altri fonditori di campane presenti nelle Madonie tra Cinquecento e Settecento

081

Altre ricerche DOMENICA BARBERA: Il convento dei padri conventuali minori di San Francesco di Assisi nella Terra di Santo Mauro. Ultimo atto

091

ELVIRA D’AMICO: Il portale della chiesa delle Anime del Purgatorio di Cefalù. Nuovi contributi documentari

097

ELVIRA D’AMICO.: La decorazione a stucco del periodo barocco a Termini Imerese e la chiesa di S. Maria della Misericordia 105 BRUNO DE MARCO SPATA: Rinascimento madonita. La scultura lignea e la pittura di Giacomo e Manfredi De Dato di San Mauro Castelverde

111

MARCO FAILLA: Un interessante dipinto di Giovanni Giacomo Lo Varchi a Castelbuono. Il San Tommaso d’Aquino nella chiesa del SS. Rosario

135

ANGELO ANTONIO FARACI: Note iconografiche sul San Tommaso d’Aquino fonte di Sapienza e le Storie della Passione di Cristo del pittore Giovanni Giacomo Lo Varchi

143

GIOVANNI FATTA: Giorlamo Fatta Barile. Una simpatica canaglia

161

GIUSEPPE GIUGNO: Le infrastrutture del grano nella Sicilia d’età moderna. I mulini dei Moncada e le masserie della feudalità ecclesiastica in area madonita

173


NADIA GUGLIUZZA: Un santuario delle divinità ctonie di età pre-protostorica sulla Rocca di Cefalù

183

NUCCIO LO CASTRO: Il Monumento “al Sacrifizio dei Giovani Collesanesi nella Guerra Europea (1915-1918)”

201

GIUSEPPE SPALLINO: Giuseppe Bonomo. Il partigiano “Pippo”

213

P. BOVA, A. CONTINO, G. ESPOSITO, S. GIGLIO: Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari. L’esempio della Roccella (Campofelice di Roccella, Palermo) nei secc. XII-XVIII

219

ANTONIO CONTINO: Profilo biografico e bibliografico di Patrizia Bova (1968-2020)

239




Nota di cura Il presente volume raccoglie gli atti della nona edizione delle giornate di studio dedicate a Nico Marino, organizzate dall’associazione culturale a lui intestata, che si è svolta il 23 dicembre 2019 presso la sede della ProLoco di Cefalù, sita in via Carbonari 30. Lo studio presentato in quell’occasione da Salvatore Mantia è già stato pubblicato nel volume precedente della serie (Studi per Nico Marino, Voll. VII-VIII, 2019). Il volume include anche altre ricerche originali, non presentate durante le giornate di studio, ma direttamente sottoposte come articoli per la pubblicazione. Il volume è liberamente consultabile online, con le immagini a colori, sul sito nicomarinocefalu.it, tramite la piattaforma issuu.com, ed è acquistabile in formato cartaceo sul sito lulu.com. Il volume è dedicato a PATRIZIA BOVA (1968-2021), docente di scuola primaria autrice di ricerche sul territorio termitano e madonita, e ROBERTO SOTTILE (1970-2021), professore di linguistica presso l’università di Palermo attento alla storia e alle sorti del dialetto siciliano e madonita, studiosi amici di Nico che hanno animato le nostre giornate di studio.

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Nico Marino ritratto dal maestro Giuseppe Forte (china su carta, 2013)


Nico Marino Attore e studioso cefalutano Cefalù, 1948–2010

Figlio del Dott. Gabriele e di Elena Bellipanni, Domenico Marino — per tutti “Nico” — è nato a Cefalù il 30 aprile 1948, secondo di quattro fratelli (Giovanni, Mario, Annamaria). Dalla metà degli anni Settanta, parallelamente alla carriera di attore e autore di teatro con il gruppo di cabaret–folk “I Cavernicoli” (fondato nel 1967 e molto attivo, anche in ambito nazionale, fino agli anni Novanta, in forma di trio e quartetto con Leandro Parlavecchio, Pio Pollicino e Gigi Nobile), Nico è stato uno dei principali animatori della vita culturale della sua città, collaborando con enti pubblici, privati e associazioni, organizzando eventi, compiendo ricerche storiche, promuovendo il nome di Cefalù in Italia e nel mondo. Collezionista e guida turistica sui generis, studioso di storia e tradizioni locali, ha pubblicato una decina di libri e circa duecento tra articoli, saggi e contributi di vario tipo tutti incentrati su un qualche aspetto della vita o della storia di Cefalù e delle Madonie. Sposato con Maria Antonella Panzarella (dal 1982), padre di Gabriele (nato nel 1985), Nico ci ha lasciati il 18 ottobre 2010, colpito da mieloma multiplo. Libri e curatele • (a cura di) Mostra della iconografia storica di Cefalù (catalogo della mostra), Kefagrafica Lo Giudice, Palermo 1992. • (e Amedeo Tullio, a cura di) Oggetti, curiosità e bibelots della Fondazione Mandralisca (catalogo della mostra), Kefagrafica Lo Giudice, Palermo 1994. • Altre note di storia cefaludese (raccolta di articoli apparsi su “Il Corriere della Madonie” 1989– 1993), Kefagrafica Lo Giudice, Palermo 1995. • (e Totò Matassa, a cura di) Saluti da Cefalù. Mostra di cartoline d’epoca ed altro, (catalogo della mostra) Tipografia Nuova Select, Cefalù PA 1995. • (e Rosario Termotto) Cefalù e le Madonie. Contributi di storia e di storia dell’arte tra XVII e XVIII secolo, Tipografia Nuova Select, Cefalù PA 1996. • Enrico Piraino Barone di Mandralisca, Centro Grafica, Castelbuono PA 1999 (II ed., 2000). • Vincenzo Cirincione. Un benemerito cefaludese collezionista e filantropo nel bicentenario della nascita a 130 anni dalla morte, Cefalù 1803–2003, Tipolitografia Pollicino s.n.c., Cefalù PA 2003. • La vita e le opere di Enrico Piraino Barone di Mandralisca, Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, per Archeoclub d’Italia sede di Cefalù, Bagheria PA 2004. • Compendio di note, appunti, indicazioni e documenti sulla storia di Cefalù, MP Grafica, per Archeoclub d’Italia sede di Cefalù, Cefalù 2005 (formato CD–R). • 1856 milleottocentocinquantasei. I moti rivoluzionari cefaludesi nel centocinquantesimo anniversario, Cefalù 25 novembre 1856–25 novembre 2006, Tipografia Valenziano, Cefalù PA 2006. • (a cura di) Festa di Musica. Nel 25° Anniversario dell’Associazione Musicale S. Cecilia, Tipografia Valenziano, Cefalù PA 2007. • Giuseppe Giglio: Medico chirurgo, ostetrico, scienziato, filantropo. Un benemerito cefaludese nel centocinquantesimo anniversario della nascita, Cefalù 1854–2004, Marsala Editore, Cefalù PA 2007. • Cefalù. Itinerari urbani, PRC Repubbliche, Palermo 2008. 13


Scelta di pubblicazioni che contengono contributi di Nico Marino • AA. VV., Il Cabaret dei Cavernicoli, Lorenzo Misuraca Editore, 1973. • AA. VV., L’Osterio Magno di Cefalù, a cura dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Cefalù, Palermo 1994 (II ed., 1996). • Caterina Di Francesca (a cura di), Immagini per Mandralisca. Omaggio alla vita ed alle opere del Barone Enrico Piraino, Kefagrafica Lo Giudice, Palermo 1994. • AA. VV., Omaggio alla memoria di Gabriele Ortolani di Bordonaro Principe di Torremuzza, a cura del Comune di Cefalù, (senza dati editoriali né tipografici) 1996. • Angelo Pettineo (a cura di), I Livolsi. Cronache d’arte nella Sicilia tra ‘500 e ‘600, Bagheria PA 1997. • AA. VV., Chiese aperte a Cefalù, Tipografia Valenziano, per Archeoclub d’Italia sede di Cefalù, Cefalù PA 1997. • Pierluigi Zoccatelli (a cura di), Aleister Crowley. Un mago a Cefalù, Edizioni Mediterranee, Roma 1998. • Nino Liberto e Steno Vazzana, Cefalù raccontata dalle fotografie di Nino Liberto, Elfil Grafiche s.a.s., Palermo 1999. • Umberto Balistreri (a cura di), Gli Archivi delle Confraternite e delle Opere Pie del Palermitano, Circolo Cultura Mediterranea, Poligraf, Palermo 1999. • Umberto Balistreri (a cura di), Le torri di avviso del Palermitano e del Messinese, Archivi e Memorie, Poligraf, Palermo 1999. • AA. VV., Le edicole votive di Cefalù, Centro Grafica, per Archeoclub d’Italia sede di Cefalù, Castelbuono PA 2000. • AA. VV., Cefalù. Perla del Mediterraneo, Ed. Affinità Elettive, Messina 2002. • Giacinto Barbera e Marcella Moavero (a cura di), Il Liberty a Cefalù, Offset Studio, Palermo 2005. • Vincenzo Abbate (a cura di), Giovanni Antonio Sogliani (1492–1544). Il capolavoro nascosto di Mandralisca, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo MI 2009. • Angela Diana Di Francesca e Caterina Di Francesca (a cura di), Cinematografari. Una lunga storia di Cinema, Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, per Marsala Editore, Bagheria PA 2009. • Giuseppe Antista (a cura di), Alla corte dei Ventimiglia. Storia e committenza artistica, Edizioni Arianna, Geraci Siculo PA 2009. Contributi su quotidiani e periodici A partire dal 1973, Nico ha pubblicato una grande quantità di articoli dedicati a Cefalù e le Madonie. Nell’impossibilità di elencarli in questa sede, si vogliono però ricordare le principali testate su cui sono apparsi: «Il Corriere delle Madonie» (Cefalù PA), «Presenza del Murialdo» (Cefalù), «L’Eco di Gibilmanna» (Gibilmanna, Cefalù), «La Voce delle Madonie» (poi «La Voce»; Cefalù), «Cefalù InForma» (Cefalù), «Espero» (Termini Imerese PA), «Le Madonie» (Castelbuono PA), «PaleoKastro» (Sant’Agata di Militello ME), «Il Centro Storico» (Mistretta ME). 14


Articoli e altri testi su Nico Marino • Guglielmo Nardocci, La città di Ercole e dei Normanni. La terra del mito (I Borghi più belli d’Italia 12: Cefalù), in «Famiglia Cristiana» n. 36, 4 settembre 2005 (bit.ly/1n1Y9tA). • Peppino Ortoleva e Barbara Scaramucci (a cura di), “Via Asiago Tenda”, in L’universale Garzantine. Radio, Vol. N–Z, Mondadori–TV Sorrisi e Canzoni, Milano 2006, p. 928. • Roberto Alajmo, “Cefalù. L’osmosi della somiglianza prende il sopravvento”, in L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia, Laterza, Roma–Bari 2010, pp. 215–221. • Consiglio di amministrazione della Fondazione Mandralisca, È stato un acuto ricercatore, in «LaVoce Web», 18 ottobre 2010 (bit.ly/1Dz7ZYG). • (Articolo non firmato) Addio a Nico Marino, anima e cofondatore dei Cavernicoli, «Giornale di Sicilia», 19 ottobre 2010. • (Articolo non firmato) È morto Nico Marino, cuore dei Cavernicoli, in «La Repubblica Palermo», 19 ottobre 2010. • Giuseppe Palmeri, Nico Marino, l’etnografo che univa ironia e ricerca, in «LaVoce Web», 20 ottobre 2010 (bit.ly/1wMAAVK). • Mario Alfredo La Grua, Puoi ancora aiutarci a non sentirci soli, a crescere, in «Cefalunews.net», 23 ottobre 2010 (bit.ly/1v4wngQ; bit.ly/1CoswgX). • Rosario Termotto, Ricordo di Nico, in «Espero» anno IV n. 43, 01 novembre 2010. • Italo Piazza, Caro Nico, ti scrivo…, in «LaVoce Web», 10 novembre 2010 (bit.ly/1v4wLvJ). • Angelo Pettineo, Eredità materiale e immateriale, in «Presenza del Murialdo» nn. 1–2, gennaio–febbraio 2011 (bit.ly/1usExkn). • Gabriele Marino, Nico un(ic)o e centomila. Nico Marino tra storia, turismo e cabaret, in «Corso Ruggero» 1, Marsala Editore, Cefalù, agosto 2011, pp. 92–103. • Giuseppe Terregino, Nico Marino e l’epopea risorgimentale a Cefalù, in «Cefalunews», 19 settembre 2011 (bit.ly/1uJW97P). • Gabriele Marino, Questo era mio padre. Gabriele ricorda Nico, in «LaVoce Web», 18 ottobre 2011 (bit.ly/1rof8pm). • Daniele Sabatucci, “Le origini e gli anni Sessanta”, in Palermo al tempo del vinile, Dario Flaccovio, Palermo 2012, p. 37. • Gabriele Marino, “Nico Marino raccoglitore e custode di cose cefalutane”, in Conoscere il territorio: Arte e Storia delle Madonie. Studi in memoria di Nico Marino, Vol. 2, a cura di Gabriele Marino, Giuseppe Fazio e Marco Failla, Ass. Cult. Nico Marino, Cefalù PA 2014, pp. 13– 18. • Gabriele Marino, “I Cavernicoli”, in La musica folk. Storie, protagonisti e documenti del revival in Italia, a cura di Goffredo Plastino, Il Saggiatore, Milano 2016, pp. 917–928. Pagine web Sito: nicomarinocefalu.it • Facebook: fb.com/nicomarinocefalu I Cavernicoli: icavernicoli.it • Issuu (biblioteca online): issuu.com/nicomarinocefalu 15



Ricerche IX edizione (2019)



Una coppa “megarese” dalla necropoli greco-ellenistica di Cefalù SANTA ALOISIO Eccoci, come è ormai consuetudine, gli “amici” di Nico, vecchi e nuovi, presenti a questa Giornata di studi per ricordarlo, proprio sul finire dell’anno. Per questo appuntamento, ormai fisso, voglio ringraziare Gabriele, Antonella Panzarella, Rosario Termotto e tutti coloro che si sono impegnati per organizzare questa nona, interessante, manifestazione, il cui scopo è ricordare Nico non solo come grande conoscitore di Cefalù, ma anche come studioso della storia e del patrimonio Culturale della nostra comunità. Ormai, siamo sempre più che convinti che la città di Cefalù, sito UNESCO per la Basilica Cattedrale arabo-normanna, ha la necessità di un Museo della sua storia precedente la “rifondazione” Ruggeriana (1131)1. In questo modo i cittadini tutti si riapproprierebbero della loro memoria storica, ma, un museo della città diverrebbe, anche e soprattutto, volano dello sviluppo turistico-culturale del territorio. Anche e soprattutto per questo motivo ho deciso, in questa sede, di occuparmi dell’analisi di un vaso particolare, proveniente da scavi sistematici nella necropoli di Cefalù (fig. 1). Questo manufatto, ascrivibile ad una classe ceramica fino a qualche anno fa definita “Megarese” (fig. 2), proprio per l’assenza di un Museo della Città, da alcuni anni è esposto (fig. 3), insieme ad altri manufatti provenienti dagli scavi della cittadina, nella Sezione allestita all’interno dell’Antiquarium dell’antica colonia di Himera. Nei primi anni ‘80 il Prof. Amedeo Tullio, che da ormai un cinquantennio dirige le ricerche e gli studi sulla Cefalù prenormanna2, ha condotto scavi nel settore, già identificato come A. TULLIO, Le prime Cefalù. Memoria e Immagini, Cefalù 2015, p. 14. A. TULLIO, Saggio sulla topografia e sulle antichità di Cefalù, in Kokalos XX 1974, pp. 119-151, pp. 119-151; Id., Cefalù antica, Cefalù 1984; Id., I saggi di scavo, in La Basilica Cattedrale di Cefalù: Materiali per la conoscenza e il restauro, 3. La ricerca archeologica. Preesistenze e materiali reimpiegati, Palermo 1985, pp. 13-114; Id., Scavi e ricerche a Cefalù (1980-1984), in Kokalos XXX-XXXI, 1984-1985 (1987), pp. 641-650; Id., s.v. Cefalù, in Bibliografia Topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche, V, Pisa 1987, pp. 209-210 e 211-221; Id., Epitymbia ellenistici in Sicilia, in Akten des XIII Internazionalen Kongresses für Klassische Archeologie, Berlino 1990, pp. 429-430; Id., Scavi e ricerche a Cefalù, in Kokalos, XXXIV-XXXV, 1988-1989 (1993), pp. 679-695; Id., Cefalù, in Di terra in terra. Nuove scoperte archeologiche nella provincia di Palermo, Palermo 1993, pp. 238-250; Id., Memoria di Cefalù I - Antichità, Palermo 1994, pp. 11-14; Id., Le torri del Duomo di Cefalù, in Sicilia Archeologica, XXVIII, 1995, pp. 143-159; Id., Scavi e ricerche a Cefalù, 1988-1993, in Kokalos, XXXIX-XL, 1993-1994 (1996), pp. 1211-1219; Id., Presenze puniche nella necropoli ellenistico-romana di Cefalù, in Atti del V congresso internazionale di studi fenici e punici (Marsala 2-8.10.2000), Palermo 2005, pp. 837-848; Id., Verifiche archeologiche nel Chiostro della Basilica Cattedrale di Cefalù, in Claustrum significat Paradisum. Il Chiostro della Cattedrale di Cefalù, un luogo tra la terra e il cielo - Riflessioni sul restauro (a c. di G. Meli - M. Rotolo), Palermo 2006, pp. 159-173; S. ALOISIO, I reperti dello scavo del Chiostro della Basilica Cattedrale di Cefalù, in Claustrum significat Paradisum…, cit., pp. 175187; A. TULLIO, Indagini archeologiche (2000-2001) nell’area della Basilica Cattedrale di Cefalù, in Kokalos, XLVII-XLVIII, II, 2001-2002 (2009), pp. 669-673; Id., Cefalù. Ricerche Archeologiche, Palermo 2006, pp. 99-115; Id., Cefalù. La necropoli ellenistica I (Studi e materiali, Dipartimento di Beni Culturali - Sezione Archeologica, Università di Palermo, 13), Roma 2008, pp. 3-72, 117-120, 141-150, tavv. I-XIII, XXI-XXII, XXVIII-XXIX; S. ALOISIO, Documentazioni letterarie e studi sulle prime Cefalù, in A. Tullio, Le prime Cefalù…, cit., pp. 105-124; A. TULLIO, La necropoli ellenistica di Cefalù (scavi 2007-2008): un “caso” stratigrafico, in Nel Mondo di Ade. Ideologie, spazi rituali funerari per l’eterno banchetto (VIII-IV secolo a.C.). Atti del Convegno Internazionale (Ragusa - Gela 6-8 maggio 2010), a c. di R. Panvini - L. Sole, Roma - Caltanissetta 2019, pp. 197-209; S. ALOISIO, Necropoli di Cefalù, scavi 2007-2008: i reperti ceramici, in Nel Mondo di Ade…, cit., pp. 211-222; A. TULLIO, Le prime Cefalù. Memoria e immagini, Cefalù 2015; A. TULLIO, Kephaloidion (Cefalù), recenti scavi nella necropoli ellenistica (2007-2008), in Conoscere il territorio: Arte e storia delle Madonie Studi in memoria d Nico Marino, IV-

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Proprietà Portera3 della necropoli (fig. 2) dell’antico phrourion. Nel 1984, in uno dei più recenti livelli di frequentazione della necropoli4, è tornata alla luce una sequenza di sepolture ad epitymbia (fig. 4), e tra queste la Tomba 2055. L’epitymbion (monumento funerario costruito al di sopra della fossa6) è costituito da 2 grandi blocchi (fig. 5) di calcare a lumachelle, della Rocca di Cefalù ed usato per tutti i segnacoli funerari rinvenuti nella necropoli, messi in opera a parallelepipedi giustapposti. Il blocco sovrastante mostrava, sulla faccia superiore, all’estremità orientale, una calotta emisferica scolpita a guisa di “testolina”. Per questo motivo l’epitymbion è stato possibile ascriverlo al Tipo VIIb7 della classificazione, formulata dal Prof. Tullio e ormai usata da anni negli scavi della città. Il blocco risultava spaccato in tre parti e la fossa, al di sotto, appariva sporgente rispetto al monumento soprastante. Con lo scavo all’interno della fossa, ad incinerazione in piena terra, tra i resti delle ceneri del defunto è stato isolato, documentato e recuperato il corredo, come in molti casi, ridotto in frammenti8 e oggi restaurato ed esposto interamente presso l’Antiquarium di Himera (fig. 6). Il corredo è costituito da vasi di piccole e medie dimensioni, alcuni di ceramica comune e altri di ceramica a vernice nera, tra i quali un lagynos (fig. 7), insieme ad alcuni manufatti di coroplastica come la testina di Tanagrina (fig. 8) e tre lucerne efesie (fig. 9) realizzate a stampo e rifinite a stecca e per questo ascrivibili, genericamente, alla classe della coroplastica, come le statuette. I manufatti di ceramica comune e quelli a vernice nera sono tutti cronologicamente coerenti ed ascrivibili ad una datazione assoluta da circoscrivere alla fine del IV/inizi III sec. a.C.9, con la sola eccezione del lagynos (fig. 7) che vede la presenza di questa forma anche in strati dell’inizio del II sec. a.C.10. La testina di tanagrina, fortemente combusta, mostra i tipici tratti dei volti delle statuette databili al III sec. a.C.11. Le lucerne efesie sono tutte cronologicamente ascrivibili alla fine del III sec. a.C.12. V (2014-2015), Cefalù 2016, pp. 129-140; S. ALOISIO, Reperti significativi dai recenti scavi nella necropoli ellenistico-romana di Cefalù, in Conoscere il territorio: Arte e storia delle Madonie Studi in memoria d Nico Marino, IV-V (2014-2015), Cefalù 2016, pp. 141-152; A. TULLIO - S. ALOISIO, Kephaloidion (Cefalù): una strada ellenistico-romana con le sue infrastrutture, in Sicilia Antiqua. An International Journal of Archaeology, XV 2018 (Studi in onore di Nicola Bonacasa, II), Pisa - Roma 2018, pp. 243-260. 3 Gli scavi in proprietà Portera sono stati effettuati nel 1980, 1982 e 1984 e hanno consentito la documentazione e il recupero di 329 sepolture. A. TULLIO, Cefalù. La necropoli…, cit., pp. 9-13. 4 Il IV livello di frequentazione è datato tra il 250 e il 150 a.C. ed è interessato dalla presenza di incinerazioni primarie, in fosse, coperte da monumenti funebri chiamati epitymbia. A. TULLIO, Cefalù. La necropoli…, cit., pp. 1317, 20. 5 La Tomba 205 è una incinerazione primaria in fossa terragna sormontata da un epitymbion con un orientamento EO, con dimensioni di m 1,66 x 0,78 per quello che riguarda l’epitymbion, e di m 1,96 x 1.05 per la fossa di incinerazione. A. TULLIO, Cefalù. La necropoli…, cit., p. 51. 6 A. TULLIO, Epitymbia ellenistici…, cit., pp. 429-430. 7 Il Tipo VIIb consiste in un monumento a blocco litico con testolina sulla faccia superiore, simile al tipo Ia di Lilibeo, cfr. B. BECHTOLD, La necropoli di Lilybaeum, Trapani 1999, pp. 27-28. A. TULLIO, Epitymbia ellenistici, cit., pp. 429-430; ID., Cefalù. La necropoli…, cit., pp. 20-27 e in particolare p. 26. 8 Il corredo è costituito da: vaso su piede c.d. “Megarese” (K84/9), tre lucerne efesie (K84/10, 218, 225), lagynos (K84/212), piatto a vernice nera (K84/213), pisside a vernice nera (K84/215), coppetta acroma (K84/220), brocchetta a vernice nera (K84/223), testina di tanagrina (K84/226). 9 S. ALOISIO, La ceramica a vernice nera, in A. TULLIO, Cefalù. La necropoli…, cit., pp. 73-88, VN 31; Id., La ceramica comune, in A. TULLIO, Cefalù. La necropoli…, cit., pp. 89-116, CC 101. 10 S. ALOISIO, La ceramica a vernice nera, in A. TULLIO, Cefalù. La necropoli…, cit., p. 86, VN 50. 11 C. GRECO, Le terracotte figurate, in A. TULLIO, Cefalù. La necropoli…, cit., pp. 121-139, TC 25. 12 A. TULLIO - G. LANZARONE, Le lucerne, in A. TULLIO, Cefalù. La necropoli…, cit., pp. 141-149, LU 34. 20


Tra tutti i manufatti, oltre al lagynos (fig. 7), la coppa su piede (fig. 10), anche questa databile alla prima metà del II sec. a.C., sembra essere il manufatto più recente e la sua datazione si deve considerare un terminus ante quem non per potere fissare la cronologia della tomba almeno al primo quarto del II sec. a.C. La coppa (fig. 10) da Cefalù è del tipo su alto piede (fig. 11) a tromba, svasato e modanato, applicato alla vasca e decorato per mezzo di un collarino; vasca emisferica e carenata; orlo alto e lievemente estroflesso; labbro modanato pendulo e decorato a smerlatura definita a stecca; anse orizzontali a cilindro con gomito centrale. La vasca è decorata a rilievo con elementi fitomorfi impressi a matrice a stampo con una cordonatura orizzontale ad astragali (fig. 12) che la suddivide in due registri, uno inferiore con rosette (fig. 13) e uno superiore con tralci di vite e grappoli di uva (fig. 14). La superficie è interamente ricoperta di pigmento marrone rossiccio lucido ormai degradato. Questo manufatto, che comunque si è mostrato un unicum negli scavi di Cefalù, allo stato delle ricerche, è stato ascritto ad una classe ceramica ellenistica, tipica e diffusa principalmente nel III/II sec. a.C. definita, fino a qualche tempo fa, in modo generico “Megarese”. La denominazione di questa classe ceramica come vasi “Megaresi”13, in realtà è stata creata fittiziamente per ascrivere a un gruppo alcuni vasi decorati a rilievo, per i quali si era originariamente proposto un unico centro di produzione14, ovvero Megara. Questi vasi, in realtà, sono testimonianza di un’arte ellenistica decentralizzata che però dà vita a prodotti uniformi tra loro, anche se non fabbricati realmente in un unico centro. Fanno parte di questa classe forme genericamente aperte, come le coppe con o senza piede, le cui superfici sono state trattate a matrice realizzando la decorazione a rilievo. I vasi sono prodotti con la tecnica mista del tornio e stampi a matrice per l’impressione delle decorazioni15. Le superfici sono decorate con vernici rossastre o nere brillanti che però con il tempo si sono degradate virando verso il marroncino o il nerastro opaco. Le forme sono più o meno sferiche e quella principalmente usata è la coppa16. Ad una attenta analisi, in realtà si è visto che questi manufatti non costituiscono una classe omogenea e, soprattutto oggi per questo motivo non è più pensabile ascriverli a botteghe presenti in un unico centro di produzione, ma è ormai assodato che le fabbriche sono R. PAGENSTECHER, Die Calenische Reliefkeramik, in JdI, VIII, 1909; ID., Nekropolis: Untersuchungen über Gestalt und Entwicklung der Alexandrinischen Grabanlagen und ihrer Malereien veröffentlich in Auftrage von Ernst von Sieglin, II, III, Lipsia 1913, pp. 64- 78; G. LEROUX, Lagynos. Recherches sur la céramique et l’art ornamental hellénistique, Parigi 1913; W. SCWABACHER, Hellenistische Reliefkeramik im Kerameios, in American Journal of Archaeology, 45, 1941, p. 182; J. BOUZEK L. JANSOVA, Megarian Bowls, in Kyme, I. Anatolian Collection of Charles University, Praga 1974, pp. 13-76; J.P. MOREL, Céramiques d’Italie et céramiques hellénistiques, in P. ZANKER (ed.), Hellenismus in Mittelitalien. Kolloquium in Göttingen 1974, Gottinga 1976, p. 471; P.J. CALLAGHAN, Macedonian Shields, “Shield-Bowls” and Corinth. A Fixed Point in Hellenistic Ceramic Chronology, in AAA, XI, 1978, pp. 53-60; G. ANDREASSI, Una nuova idria con rilievi e la fabrica delle Plakettenvasen, in Studies in Honour of A.D. Trendall, Sidney 1979, p. 21-30; S.I. ROTROFF, Hellenistic Pottery. Athenian and Imported Moldmade Bowls, Agora XXII, Princeton 1982; P.J. CALLAGHAN, On the Origin of the Long Petal Bowl, in BICS, XXIX, 1982, pp. 63-68; S.I. ROTROFF, Silver, Glass and Clay. Evidence for the Dating of Hellenistic Luxury Tableware, in Hesperia, LI, 1982, pp. 329-337; Id., Prefaces, in H.A, THOMPSON - D. BURR THOMPSONN, Hellenistic Pottery and Terracottas, New Jersey 1987; M. MASSA, La ceramica ellenistica con decorazione a rilievo della bottega di Efesia (Monografie della Scuola Archeologica di Atene e delle missioni italiane in oriente), Roma 1992. 14 M.A. DEL CHIARO, s.v. Megaresi, vasi, in EAA 1961. 15 F. COURBY, Les vases grecs à relief, Parigi 1922, pp. 327; P.V. BAUER, Megarian Bowls in Yale University, in American Journal of Archaeology, XLV, 1941, 1941, pp. 229-245. 16 P. PUPPO, Le coppe megaresi in Italia, Roma 1995. 13

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identificabili in diversi centri ellenistici della Grecia propriamente detta e dell’aria coloniale17. Alcuni tipi, con le ultime ricerche, sono stati ascritti a gruppi di produzione specifici perché rivelano forme e decorazioni peculiari. L’argilla di questi manufatti varia in funzione del variare della zona di produzione, motivo per cui una analisi archeometrica su tali reperti faciliterebbe l’identificazione delle aree geografiche di produzione o almeno di provenienza del materiale utilizzato. Una delle prime classificazioni fu tentata nel 1922 da Courby18, il quale ha enucleato classi e gruppi ancora oggi validi. La scelta dei motivi decorativi varia andando dai più comuni, fitomorfi, vegetali o floreali, fino a taluni rari intenti narrativi con significati specifici. Come per tutte le produzioni della categoria ceramica di età ellenistica, la datazione ha una forbice cronologica vasta che occupa tutto il III e il II sec. a.C.19. Questi limiti di cronologia assoluta sono validi, comunque, per la Grecia continentale, mentre in Sicilia la loro produzione sembra perdurare in contesti Augustei, ma il caso va rivisto singolarmente per ogni scavo, essendo questa classe legata alle situazioni storico culturali locali. Ad ogni modo, allo stato delle ricerche, è difficile fissare una datazione bassa della cronologia produttiva, anche a causa della poca conoscenza della diffusione delle piccole officine locali. Quello che, invece, sembra certo è che alla fine del II sec. a.C. iniziano ad essere poco prodotti, se non in pochissimi luoghi come Tindari20, per cessare, poi, alla fine del I sec. a.C. quando sembra che non vi fosse più richiesta da parte della committenza, ormai attratta dalle nuove produzioni di sigillata romana che segna l’introduzione di un nuovo tipo di vasi a impressioni. Allo stato attuale delle ricerche è assodato che questa classe, in età ellenistica, è diffusa in tutta la Grecia e per tutto il bacino del Mediterraneo21 con una distribuzione che va dal Mar Nero a tutto il Mediterraneo occidentale, motivo per cui la denominazione “Megarese” è stata abbandonata a favore di quella di “coppe a rilievo”, definizione che riesce ad essere inclusiva di tutti i luoghi di produzione. La derivazione dagli esemplari metallici e dalla toreutica di matrice culturale alessandrina sembra ovvia. Nel repertorio vengono introdotti, sin dalle prime produzioni, motivi eterogenei presenti in differenti culture del Mediterraneo. L’analisi iconografica dimostra mutuazioni con la toreutica e con la produzione di vetri colorati e dorati. L’originalità di forme e decorazioni e, soprattutto, della loro realizzazione ebbe grande diffusione anche per la facilità esecutiva e la rapidità di produzioni mutando quasi l’economia delle botteghe artigianali modificandole in vere e proprie fabbriche industriali con realizzazione a catena delle produzioni. Tutto ciò fece in modo che le coppe decorate a rilievo andarono a sostituire i vasi potori precedentemente in uso, soprattutto quelli ad imitazione della toreutica non lavorata, preferendo quelli ad imitazione dello sbalzo e del cesello. Luoghi di produzione sono stati individuati genericamente in Grecia, Italia, Russia meridionale, Asia Minore, Siria, Palerstina, Egitto. 18 F. COURBY, Les vases grecs…, cit., p. 327. 19 Un rinvenimento in una tomba di Ras Shamrah, in Siria, anche sulla base del corredo rinvenuto, sembra far datare la prima fase di produzione di questa classe di vasi addirittura alla fine del IV sec. a.C. facendo ipotizzare il manufatto come una delle prime produzioni. J. SCHAEFFER, Les fouilles de Ras Shamra (Ugarit). Sixième campagne (printemps 1934), Syria XVI 1935, p. 153. 20 N. LAMBOGLIA, Una fabbricazione di ceramica megarica a Tindari e una terra sigillata siciliana, in Archeologia Classica, XI, 1959, p. 87. 21 R. PIEROBON BENOIT, s.v. Rilievo, ceramica a, in EAA, 1996. 17

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La Sicilia sembra essere uno dei principali luoghi di produzione con manufatti poco dissimili dai modelli greci che non sembrano sull’Isola avere goduto di grande fama. Invece le produzioni tarantine, e pugliesi in generale22, sembrano essere molto diffuse. Purtroppo questa classe di manufatti è ancora poco studiata e conosciuta. Maggior diffusione sembra, invece, avere avuto quella del centro Italia che ebbe legami con la produzione pergamena e peloponnesiaca. La massiccia produzione di tali manufatti si raggiunge, con l’influenza “ionica”, nel pieno II sec. a.C. momento in cui il repertorio iconografico si arricchisce di schemi geometrici e vegetali, ma che talvolta risultano monotoni. Per concludere possiamo dire che la coppa su piede da Cefalù, per l’argilla usata e la forma scelta dal ceramografo, fa presupporre che il vaso possa essere ascrivibile ad una bottega identificabile tra l’Italia meridionale e la Sicilia, probabilmente Tindari23 dove allo stato delle ricerche sono stati studiati alcuni vasi di questa classe ceramica. Ovviamente non si può ipotizzare l’esistenza di tale bottega, soltanto per la presenza di un unico manufatto. Per questo motivo sarebbe interessante guardare a tutti gli scavi di età ellenistica della Sicilia, alla ricerca anche solo di frammenti da attribuire a questa classe ceramica. Questo studio mirato arricchirebbe la ricostruzione del tessuto culturale della Sicilia occidentale24 della piena fase ellenistica. Qui infatti venivano prodotti manufatti imitanti la toreutica a sbalzo e cesello, come la ceramica a vernice nera, o anche altre classi di materiali, che ricevono una eco, più o meno mediata, dalle tendenze decorative provenienti da Alessandria d’Egitto.

G. SIEBERT, Bols à reliefs d’ateliers grecs dans le dépôt marin de Santa Sabina en Apulie, in RicStBrindisi, X, 1977, pp. 111-150. 23 N. LAMBOGLIA, Una fabbricazione…, cit., p. 87. 24 A. Tullio, Due sarcofagi tardo ellenistici da Cefalù, in Alessandria e il mondo ellenistico romano. Studi in onore di Achille Adriani, 3, Roma 1984, pp. 598-610; N. BONACASA, L’ellenismo e la tradizione ellenistica, in Sikanie, Milano 1985, pp. 277-304; C.A. DI STEFANO, Lilibeo punica, Marsala 1993; G. BACCI - U. SPIGO, Tripi. Necropoli di Abakainon: dati preliminari, in Kokalos XLIII-XLIV, 1997-1998, II,1 (2002), pp. 335-346. 22

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Le figure Fig. 1. Cefalù, planimetria generale con, in rosso, indicazione dell’area della necropoli. Fig. 2. Himera, Antiquarium, Coppa su piede dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera (Inv. K84/9). Fig. 3. Himera, Antiquarium, esposizione del corredo dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera. Fig. 4. Epitymbia Tombe 267, 266, 265 e 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera, Quadrante V, veduta da E. Fig. 5. Epitymbion, Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera. Fig. 6. Himera, Antiquarium, corredo dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera. Fig. 7. Himera, Antiquarium, lagynos dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera (Inv. K84/212). Fig. 8. Himera, Antiquarium, testina di tanagrina dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera (Inv. K84/226). Fig. 9. Himera, Antiquarium, lucerne del tipo efesio dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera (Invv. K84/10, 218, 225). Fig. 10. Himera, Antiquarium, Coppa su piede dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera. Fig. 11. Himera, Antiquarium, Coppa su piede dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera. Fig. 12. Himera, Antiquarium, Coppa su piede, particolare dei due registri di decorazione, dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera. Fig. 13. Himera, Antiquarium, Coppa su piede, particolare del registro inferiore di decorazione, dalla Tomba 205, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera. Fig. 14. Himera, Antiquarium, Coppa su piede dalla Tomba 205, particolare del registro superiore di decorazione, Cefalù, dall’area della necropoli in proprietà Portera.

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Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

Fig. 5

Fig. 4 Fig. 6

Fig. 9 Fig. 7 Fig. 8

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Fig. 10 Fig. 11

Fig. 12

Fig. 13

Fig. 14

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Frustuli di antiche Cefalù al di sotto dell’ex Monastero di S. Caterina AMEDEO TULLIO Ancora una volta siamo a Cefalù, nel 2019, per la IX edizione di Arte e storia delle Madonie. Studi per Nico Marino. Queste manifestazioni promosse e supportate con amore e dedizione dalla Sua famiglia, cui si sono aggiunti alcuni amici1, hanno consentito a tutti noi, studiosi del territorio madonita, di incontrarci nel ricordo di un Amico, storico ed attento ricercatore dei segni della cultura di questo territorio, cui ha dedicato numerose significative pubblicazioni e per il quale ha promosso e curato incontri e mostre di qualità, come quella del 1994 su Oggetti curiosità e bibelots della Fondazione Mandralisca, alla quale ho avuto l’onore ed il piacere di collaborare2. I risultati di questi incontri, pubblicati in eleganti e funzionali volumi di “Atti”, contribuiranno, insieme alle pubblicazioni ed agli interventi di Nico, a farci ricordare lo Studioso e l’Amico. A Cefalù, dopo la caduta del fascismo, si sono evidenziati alcuni periodi durante i quali la città si è sviluppata in modo anomalo. Dalla seconda metà degli anni ‘50 agli anni ‘60 si è registrato un forsennato sviluppo urbanistico nell’area della necropoli (fig. 1) che tuttavia siamo riusciti a recuperare in tutte le aree indagabili. Negli anni ‘70 e ‘80 proprio in quest’area si è, infatti, registrata un’intensa attività di ricerche archeologiche che hanno dato importanti notizie sulla storia e la cultura della città ellenistico-romana3. Nuovi studi e i risultati delle indagini archeologiche, infatti, sconvolgendo idee, in qualche modo consolidate, circa la vetustà del primo insediamento urbano e circa la stessa stirpe dei fondatori, consentirono una più realistica datazione delle cosiddette “mura megalitiche”, fondata su studi e valutazioni più attente e meno “romantiche”4, mentre la tipologia delle sepolture e la qualità dei reperti, che andavano via via emergendo con il procedere delle indagini sul terreno, ne rivelarono la chiara matrice ellenica e rapporti di convivenza pacifica con le 1 Ringraziamo, per la disponibilità, la moglie Prof.ssa Antonella Panzarella, il figlio, l’instancabile, impegnatissimo Gabriele, nonché gli amici Rosario Termotto, Alberto Culotta ed Angela Sottile. 2 Oggetti, curiosità e bibelots della Fondazione Mandralisca (Catalogo della mostra a c. di A. Tullio e N. Marino), Cefalù 1994. 3 A. TULLIO, Cefalù-Necropoli. Campagne di scavo 1976-1978, in Sicilia Archeologica, n. 40, 1979, pp. 43-45; Id. Architettura povera nell’antichità: gli epitymbia di Cefalù, in Ricerche di Storia dell’Arte, n. 11, 1980, pp. 45-48; Id. La necropoli ellenisticoromana di Cefalù.Scavi 1976-1989, in BCA-Sicilia, I, nn. 1-4, 1980, pp. 85-88; Id. Scavi e ricerche a Cefalù (1980-1984), in Kokalos, XXX-XXXI, 1984-1985 (1987), pp. 641-644; Id., Recenti scoperte archeologiche a Cefalù, in Incontri e Iniziative. Memorie del Centro di Cultura di Cefalù, IV, 1987 (1989), pp. 5-9; Id. Epitymbia ellenistici in Sicilia, in Akten des XIII Internationalen Kongresses fur Klassische Archaologie, Berlin 1988, Berlin 1990, pp. 429-430; Id., Scavi e ricerche a Cefalù (19841988), in Kokalos, XXXIV-XXXV, 1988-1989 (1993), pp. 679-682; Id, Cefalù, in Di terra in terra. Nuove scoperte archeologiche nella provincia di Palermo, Palermo 1993, p. 241; Id., Scavi e ricerche a Cefalù (1988-1993), in Kokalos XXXIXXL, 1993-199; Id., 4 (1996), pp. 1211-1212; Id. Presenze puniche nella necropoli ellenistico-romana di Cefalù in Atti del V Congresso Internazionale di Studi fenici e punici (Marsala-Palermo 2-8.10.2000), II, Palermo 2005, pp. 837-848; Id. Cefalù. La necropoli ellenistica I (Studi e Materiali Dipartimento di Beni Culturali, sezione archeologica Università di Palermo, 13), Roma 2008; Id. Kephaloidion (Cefalù), recenti scavi nella necropoli ellenistica (2007-2008), in Conoscere il territorio: Arte e Storia delle Madonie: Studi in memoria di Nico Marino, IV-V (2014-2015), Cefalù 2016, pp. 129-140; Id. Uno skyphos fliacico dalla necropoli di Kephaloidion (Cefalù), in Se cerchi la tua strada verso Itaca … Omaggio a Lina Di Stefano (a c. di Elena Lattanzi e Roberto Spadea), Roma 2016, pp. 69-76; Id.La necropoli ellenistica di Cefalù (scavi 2007-2008): un “caso” stratigrafico, in Nel mondo di Ade. Ideologie, spazi e rituali funerari per l’eterno banchetto (secoli VIII-IV a.C.). Atti del Convegno Internazionale, Ragusa-Gela, 6-7-8 Giugno 2010 a c. di R. Panvini e L. Sole, Roma- Caltanissetta 2019, pp. 197-209. 4 A. TULLIO, Saggio sulla topografia e sulle antichità di Cefalù, in Kokalos, XX, 1974 (1976), pp. 119-151, tavv. VII-XVIII.

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popolazioni viciniori di cultura punica. Nacque, così, un nuovo e maggiore interesse, prima cittadino e poi del mondo della cultura, per le testimonianze archeologiche ed il loro rispetto, cui fecero riscontro numerose conferenze, la sistemazione, nei locali del Museo Mandralisca, di una saletta archeologica, in cui fu riassemblato5 uno dei più significativi epitymbia (segnacoli funerari) venuti alla luce (fig. 2), oggi rimosso per la nuova sistemazione dei locali, e vennero esposti due notevoli sarcofagi marmorei “a naiskos” da Contrada Spinito (II sec.)6, uno dei quali con colonnine ioniche e fregio dorico (fig. 3). Negli anni ‘80 e ‘90 si è avviata l’indagine nell’area urbana e sono state recuperate significative testimonianze dell’antico impianto urbano e delle sue infrastrutture7, nonché importanti e significative scoperte (fig. 4)8 ed alcune testimonianze di cultura materiale (figg. 5-6)9, meno appariscenti e profondamente turbate dagli interventi seriori, ma inequivocabili segni “delle” città, tardo antica, bizantina ed araba, tanto che ormai più che di Cefalù Antica è sembrato più corretto parlare di Prime Cefalù10. Successivamente si è avuto un lungo periodo di stasi e di abbandono dell’interesse popolare e politico che negli ultimi mesi pare superato e si sono verificati episodi, purtroppo non collegati tra loro, di interventi privati per valorizzare aree archeologiche scoperte da tempo. Tra questi, notevole l’impegno dell’Archeoclub di Cefalù che ha curato, in collaborazione con la competente Soprintendenza archeologica e con il Comune di Cefalù, l’allestimento per la fruizione sociale e turistica della strada romana (I-II secolo) inglobata nel complesso della Corte delle Stelle11. L’apertura al pubblico e la fruizione socio-culturale sono state assicurate, per poco più di un anno (non meno di cinquemila i visitatori, di cui tremilacinquecento hanno firmato l’apposito registro), grazie alla collaborazione, disinteressata e qualificata, dei Soci di questa importante associazione nazionale. Questa strada (fig. 7), elegantemente pavimentata a basole di flysch arenacico verdognolo e dotata di tutte le infrastrutture necessarie, dopo l’esplorazione archeologica condotta da

5 Grazie al Lions Club di Cefalù, per il contributo economico, e grazie alla collaborazione (restauro e messa in opera) del M. d’A. Sandro Varzi e del compianto Nardo Cangelosi: cfr. A. TULLIO, Reperti archeologici nuovi nel Museo Mandralisca di Cefalù, in BCA-Sicilia, II, 3-4, 1981, pp. 47-51. 6 A. TULLIO, Due sarcofagi tardo ellenistici da Cefalù, in Alessandria e il mondo ellenistico-romano (Studi in onore di Achille Adriani), III (Studi e Materiali Istituto di Archeologia Università di Palermo, 6), Roma 1984, pp. 598-610, tav. LXXXV. 7 A. TULLIO - S. ALOISIO, Kephaloidion (Cefalù) una strada ellenistica con le sue infrastrutture. Lo scavo, in Sicilia Antiqua. An International Journal of Archaeology, XV, 2016 (Studi in memoria di Nicola Bonacasa, II), Pisa-Roma 2018, pp. 243250. 8 A. TULLIO, I risultati della ricerca archeologica. Preesistenze al cantiere ruggeriano, in Mostra di Testimonianze figurative della Basilica ruggeriana di Cefalù (Duomo di Cefalù, luglio-settembre 1982), Palermo 1982, pp. 43-49; Id., I saggi di scavo, in La Basilica Cattedrale di Cefalù. Materiali per la conoscenza storica e il restauro, 3. La ricerca archeologica .Preesistenze e materiali reimpiegati, Palermo 1985, pp. 48-49; Id., Pavimentazioni musive della Cefalù preruggeriana, in Atti del IV Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico (AISCOM), Ravenna 1997, pp. 75-79; Id., Una inattesa pagina della primitiva comunità di Cefalù, in Architetti di Agrigento, VI, 14-15, giugno-ottobre 2002, pp. 20-21; Id., Le Prime Cefalù. Memoria e immagini, Cefalù 2015, pp. 71-74. 9 A. TULLIO, Cefalù: testimonianze di cultura materiale dall’alto Medioevo al XII secolo, in QDAP, 12, (Studi in memoria di Fabiola Ardizzone, 3, Ceramica, a cura di R. M. Carra Bonacasa ed E. Vitale, Palermo 2018, pp. 238-239. 10 Dai titoli della prima e della più recente monografia che ho dedicato alla Città di cui sono Cittadino Onorario: Cefalù Antica (1984) e Le prime Cefalù (2015). 11 TULLIO - ALOISIO, Kephaloidion (Cefalù) una strada…, cit.

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Amedeo Tullio, era stata, prontamente ed efficacemente, inglobata nel complesso da Marcello Panzarella12, ma purtroppo non era fruibile. L’iniziativa dell’Archeoclub, che avvalendosi degli esiti di quasi un cinquantennio di scavi e ricerche13, prevedeva la formulazione di un “Itinerario archeologico cittadino” che sarebbe opportuno portare a termine e si è già concretizzato con la realizzazione di due pannelli esplicativi e di un’efficace, apposita mappa (fig. 8) didattico-divulgativa14, anche questa elaborata gratuitamente. Sempre per iniziativa privata15, si è valorizzata e resa fruibile una piccola ma significativa area della necropoli16 al di sotto dell’attuale Hotel Artemis17 dove, dopo l’esplorazione archeologica, sono stati riassemblati (fig. 9) due notevoli segnacoli funerari (epitymbia) e si è reso fruibile un recinto funerario (fig. 10) tra i più antichi della necropoli. Tra queste iniziative si inseriscono l’apertura al pubblico delle Torri del Duomo a cura dell’Arcidiocesi di Cefalù, nonché l’esposizione, effettuata all’interno del Duomo, di alcuni reperti (figg. 11-13) dagli scavi del 1980-82, già oggetto di una importante mostra a cantiere aperto18, regolarmente pubblicati19 ed ormai ricorrenti nella letteratura archeologica. Recentemente, infine, in collaborazione con il Comune di Cefalù, si è potuta allestire per la fruizione pubblica, dotandola di funzionali pannelli didattico-esplicativi, una piccola area urbana nel cuore del centro storico al di sotto dell’ex Monastero di Santa Caterina (figg. 14-15) oggi sede del Comune di Cefalù e dove, dal 1981 al 1995, tenendo conto delle esigenze di cantiere, si sono effettuati importanti lavori di “restauro e ristrutturazione”20 progettati e diretti dagli architetti Pasquale Culotta e Giuseppe Leone21 e, nell’ambito dei quali, sia pure tardivamente, si è potuta effettuare una ricerca archeologica che ha dato significativi risultati. Questo Monastero22 di suore benedettine è la più antica Sede di una comunità religiosa, fondata nella cittadina normanna poco dopo la Basilica Cattedrale, come risulta da alcuni importanti manoscritti, citati da Rosa Brancato23 e sulle due più antiche e significative opere a stampa che ne documentano, nel 159224, l’ubicazione, al di là Coemeterium (localmente detto 12 Ringraziando, ancora una volta, il professionista e l’amico, si segnala l’importanza della collaborazione interdisciplinare della quale quest’opera è frutto. 13 Per una breve sintesi di questo impegno cfr. A. TULLIO, Dalla Città ruggeriana alle ‘Prime Cefalù’, in Ta Archàia. Esperienze di divulgazione culturale a cura dell’Archeoclub d’Italia, sede di Cefalù, Cefalù, in corso di stampa. 14 Con l’occasione si ringrazia, per la disponibilità e la professionalità, la Dott.ssa Pia Panzarella. 15 Si ringrazia, per la disponibilità, il geom. Giuseppe Calabrese, proprietario ed amministratore della Società Artemis s.r.l. 16 Dotandola di appositi ed efficaci pannelli didattici curati, disinteressatamente, da Amedeo Tullio e Santa Aloisio che ha collaborato nella conduzione di questo scavo. 17 TULLIO 2019, La necropoli,… in Nel mondo di Ade. Ideologie, spazi e rituali funerari per l’eterno banchetto (secoli VIII-IV a.C.). Atti del Convegno Internazionale, Ragusa-Gela, 6-7-8 giugno 2010 a C. di R. Panvini e L. Sole, Roma.- Caltanissetta 2019, pp. 197-209. Figg. 1-20; S. ALOISIO, Necropoli di Cefalù, scavi 2007-2008: i reperti ceramici, ibidem, pp. 211-222, Figg. 1-22. 18 TULLIO 1982, I risultati … in Mostra …, pp. 45-58, tavv. XIII-XVI. 19 TULLIO 1985, I saggi di scavo, in La Basilica Cattedrale … , pp. 13-114, figg. 1-153. 20 Come risulta dall’oggetto della “pratica” relativa. 21 M. PANZARELLA, Municipio a Cefalù. Pasquale Culotta, Giuseppe Leone, Firenze 2003. 22 R. BRANCATO, I luoghi conventuali di Cefalù intra moenia, Cefalù 1986, pp. 27-108. 23 BRANCATO, I luoghi conventuali…1986, p. 68. 24 B. CARANDINO, Descriptio totius ecclesiae cephaleditanae, Mantuae 1592, p. 6 (ed. anastatica, con traduzione in lingua italiana, note critiche ed app. iconografica, a cura ai A. Tullio, Palermo 1993).

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“turniale”), ad Ovest del Duomo, sull’omonima piazza (fig. 14), e, nel 164525, l’ampliamento del più modesto complesso medievale (fig. 16*), realizzato, tra il 1562 e il 156826, nell’area ad Est, come vedremo, per concessione del Vescovo Mons. Antonio Faraone. L’indagine archeologica si è svolta dal 1986 al 1995 articolata a tappe, tenendo conto delle esigenze della Direzione dei lavori, per non fermare il cantiere. Fin dal primo sopralluogo si è constatato che in alcune zone (fig. 17)27, lo sbancamento era già stato effettuato per una profondità di m 1,00/1,50 e, successivamente, almeno in parte reinterrato. Ci si trovava, infatti, come si legge sul Giornale di scavo, “in presenza di un’area fortemente rimescolata che, pur contenendo inequivocabili tracce di antropizzazione, non consente una lettura adeguata” per cui ci si è riservato, giusto parere concorde della Soprintendenza, di rinviare l’indagine in queste aree a “quando la Direzione dei lavori dovrà intervenire nuovamente”. Preliminarmente si è intervenuti nell’area a Sud Ovest (figg. 16A e 19) del complesso (tra la Via XXV novembre ed il Vicolo SS. Salvatore), dove era, secondo la convincente ipotesi di Rosa Brancato28, l’orto dell’originario, modesto monastero medievale (fig. 15) che aveva il prospetto principale sulla strada a Sud, come confermano alcuni stilemi architettonici riportati alla luce29. In quest’area, dove erano alcune costruzioni recenziori, in buona parte già rimosse, come l’originario muro di delimitazione, sono stati effettuati due saggi (figg. 18-19) che, pur avendo confermato le caratteristiche di un’area decisamente antropizzata e successivamente, almeno in parte, reinterrata con terreno rimescolato fino al terreno vergine, hanno fornito importanti notizie delle strutture abitative preesistenti. Il Saggio 1 di maggiori dimensioni (m 2,85 x 2,70), di forma rettangolare (fig. 19), risulta già sbancato fino a quota -m 0,75, quando sono venuti in luce numerosi frammenti ceramici ed una struttura muraria (un muro orientato N-S?) che pare limitare un battuto pavimentale di sterro biancastro (fig. 20). Si sono distinti, tra l’altro, vari suoli tra cui, a quota -m 1,40, un rozzo piano d’appoggio a ciottoli e grossi frammenti di mattoni impostati su un suolo sabbioso che ha restituito frammenti ceramici a vernice nera e di “terra sigillata”. A quota -m 1,74 si è individuata, infine, la scogliera naturale e/o il terreno vergine che si controlla fino a quota -m 2,55, quando si decide di sospendere lo scavo. Più significativi i dati emersi nel saggio 2 (m 2,10 x 2,00), di forma irregolare (fig. 19), dove era già in luce la faccia superiore di un grosso scoglio appositamente spianato (fig. 21). Anche qui il terreno è rimescolato ma la presenza di numerosi frammenti ceramici e quella dello scoglio che sprofonda fino a quota -m 1,60 e presenta, come si è detto, la faccia superiore spianata per fungere da piano pavimentale che, con una modalità riscontrata anche in altre zone dell’abitato del frourion di Kephaloidion30, testimonia trattarsi del primo insediamento sorto nel luogo e ormai irrimediabilmente perduto.

B. PASSAFIUME, De origine ecclesiae cephaleditanae, Venetiis 1645, p. 37. BRANCATO, I luoghi conventual…1986, p. 33. 27 L’area a Sud Ovest “A”, quella dell’aula ottagonale “C” e parte del grande cortile “B”. 28 BRANCATO, I luoghi conventuali…1986, pp. 29-36, figg. 12-14. 29 BRANCATO, I luoghi conventuali…1986, pp. 29-30, figg. 22-23. 30 Ad esempio in uno degli ambienti del complesso abitativo al di sotto dell’Osterio Magno (A. TULLIO, Esplorazione archeologica dell’area dell’ Osterio Magno. in Incontri e Iniziative. Memorie del Centro di Cultura di Cefalù,VIII,1-2/1991 (1994), pp. 65-66, fig. 12. 25 26

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Dopo questa breve analisi delle preesistenze superstiti al di sotto dell’area, che durante la fase medievale era utilizzata come orto (fig. 16A), si passa ora ad esaminare quelle ad Est (poco meno di 2000 mq) che hanno avuto una più articolata storia edilizia31. Nella seconda metà del ‘500 le suore benedettine del Monastero di S. Caterina di Cefalù erano cresciute di numero ed avevano acquisito consensi ed apprezzamenti nel territorio, tanto da spingerle a chiedere al Vescovo Antonio Faraone di poter ampliare la chiesa. Il Vescovo, condividendo la richiesta, ottenne (in dono o acquistò) le case ad Est del Monastero dalla famiglia De Cangelosi che ne era proprietaria32. Con l’acquisizione di questa piccola area, dalla caratteristica forma trapezoidale (fig. 16*), incuneata tra il limite del vecchio impianto ad Ovest e l’allineamento con piazza Duomo ad Est, non solo si poté ampliare la chiesa, probabilmente affidandone il progetto a Paolo Amato (1634-1714) ed il prospetto a Giovan Biagio Amico (1684-1754)33, ma fu possibile anche razionalizzare la pianta del Monastero medievale inquadrandolo nell’attuale schema urbano34. All’atto del nostro intervento anche quest’area (fig. 22) risultava profondamente turbata. La fascia est, all’interno del prospetto orientale (circa m 33 x 1/5), era turbata dalla presenza di numerosi tagli (effettuati tutt’intorno per controllare la consistenza delle fondazioni?). Tuttavia, nel taglio di terra Est-Ovest, a Sud dell’ingresso verso l’aula ottagonale35, malgrado il terreno fosse turbato e malgrado i ripetuti rimaneggiamenti, si è potuta individuare un’interessante stratigrafia (figg. 22-23) che va dalla fase ellenistica del primitivo impianto al tardo medioevo: dal penultimo strato (dall’alto) provengono, infatti, una brocca ed un tegame (fig. 24) di ceramica invetriata, databili al XV-XVI secolo e, riferibile all’interfaccia tra il II ed il III strato, è un lacerto di pavimentazione a basole (fig. 25), che, provenendo da Est (piazza Duomo), poco più ad Ovest (5/6 metri) si incontra con la plateia venuta in luce al centro dell’area (fig. 16B) e di cui diremo. Non molto diversa la situazione riscontrata nell’area dell’imponente, ma sobria, costruzione settecentesca (figg. 22 e 26) dove era stato già raggiunto il livello del previsto suolo pavimentale ed erano state svuotate alcune sepolture che non hanno reso alcun corredo, come quelle che abbiamo potuto esplorare successivamente. Nella vasta area ottagonale36 erano state aperte due profonde trincee per la posa di cavi e tubazioni varie (fig. 26), funzionali per la nuova sistemazione dell’ambiente. I tagli di queste trincee hanno con evidenza rivelato la natura del terreno fortemente rimescolato per la realizzazione della chiesa settecentesca. Lo scavo, nelle parti non turbate, ha consentito di individuare alcune sepolture in piena terra (Sepp. .a-c, fig.22), significativamente prive di corredo e due ipogei.

BRANCATO, I luoghi conventuali..1986, pp. 36-50, figg. 15-21. PASSAFIUME, De origine... 1645, p. 9 ; BRANCATO, I luoghi conventuali…1986, pp. 38-40. 33 BRANCATO, I luoghi conventuali…1986, p. 43. 34 Analogamente a quello che si può riscontrare per l’Osterio Magno dove la torre ruggeriana, “trapezoidale”, all’angolo NE presenta una identica situazione planimetrica: A. TULLIO, Il Medioevo a Cefalù alla luce delle ricerche archeologiche, in Conoscere il territorio. Arte e Storia delle Madonie: Studi in memoria di Nico Marino, I (a cura di G. Marino – R. Termotto), Cefalù 2013, pp.117-118, figg. 11-14. 35 Dove era stato rimosso un tratto di muro cui si appoggiava, a Sud, una scala al di sotto della quale era leggibile la stratigrafia. 36 Dimensioni: m 15 x 15 + m 7,5 x 7,5 (presbiterio), + m 5 x 5 (vestibolo) circa. 31 32

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Quello, già individuato al di sotto del Presbiterio (fig.22), di maggiori dimensioni, destinato a sepoltura plurima, occupa un’area pressoché rettangolare (di circa m 9,00 x 5,50) creata a Nord Est dell’abside della piccola cappella medievale 37(a quota inferiore) e, successivamente, inglobata nell’area dell’ampio Presbiterio della chiesa settecentesca. Lo spazio interno è articolato in quattro vani (fig. 22, ipogeo I°), con copertura di mattoni a botte, non organicamente collegati e concresciuti nel tempo. L’ubicazione anomala e l’irregolarità planimetrica potrebbero, per altro, suggerire l’importanza di questo complesso sviluppato a Nord Est dell’absidiola della cappella medievale, più curato degli altri e con una parete decorata con un affresco policromo (fig. 27). Discretamente conservato, quest’ultimo è decorato con la rappresentazione di una finestra chiusa da un graticcio e delimitata da un tralcio con vivaci fiori a larghi petali (primule). Tante peculiarità fanno pensare possa trattarsi della tomba della Fondatrice. L’unica sepoltura ipogea (Ipogeo II°, fig.22), che abbiamo potuto esplorare, nella zona antistante il lato nord dell’aula ottagonale, è di piccole dimensioni, ben conservata, con pareti ad encausto e copertura a botte (figg. 28-29). Si tratta di una sepoltura monosoma che conteneva resti mortali di una giovane suora. Notevoli una grossa ciocca di capelli e alcuni frammenti dell’abito. Le scoperte più significative si sono effettuate nel grande cortile centrale (fig. 15B e 16) dove, in una stretta trincea al di sotto degli sbancamenti (fig. 30), era già stato riportato parzialmente alla luce un lembo di pavimentazione stradale (fig. 31) che si estende in senso nord-sud tra i due lati del cortile (fig. 16B). Su questo basolato si appoggia un grosso muro portante (fig. 32) orientato in senso NE- SO, con una declinazione verso Est, di 18/19 gradie nel quale va riconosciuto, per altro comprovando l’ipotesi di Rosa Brancato 38, il muro di limite orientale del monastero medievale che si è appoggiato sulla pavimentazione stadale “coprendola”39 in parte (fig. 32). Questo dato è ormai consolidato a Cefalù, almeno dal 1980 quando è venuta alla luce l’importante arteria stradale (stenopos) presso il portico ad Ovest del Duomo e la Torre sud e si è constatato che tutte le strade del primitivo insediamento urbano e le relative strutture murarie vi si adeguano, mentre , a partire dalla “ri-fondazione” ruggeriana fino all’alto medioevo (il Duomo, l’Osterio Magno, la stessa Domus Mariae ed ora quello della fase medievale del Monastero di S. Caterina) si preferisce il nuovo orientamento, probabilmente da mettere in relazione alle intecorse variazioni del polo magnetico in quasi 20 secoli. In questa importante arteria stradale, elegantemente pavimentata (fig. 35) a basole di flysch arenacico verdognolo, conservata per una lunghezza massima di m. 12 (fig. 35), va individuata una plateia, forse quella massima, dell’antico frourion di Kephaloidion-Cephaloedium. Non è stato, infatti, possibile valutarne l’ampiezza con maggiore precisione dato che, con le verifiche effettuate ad Ovest ed i saggi ad Est (figg. 33-34) della fascia centrale cui, come vedremo, si è appoggiato il muro est del monastero, si è potuto constatare 40 che l’area era BRANCATO, I luoghi conventuali…1986, pp. 34-35, disegno 13 A. BRANCATO, I luoghi conventuali…1986, p. 43. 39 Con un procedimento analogo a quello adottato, per la realizzazione del muro di contrafforte tra le torri nord e sud della Basilica Cattedrale (Duomo): TULLIO 1985, I saggi di scavo, in La Basilica Cattedrale … , pp. 20-23, figg. 3,6,7; Id. 2015, Prime Cefalù …,fig. 43. 40 In un’ampia fascia di m 7/8 tra i due muri di limite Est ed Ovest del cortile B (fig. 16). 37 38

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stata turbata già in età medievale per la realizzazione di locali ipogeici 41 e/o comuque di cisterne. Soltanto una piccola porzione della crepido (bordo, limite della carreggiata) ad Est e di parte di un ambiente afferente (fig. 33 a sx). potrebbero far supporre, nell’ipotesi che la canaletta ribassata fosse al centro, una larghezza di m 3,49 (come quella dietro l’absidiola del Preconio della Basilica Cattedrale), mentre ne fa supporre una maggiore (m 4,70) tenuto conto che, nel punto centrale dello schema urbano (fig. 40) si incrocia con lo stenopos scoperto al di sotto del Duomo, che è appunto largo m 4,70. Questa ipotesi potrebbe essere convalidata dalla maggiore e più articolata presenza di canalette per lo smaltimento delle acque reflue, per cui, oltre a quella centrale, in questo caso, per favorire lo smaltimento ed evitare il formarsi di fastidiose pozzanghere, sono numerose canalette di adduzione (figg. 32,35 e 38), normali alla principale (o alle principali?). Ad Est del muro del monastero (fig. 36) si è potuta, per altro, isolare una fossa di rifiuti tagliata forse per eliminare il materiale accumulatosi e livellare la fascia di terra su cui si sarebbe dovuto impostare il citato muro di limite del monastero. Questo riempimento ha restituito, tra i reperti, un frammento di brocchetta “tardo antica” ed un frammento di bacino invetriato policromo (fig.37) che ne fissano, per il citato muro, il terminus ante quem non (VII-VIII secolo). Infine, va notato, che proprio all’angolo sud est dell’area di scavo (fig. 38), si è individuata nella parte di un ambiente delimitato da muri a secco con emplekton di terra e pietrame minuto, di cui si è detto Tra questi sono stati recuperati un coperchietto a vernice nera con sopradipinti eleganti motivi vegetali e una lucerna monolychnos a vernice nera (fig. 39) del III/II secolo a.C.: Concludendo va detto che gli scavi nell’area dell’ex Monastero di S. Caterina hanno fornito importanti informazioni sull’urbanistica. la tipologia delle pavimentazioni stradali e le relative infrastrutture, come l’adozione, appropriatamente diffusa, di canalette di adduzione delle acque meteoriche e di risulta. Notevoli anche le informazioni riguardanti la prassi operativa che, nel periodo ellenisticoromano, documenta la consuetudine di avvalersi delle rocce affioranti, livellate opportunamente per integrare suoli pavimentali e, almeno nelle costruzioni post-ruggeriane, quella di appoggiare strutture murarie direttamente sui livelli più compatti nei quali ci si imbatteva. L’impianto urbanistico che va delineandosi, con sempre maggiore chiarezza, nell’antica Kephaloidion è dunque di “tipo ippodameo” con isolati disposti in senso Est-Ovest (dimensioni m 30 x 60 circa equivalenti a 150 x 300 piedi di m 0,235) e trova riscontro con quella dell’asse viario principale (m 4,70 = 20 piedi ), con lo spessore medio dei muri (m 0,47- 0,50, equivalente a 2 piedi di m 0,235) e con le dimensioni di alcuni mattoni fittili con la scritta ”KEFA“ riutilizzati42 per la realizzazione di epitymbia per sepolture del II sec. a.C. (m 0,235).

Presumibilmente sepolture le cui coperture erano state coinvolte negli sbancamenti effettuati prima dell’intervento archeologico. 42 C.M. BONGIORNO, Elementi architettonici, in A. Tullio, Cefalù. La Necropoli ellenistica, I (Studi e Materiali - Dipartimento di Beni Culturali, sezione archeologica - Università di Palermo, 13), Roma 2008, p. 156, EA 10, fig. 66, tav.XXX,3. 41

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Le figure Fig. 1. Cefalù, area della necropoli ellenistico-romana. Fig. 2. Museo Mandralisca, riassemblaggio epitymbion 183. Fig. 3. Museo Mandralisca, sarcofago a naiskos da contrada Spinito. Fig. 4. Duomo (sotto il portico), mosaico paleocristiano. Fig. 5. Anfora tardo antica e sezione, da area sotto il Duomo. Fig. 6. Lucerna ellenistica a v. n. e due lucerne “a scarpa” altomedievali, da area sotto il Duomo. Fig. 7. Corte delle Stelle, strada basolata romana. Fig. 8. Mappa archeologica area urbana (Ipotesi A. Tullio, restituzione grafica Pia Panzarella). Fig. 9. Hotel Artemis, epitymbia 1305 e 1302, riassemblati. Fig. 10. Hotel Artemis, recinto funerario in situ. Fig. 11. Sigillo di piombo e contrappeso litico, da area sotto il Duomo. Fig. 12. Tegole a solcature e bagno fittile con palmette impresse, da area sotto il Duomo. Fig. 13. Duomo, sarcofago romano riutilizzato come supporto per lastra con decorazione cosmatesca. Fig. 14. Piazza Duomo, anni ‘60, vista da Est: in fondo l’ex Mon. di S. Caterina (Ph. R. Brancato). Fig. 15. Planimetria ex Monastero S. Caterina. Fig. 16. Planimetria multifase area ex Mon. S. Caterina: murature in nero (fase medievale); zona in blu *(area ampliamento); zona verde acqua, C (chiesa settecentesca); zone delimitate da linee blu o rosse (preesistenze ellenistico-rormane, ipotizzabili o venute alla luce). Fig. 17. Area ex Mon. S. Caterina, cortile centrale. Fig. 18. Area ex Mon. S. Caterina, angolo SO. Fig. 19. Eidotipo area ex Mon. S. Caterina. Figg. 20, 21. Saggi 1 e 2, area ex Mon. S. Caterina. Fig. 22. Planimetria zona Cappella ottagonale ex Mon. S. Caterina (rilievo e restituzione grafica, Culotta e Leone Arch.tti Ass.ti, 1980) con indicazione degli interventi archeologici, sezione archeologica. Fig. 23. Cappella ottagonale ex Mon. S. Caterina, sezione stratigrafica. Fig. 24. Brocchetta e tegame invetriati da ex Mon. S. Caterina. Fig. 25. Saggio α, pavimentazione stenopos. Fig. 26. Cappellla ottagonale, da Est. Fig. 27. Aula ottagonale, Ipogeo, I°, sotto il Presbiterio. Fig. 28. Cappella ottagonale, Ipogeo II°, da Nord. Fig. 29. Cappella ottagonale, Ipogeo II°. Fig. 30. Area ex Mon. S. Caterinna, cortile centrale, prima dell’inizio delle verifiche archeologiche. Fig. 31. Area ex Mon. S. Caterina, cortile centrale, la striscia di basolato già in luce. Fig. 32. Area ex Mon. S. Caterina, cortile centrale:.il muro del Mon. poggiato sul basolato. Fig. 33. Area ex Mon. S. Caterina, cortile centrale: verifiche ad Ovest del muro del monastero. Fig. 34. Area ex Mon. S. Caterina, cortile centrale: verifiche ai lati della trincea con il basolato. Fig. 35. Area ex Mon. S. Caterina, cortile centrale: il basolato stradale (plateia) completamente in luce (rilievo e restituzione grafica, Arch. Valeria Brunazzi). Fig. 36. Area ex Mon. S. Caterina, cortile centrale, la “fossa” tagliata sul basolato. Fig. 37. Frammento di anforetta medievale e frammenti di ciotola invetriata policroma. Fig. 38. Area ex Mon. S. Caterina, cortile centrale, ambiente ad Est del basolato e canaletta di secolo Fig. 39. Lucerna monolychnos a vernice nera (III sec. a.C.). Fig. 40. Planimetria del centro storico con ipotesi dello schema urbano ellenistico-romano e, in evidenza, il punto centrale dell’impianto.

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Fig. 1

Fig. 4

Fig. 2

Fig. 3

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Fig. 6

Fig. 9 Fig. 7

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Fig. 11, 12, 13 Fig. 17

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Fig. 31 Fig. 32 Fig. 33 Fig. 36

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Fig. 35 Fig. 37

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Un contributo sulla scultura lignea della prima metà del secolo XVIII in Sicilia Note documentarie inedite ed alcune precisazioni sull’attività di Pietro Marino «sculptor lignaminis» CLAUDIO GINO LI CHIAVI L’Isola di Sicilia è scrigno di un ragguardevole numero di sculture e manufatti lignei di differente qualità. Quasi tutte le opera esistenti, o anche solo documentate, sono di carattere sacro; intendendo con ciò un’ampia categoria di manufatti legati sia alla devozione che a fini funzionali precipuamente liturgici. Il legno è stato a lungo materiale privilegiato dalla committenza sia per la facilità con cui era possibile reperirlo sia perché i manufatti realizzati in tale materiale erano più agevolmente trasportabili, rispetto al marmo, per le tortuose vie interne dell’Isola. Inoltre, non è da sottovalutare la preferenza spesso accordata alle diverse essenze lignee forse anche per via della più diretta comunicatività insita nella natura calda e morbida del materiale che rende talvolta facilmente traducibili, con riferimento alla statuaria, la solennità dei gesti di Santi e Sante, le espressioni facciali, la ricchezza cromatica delle vesti e l’opulenza dei tessuti. Con la ritualità connessa alla processione l’opera diviene patrimonio di tutti, strumento identitario, rappresentazione dello spirito devoto di un intero centro; zenit di quel momento in cui il santo patrono nella sua raffigurazione materiale, nella solidità delle sue forme, nella resa dei valori espressivi è capace di farsi popolo, di annullare idealmente i particolarismi naturalmente insiti nella compagine comunitaria. Proprio la familiarità con le statue lignee ha portato ad intervenire durante i secoli su queste opere con ridipinture spesse e tenaci e talvolta con operazioni di ridefinizione formale che hanno ricoperto il manufatto originario di un involucro posticcio. Dal punto di vista della letteratura artistica locale, a lungo la statuaria lignea è stata intesa, a torto, come espressione popolaresca e pertanto non ha riscosso grande credito. Si deve al Di Marzo una rivalutazione del valore artistico di questo genere di manufatti; l’autore, nel noto testo sui Gagini1, si fa infatti portatore di una rinnovata sensibilità verso queste opere riconoscendo, alla scultura lignea, una dignità ed un interesse scientifico non minore a quello della statuaria marmorea. Il pregio e l’importanza della produzione lignea locale è stato ribadito da Teresa Pugliatti nel suo saggio introduttivo al volume Manufacere et scolpire in lignamine in cui rileva come le statue lignee presentino aspetti e valori che le distinguono dalle opere di pura decorazione o da quelle destinate ad usi pratici e, per qualità, sono spesso confrontabili, senza svantaggio, con quelle opere marmoree che hanno preso il loro posto2. Il testo appena citato * Il presente contributo si basa, in buona parte, sulla relazione dal titolo “Pietro Marino sculptor: le statue lignee di san Ciro e sant’Andrea Avellino a Caltavuturo” da me presentata il 23.12.2019 a Cefalù in occasione della IX edizione di “Arte e storia delle Madonie. Studi per Nico Marino”. Ringrazio per la cortese disponibilità Gabriele Marino, Giovanni Mendola, Paolo Russo e Rosario Termotto. 1 G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI, vol. I, Palermo 1880. 2 T. Pugliatti, La scultura lignea in Sicilia, in Manufacere et scolpire in lignamine: scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Catania 2012, pp. 23 – 32. Questo. Ed ancora, sulla scultura lignea in Sicilia si veda, P. Russo, La scultura in legno del Rinascimento in Sicilia. Continuità e rinnovamento, Palermo 2009. In generale, sulla scultura lignea del secolo XVIII, si leggano le brevi riflessioni di P. Russo, Scultura in legno nel Settecento, in Il Settecento e le arti, a Orietta Pinelli Rossi dagli allievi, a cura di S. Cecchini, S. A. Meyer, C. Piva, S. Rolfi Ožvad, Roma 2016, pp. 289 – 293. 41


rappresenta un riferimento imprescindibile per gli studi sulla produzione lignea siciliana fra Rinascimento e Barocco nonché un invito alla riscoperta ed allo studio di questo patrimonio artistico3. La letteratura artistica sull’argomento può oggi contare numerosi contributi che permettono di tracciare un catalogo per specifici territori4 o ancora di individuare un corpus di opere prodotte da un singolo artefice, botteghe o da vere e proprie dinastie versate nella lavorazione lignea5. L’ampia, e continua, ricognizione del patrimonio dell’Isola ha permesso, inoltre, di distinguere nel grande patrimonio ligneo manufatti afferenti alle arti decorative – come i fercoli, le macchine d’altare, gli arredi, che, pur se di fine fattura, rimangono perlopiù legati a fini funzionali di arredo o di pratiche liturgiche – dalle statue, portatrici di immancabili valori espressivi. Infine, l’analisi condotta sul lavoro di bottega ha consentito di mettere in luce le varie specializzazioni degli artigiani-artisti del legno, la loro versatilità, la divisione del lavoro, in regime di collaborazione, derivante dalla componente spesso polimaterica dell’opera lignea6. Tra gli scultori del legno attivi a Palermo nella prima metà del secolo XVIII annoveriamo Pietro Marino7. L’occasione per ricostruire, seppur parzialmente, il catalogo delle opere dell’artista, finora piuttosto esiguo, mi è stata data dal ritrovamento dell’inedito documento riguardante la realizzazione delle statue di san Ciro e sant’Andrea Avellino ancor oggi conservate presso la chiesetta di san Ciro a Caltavuturo. Le opere, sfuggite ad una pur attenta catalogazione già eseguita sui vari manufatti artistici del piccolo centro madonita8, furono Il corposo volume nella parte I, intitolata Contesti, offre una ricchissima disamina della produzione lignea in Sicilia dividendosi nelle sezioni Sicilia Occidentale (a cura di A. Cuccia con contributi di A. Cuccia, G. Mendola, G. Fazio, R. Termotto, S. Anselmo, G. Bongiovanni – V. Menna), Sicilia Orientale (a cura di T. Pugliatti con contributi di T. Pugliatti, G. Chillè, N. Di Bella, C. Ciolino, A. Bilardo, A. Migliorato, M. P. Pavone, A. Pettineo, G. Musolino, N. Lo Castro, S. Lanuzza - V. Buda, B. Mancuso, E. Lopatriello – A. Rapisarda – S. Rapisarda), Sicilia Centrale (a cura di P. Russo con contributi di P. Russo, O. Trovato, N. Cantella, S. Bartolozzi, G. Giugno). 4 Si vedano, oltre ai contributi contenuti nel testo Manufacere et scolpire in lignamine, già citato in precedenza, i lavori di Paolo Russo dedicati alla Sicilia centrale; P. Russo, Questioni di scultura lignea meridionale di età moderna: testimonianze, recuperi e acquisizioni culturali nella Sicilia dell’interno, in Studi, ricerche, restauri per la tutela del patrimonio culturale ennese, a cura di S. Lo Pinzino, Enna 2012, pp. 371 – 400, Idem, Scultura in legno nella Sicilia centro – meridionale. Secoli XVI – XX, Messina 2009; Idem, Diorama ligneo mazzarinese. Per la scultura e l’intaglio in legno a Mazzarino, in Percorsi di archeologia e storia dell’arte. Centro culturale Carlo Maria Carafa, Mazzarino, a cura di S. Rizzo, Caltanissetta 2009, pp. 39 – 51. Per il territorio madonita si veda, S. Anslemo, Pietro Bencivinni magister civitatis Politii e la scultura lignea nelle Madonie, Palermo 2009; ed ancora G. Fazio, La cultura figurativa in legno nelle Madonie tra la Gran Corte vescovile di Cefalù, il marchesato dei Ventimiglia e le città demaniali, R. Termotto, Scultori e intagliatori lignei nelle madonie. Un contributo archivistico, S. Anselmo, Da Giovan Pietro Ragona a Pietro Bencivinni, tutti in Manufacere et scolpire in lignamine: scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Catania 2012, pp. 197 – 244, 245 – 258, 259 – 282. 5 Si veda ad esempio l’importante disamina presentata da Giovanni Mendola; G. Mendola, Maestri del legno a Palermo fra tardo Gotico e Barocco, in Manufacere et scolpire in lignamine: scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Catania 2012, pp. 143 – 196. Fra i testi più recenti dedicati a singoli artisti, cfr. A. Pettineo – P. Ragonese, Dopo i Gagini prima dei Serpotta i Li Volsi, con un contributo di R. Termotto, Tusa 2007; P. Russo, L’ autunno del Rinascimento in Sicilia: gli scultori Giovanni Battista e Stefano Li Volsi da Nicosia, Messina 2014; G. Fazio – S. Brancati, I crocifissi di frate Umile e frate Innocenzo da Petralia, Ispica 2019. 6 Si veda G. Mendola, Maestri del legno a Palermo fra tardo Gotico e Barocco, in Manufacere et scolpire in lignamine: scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Catania 2012, pp. 143-196. 7 Sull’artista, cfr. P. Palazzotto, ad vocem Marino Pietro, in L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani. Scultura, a cura di B. Patera, vol. III, Palermo 1994, p. 215. 8 S. Anselmo, La scultura lignea, in Caltavuturo: atlante dei beni culturali, a cura di L. Romana, Roccapalumba 2009, pp. 3

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commissionate al Marino nel 1741. A novembre di quell’anno, infatti, lo scultore si obbligava con Agostino Bagnara, procuratore di Bartolomeo De Marti e Forti di Caltavuturo, «ut dicitur fare due statue una di sant’Andrea Avellino et l’altra di san Ciro d’altezza palmi sei con li suoi piedestalli all’altezza di palmi uno quali statue detto di Marino li habbia di scolpire sopra legname di tiglio … con doverci incarnare le facci, mani e piedi, e le vesti colorirle secondo richiedono le suddette statue ed il piedestallo d’ambe le statue pittarlo a pietra con li cornicetti di mistura ad oro … alli quali due statue debba metterci gli occhi di vetro9 …» da consegnarsi per il tempo di quaresima dell’anno 1742 e per un compenso di onze 2210 (figg. 1, 2). Il piccolo edificio chiesastico, in cui le statue ancor oggi si trovano, venne edificato da Bartolomeo De Marti e Forti e fu consacrato nel 174611. Le notizie biografiche sul Marino sono praticamente inesistenti. Un discrimine che ci ha permesso di provare a ricostruire, seppur brevemente, la vita dell’artefice è costituito da un atto debitorio del 1751 in cui lo «sculptor lignaminis» si costituisce debitore nei confronti di Angelo e Vincenza Parisi, marito e moglie, per la somma di onze 16 che Pietro Marino si obbliga a pagare sui beni che risulteranno alla sua morte e, se non bastassero, sull’affitto di quella casa con due botteghe esistente a Palermo collaterale alla chiesa della Madonna degli Agonizzanti nel possesso della quale dovranno succedere i nipoti Giuseppa Marino, moglie di Gaspare Cirafici, e Giovanni Marino figli di suo fratello Domenico12. Il documento ci permette dunque di appurare il distretto parrocchiale in cui l’artefice abitava, ossia quello della chiesa parrocchiale di sant’Antonio Abate, ed i legami di parentela. Nel 1749 il nucleo familiare è registrato nella «strada di san Vincenzo» ed è composto da Pietro Marino, dalla moglie Anna e da un’altra Anna Marino, ossia la cognata, all’epoca già vedova di Domenico13. Non è presente la nipote Giuseppa in quanto questa nel 1746, orfana del padre, si era già sposata con Gaspare Cirafici uscendo, così, dal nucleo familiare14. La dote venne costituita dallo zio Pietro e la sposa poté beneficiare di un legato di maritaggio di onze 20 a lei spettante come figlia di confrate della venerabile congregazione di san Giuseppe dei falegnami15. Da un’analisi del rollo dei confrati

217 – 254. 9 Sulla tecnica degli occhi di vetro si veda M. Sebastianelli – G. D’Anna, Sguardo vitreo nella statuaria lignea devozionale, in “OADI – Rivista dell’Osservatorio per le arti decorative in Italia”, anno VII, n. 13 (Giugno 2016), Palermo 2016. 10 Archivio di Stato di Palermo, d’ora in poi ASPa, Fondo Notai Defunti, d’ora in poi FND, Not. Antonino Sabella Savona, st. IV, vol. 2116, c. 667. Il saldo e la consegna della statua sono del 9.1.1742, cfr. ASPA, FND, Not. Antonino Sabella Savona, st. IV, vol. 2221, c. 450. 11 L. Romana, Chiesa esistenti, in Caltavuturo: atlante dei beni culturali, a cura di L. Romana, Roccapalumba 2009, pp. 131 – 132. 12 ASPa, FND, Not. Antonino Sabella Savona, st. IV, vol. 2149, c. 607. Nell’atto il Marino è espressamente indicato come «sculptor lignaminis»; ringrazio Giuseppa Cinzia Miceli per avermi segnalato il documento. 13 Archivio Storico Parrocchiale di sant’Antonio Abate, d’ora in poi ASPSA, Numerazione delle Anime, vol. 711 (anno 1749), c. 153. Domenico aveva sposato Anna Lo Nigro Passalacqua presso la parrocchia di sant’Antonio Abate il 9.9.1714; cfr. ASPSA, Anagrafe parrocchiale. Battesimi, matrimoni e morti, vol. 114 (anno 1714/1715), atto n. 7. 14 ASPSA, Anagrafe parrocchiale. Battesimi, matrimoni e morti, vol. 145 (anno 1745/1746), atto n. 37. 15 ASPa, FND, Not. Alberigo Pennisi, st. IV, vol. 2391, c. 447. Ed elezione per conseguire il legato di maritaggio in ASPa, FND, Not. Giuseppe M. Serio, st. VI, vol. 13355, c. 494, dal quale si apprende che Giuseppe Marino, figlia di Domenico e Anna fu battezzata nella parrocchia di sant’Antonio Abate il 3.8.1719 con i nomi di Francesca, Giuseppa, Ignazia, Gaetana e che il padre venne ricevuto nella congregazione di san Giuseppe dei Falegnami il 5.6.1693. 43


del sodalizio risulta, infatti, che Pietro e Domenico Marino furono esaminati nel 1692 ed ascritti come mastri caseggiatori ed opera di noce16. Il 22 marzo 1716 vengono stipulati i capitoli matrimoniali fra tale Pietro Marino, originario della terra di «sancti Antonini» (l’attuale Cianciana), figlio del fu Giuseppe e di Leonarda, e Francesca La Lagna, la quale, tuttavia, muore poco dopo17. Nel 1734 segue un secondo matrimonio con Anna Congiauro, vedova di Giacomo La Fasa18. Possiamo ipotizzare che i documenti rintracciati si riferiscano al nostro Pietro Marino anche alla luce del fatto che la seconda moglie si chiama Anna così come risulta negli stati d’anime del 1749. Lo scultore muore a Palermo il 14 febbraio 1755 all’età di 92 anni19. Tuttavia, occorre ribadire che questa ricostruzione biografica è solo una proposta data la presenza, in quello stesso periodo, di numerosi casi di omonimia, fra cui un certo Pietro Marino che nel 1682 viene mandato dal padre Giovanni a bottega presso l’intagliatore Pietro La Melia20. Le prime opere, ad oggi documentabili, sono sedici imposte intagliate a fogliame per quattro specchi grandi, realizzate nel 170121, e l’intaglio dei sostegni di sei boffettoni (consolle) eseguiti nel 170422, in cui il Marino viene qualificato come intagliatore. Il 7 gennaio del 1708 il nostro artefice, indicato come «sculptor», si impegna insieme agli «scriptorari» Pietro Vaccarino e Cosma Santoro ed al doratore Michele Rosciano a realizzare le panche, la predella e la spalliera lignea per la chiesa della Dame sotto titolo di Nostra Signora della Raccomandata a Porta Vicari, secondo le indicazioni dell’architetto Andrea Palma23 (fig. 3). Al 1709 risale invece la realizzazione, ad opera dei fratelli Domenico e Pietro Marino, intagliatori di legno, della custodia lignea, non più esistente e voluta da monsignor Pietro Galletti24, per l’altare maggiore della chiesa parrocchiale di sant’Antonio Abate di Palermo su disegno del sacerdote e architetto Carlo Infantolino25. Sempre nel medesimo edificio, l’artefice torna 16 Si veda P. Palazzotto, Per uno studio sulla maestranza dei falegnami di Palermo, in Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, a cura di M. C. Di Natale, Milano 2001, p. 696. 17 Il padre dello sposo risulta non essere più in vita alla data della stipula dei capitoli matrimoniali; cfr. ASPa, FND, Not. Pietro Cadili, st. VI, vol. 2837, c. 628. La restituzione della dota, stante la morte della moglie, è del 22.1.1717, la coppia non ebbe figli; cfr. ASPa, FND, Not. Pietro Cadili, st. VI, vol. 2896, c. 101. 18 Anche qui, pur mancando menzione della città di origine e indicazione dello stato vedovile, Pietro Marino è indicato come figlio del defunto Giuseppe e della vivente Leonarda; cfr. ASPa, FND, Not. Michelangelo Lo Presti, st. VI, vol. 4761, c. 482. 19 ASPSA, Anagrafe parrocchiale. Battesimi, matrimoni e morti, vol. 154 (anno 1754/1755), atto n. 138. 20 Il soggetto a quella data aveva circa quattordici, risulta dunque più giovane dell’altro Pietro Marino di cinque anni; ASPa, FND, Not. Giuseppe Bellia, st. IV, vol. 776, c. 208. Ringrazio Giovanni Mendola per la segnalazione del presente documento e per quelli indicati nelle due note immediatamente successive. 21 ASPa, Archivio Alliata di Villafranca, vol. 3062, c. 275 (19.12.1701). Il Marino riceve un compenso di onze 38. 22 ASPa, Archivio Alliata di Villafranca, vol. 3062, c. 513 (30.9.1704). Il Marino riceve un acconto di onze 8 per lavori d’intaglio dei piedi di sei boffettoni, contestualmente lo scrittorario Geronimo Vaccarino riceve onze 6 in conto del prezzo di quest’ultimi. 23 Il compenso pattuito è di 6 onze per ogni singola sedia; ASPa, FND, Not. Carlo Magliocco, st. VI, vol. 2326, cc. 849 r. – 850 v. Ringrazio Gabriele Guadagna per la segnalazione dell’inedito documento. 24 Il Galletti fu parroco di sant'Antonio Abate dal 1703 al 1723; cfr. G. Tulipano, Il cronicon parrocchiale (1931 – 1962), in La chiesa parrocchiale di Sant’Antonio Abate a Palermo. Ottocento anni fra storia, arte e vissuto religioso, 1220 – 2020, scritti di C. Gino Li Chiavi, S. Grasso, D. Lo Piccolo, G. Mendola, E. Saeli, C. Scordato, G. Tulipano, Palermo 2020, p. 202. 25 I due si obbligarono a realizzare, per un compenso di 64 onze, custodia di cipresso per l’altare maggiore, alta circa 20 palmi, con cornici di pioppo o tiglio e varie statuette di santi; cfr. G. Mendola, Otto secoli di storia, in La

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a lavorare a più riprese26 e nel 1739 s’impegna per la costruzione del coro ligneo, su disegno del sacerdote e architetto Giuseppe Fama Bussi, ancora esistente seppur spoliato dei numerosi busti che lo ornavano27 (figg. 4, 5). Il 30 agosto del 1723 monsignor Galletti viene nominato vescovo di Patti, sede che reggerà fino al 1729 anno in cui passerà alla guida della diocesi di Catania. Durante la permanenza a Patti il presule si avvale del Marino per la realizzazione di alcuni manufatti per la chiesa cattedrale di san Bartolomeo. Il 10 maggio 1724 lo scultore viene pagato onze 9 «ut dicitur di ligname, intaglio e maestria d’un tumuletto del santissimo Sepolcro per il Giovedì Santo»28; ed ancora, nel 1727 si obbliga a realizzare una custodia per servizio della cappella del Santissimo Sacramento della cattedrale di Patti, consimile a quella realizzata per la parrocchia di sant’Antonio Abate di Palermo, con quattro statue poste ai lati: san Pietro, san Paolo, san Bartolomeo e san Benedetto29. Per la medesima cappella i marmorari Gioacchino e Vincenzo Vitagliano, padre e figlio, fabbricano una balaustra marmorea uguale a quella fatta per la già citata parrocchia palermitana30. Ancora una volta, nel 1710, si registra una collaborazione fra il Marino e l’architetto Carlo Infantolino. Il 16 gennaio di quell’anno, infatti, lo scultore si obbliga con il sacerdote Demetrio Schiedà, uno dei tre deputati della venerabile cappella del Santissimo Sacramento della chiesa Madre di Piana dei Greci (attuale Piana degli Albanesi), a realizzare una custodia di legname alta dodici palmi per un compenso di 35 onze31. L’artefice, per realizzare l’opera di quadratura, intaglio e scultura della custodia del Sacramento si impegna ad utilizzare legno di castagno per il telaio, tavole di cipresso e pioppo per l’opera di quadro e legno di cipresso per realizzare intagli, grottesche, colonne, capitelli, basi, cornici, architravi, frontespizi e dentelli delle cornici32. Un’altra custodia lignea è realizzata l’anno seguente da Pietro Marino per il monastero di santa Rosalia di Palermo, oggi non più esistente. L’opera è ricordata da Antonino Mongitore nel profilo storico che traccia sul monastero, in cui scrive: «in capo [la chiesa] ha il cappellone con istruttura a semicircolo ed in esso v’ha un maestoso ciborio, o sia custodia, ricoperto d’oro per la conservazione della santissima eucaristia. Il suo lavoro che s’ammira in varie statue, colonne e varii ornamenti dell’arte, e per la sua altezza, e simetria, si fa conoscere per ogni sua parte lodevole. Nel suo mezzo si venera una statua dell’Immaculata Signora. Sopra della custodia si alza nobilissima cortina, terminante con imperiale corona, toccate d’oro: tutte fatte a disegno di Giacomo Amato fratello dei padri crociferi»33. Il 20 ottobre del 1711, infatti, il Marino si obbliga con suor Antonia Vincenza Zappulla, badessa del monastero di santa chiesa parrocchiale di Sant’Antonio Abate a Palermo. Ottocento anni fra storia, arte e vissuto religioso, 1220 – 2020, scritti di C. Gino Li Chiavi, S. Grasso, D. Lo Piccolo, G. Mendola, E. Saeli, C. Scordato, G. Tulipano, Palermo 2020, p. 62. 26 Ivi, pp. 62 – 63. 27 Ivi, p. 63 e S. Grasso, Arredo plastico e arti decorative, in La chiesa parrocchiale di Sant’Antonio Abate a Palermo. Ottocento anni fra storia, arte e vissuto religioso, 1220 – 2020, scritti di C. Gino Li Chiavi, S. Grasso, D. Lo Piccolo, G. Mendola, E. Saeli, C. Scordato, G. Tulipano, Palermo 2020, pp. 137 – 141. 28 ASPa, FND, Not. Santo Parisi, st. VI, vol. 5628, c. 1492. 29 ASPa, FND, Not. Santo Parisi, st. VI, vol. 5634, c. 350. 30 ASPa, FND, Not. Santo Parisi, st. VI, vol. 5634, c. 866. Prestano fidejussione i marmorari Francesco Durante e Giovanni Pampillonia. 31 ASPa, FND, Not. Giuseppe Portari, st. IV, cc. 131 – 134. 32 Ibidem. 33 A. Mongitore, Dell’istoria sagra di tutte le chiese, conventi, monasteri, spedali et altri luoghi pii della città di Palermo. I monasterj e conservatorj, ms. QqE7, sec. XVIII, Biblioteca Comunale di Palermo, f. 541 45


Rosalia, a realizzare, su disegno dell’Amato, una magnifica custodia semicircolare su più ordini ornata da angioletti, cherubini, tabelle, un Dio padre fra una gloria di puttini, capitelli di ordine composito, colonne alla salomonica involtate con rami di alloro, due statue – una di san Benedetto ed una di santa Scolastica – alte palmi cinque, angeli tedofori con cornucopie e tabernacolo affiancato da colonnette e sovrastato da un ciborio34. Ed ancora, il Marino, a marzo del 1717 riceve dalla badessa del monastero di santa Rosalia 40 onze per aver realizzato «l’ombrella di legname», ossia la cortina, con corona all’imperiale retta da due angeloni ed accompagnata da una teoria di putti35. Nel 1718 troviamo Pietro Marino, qualificato come «sculptor», impegnato nella realizzazione di una grande statua raffigurante un’Immacolata Concezione, già commissionatagli una prima volta nel 171636, per il sacerdote Francesco Assennato37. Nulla è detto sulla destinazione del manufatto, qui documentato per la prima volta; sappiamo solo che il committente aveva interessi, se non probabili origini familiari, ad Assoro e in provincia di Enna38. Tra il 1722 ed il 1723 lo scultore si obbliga per la realizzazione di alcune opere all’interno della chiesa di sant’Ignazio all’Olivella di Palermo. Ad aprile del 1723 infatti si registra un pagamento di onze 17 da parte del padre Giovanni Santacolomba, prefetto della congregazione dell’Oratorio, «pro attrattu et magisterio ut dicitur d’alcune figure di legname di noce aggionte all’ultimo disegno della facciata del retro del casciarizzo existente nella sacristia di nostra congregazione» e per prezzo di due angioletti posti sopra la «machinetta» dell’Ecce Homo, due leoni e otto puttini «sopra li frontispicij di detto casciarizzo»39. I lavori di ampliamento dell’armadiatura della sagrestia di sant’Ignazio all’Olivella, su disegno dell’architetto Francesco Ferrigno ed oggi non più esistente, erano iniziati nel luglio del 1722 ad opera degli intagliatori Giuseppe La Vecchia e Gaspare Bisagna, e dai mastri d’ascia Vincenzo Mondino e Salvatore Milone40. Nel 1722 il Marino si obbliga41, sempre con il Santacolomba, per la fabbrica del ASPa, FND, Not. Antonino Corselli, st. I, vol. 12733, c.c.n. (atto del 20.10.1711). ASPa, FND, Not. Antonino Corselli, st. I, vol. 12667, c. 745 v. 36 ASPa, FND, Not. Francesco Facella, st. VI, vol. 1246, c. 423 v. Ringrazio Giuseppa Cinzia Miceli per avermi segnalato il documento. 37 Il Marino si obbligava a realizzare «una statua dell’Immacolata Concezione di Maria d’altezza di palmi sei (154, 62 m) con suo zoccolo di palmi uno e nuvoli a piedi di due terzi, ita che la detta statua con zoccolo e nuvoli in tutto habbia da essere palmi setti e due terzi incirca d’altezza … con darci l’incarnatura nella faccia, mani e piedi, con li panniggi cioè la veste color di perla e il manto oltramarino …», da consegnarsi in Palermo per il mese di maggio 1719 e per un compenso di onze 24; cfr. ASPa, FND, Not. Giovanni Facella, st. IV, vol. 6576, c. 65. 38 Nella numerazione d’anime della parrocchia di sant’Antonio Abate del 1713 sono annotati il sacerdote Francesco Assennato ed il chierico Egidio Assennato; cfr. A. Lo Faso di Serradifalco, La numerazione delle anime di Palermo del 1713, parte III, Torino 2009, p. 428. In documento del 1719 Egidio è indicato come «de terra Asari»; cfr. ASPa, FND, Not. Antonino Tugnini, st. IV, vol. 5972, c. 410. Infine sappiamo che nel 1718 Francesco Assennato è beneficiario di una donazione da parte del nipote Egidio, all’epoca già presbitero, in virtù di una precedente donazione fatta da Giovanna Assennato, madre di Egidio, agli atti di notar Andrea d’Amato di Assoro; cfr. ASPa, FND, Not. Giovanni Facella, st. IV, vol. 6487, c.n.n. atto del 9.11.1718 (il sac. Francesco Assennato è indicato come zio di Egidio). 39 ASPa, FND, Not. Francesco Sardofontana, st. III, vol. 2207, c. 626. 40 ASPa, FND, Not. Francesco Sardofontana, st. III, vol. 2169, cc. 2095, 2101; cfr. C. D’Arpa, Architettura e arte religiosa a Palermo: il complesso degli oratoriani all’Olivella, Palermo 2012, pp. 88, 108 nota 105. 41 ASPa, FND, Not. Francesco Sardofontana, st. III, vol. 2169, c. 1927. L’atto dell’1.7.1722 è il contratto con cui veniva ratificata la relazione che doveva un tempo trovarsi allegata così come dimostra la dicitura «inseratur» ed il salto nella numerazione delle pagine; cfr. C. D’Arpa, Architettura e arte religiosa a Palermo: il complesso degli oratoriani all’Olivella, Palermo 2012, pp. 88, 108 nota 106. 34 35

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modello ligneo di una custodia che si dovrà realizzare, per il medesimo edificio chiesastico, con diaspri, agate, lapislazzuli e parti in rame secondo il disegno fatto in Roma da Filippo Juvarra e regolato nelle misure sempre dal Ferrigno42. Purtroppo i capitoli di fabbrica43 risultano essere stati asportati dal volume corrispondente ma sappiamo che al nostro scultore viene corrisposto un compenso di 308 onze di cui 250 per la costruzione della custodia ed 58 per aver realizzato due statue grandi raffiguranti la Speranza e la Sincerità, una statuetta della Immacolata Concezione da situarsi sopra il poso dove si esponeva il Santissimo, le statue di due evangelisti, due angeloni sopra il frontespizio ed altri intagli che non erano compresi nel disegno44. La custodia verrà dorata da Antonino Diecidue e l’architetto Ferrigno, oltre ad assistere alla costruzione, verrà pagato per aver colorato i vani dell’opera esplicitando, così, la disposizione delle pietre dure45. Seguono cronologicamente le già citate opere eseguite nella cattedrale di Patti per volere del vescovo Pietro Galletti. Filippo Meli ricorda, senza specificare il documento né la destinazione delle opere, che il Marino viene pagato nel 1724 per aver realizzato due candelieri su disegno dell’architetto Carlo Infantolino46. Da un inedito documento possiamo ricavare che detti manufatti erano destinati alla cappella della Madonna di Libera Inferni nella cattedrale di Palermo47. Sempre al Meli si deve il riferimento ad una custodia lignea che sarebbe stata realizzata dal Marino nel 1725 per il monastero dell’Annunziata di Chiusa Sclafani48. Il 19 settembre del 1724 Giuseppe Termine e Abbate, procuratore di suor Felice Aurora Termine badessa del monastero di san Benedetto di Caccamo, commissiona a Giuseppe La Vecchia, Gaspare Bisagna e Giacomo Cicio la realizzazione degli intagli necessari per la nuova custodia dell’altare maggiore del monastero de eseguirsi secondo il disegno dell’architetto Francesco Ferrigno e benvisti a padre oratoriano Giovanni Santacolomba per il quale il La Vecchia ed il Bisagna, come abbiamo visto, avevano già lavorato49. Oltre a detti mastri sono coinvolti i fratelli Giovan Battista e Martino Careri50, lo scultore Pietro Arceri – che realizzerà una statua raffigurante san Benedetto51 probabilmente posta un tempo nella nicchia centrale – e Pietro Marino. A quest’ultimo il 26 maggio 1725 vengono corrisposte 28 onze e 18 tarì 42 ASPa, FND, Not. Francesco Sardofontana, st. III, vol. 2170, c. 519; cfr. C. D’Arpa, Architettura e arte religiosa a Palermo: il complesso degli oratoriani all’Olivella, Palermo 2012, pp. 88 - 89, 108 nota 108. 43 Vedi nota 42, infra. 44 ASPa, FND, Not. Francesco Sardofontana, st. III, vol. 2170, c. 519; cfr. C. D’Arpa, Architettura e arte religiosa a Palermo: il complesso degli oratoriani all’Olivella, Palermo 2012, pp. 88 - 89, 108 nota 108. 45 ASPa, FND, Not. Francesco Sardofontana, st. III, vol. 2179, cc. 521 (Diecidue), 522 (Ferrigno). 46 La notizia viene semplicemente riportata dall’autore senza alcun riferimento documentario; cfr. F. Meli, Degli architetti del Senato di Palermo nei secoli XVII e XVIII, in “Archivio storico per la Sicilia”, vol. IV, anno 1938, Palermo 1938, p. 384. 47 Si trattava di due grandi candelieri in legno di tiglio alti sette palmi; cfr. ASPa, FND, Not. Antonino Terranova, st. VI, vol. 4607, c. 515. 48 La notizia viene semplicemente riportata dall’autore senza alcun riferimento documentario; cfr. F. Meli, Degli architetti del Senato di Palermo nei secoli XVII e XVIII, in “Archivio storico per la Sicilia”, vol. IV, anno 1938, Palermo 1938, p. 386. 49 ASPa, FND, Not. Santo Parisi, st. VI, vol. 5629, cc. 104 – 106, 112, 113. Ciro D’Arpa presenta la custodia di Caccamo come esempio di opera influenzata dal modello juvarriano realizzato per sant’Ignazio; cfr. C. D’Arpa, Architettura e arte religiosa a Palermo: il complesso degli oratoriani all’Olivella, Palermo 2012, pp. 90. 50 Vedi 14 dicembre riprendi vol. 5629 51 ASPa, FND, Not. Santo Parisi, st. VI, vol. 5629, c. 911.

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ripartite nel seguente modo: 15 onze per cinque figure alte due palmi e mezzo, 5 onze e tarì 18 per sette puttini di un palmo e mezzo, 8 onze per due angeloni di palmi tre e mezzo posti sopra le mensole ed altre 8 onze per aver fatto una colomba e dei puttini più grandi52. L’opera è da identificarsi con la custodia ancora esistente presso il monastero benedettino di Caccamo seppur mancante di numerose sculture rispetto a quanto ci restituiscono i documenti (figg. 6, 7). L’anno seguente sono riferiti al Marino i lavori per la realizzazione di due quadroni di noce nel coro dell’abbazia di san Martino delle Scale53, realizzato fra il 1591 ed il 1597 da Nunzio Ferraro e Giovan Battista Vigliante, commissionatigli durante i lavori di ampliamento dello stesso; così come peraltro confermano i conti di cassa54 (fig. 8). Nel 1729 troviamo ancora una volta il Marino impegnato nella realizzazione di una custodia. Si tratta di quella non più esistente per la chiesa parrocchiale di san Nicolò alla Kalsa in Palermo e voluta dal parroco Giovanni Bonanno e Afflitto dei duchi di Castellana che resse anche la parrocchia di sant’Antonio Abate dal 1723 al 1727 succedendo a monsignor Galletti. A marzo del 1730, infatti, lo scultore riceve 4 onze a completamento di 245 per la custodia55. Ancora una volta troviamo notizia di quest’opera negli scritti del Mongitore il quale, descrivendo l’edificio chiesastico, afferma che «in capo alla chiesa v’ha il cappellone e altare maggiore dedicato alla santissima Eucaristia con custodia di legno dorato e statua dell’Immacolata Concezione di Maria pur di legno dorato ornata pur di varie statuette di san Pietro, san Paolo e altri quattro santi»56. Proprio il Bonanno fu protettore di una congregazione fondata in san Nicolò alla Kalsa il 1° settembre del 1740, durante il suo governo, sotto titolo degli Schiavi del Santissimo Sacramento57. Il libro di introito ed esito del 1732 relativo al governo di suor Pietra Rosalia dell’Immacolata Concezione priora del monastero di sant’Anna e Teresa alla Kalsa ci restituisce una spesa di 81 onze e 10 tarì per la realizzazione di sei boffette di pietra con loro piedi intagliati di cui due grandi destinate al cappellone maggiore della chiesa e quattro più piccole per le altre cappelle58. In quest’occasione Pietro Marino riceve un compenso totale di onze 26 per aver intagliato i supporti degli stessi59. Si tratta di quei manufatti che il Garstang vuole realizzati, erroneamente, ASPa, FND, Not. Santo Parisi, st. VI, vol. 5630, c. 1555. Si tratta dei pannelli con le visioni di santa Scolastica e san Benedetto. All’ampliamento del coro lavorò anche Nunzio Di Paola; cfr. A. Lipari – U. Mirabelli, Il coro dell’Abbazia di san Martino, Palermo 1985, pp. 98 – 99; Il coro ligneo di san Martino delle Scale: un tesoro da riscoprire, scritti di S. Campanella, A. Lipari, C. Scordato, Palermo 2006, p. 81. 54 ASPa, Corporazioni religiose soppresse. Abbazia di san Martino della Scale, I fondo, vol. 1155 (spese dell’anno 1725/1726), cc. 141 – 142 v. A gennaio del 1726 si pagano onze 4 a Pietro Marino scultore sono in conto delle onze 20 per i due quadroni di noce che sta facendo per il coro del monastero ed onze 36 a mastro Nunzio Di Paola, intagliatore, in conto delle onze 64 se gli devono per l’accrescimento del coro. 55 ASPa, FND, Not. Cristoforo Ragusa, st. IV, vol. 4245, c. 593. 56 A. Mongitore, Dell’istoria sagra di tutte le chiese, conventi, monasteri, spedali et altri luoghi pii della città di Palermo. Le parrocchie, ms. QqE4, sec. XVIII, Biblioteca Comunale di Palermo, f. 133 (inserto). 57 ASPa, FND, Not. Emanuele Merito, st. VI, vol. 4101, c. 586 (capitoli di fondazione). 58 ASPa, Corporazione religiose soppresse – monastero di sant’Anna e Teresa, introito ed esito, vol. 169, c.n.n., «spese di chiesa e sagrestia» del marzo 1732. 59 Ibidem. Il prezzo di tutti i tavoli, compresi i lavori di doratura, applicazioni di cristalli nei supporti dei due più grandi destinati al cappellone, realizzazione di fodere di legname per la conservazione, ascendono infine ad onze 115, tarì 27 e grani 14. Nello stesso conto si rileva che tarì 20 furono pagati ad un pittore per aver incarnato le teste degli angeli dei due piedi delle boffette destinate al cappellone. I piani, in pietra del Monte Pellegrino, furono realizzati 52 53

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intorno al 1729 e su probabile disegno di Giacomo Amato60. Un ulteriore boffettone è commissionato allo scultore fra il 1733 ed il 1734 dalla venerabile società del Santissimo Salvatore di Palermo nella contrada dei Tartari per servizio della loro sede61. Ancora un ulteriore ed inedito documento ci permette di ascrivere al Marino almeno uno dei due magnifici angeloni che si osservano ancor’oggi sullo sfarzoso altare maggiore della chiesa del monastero di santa Caterina d’Alessandria di Palermo (figg. 9, 10). Il 3 giugno del 1735 infatti lo scultore si obbliga con suor Pietra Vittoria Corvino, priora del monastero, a realizzare un angelone di legname di cipresso alto sette palmi62. Contestualmente, per la realizzazione del secondo, si impegnava lo scultore Michele d’Orlando63. Al 1738 risale invece la realizzazione di trenta statuette di legname, trenta medaglie e trenta tondi con l’impronta delle anime del santo Purgatorio ad ornamento del casciarizzo della sagrestia della chiesa di san Matteo al Cassaro di Palermo, così come già documentato dal Daddi64. Un inedito documento ci permette oggi di restituire a Gaetano Calandra la struttura dell’armadiatura in noce e la realizzazione delle tabelle, dell’altare, del tabernacolo e della coltre con corona all’imperiale; opere eseguite su disegno dell’architetto Francesco Ferrigno65 (figg. 11, 12, 13). Ad oggi l’immagine del telaio architettonico che sparisce dietro la lussureggiante decorazione di intagli e sculture è un ricordo lontano. Gli armadi risultano spoliati della teoria di busti dall’aspetto ieratico che guardavano i sacerdoti prepararsi alla messa. Una pesante vernice nera soffoca e chiude alla vista anche l’ultima possibilità di cui potrebbe godere l’osservatore: l’immagine suggestiva, la luminosità ed il calore del legno. Un urgente lavoro di restauro del casciarizzo restituirebbe, parzialmente, all’osservatore la preziosità del luogo, seppur non più quella che si osserva in un dipinto degli anni ‘20 del secolo XX di Salvatore Maddalena (fig. 14). Nel medesimo periodo, come si evince da una dichiarazione del 1742, Pietro Marino viene pagato onze 4 dal sacerdote Leonardo Lentini per aver realizzato una statua raffigurante San Giuseppe, probabilmente di piccole dimensioni, della quale il documento non restituisce la collocazione66. Il manufatto fu dipinto da Gaspare Giattino mentre il falegname Giacomo Genua si occupò della realizzazione della nicchia67. Al 1743 risale invece la realizzazione della statua, già documentata, di San Giovanni Battista voluta dal sacerdote Giovanni Collura per la chiesa madre di Bisacquino ed ancor oggi esistente68 (fig. 15). A dicembre del medesimo anno il Marino si impegna con i rettori della confraternita di san Giuseppe dei falegnami di Palermo a scolpire due statue raffiguranti Davide e Giacobbe, alte sette palmi, per servizio della cappella di san Giuseppe nella chiesa dei padri da «mastro Gioacchino il marmoraro», forse Gioacchino Vitagliano. 60 D. Garstang, Giacomo Serpotta e gli stuccatori di Palermo, Palermo 1990, pp. 298, 299 nota 14. L’autore, pur citando il documento che si è riportato alle note 52 e 53, legge erroneamente la data. 61 ASPa, FND, Not. Giuseppe Rizzo Magazzù, st. VI, vol. 15206, c. 260 v. 62 ASPa, FND, Not. Antonino Sabella Savona, st. IV, vol. 2098, c. 617. 63 ASPa, FND, Not. Antonino Sabella Savona, st. IV, vol. 2098, c. 617 v. 64 G. Daddi, S. Matteo vecchio e nuovo: le due chiese, 1088-1633 e l’Unione del Miseremini, Palermo 1916, p. 144. 65 ASPa, FND, Not. Giuseppe M. Serio, st. VI, vol. 13349, c. 699. 66 ASPa, FND, Not. Antonino Falcone, st. II, vol. 2074, c. 243. 67 Ibidem. 68 A. G. Marchese, La chiesa madre di Bisacquino: artisti, maestranze e committenti dal Cinquecento al Settecento con documenti inediti, Bagheria 2008, pp. 85 – 86; F. R. Margiotta, Tesori d’arte a Bisacquino, premessa di M. C. Di Natale, fotografie di E. Brai, Caltanissetta 2008, p. 47. 49


Teatini. Contestualmente il falegname Giovanni Calandra si obbliga a realizzare la basi in legno di tiglio da «accordare alle machinette» e far colorire le due statue a finto marmo69. Le due sculture, oggi irrintracciabili, esistevano ancora nel 1858 anno in cui Girolamo Di Marzo Ferro dava alle stampe la sua Guida Istruttiva, esemplata su quella di Gaspare Palermo, in cui si legge nel paragrafo relativo all’edificio chiesastico dei Teatini: «fiancheggiano la nicchia dell’altare [di san Giuseppe] le statue di legno di due Profeti, che imitano il marmo bianco»70. Infine, le ultime due opere che, allo stato attuale delle ricerche, siamo in grado di documentare sono una statua destinata alla chiesa della Magione, non più esistente, e la coppia di angeli tedofori che ancor oggi si possono ammirare nella chiesa della Madonna degli Agonizzanti di Palermo. Il 29 aprile del 1746, infatti, Pietro Marino riceve dal sacerdote e dottore in sacra teologia Gaspare Carrara «uti depositario omnium introitum et elemosinarum venerabilis cappelle Nostre Domine Pietatis», fondata nella chiesa della santissima Trinità di Palermo, onze 11 e tarì 15 «pro pretio actractu et magisterio statue lignaminis Virginis Addolorate confecte pro servitio dicte cappelle»71. A distanza di quattro mesi l’artefice, definito questa volta nell’atto «intagliator lignaminis», viene pagato dal marchese Biagio Drago, tesoriere e procuratore della venerabile congregazione di santa Maria degli Agonizzanti, onze 10 «pro pretio ut dicitur di due angioli di legno per torciere per servitio dell’altare maggiore di detta venerabile chiesa»72 (fig. 16, 17).

69 ASPa, FND, Not. Santo Parisi, st. VI, vol. 5666, c. 661, 669. Ringrazio Giovanni Mendola per la segnalazione del documento. 70 G. Di Marzo Ferro, Guida istruttiva per Palermo e suoi dintorni riprodotta su quella del cav. Gaspare Palermo, Palermo 1858, p. 474 71 ASPa, FND, Not. Antonino Sabella Savona, st. IV, vol. 2225, c. 410. 72 ASPa, FND, Not. Antonino Sabella Savona, st. IV, vol. 2225, c. 611. Sull’opera si veda anche la scheda di restauro redatta da Mauro Sebastianelli; cfr. M. Sebastianelli, Restauri al Museo diocesano di Palermo: schedatura e raccolta dei dati tecnico-conservativi, Palermo 2018, pp. 167 – 173.

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Le figure 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.

Pietro Marino, san Ciro, chiesa di san Ciro, Caltavuturo (PA), 1741 (ph. Salvatore Brancati). Pietro Marino, sant’Andrea Avellino, chiesa di san Ciro, Caltavuturo (PA), 1741 (ph. Salvatore Brancati). Emanuele Giannone, Interno della chiesa delle Dame in via Maqueda (serie oro, lastra 87), ultimo decennio del secolo XIX, coll. Museo Pitrè, Palermo. Pietro Marino, particolare del coro della parrocchia di sant’Antonio Abate, chiesa di sant’Antonio Abate, Palermo, 1738 (ph. Nicola Di Giorgio). Pietro Marino, san Norberto, coro della parrocchia di sant’Antonio Abate, Palermo, 1738, part. (ph. Roberto D’Angelo). Pietro Marino ed altri, Custodia, altare maggiore del monastero di san Benedetto “Badia”, Caccamo (PA), 1724 (ph. Santo Galbo, database Ass. culturale BC Sicilia – sez. di Caccamo). Pietro Marino, Angeli tedofori, custodia del monastero di san Benedetto “Badia”, Caccamo (PA), 1724, part. (ph. Santo Lo Galbo, database Ass. culturale BC Sicilia – sez. di Caccamo) Pietro Marino, quadrone ligneo con la Visione di santa Scolastica, coro dell’abbazia di san Martino delle Scale, Palermo, 1725, part. (ph. Claudio Gino Li Chiavi) Pietro Marino, Michele D’Orlando, coppia di angeli, altare maggiore del monastero di san Caterina d’Alessandria, Palermo, 1735 (ph. Claudio Gino Li Chiavi). Pietro Marino o Michele D’Orlando, Angelo, altare maggiore del monastero di santa Caterina d’Alessandria, Palermo, 1735, part. (ph. Claudio Gino Li Chiavi). Gaetano Calandra, Pietro Marino, Armadiatura, sagrestia della chiesa di san Matteo, Palermo, 1737-1738, Palermo (da Daddi, 1916). Pietro Marino, Medaglie con figure di profeti e tondo con le Anime del Purgatorio, armadiatura della sagrestia della chiesa di san Matteo, Palermo, 1738, part. (ph. Claudio Gino Li Chiavi). Pietro Marino, Busto, armadiatura della sagrestia della chiesa di san Matteo, Palermo, 1738, part. (ph. Claudio Gino Li Chiavi). Salvatore Maddalena, La sagrestia della chiesa di san Matteo, Palazzo Comitini, Palermo, anni ‘20 del secolo XX (ph. Enrico Ciulla). Pietro Marino, san Giovanni Battista, Duomo di san Giovanni Battista, Bisacquino (PA), 1743, (da Margiotta, 2008). Pietro Marino, coppia di angeli tedofori, chiesa della Madonna degli Agonizzanti, Palermo, 1746 (ph. Mauro Sebastianelli). Pietro Marino, coppia di angeli tedofori, chiesa della Madonna degli Agonizzanti, Palermo, 1746, part. (ph. Mauro Sebastianelli).

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Fig. 1

Fig. 2

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Fig. 4 Fig. 3

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Fig. 9

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Fig. 15 Fig. 14

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Fig. 16

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Giuseppe Dattolino, Faber lignarius opere dulcis civis Panhormi Appunti e documenti (1614-1624) ARTURO ANZELMO L’arte dell’intaglio in legno, con la quale convenzionalmente indichiamo manufatti in cui la stessa figura umana assume caratteri decorativi, non è lontana o estranea alla realizzazione di oggetti (solitamente a tutto tondo) che definiamo scultura lignea e con la quale non di rado, nella rappresentazione di immagini di culto, si confonde nel tradizionale manufatto del fercolo, nelle custodie, ha in Sicilia nobilissima tradizione. Gran parte di questa produzione origina dalla committenza religiosa ed è destinata ad uso processionale, cosa che porta ad utilizzare legni come il pioppo, o ad usare particolari tecniche per alleggerire il corpo della scultura atteso che solo eccezionalmente si fece ricorso a macchine di grandi dimensioni non più portate a spalla ma trainate. Se il Quattrocento e la tarda Rinascenza hanno lasciato esempi di notevole eccellenza (gli stalli corali della Cattedrale palermitana, del coro della chiesa abbaziale di San Martino delle Scale, il gonfalone tusano oggi presso la Galleria di Palazzo Abatellis), il primissimo e il più maturo Barocco rappresenterà per l’intaglio in legno, che si arricchisce di estese, totali, dorature che ne esaltano le potenzialità espressive a gara con lo stucco, del ferro battuto e del bronzo, snaturandone però, se vogliamo, quel valore che oggi riapprezziamo, legato al segno della sgorbia e che, nell’esaltare le intrinseche qualità della materia, ne distingue notevolmente le caratteristiche stilistiche, uno dei più floridi periodi della produzione. Sconosco la fine della custodia eseguita dal Dattolino per la chiesa di San Giovanni Battista a Castell’a Mare in Palermo; da quanto emerge dall’atto d’obbligo è ragionevole pensare che la diversità dei materiali lignei indicati per l’opera da farsi, è dettata dalla necessità di calibrarne le proprietà fisico-tecniche in funzione della destinazione nel corpo della macchina artistica: il tiglio può essere utilizzato per i partiti decorativi, il faggio per i telai portanti, l’abete per pianali, fasciature o, infurre. Solo nel caso di arredo tale diversità può essere dettata dalle suggestioni cromatiche della materia. Solitamente il fercolo veniva trattato con estese dorature ed il ricorso a notazioni cromatiche naturalistiche, sia per la definizione di figure che di ornati. Occuparsi di intaglio ligneo, entro brevissimi termini temporali e limitatamente ad un operatore palermitano, se pure è già ricca la bibliografia anche per quell’ambiente madonita il cui fascino (foss’anche per la stessa suggestione che la regione con i suoi boschi o, forse più, per quanto evocano nomi come quelli dei Li Volsi o di Frate Umile da Petralia) non sembra peregrino se pensiamo a quanto si andrà in questi anni realizzando nell’ambito degli ambienti religiosi, del clero, delle confraternite, supportate dalle indicazioni e dai suggerimenti della dottrina Cattolica rinnovata dal Concilio tridentino o, negli ambienti borghesi e nobiliari. Penso ad esempio a quella che dovette essere un’opera di intaglio veramente splendida, la trabacca che il 20 marzo 1629 Pietro Ciaccio si obbligò ad eseguire per Pietro lo Seggio nella quale rappresentare tra l’altre un’Annunziata e le Vergini Palermitane. Doveva essere di longheza et largheza uno terzo più dell’ordinario et (le) tavole … à gusto et volontà di detto di lo Seggio. Quindi un pezzo che per le sue stesse dimensioni, ornato di colonne e vari intagli, di pezzi che ne permetteranno la successiva finitura con un cortinaggio, dovette apparire veramente monumentale. È evidente come il committente a parte i suggerimenti iconografici, entra in merito 57


alla qualità del legname dimostrando competenza e gusto nella scelta delle essenze lignee, probabilmente più in senso estetico che tecnico. Al di la delle decorazioni che invaderanno le parti del prestigioso pezzo che sottendono anche la necessità di rappresentazione del proprio status, i temi delle figurazioni sembrano aderire a quell’ideale di ricostruzione, reinvenzione dell’immagine della capitale isolana attuata non solo attraverso lo scoperto paganesimo della Fontana Pretoria quanto anche per mezzo dell’immaginario religioso; e qui non possiamo non pensare al ridisegno dei quartieri della città: il riassetto ed il prolungamento della via marmorea, l’apertura della via Maqueda e la realizzazione dei Quattro Canti con l’elaborazione di un programma iconologico e linguaggi semantici tesi a coniugare, nel Teatro del Sole, politica, mito, religiosità, della fidelissima et fœlicissima urbis attraverso la manipolazione di lessici della tradizione locale e di apporti esterni, con riferimento non solo ai tramiti propri dell’arte, quanto ai processi di europeizzazione che investono la società, per cui si aprono, non solo in via ipotetica o per comparazione, aspetti anche nuovi se pensiamo ai tradizionali rapporti con la Spagna, con le Fiandre, o con le più vicine Genova, Roma e Napoli quanto, ad esempio, con la Francia. E bisogna pensare non solo al diretto apporto di artisti extraisolani (fenomeno per altro osservato per tutto l’arco del ‘500 ed oltre) quanto, unitamente, alla circolazione di incisioni ed all’afflusso ormai ininterrotto di manualistica ed edizioni librarie i cui prodotti valicano facilmente i confini nazionali. È di qualche decennio appena precedente a quella porzione dell’attività del Dattolino che qui si documenta, il raro quanto interessante inventario della bottega del librarius pisano Achille Piffari. Vero e proprio spaccato della cultura palermitana di fine Cinquecento e, per quanto qui ci interessa, non si può non sottolineare in esso la presenza di edizioni quali il trattato vitruviano e quello dell’Alberti ma, anche una Prospettiva del Porta (probabilmente il noto prospettico Giuseppe del quale non si hanno notizie in ordine a tale sua attività) o sul significato dei colori. Non è facile, né a prima vista utile, occuparsi di un artista del quale, se pur prestigiosa, rimane appena un’opera documentata; e per il Dattolino la cosa si complica se si pensa che di quest’opera, non del tutto originale, la parte più interessante, quella cioè che può permettere letture critico-estetiche o iconografiche, risulta eseguita da un collaboratore. La poca messe di documenti raccolti intorno a questo artista, ci ha messo a disposizione elementi tali però, per cui vale seriamente la pena occuparcene, con rammarico semmai, per la perdita di opere che ci avrebbero permesso di scoprire questo faberlignarius come uno dei più importanti operatori palermitani nel settore dell’intaglio in legno, della produzione di manufatti che, le stesse non sempre facilmente interpretabili descrizioni degli atti notarili lasciano immaginare come prodotti utili ai fini di una indagine conoscitiva della partecipazione all’evolversi del linguaggio dell’arte, in un periodo particolarmente fecondo in Sicilia, non solo in ordine alla possibilità di un censimento degli operatori, quanto per capire quali e di che spessore siano gli apporti della cultura isolana alla maturazione delle esperienze dell’arte nel primo Barocco, quanto e di che qualità siano i riflessi delle cosiddette arti maggiori, nelle attività artigianali o delle cosiddette arti minori e quanto, l’evolversi del gusto, abbia attiva partecipazione negli ambienti più o meno colti della società. Per altro dove queste sviluppano una propria sintassi senza imitarne i prodotti, spesso realizzano oggetti di squisita armonia e l’uso ripetitivo di fraseggi inventa motivi tipici, diventa quindi linguaggio autonomo. Intorno alla figura di questo artista-artigiano palermitano unica notizia certa l’esecuzione degli stalli corali per la parrocchiale di Santa Maria Maddalena in Ciminna. Nel 1990, ripercorrendo 58


le stesse fonti del Graziano, ma consultando le scritture della Matrice rinvenivo non solo copie degli atti citati ma, venivano alla luce le varie vertenze che portarono il Dattolino, che si era impegnato per contratto del 19 ottobre 1614 obbligandosi a consegnare il lavoro entro due anni, a definire solo parzialmente il lavoro che fu stimato il 16 settembre 1619 ma veniva fuori come se pure il Dattolino è da considerare l’esecutore del disegno, la parte rilevante ai fini di una valutazione, venne eseguita dal palermitano Francesco Amari che gli si impegnò per atto in notar Michele Mirabella del 26 luglio 1615 ad eseguire tutti gli intagli. Altre inadempienze si accumularono se il choro venne ultimato con la infurra e finimento (postergale e cimasa) dall’intagliatore e modellatore ciminnese Bartolomeo Brugnone e, solo dopo decenni, fu eseguita dal fratello Vincenzo l’incancellata con alti balaùstri che chiude lo spazio presbiteriale dell’antititolo tra la solea, dov’è sistemato il coro, ed i piloni della tribuna a separazione degli spazi liturgici delle absidi laterali molto probabilmente a seguito di una rimoduluzione degli spazi che comportò lo spostamento dell’intero manufatto. Il coro ciminnita se pure con ampie citazioni dell’altro più famoso di San Martino delle Scale, com’è stato già fatto osservare da Filippo Meli, pone in maniera non peregrina il quesito sulla figura di questo artefice. La Matrice ciminnita, la cui ricostruzione era stata ultimata verso il 1550, in quegli stessi anni per opera della Maramma, della Comunia dei sacerdoti, delle Confraternite e dei patronati delle cappelle, aveva già dato corso all’ambizioso progetto di arricchimento del suo patrimonio artistico, volgendo attenzione verso gli operatori più rinomati sulla piazza palermitana. Qualche decennio prima, la committenza privata si era rivolta al Wobreck per la copia dello Spasimo che si pose sull’altare delle eredi di Andrea Constantino e per esse i rispettivi consorti, Vito Abbinanti, Vincenzo Musca e Leonardo Facella cui di fatto fu concesso l’altare; più tardi la Confraternita del Sacramento fa eseguire dall’argentiere Filippo de Pino una sontuosa custodia del prezzo di 400 onze e, nel 1600, la Maramma si rivolge all’organaro Raffaele la Valle per uno strumento, poi arricchito di un pregevole fastigio eseguito da Francesco Barberi e si avviava a contrattare la sontuosa machina della Tribona maggiore con Scipione Li Volsi. Un programma che si attua nel lungo periodo: dobbiamo riferire alla seconda metà del ‘600, il completamento dell’apparato decorativo non solo con la decorazione delle absidi minori già avviata tra la fine del terzo e l’inizio del quarto decennio, quanto con l’invenzione già barocca delle due grandi cornici a stucco sulle pareti terminali delle navi minori cui probabilmente (almeno per quella settentrionale) lavora il giovane Serpotta. Programma che non sarà interrotto dopo le disastrose conseguenze del terremoto dell’undici gennaio 1693 quando, dopo i primi interventi di consolidamento, si coglierà l’occasione, per procedere ad un riammodernamento in linea con il gusto dell’epoca, ricorrendo molto probabilmente al consiglio se non all’opera del più grande dei figli di questa Terra, l’architetto del Senato Palermitano don Paolo Amato. Azioni che possiamo far risalire alla fine del XV secolo quando per grande parlamentum per multum spectabilem presbiteros dominum officiales clerum et populum et universitatem preditte terre chiminne cum edificaretur et de novo construeretur major ecclesia ditte terre et inceptum fuerit magnum edificium, frase che riportata nel contesto di un atto di natura economica (la vendita di immobili ma anche la devoluzione di arredi di pregio per far fronte alle spese) lascia percepire, il peso simbolico stesso della volontà «di volersi avvalere delle suggestioni e del prestigio dei segni dell’arte» quale strumento di rappresentazione dello status commune.

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È da ipotizzare pertanto, come al di là di ogni inconveniente nell’iter realizzativo dell’opera, che i marammieri ciminniti, preti e laici di vasta cultura, forti di aderenze negli ambienti politici ed ecclesiastici ma anche artistici palermitani, si siano rivolti ad un operatore di provata esperienza a garanzia del buon esito del progetto. Ma vi è di più, il semplice fatto di aver trovato tra le carte ciminnite l’atto d’obbligo tra la Maramma e il Dattolino, al di la della precisazione circa il luogo stesso della esecuzione lascia intuire come a questo punto la committenza, se pure formalmente estranea al rapporto di lavoro tra i due maestri esige che l’Amari lavori a Ciminna e ne dovette vagliare ogni risvolto; e se, a stima avvenuta, al Dattolino inadempiente si concede dilazione in ordine alla restituzione di somme anticipate, si può credere che, nonostante tutto, l’opera sia stata di completo soddisfacimento della committenza, responsabilizzata non solo verso l’amministrazione quanto verso la stessa popolazione o, di quella non esigua cerchia della borghesia che sappiamo sensibile in questo settore che in fondo indirettamente la rappresentava. Al di la delle inventioni dei vari pezzi, sulla cui originalità possiamo nutrire qualche riserva, anche se il linguaggio nell’uso diffuso delle targhe, dei piccoli frixi dei dossali degli stalli, rimanendo sostanzialmente legato alla imaginerie rinascimentale, ne sviluppa le potenzialità espressive con anticipazioni che vireranno in chiave plastico-architettonica, come parte di un linguaggio che matura attraverso un anticlassicismo che assimila forse esperienze d’oltralpe, verso le espressioni del primo Barocco; e qui gli apporti del lessico elaborato negli ambienti fiorentini sembra avere comunque preponderanza seppure con letture o veicolazioni a volte indirette. Ciò che incuriosisce, anche per la non chiara ed inequivocabile interpretazione che possiamo dare al linguaggio ed alla terminologia stessa usata dagli antichi notai, è come il Dattolino al di là della generica qualifica di magister, non venga mai qualificato come intagliator lignaminum, termine che al nostro orecchio, nel tradursi nel contemporaneo intagliatore, scultore in legno, meglio interpreterebbe il concetto del fare che possiamo averne. Più sovente lo troviamo con la qualifica di faber lignarius, che riduttivamente traduciamo con falegname, ebanista, ma non è raro il caso in cui, come nel contratto d’obbligo per l’opera ciminnita non gli venga attribuita nessuna qualifica specifica oltre a quella di magister e solo una volta viene definito fabro lignario opere dulcis, termine che quell’aggettivo porta a far tradurre in uno più consono al nostro intendere, a monte di un volere che cerca una definizione “nobilitante” per qualificare un operatore artistico, anche se la nostra concezione dell’artista è difficilmente riferibile ad ognuno d’essi, salvo pochissimi. Ma sicuramente qualificante appare l’incarico di estimatore, compito che è d’obbligo pensare affidato a persona di comprovata e riconosciuta esperienza, che ricopre in contraddittorio con maestro Domenico Dionisio posto dai maestri Giuseppe Sottile e Giovanni Antonio Sanchimenti, quando il 6 maggio 1623, viene nominato esperto, da parte della Pia Unione del Miseremini, per la stima di un casciarizzo di noce nella sacrestia della Chiesa di San Matteo al Cassaro, che viene concordemente valutato per onze 67.12, prezzo che lascia sottintendere l’esecuzione di un arredo di carattere monumentale o di elevata qualità artistica per ricchezza d’intagli. La passata esperienza del coro ciminnita ed altre successive imprese, danno l’impressione che il Dattolino agisca più che da artigiano da imprenditore, per la capacità che ha di attirare a se incarichi anche notevoli che poi porta a compimento servendosi di collaboratori esterni 60


(attività che indirettamente potrebbe essere comprovata dall’ipotesi di una discreta posizione economica). È certo che, dopo la chiusura della vertenza con la committenza ciminnita, tra agosto ed ottobre del 1620, ha necessità di prendere in affitto alcune botteghe tra la contrata Lactarinorum e la strata sancti francisci de Assisa, segno evidente del crescere degli impegni di lavoro. L’ipotesi resta confermata anche dall’afflusso di manovalanza; il 15 marzo 1621 il faberlignarius Giovanni Castelli gli mette a bottega il fratello Battista di quattordici anni e il 9 novembre 1623 il faberlignarius Battista Ficardo, alloca presso il nostro il nipote Giovanni de Avami (o Avanni) di diciotto anni, salvo a pensare che il giovanotto a quell’età, fosse già in possesso dei primi rudimenti dell’arte magari impartirgli dallo zio che, certamente, riconosce come presso il Dattolino poteva avviarsi a raggiungere quei risultati che forse la sua modesta levatura, o la sua povera impresa, non potevano assicurargli. E certamente una cosa è chiara, la bottega del Dattolino è attiva in un settore che non è quello della pura e semplice falegnameria, sicuramente non si adatta solo a fare madie, porte, finestre, cascie per i corredi nuziali ma, opera nel più raffinato settore della produzione artistica, affiancato da collaboratori esterni di fiducia quali il Mastruczo per la doratura e l’Amari per la esecuzione di partiti figurativi o esteticamente impegnativi. Ed è comunque da rilevare, come l’assenza di indicazioni in ordine alla fornitura dei progetti d’opera, i disegni, nel lasciare ampio margine per riferirne al Dattolino l’elaborazione, non può non farci pensare ad un operatore capace non solo di controllo e di valutazione dell’attività delegata, quanto all’altezza di competenze concettuali proprie della figura dell’artista come oggi la intendiamo. Qualche anno dopo la travagliata vicenda del coro di Ciminna l’attiva bottega del Dattolino sembra orientarsi verso la produzione di arredi sacri di una certa consistenza, il 14 luglio 1621 si obbliga al Padre Alfonso la Tillo, superiore dei chierici minori della chiesa di San Marco, ad eseguire una elaborata custodia secondo il disegno fornito e secondo quanto ordinerà il Sig. Giacomo Soliti. Opera che se pure non riusciamo pienamente ad immaginare, la descrizione dei partiti e degli intagli da eseguirsi lascia quasi enucleare dalla stessa carta notarile, un prodotto collocabile ancora nell’ambito della produzione della Maniera per quell’uso del disegno di lavoro Corinto ma certamente a motivi protobarocchi alludono il balaostato terminale e gli scudi intagliati o le ghiere degli archi, i risalti, decorati con pendenti frattoli seu trofei ed i vase scannellati… compartiti secondo logiche che richiamano i moduli approntati per la realizzazione effimera degli archi trionfali del Collipietra, dello Smeriglio, del La Barbera, del Novelli stesso, che conosciamo attraverso le note incisioni, ma il richiamo va senz’altro alla custodia lignea che nel 1607 il napoletano Giovanni Ruggeri ed il ligure Stefano Fogliarino, su progetto di Mariano Smeriglio, si obbligavano ad eseguire per la chiesa di S. Francesco d’Assisi in Palermo. In questi anni il Dattolino viene coinvolto nel progetto decorativo della cappella di donna Eleonora Osorio, moglie di don Paolo Gisulfo, nella chiesa di Sant’Agostino, che vedeva contemporaneamente impegnati, il pittore messinese Alfonzo o Alonso de Lazzaro (sulla cui attività palermitana poco conosciamo) e lo scultore Giovanni Giacomo Cirasolo, il primo per la pala d’altare il secondo per la realizzazione del monumento funerario. Il 19 maggio 1623 per atto presso notar Gian Vito Lauro si obbliga a donna Eleonora a farci un ornamento di quatro di nuci deorata conforme al disigno e comunque in conformità alle dimensioni della pala che sta dipingendo il de Lazzaro che darà le opportune istruzioni e con i rispettivi riquadri in cui andranno collocati li quatretti di li misteri. Il Dattolino si era obbligato ad iniziare a giugno e consegnare l’opera entro agosto veniente ma sicuramente non mantiene a pieno gli 61


impegni se, solo il 15 novembre 1623, il doratore Bongiovanni Mastruczo gli si obbliga ut dicitur toccare di oro et diorare quello (ornamento di) quatro che (il Dattolino) si obligau… fare a D. Paulo Gisulfo. L’opera, sulla cui reale consistenza non abbiamo che le brevi indicazioni dell’atto d’obbligo che la fanno intravedere come una complessa cornice con riquadri in cui dovevano collocarsi delle storiette (misteri), venne consegnata entro il 17 maggio 1624, data in cui risulta avvenuto pagamento delle restanti somme a saldo e la collocazione nella cappella. Almeno tipologicamente, sia la tela del Lazzaro che la cornice approntata dal Dattolino, sono inquadrabili nel gusto della tarda Maniera, quando era ancora in voga l’uso di dipinti in cui ad un soggetto centrale si affiancavano piccoli riquadri con episodi della vita del santo o, se l’opera aveva per soggetto la Vergine o Cristo, storie tratte dai Vangeli. Le storiette venivano perciò indistintamente indicate con il termine di miracula, istoriæ o misteria. Oltre il maggio 1624 non ho trovato più documenti che riguardano l’attività del Dattolino che presumibilmente muore durante la terribile epidemia di peste che quell’anno colpì la Sicilia e Palermo in particolare, per cui, se mai fu finita, l’ultima opera resterebbe l’esecuzione di una custodia di lignami di tiglio chiuppo favo abito di grandezza di pieno con tutta la croce di pal. 13 et di larghezza di pal. 6 ½ Incirca con soi colonni et lu pedistallo lavorato in menzo l’arco con san petro et s.n paulo allato lavorata et benfatta conforme e lo disigno, che il 17 gennaio1624 si obbligò ad eseguire per il sergente Giovanni Adriano rettore e tesoriere della chiesa di San Giovani Battista nel Castell’a Mare. Forse per i primi sentori del calamitoso morbo, già inadempiente ai termini contrattuali che ne prevedevano la consegna entro il primo aprile, il 16 di quel mese, ricorre tardivamente all’aiuto di Francesco Amari, il collaudato collaboratore del coro ciminnita, per la esecuzione delle dui figuri una di san petro e l’altra di san paulo con soi capitelli e terzi con soi colonne intagliati… ed ha certamente fretta se alle solite condizioni aggiunge, alia elaps diebus quatuor et dittus obligatus non incipiet predittum opus teneatur ad omnia damna. Opera che per l’assenza del manufatto o di un suo disegno non possiamo purtroppo valutare ma che sicuramente, per le sue stesse proporzioni, è da intendere monumentale se posta su un altare, ammesso che non si debba pensare ad un vero e proprio fercolo processionale sul tipo del cilio entro cui collocare un simulacro esistente, cosa cui induce a pensare la presenza di un pedistallo oltre che della croce terminale e la dimensione in larghezza, utile ad adattarsi all’ampiezza media di un portone di chiesa. Bisogna pensare poi che, tali fercoli non avevano allora uno zoccolo al di sotto dei fori in cui si introducevano i cosiddetti castagnoli che servivano al trasporto a spalla, postura che “in azione” avrebbe portato il manufatto ad avere un’altezza d’oltre quattro metri e cinquanta dal suolo.

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REGESTO DEI DOCUMENTI RELATIVI ALL’ATTIVITÀ DI Giuseppe Dattolino tra il 1614-1624 Ciminna 19.10.1614. Per atto in notar Francesco La Vignera, si obbliga ad eseguire gli stalli del coro della Matrice di Ciminna secondo il disegno da lui stesso fornito. Archivio della Matrice di Ciminna, Libro Quinto, 634 in A. ANZELMO, Ciminna, materiali..., cit. p. 232. Palermo 26.7.1615. Francesco Amari intagliator lignaminum, per atto in notar Michele Mirabella, si obbliga a Giuseppe Dattolino ad eseguire gli intagli necessari per il coro della Matrice di Ciminna. Archivio della Matrice di Ciminna, Libro Quinto, c. 632 in A. ANZELMO, Ciminna, materiali..., cit. p. 234. Palermo 18.8.1620. Il librarius Simone Furnetto da Palermo subaffitta a Ioseph Dattolino faberlignarius, .. apotecam unam sitam, et positam, in strata lactarinorum silicet unam ex illis duobus apotecis ei locatis per magistrum Philippum de nicoxie virtute contrattus attis meis... silicet illam prope ianuam magnam domus magne subtus cantoniera ipsius de nicoxia... ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c.515. Palermo 30.9.1620. Il faberlignarius Erasmo Consalvo gli loca metà della sua bottega nella contrada di San Francesco presso le case di don Paolo lo Campo da oggi a tutto agosto veniente. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1613, c. 53v. Palermo 26.10.1620. Luca Salvo loca per 4 onze annue, a maestro Giuseppe Dattolino faberlignarius…, Apothecam unam In strata s.ti francisci de Assisa subtus domum d. Pauli lo Campo, sublocatagli dal detto lo Campo per gli atti di notar Mariano Zapparata. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 959, c. 143v. Palermo 5.3.1621. Maestro Giovanni li Castelli faberlignarius mette a bottega presso Giuseppe Dattolino farberlignarius il fratello Battista di anni 14. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 959, c. 404. Palermo 6.5.1623. Domenico Dionisio e Giuseppe Dattolino faberlignarii, il primo eletto da parte dei maestri Giuseppe Sottile e Giovan Antonio Sanchimenti ed il secondo, da parte della Pia Unione del Miseremini, stimano un casciarizzo di noce, nella sacrestia della Chiesa di San Matteo al Cassaro, per onze 67.12. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 961, c. 521. Palermo 19.5.1623. Giuseppe Dattolino si obbliga a donna Eleonora Osorio, moglie di don Paolo Gisulfo, per l’esecuzione di una cornice per un quadro che sta eseguendo il pittore messinese Alfonzo Lazzaro per la chiesa di S. Agostino. ASPa. ND. Palermo, Lauro G.V. vol. 17393, c. 529v. Palermo 22.10.1623. Giuseppe Dattolino vende a Giacomo Pendula 3 salme di frumento. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 46.

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9.11.1623. Battista Ficardo faberlignarius, pone a bottega presso il Dattolino il nipote Giovanni de Avami di anni 18. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 68. Palermo 15.11.1623 Il doratore Bongiovanni Mastruczo si obbliga al Dattolino ut dicitur toccare di oro et diorare quello quatro che (il Dattolino) si obligau… fare a D. Paulo Gisulfo impegnandosi a finire il lavoro entro quattro giorni. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 83.v. Palermo 17.1.1624. Maestro Giuseppe Dattolino si obbliga al sergente Giovanni Adriano rettore e tesoriere della chiesa di San Giovani Battista nel Castello a Mare ad eseguire una custodia in diversi legni. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 204. Palermo 16.4.1624. Francesco Amari intagliator si obbliga a Giuseppe Dattolino ad eseguire dui figuri una di san petro e l’altra di san paulo con soi capitelli e terzi con soi colonni intagliati, obbligandosi ad iniziare il lavoro entro quattro giorni. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 382.v. Palermo 17.5.1624. Giuseppe Dattolino riceve dal Sac. don Antonino Chiesa pagamenti a saldo in ordine all’ornamentum quatri che aveva lavorato per donna Eleonora Gisulfo ed Osorio, . ASPa. ND. Palermo, Lauro G.V. vol. 17393, c. 529v. atto in margine al contratto d’opera. Palermo 21.5.1624. Giuseppe Dattolino loca a Giuseppe Costa un catodio intus cortile delli cartara secus domus dicti locatores. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 406. NOTIZIE SU ALTRI INTAGLIATORI E DORATORI PALERMITANI Agnesi Giacomo, da Palermo, intagliatore in legno 20.9.1608. Con il figlio Pietro si obbligano ad eseguire la statua processionale di S. Antonio Abate (oggi presso la chiesa del Salvatore) per l’omonima chiesa e confraternita di Ciminna. Testi Pietro Scimeca e Paolo Barberi faberlignorum. ASPa. ND. Palermo, Isgrò L. vol. 8408, c. 50v. Agnesi Pietro, da Palermo, intagliatore in legno, figlio di Giacomo 20.9.1608. Con il padre Giacomo si obbligano ad eseguire la statua processionale di S. Antonio Abate (oggi presso la chiesa del Salvatore) per l’omonima chiesa e confraternita di Ciminna. Testi Pietro Scimeca e Paolo Barberi faberlignorum. ASPa. ND. Palermo, Isgrò L. 8408, c. 50v. Amari Francesco, da Palermo, intagliator lignaminum 26.7.1615. Per atto in notar Michele Mirabella, si obbliga a Giuseppe Dattolino, che si era impegnato per atto in notar Francesco La Vignera del 19 ottobre 1614 (vd. Reg. Dattolino), ad eseguire gli intagli necessari per il coro della Matrice di Ciminna. Archivio della Matrice di Ciminna, Libro Quinto, 632 in A. Anzelmo, Ciminna, materiali..., cit. p. 234.

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16.4.1624. Francesco Amari intagliator si obbliga a Giuseppe Dattolino ad eseguire dui figuri una di san petro e l’altra di san paulo con soi capitelli e terzi con soi colonni intagliati, obbligandosi ad iniziare il lavoro entro quattro giorni. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 382v. Arena Giovanni doratore 10.8.1624. Riceve da Antonio Nutio 2 onze a compimento di onze 5 computate le 3 già ricevute per haver innargentato li candileri pro servitio ecclesie s.ti marci huius urbis... ASPa. ND. Palermo, Oliveri G. vol. 10437, c.201. Avami Giovanni allievo faberlignarius 9.11.1623. Ha diciotto anni, è nipote di Battista Ficardo faberlignarius, che lo mette a bottega presso il maestro Giuseppe Dattolino faberlignarius. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 68. Barberi Francesco (...).10.1583. Per atto in notar Nicolò Facella da Ciminna, si obbliga all’esecuzione della restante parte del controsoffitto ligneo della Matrice di Ciminna. (aveva precedentemente eseguito la parte già montata ASPa. sez. Termini Imerese. ND Ciminna Facella N. vol. 5285, c.23 29.10.1607. Per atto in Notar Cataldo Campanella da Ciminna, si obbliga alla Matrice di Ciminna ad eseguire la Porta grande, lo littirino di l’organo lo parapurvuli et lo littirino delli mantaci. Archivio della Matrice di Ciminna, Libro de tutti li renditi…Vol Terzo. risguardo anteriore del vol. 20.12.1610. Per atto in Notar Cataldo Campanella da Ciminna si stimano la Porta grande, lo littirino di l’organo lo parapurvuli et lo littirino delli mantaci della Matrice di Ciminna. Esperti di parte, per la Matrice maestro Stefano Fogliari, per il Barberi maestro Francesco Strambella. Archivio della Matrice di Ciminna, Libro de tutti li renditi…Vol Terzo. risguardo anteriore del vol. Calandra Alessio faberlignarius 20.5.1622. Si obbliga a Giacomo Betio del fu Andrea ad eseguire 10 cornici conformi alla cornice di un S. Paolo che ha visto. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 960, c. 660v. Cammarata Vincenzo, da Palermo, faber lignarius 3.8.1623. Si obbliga a Suor Angelica Lomellino, Abbadessa del Monastero di San Giovanni all’Origlione per ... fare, et edificare tutti li solari, porti soli, finestri, et altri che saranno necessarii nella casa di detto monasterio ... posta nel quartiere del Cassaro, possessa dalla Compagnia di Gesù ... in canto la casa del condam Jo: di gregori, et della casa di agata vintimiglia, et affaccio la casa delli condam Gioseppi gintili etc., la quali ditto de Cammarata prometti et si obbliga farli Conforme all’ designo, et modello che ha fatto m.ro Antoni Como, et debiano essere benfatti, et magistrabilmenti con la lignami, attratto et altri, necessarii di ditto di Cammarata. Di seguito agli stessi atti, il 3 ottobre 1623 l’abbadessa Lomellino da una parte ed il Cammarata dall’altra nominano quali esperti, cui sarà demandata la stima e la quantificazione delle spese di detto lavoro, i Maestri Antonio Como fabricatore e Vincenzo de Nigro faber lignarius per parte dell’abadessa e per parte del Cammarata i maestri Antonio Bracco fabricatore e Bertino de Nicola faber lignarius; da successivo atto del 10 ottobre Antonio Como e Antonio Bracco dichiarano di aver fatto sopralluogo in detta fabbrica e di aver 65


eseguito le stime relative ad interventi murari stante le dette case essere scoperte e parecchio danneggiate; il 6 novembre Vincenzo de Nigro e Berto de Nicola a seguito di sopralluogo stimano le opere di carpenteria; il saldo dei lavori al Cammarata avviene il 14 dicembre 1623. ASPa. ND. Palermo, Leontino G.D. vol. 14643. Campora Anello faberlignarius 10.7.1619. Con Gaspare Cannova si costituiscono debitori di Antonio Maiorana albaxiator. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c. 264. Cannova Gaspare faberlignarius 10.7.1619. Unitamente ad Anello Campora faberlignarius sono debitori di tal Antonio Matarano albaxiarius. ASPa. ND. Palermo, Casaditroja Gregorio vol. 1611, c. 264 Cassati Antonio faberlignarius 13.12.1621. Maestro Antonio Cassati faberlignarius riceve da Raffaele Vilari onze 4.14 per lavori nella sua bottega. Not.Pa. Casaditroia Gregorio 1613. 226 Castelli Battista allievo faberlignarius 5.3.1621. Maestro Giovanni li Castelli faberlignarius mette a bottega presso Giuseppe Dattolino il fratello Battista di anni 14. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 959, c. 404. Castelli Giovanni faberlignarius 5.3.1621. Mette a bottega presso Giuseppe Dattolino il fratello Battista di anni 14. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 959, c. 404. Cateri Angelo, intagliator lignaminum 11.12.1618. Prende in affitto da Francesco Magro albaxiator una bottega alla Calsa contrada di S. Maria della Misericordia nella quale abitava maestro Vito la Tragnia. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c.85. Crapitti Antonino pittor et deorator 26.2.1625. di obbliga ai confrati della chiesa di S. Rocco a dorare il dossale dell’altar maggiore et più renovare la statua et Immagine di s.to rocco. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 963, c. 512v Crapitti Giulio 13.05.1628. Si impegna con don Geronimo Bonanno a recarsi a Ciminna entro il 15 dello stesso mese per eseguirvi la cornice per il quadro di S. Rosalia nella cappella del barone di Partanna. ASPa. ND. Palermo, Verdura G. vol. 3352, c. 111v. in G. DAVÌ, G. MENDOLA, Pompa magna. Pietro Novelli e l’ambiente monrealese, Comune di Piana degli Albanesi, 2008, p. 100 Cruisi Battista 21.3.1623. Dichiara di ricevere da Gaspare Xivere onze 4 in computo di onze 14.13 per prezzo di legname. ASPa. ND. Palermo, Lauro G.V. vol. 17393, c. 433.

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D’Angelo Giuseppe, da Erice abitante in Palermo, scultore in legno 25.3.1601. Si obbliga ai rettori della chiesa di S. Maria dell’Itria in Ciminna ad eseguire il gruppo processionale della Madonna dell’Itria (oggi presso la Matrice). ASPa. sez. Termini Im. ND. Ciminna, Randazzo F. vol. 5307, c. 314. 15.10.1603. Riceve pagamenti a saldo per l’esecuzione del gruppo processionale di S. Maria dell’Itria per l’omonima chiesa in Ciminna. ASPa. ND. Palermo, De Marchisio A. vol. 3880, c. 91. De Marchisio Giuseppe faberlignarius 11.7.1623. Si costituisce debitore di Luca de Cesaro in onze 19.9 per prezzo di 24 tavole di noce, paga per atto a margine il 9 ottobre 1623. ASPa. ND. Palermo, Lauro G.V. vol. 17393, c. 616. De Marchisio Leonardo faberlignarius 19.9.1623. Con maestro Antonio de Marchisio suo figlio scultor stucchi, dichiarano di essere debitori di Vincenzo Pinnituni pannerio per onze 4. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 8v. De Michele Gaspare scultore in legno 20.12.1621. Si costituisce debitore di Luca de Cesaro per prezzo ut dicitur di setti tundizi grossi di tiglio. Not.Pa. Lauro G.V. 17392. 204v. (Il napoletano de Cesaro è grossista di legname, con magazzino alla Marina, noto per altri atti, ad es. l’8 dic. 1620 si mette in società con Giuseppe Migliuni per la vendita di legname da farsi nei boschi di Militello. ASPa. ND. Palermo, Lauro G.V. vol. 17391, c.238.). 9.2.1638. Qui detto crucifissarius, si obbliga all’u.i.d. Pietro Oliveri da Randazzo, farci un Cristo morto di lignami di tiglio di altezza di palmi setti è menzo con sua croce di nuci conforme alla proportione del Xpo speduto et colorito et detto Christo con la sua incarnatura et farci tri chiova di ferro, nec non et farci una statua di santa Brigida della propria ligname di palmi sei quali sta inginocchiata innante al Christo con la sua incarnatura è colorito conforme l’habito di Santa Brigida è questi che siano benvisti et attalento di eso di Oliveri, quali xpo et detta statua di santa Brigida con detta croce è chiova come sopra detto di Micheli si obliga darli et consignare speduti a ditto d’Oliveri qua in Palermo per tutti li 20 del mese d’Aprile prox. vent. del’anno presente. L’ammontare della spesa è d’onze 25 ed il 12 febbraio riceve acconto. ASPa. ND. Palermo, Graffeo P. vol. 1556, c. 839. Con atto del 20 marzo 1638 lo scultore riceve da d. Pietro Oliveri onze 4 a compimento di onze 10.20 delle quali ne ha avute 4 alla stipula del contratto, tt.12 in contanti e onza 1.8 sulla Tavola di Palermo e ciò sul prezzo pattuito per il Crocifisso e la S. Brigida. ASPa. ND. Palermo, Graffeo P. vol. 1556, c. 1078. De Nicola Alberto faberlignarius 26.7.1628. Con il collega Giulio Russo stimano i lavori di ebanisteria nella casa dei Canzoneri a San Giovanni dei Tartari. ASPa. ND. Palermo, Bonannata O. vol. 3415, c.729 e atti del 26.7.1628.

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Dionisio Domenico faberlignarius 26.8.1620. Con maestro Mario Garraffa avevano preso a staglio, per conto di don Giovanni Ventimiglia e consoci che agivano a nome di don Ottavio Aragona, lavori nel convento dei PP. Cappuccini per atto d’obbligo in notar Orazio Allegra e poichè il Garraffa per altri sovraggiunti impegni non può continuare il lavoro ne rilascia l’onere al Dionisi. Stante però che il Garraffa ebbe in conto dei suoi lavori onze 31.20 dal detto don Giovanni Ventimiglia, oggi detti contraenti decidono che detti lavori debbano essere stimati dai maestri Francesco Fraccia e Giuseppe Sottile e se la stima dovesse superare le 31 onze e 20 tt. il Dionisio farà buono il di più e viceversa. Lo stesso giorno i due esperti stimano il lavoro già fatto per onze 38.10. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c. 526. 6.5.1623. Eletto da parte di maestro Sottile e maestro Giovan Antonio Sanchimenti unitamente a Giuseppe Dattolino da parte della Pia Unione del Miseremini, stimano un casciarizzo di noce, nella sacrestia della Chiesa di San Matteo al Cassaro, per onze 67.12. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 961, c. 521. Doria Mariano, da Palermo, indoratore 11.1.1602. Con Mariano Rizzo si obbligano a dorare e dipingere il gruppo processionale di S. Maria dell’Itria intagliata da G. D’Angelo. ASPa. ND. Palermo, Gaeta B. vol. 15052, c. 246. Ficardo Battista faberlignarius 9.11.1623. Mette a bottega presso il maestro Giuseppe Dattolino faberlignarius il nipote Giovanni de Avami di anni 18 ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 68. Fiduccio Antonio faberlignarius 8.4.1623. Alloca a bottega per sette anni, presso maestro Marco Nottulo intagliator lignaminum il figlio Giuseppe di anni 12 circa affinchè ... infra dittum tempus dittus conduttor teneatur docere artem predictam intagliatoris lignamini dittum obligatum Iuxta eius possibilitatem... ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 961, c. 473. Fiduccio Giuseppe allievo intagliator lignaminum 8.4.1623. Ha 12 anni e dal padre, maestro Antonio intagliator lignaminum, viene posto a bottega per sette anni, presso maestro Marco Nottulo intagliator lignaminum affinchè ... infra dittum tempus dittus conduttor teneatur docere artem predictam intagliatoris lignamini dittum obligatum Iuxta eius possibilitatem... ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 961, c. 473. Fraccia (Fracchia) Francesco faberlignarius 17.12.1618. Baldassare Rignone riceve pagamenti per 5 anni di suo servizio presso il faberlignarius maestro Franceso Fracchia. Tra i testi maestro Vincenzo Ciaccio ASPa. ND. Palermo, Casaditroja G. vol. 1611, c.93. 27.12.1618. Sebastiano Rignone riceve pagamenti per 5 anni di suo servizio presso il Fracchia. Tra i testi, maestro Vincenzo Ciaccio ASPa. ND. Palermo, Casaditroja G. vol. 1611, c.94v. 31.12.1618. Maestro Agostino Laudato mette a bottega, presso maestro il Fraccia il figlio Leonardo di anni 14. ASPa. ND. Palermo, Casaditroja G. vol. 1611, c.101.

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19.8.1620. Maestro Francesco Fraccia esperto posto da Giov. Maria Portuso compratore e naestro Nunzio Ferraro venditore, stima tutti gli attrezzi della bottega venduta ... ut dicitur un banco staffi caxetti porta rastelli forcina et omnia alia stivilia lignamina existentia in hoc apotheca... in tutto per onze 12.21. Nella stessa bottega altra stima annota ..carta chiodi... ed altro. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c. 496v. 26.8.1620. I maestri Domenico Dionisio Mario Garraffa avevano preso a staglio, per conto di don Giovanni Ventimiglia e consoci che agivano a nome di don Ottavio Aragona, lavori nel convento dei PP. Cappuccini per atto d’obbligo in notar Orazio Allegra e poichè il Garraffa per altri sovraggiunti impegni non può continuare il lavoro ne rilascia l’onere al Dionisi. Stante però che il Garraffa ebbe in conto dei suoi lavori onze 31.20 dal detto don Giovanni Ventimiglia, oggi detti contraenti decidono che detti lavori debbano essere stimati dai maestri Francesco Fraccia e Giuseppe Sottile e se la stima dovesse superare le 31 onze e 20 tt. il Dionisio farà buono il di più e viceversa. Lo stesso giorno i due esperti stimano il lavoro già fatto per onze 38.10. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c. 526. Galioto Giorgio faberlignarius 14.11.1618. Viene chiamato dalla Curia Pretoriana di Palermo, a stimare i lavori necessari ad una casa del barone della Bifara nel Piano della chiesa di S. Sofia dei Tavernieri. Testi Francesco Serio e Agostino Pizzollo. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c. 44v. e c. 147v atto del 4.2.’19 Garraffa Mario faberlignarius 26.8.1620. Con maestro Domenico Dionisio avevano preso a staglio, per conto di don Giovanni Ventimiglia e consoci che agivano a nome di don Ottavio Aragona, lavori nel convento dei PP. Cappuccini per atto d’obbligo in notar Orazio Allegra e poichè il Garraffa per altri sovraggiunti impegni non può continuare il lavoro ne rilascia l’onere al Dionisi. Stante però che il Garraffa ebbe in conto dei suoi lavori onze 31.20 dal detto don Giovanni Ventimiglia, oggi detti contraenti decidono che detti lavori debbano essere stimati dai maestri Francesco Fraccia e Giuseppe Sottile e se la stima dovesse superare le 31 onze e 20 tt. il Dionisio farà buono il di più e viceversa. Lo stesso giorno i due esperti stimano il lavoro già fatto per onze 38.10. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c. 526. Giliberto Pietro faberlignarius 24.12.1635. Giovanni Sileci gli si alloca ad apprendere l’arte di faberlignarius per due anni e mezzo. Il 28 febbraio del ‘36 seguono altri patti e condizioni. ASPa. ND. Palermo, Graffeo P. vol.1554, c. 726v. Giordano Pietro faberlignarius 13.2.1625. Dichiara di dovere a Jo: b.tta Maffia onze 3 per prezzo di panni. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 963, c. 462.

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Laudato Leonardo allievo faberlignarius 31.12.1618. Il buttarius maestro Agostino Laudato mette a bottega presso il faberlignarius Francesco Franco il figlio Leonardo di anni 14. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c. 101. Mastruczo Bongiovanni doratore 15.11.1623. Si obbliga a Giuseppe Dattolino ut dicitur toccare di oro et diorare quello quatro che (il Dattolino) si obligau… fare a D. Paulo Gisulfo impegnandosi a finire il lavoro entro quattro giorni. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 962, c. 83v. Maurici Vito faberlignarius 12.11.1584. Il magnifico Orazio Planci oriundo dela città di Palma e abitante a Giuliana, pone a servizio presso m.ro Vito Maurici fabrolignario, Giuseppe Gallo figlio di Giovanni di anni 14. ASPa. ND. Palermo, Isgrò L. vol. 8423, c. 191v. 17.12.1584 Maestro Pietro de la Banda presta 6 onze di fidejussione in favore di m.ro Vito Maurici giusta contratto in notar de Burgarello ASPa. ND. Palermo, Isgrò L. vol. 8423. 23.2.1584(85) Maestro Vito Maurici si dichiara soddisfatto etc... relativa a fidejusione.. per la fabbrica di San Giuseppe. ASPa. ND. Palermo, Isgrò L. vol. 8423, c. 329. Mili Antonio doratore ottobre 1626. Si fa cenno ad un Antonius Mili deorator. ASPa. sez. Termini Imerese, ND. Ciminna, La Vignera F. vol.5441 c.148 30 giugno 1629. Benedetto Vazzano vende ad Antonio Mili doratore palermitano cantari 20 di gesso curato in pani. ASPa. sez. Termini Imerese, ND. Ciminna, La Vignera F. vol. 5443 c. 652 1.06.1631. Maestro Antonio Mili (il doratore) riceve pagamenti per censi dovuti a sua moglie Elisabetta Carbone. ASPa. sez. Termini Imerese, ND. Ciminna,, La Vignera F. vol.5445, c.514v. Altro atto a c. 517. Nottulo Marco intagliator lignaminum 8.4.1623. Maestro Antonio Fiduccio intagliator lignaminum, mette a bottega il figlio Giuseppe di 12 anni per sette anni, presso maestro Marco Nottulo intagliator lignaminum affinchè ... infra dittum tempus dittus conduttor teneatur docere artem predictam intagliatoris lignamini dittum obligatum Iuxta eius possibilitatem... ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 961, c. 473. Pastore Giovanni faberlignarius 3.4.1623. Riceve da don Placido Gisulfo onze 6.12 dovutegli dalla Congregatione equitum, a bon conto delle onze 18.12 pro lignaminibus et manifactura rata fardor. fattor. per dittum magistrum Joannem d.e congregationis tam in regio palactio q. In plano marittime huius urbis pro servitio d.e congregationis. ASPa. ND. Palermo, Lauro G.V. vol. 17393, c. 456. Pilligrino Francesco, palermitano, doratore Probabilmente si tratta dello stesso maestro di cui è menzione nell’atto d’obbligo che il Dattolino sottoscrisse nel 1614, per l’esecuzione degli stalli corali della Matrice di Ciminna. 70


6.11.1622. Si obbliga a Valentino Naselli ad indorare uno scannello grandi cioè li tisteti imburnuti branchi li sei angioletti di argento macinato con li suoi aluzzi innaurati quattro asti li armi dello bancone apparicchiari quanto si habbiano di innaurare li testi munuti tucti innaurati e li mensuli e la facciata di innanti innaurati e lo fodaro di argento velato di carmisino. Si obbliga consegnare l’opera entro il 20 dicembre, il tutto per onze 14.15. Testi Horatio de Francisco et Fabius lo Caxio. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. ol. 1614, c. 106. Ramundo Giacomo faberlignarius 8.2.1621. Riceve dai consoli dell’Arte dei Setaioli 9 onze per aver eseguito lo menzo copertizzo et altro servizio nella eclesia dello ss.mo Crocifisso di Lucca. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 963, c. 448v. 8.2.1625. Maestro Giacomo de Ramundo faberlignarius riceve dai Consoli dell’Arte dei setaioli onze 9, …et sunt pro mastria loherij di tagli Tavuluni et serra p. havere fatto lo menzo copertizzo et altro servizio nella ecc.a dello ss.mo Crocifisso di Lucca di questa città… Testes Paulo mililli et Jo: Petrus costa. ASPa. ND. Palermo, Marotta O. vol. 963, c. 448v. Rignone Baldassare lavorante faberlignarius 17.12.1618. Riceve pagamento per aver prestato quale famulo, servizio per 5 anni presso la bottega del faberlignarius Francesco Fracchia. Tra i testi maestro Pietro Ciaccio. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c.93v. Rignone Sebastiano, lavorante faberlignarius 17.12.1618. Riceve pagamento per aver prestato quale famulo, servizio per 5 anni presso la bottega del faberlignarius Francesco Fracchia. Tra i testi maestro Pietro Ciaccio. Not.Pa. Casaditroia G. 1611.93v. Rizzo Mariano, da Palermo, doratore 11.1.1602. Con Mariano Doria si obbligano a dorare e dipingere il gruppo processionale di S. Maria dell’Itria intagliata da G. D’Angelo per l’omonima confraternita in Ciminna. ASPa. ND. Palermo, Gaeta B. vol. 15052, c.. 246. Russo Giulio faberlignarius 26.7.1628. Con il collega Alberto de Nicola stimano i lavori di ebanisteria nella casa dei Canzoneri a San Giovanni dei Tartari. ASPa. ND. Palermo, Bonannata O. vol. 3415, c. 729 e atti del 26.7.1628. Rustico Andrea faberlignarius 22.1.1621. Si costituisce debitore dell’u.i.d. Gaspare Palumbo e Furnari in onze 4.9 per una fidejussione in favore di maestro Giuseppe Cazolo a proposito del fitto di una bottega in strata tholeda. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1612, c. 254v.

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Sileci Giovanni allievo faberlignarius 24.12.1635. Si alloca ad apprendere l’arte di faberlignarius presso maestro Pietro Giliberto per due anni e mezzo. Il 28 febbraio del ‘36 seguono altri patti e condizioni. ASPa. ND. Palermo, Graffeo P. vol. 1554, c. 726v. Sottile Giuseppe faberlignarius 26.8.1620. I maestri Domenico Dionisio e Mario Garraffa avevano preso a staglio, per conto di don Giovanni Ventimiglia e consoci che agivano a nome di don Ottavio Aragona, lavori nel convento dei PP. Cappuccini per atto d’obbligo in notar Orazio Allegra e poichè il Garraffa per altri sovraggiunti impegni non può continuare il lavoro ne rilascia l’onere al Dionisi. Stante però che il Garraffa ebbe in conto dei suoi lavori onze 31.20 dal detto don Giovanni Ventimiglia, oggi detti contraenti decidono che detti lavori debbano essere stimati dai maestri Francesco Fraccia e Giuseppe Sottile e se la stima dovesse superare le 31 onze e 20 tt. il Dionisio farà buono il di più e viceversa. Lo stesso giorno i due esperti stimano il lavoro già fatto per onze 38.10. ASPa. ND. Palermo, Casaditroia G. vol. 1611, c. 526. DOCUMENTI I Ciminna 19 ottobre 1614 Obbligazione per l’esecuzione degli stalli corali della Matrice Archivio della Matrice di Ciminna Scritture della Maggiore Chiesa a mazzo Libro Quinto…, c. 634 Die xviiii ottobris xiiie Ind. 1614 Mag.r Ioseph de attolino civis panhormi hic ciminne repertus mihi cognitus coram nobis sponte promisit et convenit seque sollemniter obligavit et obligat Reverendo Don Joseph de Ansaldo archipresbitero Don Vincentio randatio S.T.D. et vicario foraneo huius terre ciminne, don Hyeronimo et Petro barone filius maragmeriis et don Santo de Bartolomeo canonico venerabilis majoris ecclesie istius terre ciminne sub titulo Sante Marie Magdalene quoque mihi cognitis presentibus stipulantibus et cum dittis nominibus et nomine ditte venerabilis majoris ecclesie conducentibus ut dicitur a tutti spisi et attracto di dito magistro joseppi fari et sviluppari in questa di terra di ciminna di quatro et di intaglio di legnami di nuci veneziana lo choro di ditta majori ecclesia di tutta quella quantità di seggi, vanchi a quello ordine, dautiza lunghezza misuri et intagli et finalmente del prezzo modo e forma e altri ben visti alli sudetti R.di sacerdoti et di quella manera che fatto un disigno per mano di detto maestro Joseppi quali disigno sta conservato in potere al sudetto Reverendo archipresti. Verum che li detti R.di sacerdoti a detto disegno pozzano agiungiri et levari conforme vorranno et comanderanno li sudetti R.di sacerdoti ex patto. Incipiendo in primo die mensis februarii proxime inditionis annis presentis et seguitari a fari servitio a non mancari ne lassari et finire detto servitio del modo e forma et qualità seddetta bene magistrabiliter ut decet ad abitus infra annos duos proximos ab hodie numerandos alias teneatur et teneri voluti dictus m.r Joseph ad omnia et 72


singola damna interesse et expensas et ditti R.di sacerdoti promissa possint fieri faceri della meliori mercede (…), invenienda ad damna interesse et exspensas ditti m.ri Joseph stipulanti. Ita quod. & Pro magisterio et pretio pro ut quemadmodum ditta opera ut supra expressata (finita et completa fuerit) fuerit estimata per duos expertos comuniter eligendos et che detti R.di sacerdoti non pozzano eligiri per esperti a m.ro Paloctio mancuso ne maestro Francesco de pellegrini et in casu discordie pro tertium eligendum per dictos expertos e unci quindici manco di stima per ogni cento unzi ex patto, quod pretium magisterium ditti R.di archipresbiteri vicarij foranei maragmerij et predictis nominibus et nomine ditte ven. majori ecclesie et successores in ea dare et solvere (…) Etc. Testes Don Vincentius de Ansaldo, don petro riczo et Not. Philippo randatio. Ex actis meis notarij francisci lavignera. II Palermo 26 luglio 1615 Francesco Amari si obbliga a Giuseppe Dattolino ad eseguire gli intagli per gli stalli corali della Matrice di Ciminna. Archivio della Matrice di Ciminna Scritture della Maggiore Chiesa a mazzo Libro Quinto…, c. 630 Die xxvi Julij xiiie Ind.s 1615 Magister franciscum de amari intagliator lignaminum civis panhormi mihi notario cognitus coram nobis sponte se obligavit et obligat m.ro joseph dattolino mihi etiam cognito presenti stipulanti et conducenti facere in terra ciminne infrascripta opera de eius arte intagliatoris pro servitio cori majoris ecclesie ditte terre ciminne videlicet: in primis intagliari tutti quelli quantità di termini et altri intagli necessarii pro servitio di detto coro item li aletti tanto di sopra quanto di sotta, frixi piccoli li pillotti quali stanno sotto li brazali tanto per l’ordine di sopra quanto di sotta, a dui facciati per ogni una et intagliari li brazali conforme la mostra et delli deti opiri farni tutta quella quantità necessaria per detto coro bene et magistrabilmenti lavorati conforme la mostra fatta per detto di amari. Verum che la incortornatura delli detti aletti abia et debia essere di quella quantità a detto di dattolino benvista et hoc pro tempore incipiendo et numerando se discendere ab hoc urbe per dicta terra ciminne ad (omne) ipsius de dattolino prima et semplice requisitione ex inde in antea in dittis servitijs continuare et perseverare usque ad finem et servitium finitum alias etc… Et hoc pro magisterio videlicet: li termini ad ratione tarenis quattuordecim singulo termino Item li aletti di sotto et sopra ad rationem tarenis quattuordecim singulo aletto Item li frixi piccoli ad rationem tarenis quattuordecim singulo peczo Item li pillotti di sopra et sotta a dui facciati ad rationem tarenis viginti singulo pillotto Item et lo intaglio attorno alli brazali conforme alla mostra ad tarenis quattuordecim singola sedia, quod quidam magisterium ..(…).. Testes Joannes dominicus fido et benedico magno. Ex actis meis Don Michaeli Marabella Regij Notarij.

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III Palermo 14 luglio 1621 Obbligazione a Padre Alfonso lo Tillo, superiore dei chierici minori della chiesa di San Marco, ad eseguire una custodia secondo il disegno fornito e secondo quanto ordinerà il Sig. Giacomo Soliti. Archivio di Stato Pa. I St. Notai Defunti di Pa. Marotta Onofrio, vol. 959 c. 563.v. registri anni 1620-1621 Eodem Die 14° Ilij 4 Ind.s 1621 Mag.r Ioseph dactolino faber lignarius mihi notario cognitus coram nobis sponte se obligavit et obligat Patri Alfosius la Tillo superiori clericorum minorum Ecclesie Sancti marci huius urbis mihi notario etiam cognito presenti et stipulanti eique ditto nomine conficere et construere custodiam unam lignaminum modo, et forma et designi subscripti per dictum Patrem, et me not.um infrascriptum cum condicionibus infr.is In primis sarrà di Altecza di Palmi dieci et menso, et di largecza di Palmi octo con tutti li scaluni sarrà tutta lavorata Conforme al disegno di lavore Corinto Conforme ordinerà il Sr Giacomo Saliti; la sua gaggiola seu lanterna di sopra angolare con li soi mensole Il suo Cuppulo lavorato con li gradetti Il sue zoccole con li soi mensole et vase Il secondo ordine con li soi colonne, et mensole lavorate con li soi capitelli corinti et scannellatis con la sua cornice frigio et architrave lavorate Conforme ordinera Il detto signor Giacomo Il succielo soto le colonne lavorato Conforme li piacera l’archi con li soi risalti lavorati dove hanno da pendere li frattoli seu trofei è finito con Il suo balaostato atorno di cinque balauste per arco Il primo ordine anderà conforme il secondo descritto di sopra In menso de l’archi grandi due scude Intagliati Li vasi che hanno d’andare Compartite In detta Custodia hanno d’essiri scannellati et su ogni colonna ni sia di essiri uno et fra un arco, et l’altro un altro Con li soi manichetti lavorati finera con una bosa di li scalini et dentro sia senza cornice et senza Intaglio bastera che sia liscia tutt’a spesi di detto di dattolino magistrabiliter ut decet Quam custodiam superius expressata cum conditionibus presentis ut supra dittus de dattolino dare et Consegnare promisit seque sollemniter obligavit, et obligat ditto patri Alfonsio ditto nomine stipulannti seu patribus ditte ecclesie santi marci me notario pro eis stipulante hic Pan.mi In primo Die mensis ottobris proximis venturis In pace Alias De quibus Et hoc pro pretio, et manifattura unc. quatuordecim ponderis generalis et uncias uius ad beneplacitum ditti de Saliti ex patto quod pretium dictus Patrem Alfonsius proprio et ditto nomine dare et solvere promisit seque sollemniter obligavit et obligat ditto magistrro Ioseph dactolino stipulanti vel persone pro eo legittime hic Panhormi In pecunia numerata successive

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servendo solvendo In pace et de pecuniis per dictum patrem solvendis ditto Ioseph stetur libris seu texeris dictorum carta contrahenntium eamque contractus publicus ex pacto Que omnia Testes notarius blasius de amenza et Antonius Muntinovi. IV Palermo 19 maggio 1623 Obbligazione a donna Eleonora Osorio moglie di don Paolo Gisulfo, per l’esecuzione di una cornice per un quadro che sta eseguendo il messinese Alfonzo Lazzaro per la sua cappella nella chiesa di S. Agostino. Archivio di Stato Pa. I St. Notai Defunti di Pa. Lauro Giovanni Vito, vol. 17393 c. 529.v. Registro anni 162-1623 Die xviiii maij vj Ind.s 1623 Magister Ioseph dattolino cives panhormi mihi notario cognitus presens coram nobis sponte se obligavit et obligat donne aleonore gisulfo et osorio eius concive etiam mihi notario cognite presenti stipulanti et existenti In presenti contrattu cum autoritate consensu et espressa voluntate do pauli Gisulfo sui viri etiam mihi notario cogniti presenti et eam autorizantis eum conducendi vulgariter loquendo farci uno ornamento di quatro di nuci deorato conforme al designo ex.nti In potere di ditto mastro sottoscritto di mano di ditto don paulo et di me notario Infrascritto et questo con tutte le legname di nuce bona staxionata netta di ogni macula perfetta et ben condictionata et deorato di oro di ditto mastro bene deorato carricato di oro che non para la nuci et con lo magisterio di ditto mastro a poi di tila et pettura et questo di alticza et larghiecza conforme alla pittura di menzo scolpito in tila et di li quatretti di li misteri sarra la mesura come ci dirra Il petore Alfonso laczaro bono benfatto ben condictionato magistrivilmente ben visto ad uno mastro esperto eleggendo per ditta donna Leonora, et in casu che non ci contentasse a detto mastro esperto tali casu detto mastro gioseppe l’habbia di refare conforme ci dirra detto mastro esperto ex patto. Et hoc pro pretio et magisterio ad omnes expensas ditti magistri Ioseph tam de nuce quam de auro et clavis cum tota perfettione ditti magistri Iosepho preter tela et pretura unc vigenti quinque ponderis generalis de quibus dictus magister Ioseph presentialiter habuit et recepit a ditta donna Leonora stipulante uncias decem In tot moneta argentea bona presentialiter numerata et ponderata et restans ad complimentum d.a donna aleonora dare et solvere promisit et promittit seque sollemnter obligavit et obligat ditto magistro Ioseph stipulannti hic panormo In pecunia numerata vd. (uncias) 10 successive laborando dittus ornamentum solvendo et (uncias) 5 In fine completo et assettato ditto onamento quatri ut Infra In pace. Renuncians dittus magistro Ioseph ditte donne aleonore stipulanti Incipere facere dittum ornamentum quatri a primo junij proximi futuri In antea et successive continuare et non deficere et dare dittum ornamentum bene expeditum et assettatum In ecclesia conventus sancti augustini huius urbis et in cappella ditte donne aleonore per totum mensem augusti prox. fut. alias teneatur ad omnia et singula damna Interesse expensas et liceat ditte donne aleonore stipulanti dittum ornamentum quatri ab alijs emere seu fieri facere ad quantum plus Invenerit ad omnia et singula danna Interesse et expensas ditti magisteri Ioseph presentis et audientis de quibus 75


credatr et stetur simplici dicto cum Iuramento dicte donne aleonore stipulanti quod Iuramentum etiam pro quibus ad Instantiam ditte donne aleonore stipulanti quo dictum magistrus Ioseph eiusque heres et bona possit causari executio cum patto de non opponendo ut infra ex patto. Que omnia litis et extra et. viatucar., . Testes: magister philippus de leo et Ioseph bruno. V Palermo 17 gennaio 1624 Obbligazione al sergente Giovanni Adriano rettore e tesoriere della parrocchiale di San Giovanni Battista di Castell’a Mare ad eseguire una custodia in diversi legni, alta 13 e larga palmi 6 e mezzo con due statue dei Santi Pietro e Paolo. Archivio di Stato Pa. I St. Notai Defunti di Pa. Marotta Onofrio, vol. 962 c. 204.v. registri anni 1623-1624 Pro Surgenti Ioanne Adriano contra Magistrum Ioseph dattolino Eodem die xvii Ianuarij vii Ind.s 1624 Magister Ioseph dattolino faberlignarius mihi notarius cognitus coram nobis sponte se obligavit et obligat surgenti Iohanni adriano rectori et thesaurerio venerabilis parrochialis ecclesie santi Iohannis battiste existenti In castro ad mare huius urbis mihi notario etiam cognito presenti et stipulanti eiusque seu verius ditte ecclesie magistrabiliter ut decet conficere ut dicitur una custodia di lignami di tiglio chiuppo favo abito di grandezza di pieno con tutta la croce di palmi 13 et di larghezza di palmi 6 ½ Incirca con sei colonni et lu pedistallo lavorato in menzo l’arco con san petro et san paulo allati lavorata et benfatta conforme e lo disigno sutta scripto di mea mano spedita di tutto punto di lignami quam custodiam expeditam ut supra dittus de dattolino tradere et consignare promisit seque sollemniter obligavit et obligat dicto de adriano stipulanti vel persone pro eo legitime In apotheca ispius de dattolino In primo die mensis aprilis proximo venienti. In pace. Alias Et hoc pro pretio e manifatture unc. viginti sex ponderis generalis ex patto de quibus uncias 26 dictus de dattolino dixit et fatetur habuisse et recepisse a dicto de adriano stipulante uncias sex ponderis generalis de contanti ut dicit renunciantes reliquas vero uncias viginti dictus de adriano dare et solvere promisit seque sollemniter obligavit et obligat dicto de dattolino stipulanti vel persone pro eo legitime hic panormi in pecunia numerata successive serviendo solvendo In pace. Cum pacto che habia di fare due mensoli di taboli contornati senza nenti dentro alli fianchi del altare ex patto. Quae omnia... Testes Tenens gregorius pasquali et Alferius franciscus servera. VI Palermo 16 aprile 1624 Francesco Amari si obbliga a Giuseppe Dattolino ad eseguire l’intaglio delle due figure dei Santi Pietro e Paolo per la Custodia che lo stesso si era impegnato ad eseguire al Sergente Giovanni 76


Adriano per la chiesa di S. Giovanni Battista del Castell’a Mare 17 gennaio 1624 per atto presso lo stesso notaro. Archivio di Stato Pa. I St. Notai Defunti di Pa. Marotta Onofrio, vol. 962 c. 382 v. registri anni 1623-1624 Pro Ioseph Dattolino contra Magistrum Francisco de Amari Eodem die xvi aprilis vii Ind.s 1624 Magister franciscus de Amari Intagliator mihi notario cognitus coram nobis sponte se obligavit et obligat Ioseph Dattolino faberlignario mihi notoario etiam cognito presenti et stipulanti eiq. magistrabiliter ut decet conficere ut dicitur dui figuri una di san petro e l’altra di san paulo con soi capitelli e terzi con soi colonne intagliati incipiendo ab hodie in anthea et continuare et expedire p. totum presente hebdommata alia elaps diebus quatuor et dittus obligatus non incipiet predittum opus teneatur ad omnia damna…. Et hoc pro pretio et manifattura unc. unius et t. viginti quatuor pon. gen. In compotum cuius quid. pretij dictus de amari dixit et fatetur habuisse et recepisse a dicto de dattolino unc. unam et t. quindecim In pretio unius arce restans vero dittus de dattolino dare et solvere p.it seq. soll. obligavit et obligat ditto de Amari stipulanti vel persone pro eo leg.me hic pan. in pecunia numerata etc... Testes Santus e Anna et Jo: Ambroxius ferro. VII Palermo 26 febbraio 1625 Maestro Antonino Capritti pittor et deorator si obbliga ai confrati della chiesa di Sa. Rocco a Porta Oscura, a dorare la scalunera dell’altare maggiore ed a restaurare la statua di San Rocco. Archivio di Stato Pa. I St. Notai Defunti di Pa. Marotta Onofrio, 963 Minute anni 1624-1625 Pro ven: ecc.a s.ti rocci contra magistrum Antoninum capretti Eodem Die 26 febr.ij vij Ind.s 1625 Magister Antoninus crapitti pittor et deorator mihi not. cognitus coram nobis sp.e vi presenti se obligavit et obligat Jo: marie li maistri franc.o fraccia et Alessandro Curto Tribus ex quatuor rettoribus ven: ecc.e s.ti rocci porte oscure huius Urbis mihi not.o etiam cognitis presentibus et stipulantibus eiusque magistrabiliter et diligenter ut decet a crastina die in anthea Intus ecclesiam ditte confraternitatis Incipere ut dicitur a diorare tutta la scalunera che al presente e sopra l’altare grande cn li soi cadute di una parte et l’altra di oro fino a quattro passate et piu renovare la statua et Imagine di s.to rocco pedestallo et miraculi et personagi a torno l’augelo Il cane et bastone cioe unde (è) loro renovarlo d’oro et undi è, lo coluri di coluri exclusa la incarnatura di oro et coluri finissimi a 4 passati con farli si li mancano alcuni membri di legnami et quelli deorarli et colorili come sopra et continuare et spediri p. tota hebdomata s.ta prox. vent In pace. Alia 77


Et hoc p. pretio et magisterium unc. duodecim pon. gen. ex accordio quas unc. 12 ditti rettores una simul et In solidum se obligantes renunciantes etc.. rettorio nomine preditto dare et solvere promiserunt seque solemniter obligaverunt et obligant ditto de crapiti stipulanti vel persone pro eo legitime hic panormi In pecunia numerata successive servendo solvendo In pace. Quae omnia Testes Jo: bat.ta de andrea et Joseph la ventura. VIII Palermo 20 marzo 1629. M.ro Pietro Ciaccio si obbliga a Pietro lo Seggio per l’esecuzione di una trabacca intagliata e nella quale dovrà rappresentare tra l’altre un’Annunziata e le Vergini Palermitane Archivio di Stato Pa. II St. Notai Defunti di Pa. Bonannata Onofrio, 3416 Minute anni 1628-1629 M.ro Vincenzo Ciaccio faberlignarius, si obbliga ad eseguire per Pietro lo Seggio, una trabacca... tutta di noce a paviglione alla napoletana con le sue colonne di grossezza di dui terzi, e li Cascavalli sopra, che possa servire per cortinaggio le quali colonne habbiano di essere con lo terzo intagliati con le sue serafinetti in menzo, con li suoi capitelli et puma intagliati anco con le sue serafinetti et à foglia, et li pedi di essa trabacca habbiano di essere quattro leoni con li colli votati et sopra ogni pedi una foglia intagliata et la capizzera anco intagliata con una Annunziata dentro lo scuto et per parte delli termini sia tenuto detto di Ciaccio lavorarci le Vergini Palermitane et anco farci le banchette intagliate conferenti alli sudetti intagli et lavori di detta trabacca habia di essere di longheza et largheza uno terzo più dell’ordinario et che tavole habbiano di essere à gusto et volontà di detto di lo Seggio, et questo bene et magistrabilmente, etc.. Et hoc pro magisterio unc. novem pon: gen:, etc. Testes Antonius de Amico et Vincentius Toscano

Le figure 1. 2. 3. 4.

Pannello terminale degli stalli (foto Nicola Anzelmo). La doppia sequenza degli stalli sul fianco sinistro a restauro ultimato (foto Giovanni Pollaci). La doppia sequenza degli stalli sul fianco sinistro durante il restauro (foto Nicola Anzelmo). Dossale dell’ultimo stallo superiore a sinistra con la data di ultimazione dei lavori (foto Nicola Anzelmo).

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Fig. 1

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Fig. 2

Fig. 3

Fig. 4

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La bottega dei Mendoza di Castelbuono e altri fonditori di campane presenti nelle Madonie tra Cinquecento e Settecento* ROSARIO TERMOTTO Fonditori di Castelbuono: i Mendoza e i Carabillò Fra i pochi centri siciliani dove la fusione di campane, attività artigianale di notevole specializzazione, ebbe significativo e duraturo sviluppo va annoverato, assieme a Tortorici e Burgio, anche Castelbuono, cittadina nella quale la bottega della famiglia Carabillò riuscì a operare senza soluzione di continuità, per oltre tre secoli, dalla metà del Seicento fino alla metà del secolo scorso, fornendo manufatti per tutto il comprensorio delle Madonie e per una vasta area dei Nebrodi1. Nelle Madonie, a lungo, le botteghe castelbuonesi mantengono una situazione di quasi monopolio. Nel centro sottoposto al dominio feudale dei Ventimiglia, oltre a quella dei Carabillò, un ruolo di qualche spessore riuscì a ritagliarsi la bottega dei Mendoza che può vantare, però, una durata nel tempo limitata a circa un quarantennio. Infatti l’attività nota di questa famiglia è compresa fra l’agosto del 1696, quando mastro Sebastiano fonde due campane per la chiesa madre di Collesano, e il 1735, anno in cui lo stesso fonditore lavora ad Alimena, in società con Francesco Carabillò, su commissione della principessa D. Dorotea del Bosco2. Nuove ricerche d’archivio consentono di delineare meglio la consistenza della bottega Mendoza e di documentare il rapporto di parentela e di collaborazione degli stessi con i Carabillò: Sebastiano è cugino di Francesco e nipote di mastro Paolo Carabillò, come risulta dal testamento di quest’ultimo3. Ancora una volta, per le botteghe artigianali viene confermata la circolazione dei saperi soprattutto all’interno dei nuclei familiari. All’inizio del 1696, mastro Sebastiano Mendoza si ritrova a Pollina dove gode della gratia dell’exilio dopo essere stato infamato per la morte del castelbuonese Pietro Di Napoli. Durante la sua permanenza nella limitrofa cittadina, il fonditore si era impegnato con Carlo Cassataro, procuratore della locale chiesa dell’Annunziata, a realizzare una campana grande dal peso di circa 450 Kg per la buona somma di 13 onze, con locale per la fusione, legna e creta a carico del committente. Consegnata la campana, il maestro castelbuonese rilascia alla chiesa di Pollina le 7 onze che dovrebbe ancora ricevere a complimento. L’atto si chiude con la firma autografa del fonditore che il 26 gennaio 1696, quando ormai è rientrato a Castelbuono, sottoscrive nella forma Sebastiano mennozza4. Alcuni anni dopo, precisamente nel 1708, Sebastiano Mendoza prende in gabella dai Ventimiglia il martinetto di contrada Gonato per la somma di 33

*Abbreviazione: Asti = Archivio di Stato di Palermo, sezione di Termini Imerese. Monete: onza = 30 tarì = 600 grani. Pesi: Cantàro =100 rotoli = Kg. 79,34. 1 Per l’attività dei Carabillò cfr. Rosario Termotto, “Mastri di campane” nei paesi delle Madonie in L’isola ricercata Inchieste sui centri minori della Sicilia secoli XVI – XVIII, Atti del convegno di studi, Campofiorito, 12-13 aprile 2003, a cura di Antonino Giuseppe Marchese, Palermo 2008; sui fonditori di Tortorici cfr. Idem e bibliografia ivi citata ed inoltre Sebastiano Franchina Campane e campanari di Tortorici (dal secolo XIII al XX), Patti 1999. 2 Cfr. R. Termotto, “Mastri di campane” cit., pp. 451- 452. 3 Cfr. Infra. 4 Asti, Notaio Antonino Bonafede, vol.2548, c. 53r-v, Castelbuono 26 gennaio 1696. 81


onze annuali5, quasi la stessa somma di quanto nel 1714 si impegna a versare a Filippo Failla, segreto dei Ventimiglia, che gli affida la struttura artigianale per due anni per la gabella di 32 onze l’anno6. In quegli anni l’attività lavorativa del Mendoza si esplica anche sui Nebrodi, come nel 1709 quando ultima la campana grande della chiesa madre di Tusa che costa la notevole somma di 50 onze. La fusione, in questo caso, è particolarmente impegnativa, anche perché bisogna demolire il tetto del locale adibito alla lavorazione al fine di poter eseguire la colata dall’alto7. Nel primo decennio del Settecento si riscontrano tracce di un rapporto societario tra mastro Sebastiano Mendoza e Francesco Carabillò che insieme fondono due campane per la chiesa madre di S. Pietro di Caltavuturo8 e probabilmente ancora assieme lavorano per una campana della chiesa madre di Gangi, quando Sebastiano nomina procuratore l’altro fonditore per recuperare somme relative a magisterio e prezzo del metallo per la campana citata9. Da un atto del 1723 risulta che mastro Sebastiano Mendoza ha associato nella sua bottega il figlio Melchiorre assieme al quale e a mastro Francesco Carabillò si impegna coi giurati di Castelbuono (il magnifico d. Mercurio Pinzone, Michele Levanti, Leandro Baldi e il medico Rosario Vittimara) a eseguire una campana di orologio, secondo la forma e il disegno che gli sarà consegnato, da collocare in S. Maria Assunta (Matrice Vecchia). I giurati, che comprano pure alcuni maschi, pagheranno la campana a tarì 6 per ogni rotolo di metallo impiegato10. Come accennato, la principale bottega di fonditori castelbuonesi è quella dei Carabillò, la cui attività, seguendo un criterio cronologico che aiuta a districarsi fra le tante omonimie, va implementata con nuovi dati d’archivio a cominciare da quello relativo al lamperi di ramo gialno che Francesco Carabillò nel 1648 si impegna a fornire alla chiesa dell’Annunziata di Isnello. Il manufatto doveva essere simile a quello della chiesa di S. Sebastiano, dovendo contenere nel mezzo l’immagine della SS. Annunziata e dall’altra parte quella del santo legno della croce. La consegna è prevista entro Natale, prezzo concordato oltre 15 tarì per ogni singolo rotolo di metallo impiegato e anticipo di poco più di 3 onze. Il lampadario viene certamente eseguito e consegnato, come certificano i pagamenti segnati a margine dell’atto notarile11. Ancora cittadino di Tortorici, ma abitante a Castelbuono, nel 1670 Paolo Carabillò si obbliga con lo speziale locale Gaspare Scialabba a fornirgli un mortaio di metallo di almeno 30 rotoli di peso per la mercede di tarì 7.10 per singolo rotolo di materiale impiegato12. Ancora un mortaio in metallo mastro Paolo Callabillò (sic) vende allo speziale collesanese Gaspare De Angelis13. Il fonditore sembra essere ricercato in tutto il comprensorio madonita per la fusione di mortai da farmacia, se pure lui nel 1673 era stato chiamato dal farmacista polizzano Giovanni Saldo, allora residente a Isnello, per la fattura di un mortaio sul quale richiedeva l’iscrizione del proprio nome e cognome e l’anno della fattura14. Conferma di tale “specializzazione” Asti, not. Ignazio Bellone, vol. 2602 D, c. 151r, Castelbuono 7 marzo 1708. Asti, not. Liborio Lima. Vol. 2682, numerazione erosa, Castelbuono 25 giugno 1714. 7Angelo Pettineo, Tusa dall’Universitas civium alla Fiumara d’Arte, Messina – Civitanova Marche 2012, p. 172. L’autore segnala che nelle carte tusane il nome del fonditore è riportato nella forma “Minnasa”. 8 Asti, not. Liborio Lima, vol. 2677, c. 191r-v, Castelbuono 13 aprile 1709. 9 Ivi, c. 253r, Castelbuono 12 luglio 1709. 10 Asti, not. Ignazio Bellone, vol. 2606, num. erosa, Castelbuono 3 maggio 1723. 11 Asti, not. Giuseppe Caracciolo, vol. 8172, cc. 175r-176r, Isnello 10 agosto 1648. 12 Asti, not. Giovanni Paolo Agrippa, vol. 6591, cc. 146v-147r, Castelbuono 13 marzo 1670. 13 Asti, not. Lorenzo Di Leonardo, vol. 6583, c.607r, Collesano 16 agosto 1681. 14 R. Termotto, Ceramisti nelle Madonie. Un contributo archivistico note su Collesano, Castelbuono, Petralia Sottana in Studi in 5 6

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da parte dei Carabillò viene ancora da un atto dell’inizio del 1783 quando, a Petralia Sottana, mastro Michelangelo e il nipote Giuseppe, fabri metallorum, in solido garantiscono all’aromatario Stefano Mancuso come sano e servibile il nuovo mortaio grande pesante 28 rotoli, che porta inciso il nome del Mancuso e l’immagine di Maria SS. ma Immacolata, eseguito dagli stessi col metallo del committente e già consegnato. I due maestri dichiarano di aver ricevuto la giusta mercede e, se mai il mortaio entro 3 anni non dovesse mantenersi sano, si impegnano a rifonderlo e perfezionarlo bene gratis e senza ricompensa alcuna15. L’ampia e già nota produzione di Paolo Carabillò può ancora allargarsi con le due campane rifuse nel 1684 per la chiesa dell’Annunziata di Isnello, pagate 23 onze raccolte tra i devoti dal sac. Giovanni Fiorella e da mastro Pietro Vacca. Le campane dovranno risultare dello stesso peso delle due esistenti e rotte, il di più verrà saldato a tarì 6 per rotolo fino a dieci rotoli e il resto, eventualmente, verrà rilasciato dal fonditore16. Il ritrovamento del testamento e dell’inventario post mortem di Paolo Carabillò consentono di gettare nuovi frammenti di luce sulla sua figura17. Il maestro, che fino alla fine si dichiara cittadino di Tortorici habitator a Castelbuono, chiede di essere sepolto nella chiesa dell’Itria, nomina la moglie Rosa e il nipote Sebastiano Mendoza, al quale lega 21 rotoli di rame, curatori e tutori dei figli tra i quali Francesco di otto anni. I suoi beni, che lo sollevano dalla condizione di indigenza, comune alla stragrande maggioranza della popolazione in epoca di antico regime, consistono in una casa in sei corpi nelle vicinanze del convento di S. Francesco, una vigna con ulivi e alberi domestici e silvestri in contrada Vinziria, una partita di ulivi a Pollina e un cavallo. L’inventario elenca poi gli stivilia della sua bottega: in primis uno stiglio di mitallo in diversi cosi di rotula setti, uno stiglio di piombo di 5 rotoli, una mustra di ferro con soi viti di numero novi, item altri stigli di legnio atti a detta potega, item un tornio di legnio con sua vite di ferro, item pezzi n.o otto di torno atti a detto bancho per lavorare cioè tridici limi grossi e minuti, item un bancho con sua morsa di ferro, item tri para di tinagli di ferro atti alla forgia, item due para di mantaci una grandi e una piccola, item n.o tri martelli di ferro, item rotula dui e unzi dieci di stagnio di Fiandra, item un palo di ferro per lo peso di rotula deci, item due zappona di ferro, item una zappa e una ronca di ferro, item sei lanni di ferro per lo peso di rotula cinque, item cantàra due di ramo nuovo, item trentacinque rotula di ramo vecchio, item cantàro uno e rotula trenta di metallo di tutte condizioni, item due scopetti atti all’armi con suoi arnesi e suoi sicchetti de ramo, item n.o tri giarri vecchi sani cioè dui grandi et una piccola, item dui butti di vino vacanti, item dui salmabari (?), item dui buttuneddi che cogino lancelli quattordici l’uno, item una statìa di ferro grande che leva un cantaro e tridici, item un’altra statìa piccola che leva rotula 24. L’inventario fotografa nel dettaglio la bottega di un affermato maestro fonditore. Un contratto del 1707 per l’affidamento in gabella del martinetto da parte dei Ventimiglia, per 29 onze annuali, ci consegna il nome di uno sconosciuto fonditore, Giorgio Carabillò18, che stranamente non compare in nessun altro atto notarile né di Castelbuono né degli altri centri del circondario; né, per evidenti ragioni cronologiche, può trattarsi del maestro di Tortorici onore di Antonino Ragona, a cura di Salvatore Scuto, Caltagirone 2008, p. 52. Questo mortaio consente di chiarire definitivamente che Giovanni Saldo è un aromatario e non un ceramista, come a lungo unanimemente ritenuto per via del fatto che sugli albarelli della propria farmacia erano incisi il suo nome, cognome e anno di esecuzione. 15 Asti, not. Vincenzo Torregrossa, vol. 2954, c.199r-v, Castelbuono 1 gennaio 1783. 16 Asti, not. Antonio Mogavero, vol. 8199, c. 237r-v, Isnello 9 agosto 1684. 17Asti, not. Giovanni Miroldi, vol. 2538, cc. 124r-125r (testamento), Castelbuono 7 giugno 1688; cc. 130r-133r (inventario), Castelbuono 10 agosto 1688. 18 Asti, not. Ignazio Bellone, vol. 2602 D, c. 17r, Castelbuono 9 ottobre 1707. 83


che negli anni ‘20 del Seicento avevamo trovato attivo a Castelbuono nella gestione del martinetto, primo dei Carabillò, che abbiamo ipotizzato essere il capostipite della famiglia poi radicatasi nel centro dei Ventimiglia19. Il mastro Giorgio vissuto nel ‘700 potrebbe anche essere stato attivo al di fuori del comprensorio madonita. Alla produzione già nota di mastro Michelangelo Carabillò20, che si esplica a Castelbuono e Petralia Soprana tra il 1746 e il 1772, bisogna aggiungere la campana nuova che nel 1785 fonde per la chiesa del monastero benedettino di S. Caterina a Collesano dal peso di circa un cantàro e metallo a carico del committente. Il fonditore, che dovrà realizzare l’opera a Collesano, garantisce la campana per due anni e si impegna ad assistere alla posa21. Altro nome nuovo che si aggiunge alla già robusta schiera dei Carabillò attivi nel campo della fusione di metalli è quello di mastro Gioacchino (Jachino) che nel 1784 a Collesano si obbliga col pastaro mastro Antonino Piampiano (Chianchiano) a fornirgli un fonte vermicellaro con sua valora e cinque piatti di bronzo: una per vermicelli grossi, una per vermicelli, una per maccarruna, il restante per tagliarini. Prezzo convenuto per fonte e valora 6 tarì per ogni rotolo di metallo impiegato, per i piatti tarì 12 e grani 10 per rotolo.22 Lo stesso mastro Gioacchino, assieme al fratello Giuseppe, qualche anno dopo, si obbliga col guardiano del convento castelbuonese di S. Antonino dei frati minori osservanti, fra Giuseppe da Mola, a fondere una campana di buona qualità e tono dal peso di tre quintali per il prezzo di 20 onze a quintale, con garanzia di dieci anni23. La lunga e ampia attività di mastro Giuseppe Carabillò, che si esplica per vari decenni tra la seconda metà del Settecento e i primi dell’Ottocento in tutti i paesi delle Madonie24, va implementata con i dati di nuove acquisizioni. Nel 1790 il maestro castelbuonese riceve la campana rotta della chiesa dei Cappuccini di Collesano con l’obbligo di farne una nuova di peso di poco superiore, cioè circa un cantàro, da colare a Castelbuono. Il Carabillò fida la campana per la durata di 4 anni25. Due anni dopo, Felice Lamblosa di Lipari si impegna a fornire a mastro Giuseppe del quondam mastro Michelangelo una grossa quantità di rame rosso buono (22 cantàri) e 3 cantàri di ferro rotondo a profilo a tenore della mostra con pagamento da effettuare alla marina dove arriverà il materiale, probabilmente lo scaro di Finale26. Anni dopo, un altro maestro pure di nome Giuseppe Carabillò e figlio del defunto mastro Paolo, presumibilmente cugino del precedente maestro, assieme a un altro componente della vasta famiglia Carabillò, mastro Paolo figlio di Vincenzo, garantiscono per la durata di un anno il fonte alla venetiana di far pasta a mastro Antonino Piampiano di Collesano. Se il fonte dovesse rompersi, i due maestri castelbuonesi si impegnano a rifonderlo con attratto a carico del Piampiano, ma senza

Cfr. R. Termotto, “Mastri di Campane” cit. pp. 447-448. Ibidem, pp. 452-453. 21 Asti, not. Vincenzo Gallo, vol. 6735, Collesano 7 luglio 1785. Il notaio Gallo era anche organista della locale chiesa madre. 22 Asti, not. Vincenzo Gallo, vol. 6735, c.356 r, Collesano 10 novembre 1784. 23 Asti, not. Sebastiano Gambaro, vol. 3007, cc. 1083r- 1084 r, Castelbuono 27giugno 1790. 24 R. Termotto, “Mastri di campane”, cit., p. 453. 25 Asti, not. Vincenzo Gallo, vol. 6741, c. 249r-v, Collesano 29 dicembre 1790. 26 Asti, not. Melchiorre Mendoza vol. 3038, c. 499r-500r, Castelbuono 18 marzo 1792; l’affare va in porto e un anno dopo mastro Giuseppe dichiara di aver ricevuto rame e ferro per l’importo di 90 onze (Idem, vol. 3039, c. 1275r- 1276r, Castelbuono 31 luglio 1793). 19 20

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pretendere mastrìa27. Come visto, tra Settecento e Ottocento sono due i Carabillò di nome Giuseppe: uno è figlio di Paolo, come è pure inciso nella campana di S. Michele a Isnello fusa nel 1812, l’altro è figlio di Michelangelo, come risulta da vari atti a cui si è fatto riferimento. Non sappiamo chi dei due nel 1797 nomina un proprio procuratore per riscuotere il saldo relativo alla fattura di una campana fusa per la chiesa di S. Giovanni Evangelista di Cefalù28, così come sconosciamo chi nel 1817 si obbliga con la compagnia di S. Antonino di Castelbuono a fondere una campana vecchia del peso di oltre un quintale e rifarla di poco più pesante per un compenso a corpo di 6 onze. In quest’ultimo caso, il fonditore dovrà rifare lo stemma e tutte le lettere che si ritrovano nella vecchia campana, fornire garanzia di sette anni e, se la campana non riuscirà bene, dovrà romperla e rifarla a sue spese29. Nel 1818 mastro Giuseppe del fu Michelangelo riceve da Lucio Cicero Reggino, procuratore della chiesa di S. Nicolò di Castelbuono, la somma di quasi 8 onze per mastrìa e metallo impiegato per la fusione della campana della chiesa30. Ancora sui Garbato e altri fonditori di Tortorici Sui Garbato di Tortorici e su altri maestri fonditori di campane dello stesso centro presenti a lungo nelle Madonie ci siamo occupati in un nostro precedente lavoro31, ora aggiungiamo altri dati d’archivio sugli stessi. Nel mese di febbraio del 1590, a Castelbuono, i mastri Graziano e Andrea Xharbato si obbligano con Ottavio Vinciguerra e il presbitero Antonino Gugliuzza, rettori della chiesa madre, a fondere una campana per la loro chiesa32. Poco dopo, nella stessa cittadina dei Ventimiglia, mastro Graziano Garbato si obbliga a fondere una campana per la chiesa di S. Sebastiano per la somma di 15 onze33, mentre successivamente è mastro Pietro Garbato che lavora a una campana per lo stesso centro34. A volte, i maestri della famiglia si spostavano in squadra. Nella primavera del 1598, mastro Pietro Garbato si obbliga con la chiesa madre dei santi Pietro e Paolo di Caltavuturo a realizzare una campana dal peso di 64 rotoli35, mentre nel 1600 Graziano Garbato si impegna con fra Vincenzo Saladino, vicario e procuratore del convento domenicano di Castelbuono, a fondere una campana per la ricompensa di onze 1.1 a singolo cantàro36. Due anni dopo, un altro esponente della famiglia Garbato, mastro Andrea, è operoso a Petralia Sottana. Risulta, infatti, che nel mese di aprile del 1602 magister Andreas Carbatu civitatis Turturechi si obbliga col procuratore della cappella (chiesa) di S. Giovanni Battista della ricordata cittadina a fare due manici per la campana e non possa ditta campana perdiri il sono chi Asti, not. Melchiorre Mendoza, vol. 3053, c. 858r, Castelbuono 20 maggio 1806. not. Gaetano Gambaro, vol. 3112, cc. 382r-383r, Castelbuono 28aprile 1797. 29 Asti, not. Gaetano Gambaro, vol. 3129, cc. 289r-290r, Castelbuono 9 maggio 1817. 30 Asti, not. Antonio Maria Mendoza, vol. 3316, c. 559r-v, Castelbuono 25 agosto 1818. 31 R. Termotto, “Mastri di campane”, cit., e bibliografia ivi citata. 32 Asti, not. Pietro Paolo Abbruzzo, vol. 2195, cc. 169r-170r, Castelbuono 12 febbraio 1589 (ma 1590, secondo lo stile corrente). Si tratta di un volume molto frammentario che oltre a contenere le minute del notaio Abbruzzo degli anni 1589/92, raccoglie vari altri spezzoni inerenti parecchi anni dell’intero secolo XVII e un frammento del 1720 di notai sconosciuti). La chiesa madre è da identificare con l’attuale Matrice Vecchia. 33 Ibidem, c. 207r-v, Castelbuono 2 aprile 1590. 34 Ibidem, c. 215r-v, Castelbuono 25 aprile 1590. 35 Asti, not. N. N. di Caltavuturo, vol. 169 II serie, c. 102v, Caltavuturo 8 aprile 1598. Debbo la segnalazione dell’atto all’amico Luigi Romana. 36 Asti, not. Francesco Schimmenti, vol. 2263, c. 152r-v, Castelbuono 1 agosto 1600. 27

28Asti,

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havi; in caso contrario il Garbato è tenuto a rifonderla e squagliarla di nuovo a proprie spese e inoltre il nuovo manufatto dovrà risultare dello stesso peso o meglio e di miglior suono che l’attuale. Il tutto pro mercede di 4 onze con anticipo di due e garanzia per i manici di 10 anni. Lo stesso giorno, il maestro Garbato si obbliga a fondere e squagliari la campana della chiesa madre facendola dello stesso peso e miglior suono per il compenso di altre 4 onze37. Pochi e nuovi sporadici dati concernono altri maestri di Tortorici già noti. Il primo di essi è il magister campanarius Sebastiano Messina che nel settembre del 1625, nel pieno dell’ondata di peste che sconvolge pure Collesano, riceve 13 onze per una campana di un cantàro di peso fusa per la locale chiesa madre38. Ancora per la chiesa madre di Collesano lavora mastro Jacobo Ciancio che aveva stipulato un contratto per la fornitura di due campane in notaio Giovanni Filippo D’Angelo e ora consegna la prima dal peso di 72 rotoli ai procuratori della chiesa, don Leonardo de Blasio e notaio Pietro Tortoreti. La campana nuova viene valutata ad rationem di tarì 6.5 a singolo rotolo per un totale di 15 onze che il maestro dichiara di aver ricevuto: per onze 14.26 come corrispettivo della campana vecchia consegnatagli, computata a tarì 4 al rotolo, e il restante di 4 tarì in contanti. Inoltre mastro Jacobo garantisce la campana per tre anni, impegnandosi a rifarla in caso si spezzassi, con il solo vitto e la legna necessaria a carico dei committenti39. Nel 1639 compare il maestro Domenico Russo che ottiene dilazione per la consegna di un lamperium alla chiesa di S. Maria Maggiore di Isnello per il quale si era impegnato più di un anno prima40, mentre la stessa chiesa, parecchi anni dopo, affida la fattura di una campana al maestro Giacomo Varotta (Marotta) che la esegue regolarmente41. Su un altro versante, nel 1643 è Francesco Russo a ricevere dall’università di Caltavuturo 2 onze, tramite il priore del convento agostiniano, per la fattura di una campana42. Note sui Giarrusso e altri fonditori Il maestro Francesco Giarrusso, qualificato cittadino di Petralia Sottana, nel 1645 realizza la conocchia della campana della chiesa madre di Polizzi per la quale offre garanzia di tre anni e sei mesi, ricevendo poco più di un’onza pro magisterio43. Un decennio dopo è la volta di mastro Calogero Giarrusso di Enna che a Caccamo riceve dal procuratore della chiesa madre di S. Giorgio onze 9.15 per aver rifuso due campane rotte. La prima dal peso di un cantàro e 17 rotoli, chiamata Brigida, che riporta la scritta Jesus Maria Brigida ad honorem sancti Georgi anno domini 1627, reca anche le figure di santa Brigida e S. Giorgio, mentre l’altra, che riporta la scritta Christus vivit Christus imperat vox Domini anno 1630 sancta Rosalia, reca le figure di Santa Rosalia e S. Giorgio, oltre all’incisione degli anni 1611,1633 e 1655 che è quello dell’ultima Asti, not. Stefano Genovese, vol. 9646, numerazione erosa, Petralia Sottana 25 aprile 1602. Si tratta di due atti distinti. 38 Asti, not. Pietro Tortoreti, vol. 6440, c.26r, Collesano 9 settembre 1625. 39 Asti, not. Nunzio De Forti, vol. 6473, cc. 323v-324r, Collesano 2 giugno 1634. 40 Asti, not. Calogero D’Anna, vol. 4073, c. 142v, Cefalù 28 gennaio 1639. Lo stesso giorno, il fonditore ottiene dilazione per la fornitura di un altro lampadario alla chiesa di S. Michele della stessa Isnello. 41 Asti, not. Giuseppe Caracciolo, vol. 8174 C, c. 54r-v, Isnello 4 ottobre 1666. Il maestro verrà retribuito con onze 3.10 sei mesi dopo, come da nota a margine dell’atto. 42 Asti, not. Gregorio De Maria, vol. 1527, c. 219r, Caltavuturo 18 agosto 1643. Debbo la segnalazione dell’atto alla cortesia dell’amico Luigi Romana. 43 Asti, not. Gandolfo Nicchio (Nicchi), vol. 13265, c. 264r, Polizzi 2 agosto 1645. Nell’inventario dell’archivio il notaio è, erroneamente, inserito tra quelli di Termini. 37

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rifusione44. Infine, lo stesso maestro nel 1664 a Petralia Soprana si obbliga con il rettore della chiesa di S. Nicolò per la fusione di una campana dal peso di circa 59 rotoli45. Come confermano anche queste brevi note, i maestri fonditori di campane che operano nel vasto comprensorio delle Madonie, tra il Cinquecento e la fine del Settecento, sono provenienti quasi soltanto da Tortorici, Castelbuono ed Enna-Petralia Sottana. Il solo “intruso” che abbiamo intercettato con la presente ricerca integrativa è il palermitano Antonio lu Destivo che nel 1566 si obbliga per una campana con la chiesa madre di Petralia Sottana46. È Il caso di sottolineare che le principali botteghe di Tortorici operano su tutto il territorio siciliano, mentre quelle di Castelbuono e di Enna (i Giarrusso che si stabilizzano per matrimonio a Petralia Sottana), oltre che sulle Madonie e sui Nebrodi, sono documentate anche nel comprensorio termitano47 ove operano pure maestri di Burgio e di Palermo. Questo è il caso di Gaspare Romano che nel 1689 riceve da don Giuseppe Jacino, cappellano della confraternita di S. Giovanni Battista di Termini, una campana vecchia di 30 rotoli di peso per farne una nuova di 35 per la mercede di 2 onze. Alla consegna della vecchia campana sono presenti gli ufficiali della confraternita Ignazio Romano, Pietro Accurso, Francesco La Cavera e Francesco Navarra. La stessa operazione il fonditore palermitano conduce con Blasio Landro, sub marammerio della maggior chiesa della stessa cittadina, che gli consegna una campana di 40 rotoli per farne un’altra dello stesso peso entro la metà di agosto48, ma pochi mesi dopo i committenti delle due chiese sono costretti a nominare un proprio procuratore al fine di cercare di recuperare le campane dal fonditore palermitano49.

44Asti,

notaio non noto di Caccamo, vol. 621, c.133r, Caccamo 8 febbraio 1655. Asti, not. Sebastiano Pepe, vol. 9070, cc. 55r-56r, Petralia Soprana 25 ottobre 1664. 46 Asti, not. Antonio De Maria, vol. 9584, c.19v, Petralia Sottana 12 settembre 1566. 47 Per le campane di Ciminna cfr. Giuseppe Cusmano, Campane di Ciminna manufatti iscrizioni e fonditori dal XV al XX secolo, Palermo 2002. 48 Asti, not. Francesco Scotto, vol. 13506, cc. 141v-142r; 142r-v, Termini 25 giugno 1689. 49 Ibidem, numerazione erosa, Termini 18 ottobre 1689. 45

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Fig. 1. Collesano, Chiesa di S. Giacomo: campana grande del 1506, opera dei fratelli Gaspare e Pietro Campana di Tortorici; campana piccola del 1706 di autore ignoto, ma probabilmente di maestro castelbuonese

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Altre ricerche



Il convento dei padri conventuali minori di San Francesco di Assisi nella Terra di Santo Mauro. Ultimo atto DOMENICA BARBERA Tra i conventi della Terra di Santo Mauro se ne annovera uno che ha ospitato l’Ordine di San Francesco di Assisi. Era stato fondato nell’anno 1414 dai giurati ed è rimasto attivo per circa duecentoquarantotto anni1. Malgrado non siano più esistenti né la struttura conventuale né la sua chiesa il suo ricordo continua però a tramandarsi in maniera forte sino ai nostri giorni, a distanza di più di trecentocinquanta anni dalla sua soppressione. Il quartiere sviluppatosi nei pressi del convento continua infatti ad essere ricordato ancora oggi con la denominazione San Francesco. Ad onore della secolare attenzione dei cittadini di Santo Mauro per la cultura, nel corso del Settecento l’area dell’abolito convento di San Francesco veniva adibita a teatro comunale2 e tale è ancora ai giorni nostri, nonostante ampi periodi di chiusura per lavori di consolidamento, rifacimento o ristrutturazione che in questi secoli si sono avvicendati. Sono molte le trame teatrali passate sul suo palco. Trame che hanno appassionato i nostri avi ed i nostri stessi genitori per averle personalmente recitate come attori o per averle udite come spettatori dalle compagnie teatrali che in quel sito venivano a mettere in scena le loro produzioni. Ora alcune nuove acquisizioni documentali, emerse nell’ambito di una nostra più ampia indagine, vengono a scrivere tasselli inediti che inducono a seguire una traccia della sofferta trama della storia del convento stesso e della sua chiesa, su base documentale. È una storia nella quale si intravedono alcuni personaggi e alcune scene. Altre scene al momento non sono trascritte sul copione, attendono di essere definite. Per singolare ventura abbiamo però potuto riscostruire l’ultima scena, l’ultimo atto. É da lì che inizia la trama di un viaggio a ritroso appena intrapreso. L’ultimo atto coincide con la soppressione del convento di San Francesco di Assisi nella Terra di Santo Mauro con decreto del Papa Innocenzo X. Correva l’anno 1662 ed il convento ospitava i padri conventuali minori di San Francesco di Assisi. Il decreto papale veniva a sancirne l’abolizione per l’insufficiente disponibilità di rendite necessarie per garantire il suo mantenimento e per far fronte alle continue ristrutturazioni ed opere di consolidamento richieste dai frequenti danni alle strutture provocati da probabili smottamenti del terreno sul quale sorgeva. C’erano state diverse occasioni di necessità di intervento. Una consistente ristrutturazione era stata operata verso l’anno 1630 ed in quella occasione era stato ingrandito il volume della chiesa di San Francesco. A sostenerne le spese erano state principalmente le elemosine del popolo unite all’intervento dell’università3.

Sull’anno di fondazione del convento di S. Francesco nella Terra di Santo Mauro cfr. Salvatore Cucinotta, Popolo e clero in Sicilia nella dialettica socio-religiosa fra Cinque e Seicento, Messina 1986, pag. 448. Ringrazio Rosario Termotto per la segnalazione. 2 Tradizioni e Memorie della Terra di Santo Mauro, manoscritto di inizio Settecento del reverendo arciprete don Francesco La Rocca, pubblicato ed annotato dal Dr. Gioacchino Drago. Comune di San Mauro Castelverde, riproduzione in anastatica marzo 1997. Nota del Dr. Drago, a pag. 80, che riferisce dell’esistenza di due file di palchi e della demolizione del vecchio teatro nel 1937 per procedere alla ricostruzione del nuovo. 3 Tradizioni e Memorie della Terra di Santo Mauro…. cit., Raguaglio X, pag. 78. 1

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L’università della Terra di Santo Mauro, che era stata promotrice della fondazione del convento, era stata sempre presente nel soccorrerlo. In due suoi rendiconti che abbiamo avuto modo di trovare notiamo stanziamenti di somme sia a favore del convento di San Francesco che a favore del monastero di S. Maria La Catena. Nel 1615 vengono erogate a favore delle due istituzioni per provisione di loro vitto onze nove e tarì 24 cadauna, pari al costo di sei salme di frumento4. Nel 1651 vengono erogate a favore dei padri conventuali otto onze, pari al costo di quattro salme di frumento. Il sostentamento dei frati del convento di San Francesco si intuisce essere stato continuativo nel tempo, anche se nel 1651 notiamo nell’assegnazione dei fondi un lieve ridimensionamento che i giurati della Terra di Santo Mauro probabilmente hanno dovuto operare a causa della pessima situazione finanziaria di metà Seicento. Nel convento di San Francesco non viveva una comunità di frati numerosa. Nel 1651 sono segnalate sei persone. Fra esse con il padre guardiano fra Pietro da Petralia troviamo attestati: fra Mauro da Santo Mauro sacerdote, fra Michelangelo da Santo Mauro sacerdote, fra Pietro da Santo Mauro laico, fra Deco da Petralia giovine. Nella funzione di padre guardiano del convento troviamo inoltre tracce sparse che si collegano a fra Paolo Salvagio attestato nel 1612, fra Vincenzo Lo Proto, proveniente da Cefalù, attestato nel 16315, fra Giovanni Battista Zaffarana da Palermo e fra Zaccaria da Tusa attestati nel 1656. Sempre nell’anno 1656 nel convento è attestata la presenza di fra Francesco Polliniti da Santo Mauro e fra Bartolomeo da Palermo. Di fra Paolo Salvagio abbiamo un’altra traccia, successiva alla sua morte, che ci collega con un’altra figura importante per il convento di San Francesco. Si tratta di Paolo D’Ansaldo, in quel secolo suo principale benefattore, scomparso prima della soppressione del convento. Nel 1634 è attestato nella condizione di depositario di trenta onze, eletto da Pasquale Salvagio per ottemperare alle volontà del defunto fratello fra Paolo Salvagio6. Le trenta onze erano destinate al miglioramento di un loco di olivi e celsi del convento. Tra le soggiogazioni a favore sono registrate somme dovute da cittadini di altri luoghi, come tale Giovanni La Liotta di Palermo che risulta debitore verso il convento per quattro onze e per la relativa riscossione il padre guardiano Vincenzo Lo Proto aveva creato procuratore fra Tomaso da Palermo. Nel 1662, quando ne viene decretata la soppressione, nella funzione di padre guardiano del convento di San Francesco della Terra di Santo Mauro troviamo fra Michelangelo da Santo Mauro. Volendo “rendersi obediente al Decreto della Santa Sede Apostolica” egli redige l’inventario dei beni della chiesa e del convento. La seconda voce elencata nell’inventario riguarda uno dei simboli più prestigiosi della chiesa di San Francesco, una croce d’argento, che da sola ci dà subito conto delle drammatiche difficoltà finanziarie incontrate7. Trattasi appunto de la Croce de argento quale è impignorata. Tra gli altri beni figurano due calici con la coppa di rame con suoi pateri e pedi di ramo, una croce di rame, un paio di candileri di rame, due lamperi di stagno, cinque casubule con stole e manipoli, una casubula senza stola, cinque sopracalici di diversi Salvatore Cucinotta in Popolo e clero … cit., pag. 448, annota oltre alle sei salme di frumento anche la somma di cinquanta scudi annuali. 5 Fra Vincenzo Lo Proto viene nominato procuratore dai sacerdoti don Filippo Spallino (come rettore e cappellano della Maggiore chiesa di San Giorgio) e don Gabriele Ficarra (rettore e cappellano della Parrocchiale chiesa di Santa Maria Le Frangis) con il consenso dell’arciprete don Antonino De Marta. Archivio di Stato di Palermo, sezione di Termini Imerese (d’ora in avanti A.S.TI), Notai defunti, volume. 12017, c. 20. 6 A.S.TI, Notai defunti, volume12018, c. 20. 7 A.S.TI, Notai defunti, volume12049, c. 209. 4

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colori, quattro corporali, un messale grande e un altro dè morti, due padigline del Santissimo Sacramento uno rosso e l’altro scurato, un vasetto di stagno per l’olio santo, tre cammisi, una coltre usata, due altaretti, un paio di lapallazzi. L’elenco termina con l’indicazione di almeno cinque libri nei quali sono annotati i contratti, le rendite e i riferimenti alle persone che hanno obbligazioni verso il convento per censi o altre disposizioni. Tra di esse figurano Lucrezia Barberi, Giuseppe Terrisa, Antonio e Filippa Barberi, Filippo Giannì, Erasmo Giannì, Antonio Biondo, Leonardo Laurifici, gli eredi di Pietro Terrisa, Antonio Zito, Francesco Caruso, Battista Cicala, Madaleno Xalabba, Battista Garofalo, Mauro e Pietro Schimenti, Vincenzo e Antonio Sarrica, Filippo Scacciaferro, Giuseppe Di Franco, Antonio Pace. Nella lista dei beni stabili posseduti dal convento compaiono due vigne nel fego (feudo) di Russomanno, un lochetto di ulivi nel fego di Cacciaturi, un altro lochetto di ulivi nel fego di Cantarella, due altre partenze di ulivi nel fego di Carsa, un lochetto di celsi ed uno di ulivi, un loco di castagni nel fego di Croccani, un altro loco di castagni nel fego di Cacciaturi. L’inventario viene compilato d’ordine e mandato dell’arciprete di Santo Mauro don Giovanni Ficarra e dell’arcivescovo di Messina. Don Giovanni Ficarra è presente al rogito notarile del 23 giugno 1662 e si sottoscrive con fra’ Michelangelo. Nella premessa viene ricordato come il reverendo padre provinciale e commissario generale dell’Ordine dei Minori Conventuali Serafici di San Francesco di Assisi, Ferdinando Grimaldi da Enna, appena il mese precedente, nelle Definizioni del giorno due maggio dell’anno di quindicesima indizione 1662, avesse determinato che tutte le reliquie dei conventi soppressi dalla Santa Sede Apostolica fossero consegnati agli “illustrissimi e reverendissimi ordini dei luoghi a cui appartengono”. Fino ad allora i beni delle chiese soppresse avevano talvolta seguito altre vie8. Il reverendo arciprete Giovanni Ficarra interviene quindi anche in veste di assegnatario dei beni del convento soppresso. Ne ritroviamo riferimento di attribuzione in un documento di circa sette anni dopo, dove viene chiaramente indicato come assegnatario dei beni stabili e mobili del soppresso convento dei Minori Conventuali di Santo Mauro. L’assegnazione e concessione era stata fatta dal reverendissimo arcivescovo di Messina il 7 novembre 1663 in esecuzione del Decreto Pontificio dato a Roma il 2 luglio 1662 ed esecutoriato a Messina il giorno cinque dello stesso mese di novembre 1663, presentato ed esecutoriato nella Terra di Santo Mauro il primo gennaio 16649. Sembra poter dedurre, allo stato attuale delle referenze documentali, che i beni del convento dei padri conventuali minori di San Francesco siano stati in buona parte assegnati alla chiesa matrice di San Giorgio. Anche se con motivazione simile, la croce d’argento che era stata orgoglio del convento di San Francesco la ritroviamo successivamente, per bocca del reverendo La Rocca, nella chiesa di San Giorgio e utilizzata per le processioni solenni10. Nella matrice San Giorgio era anche confluito il tabernacolo del Santissimo Sacramento. Due

8 Nella precedente abolizione della chiesa di San Leonardo, ad esempio, monsignor Biagio Lo Proto aveva disposto di assegnare il materiale e le suppellettili alla chiesa matrice di San Giorgio mentre le “pochi renditi” erano state assegnate al seminario di Messina. Tradizioni e Memorie della Terra di Santo Mauro .. cit. , Raguaglio XV, pag. 95. 9 A.S.TI, Notai defunti, volume 12062, c. 232 (11 febbraio 1669). 10 Il reverendo Francesco La Rocca (Tradizioni e Memorie della Terra di S. Mauro .. cit, Raguaglio X, pag. 80), riferisce che la croce processionale d’argento fu data in pegno a don Filippo Spallino per dieci onze, e che restando abolito il convento di San Francesco rimase in potere dello Spallino che la diede alla matrice chiesa di San Giorgio. Occorre anche tenere presente che il sacerdote Filippo Spallino è stato rettore e cappellano della chiesa di San Giorgio.

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statuette di “angeli di legno dorato” erano invece state consegnate alla chiesa parrocchiale di Santa Maria Li Frangi11 e posti sull’altare maggiore. Dopo la soppressione del convento i beni stabili e mobili ad esso pertinenti erano stati assegnati al reverendo arciprete con l’intesa che avrebbe avuto cura della chiesa di San Francesco. Ma il convento, rimasto disabitato, aveva iniziato a rovinare ed anche la chiesa aveva iniziato a mostrare serie crepe nelle mura e nel pavimento, tanto da far temere il suo crollo e da suggerire al suo luogotenente di trasferire i quadri e le suppellettili nella chiesa di Santa Maria Li Frangi, allo scopo di metterli in salvo. È sempre del reverendo Francesco La Rocca il racconto di come, tornando da Roma agli inizi del mese di dicembre 1683 avesse provveduto a far riparare i danni verificatisi nel precedente inverno nella chiesa di San Francesco, a procedere al ripristino delle suppellettili e a tornare a celebrarvi messa. I tempi sottolineati da questo racconto mostrano quanto repentino potesse essere stato a volte il peggioramento delle condizioni di stabilità della chiesa di San Francesco. Nel 1682 vi erano state infatti trasportate ossa di cadaveri che erano stati sepolti nella chiesa di Santa Maria Li Frangi, durante un probabile svuotamento ciclico delle tombe o lavori di ristrutturazione della medesima. Alla fine di quello stesso anno nella chiesa di San Francesco si verificavano le narrate crepe alle mura e al pavimento, segno di un cedimento improvviso se si considera che solo qualche mese prima vi erano state accolte le ossa provenienti dalla chiesa di S. Maria Li Frangi. Nel 1699 il reverendo La Rocca procedeva con nuovi ripari alla chiesa12, scoraggiato però dall’eventualità che ogni riparo tornasse ad essere vano, probabilmente per una natura franosa del luogo. Sono ancora sue le preziose annotazioni che ci fanno rivivere le forme della struttura del convento consistente in un solo corridoio con quattro stanze dalla parte di tramontana, una stanza sopra che serviva da cucina, tre stanze al piano terra, ciascuna con la sua porta nel cortile e due stanze che servivano da dispensa, prima di essere state destinate all’ampliamento della chiesa e allo slargamento del cortile, dove c’era “una buona e grande” cisterna d’acqua13. I tre altari della vecchia chiesa erano intitolati uno al Santissimo Sacramento, uno a San Francesco di Assisi ed uno a S. Antonio da Padova. Pare di vederla, attraverso il racconto del reverendo La Rocca, la nuova chiesa ampliata verso l’anno 1630, con gli altari che adesso sono cinque, il bellissimo quadro dell’Immacolata Concezione, il tabernacolo sull’altare del Santissimo Sacramento, e l’altare della Madonna degli Angeli adornato con un quadro fatto a spese di Paolo D’Ansaldo, che lì sarebbe stato sepolto. Secondo l’usanza del tempo si era impegnato con un legato di un’onza annuale al fine di solennizzare la festa della Madonna degli Angeli, nella ricorrenza del due agosto14. Impegno che corrisponde a quanto si obbligavano coloro che detenevano ius patronatus sulle cappelle delle varie chiese, nel giorno della festa del Santo titolare del relativo altare, come abbiamo avuto modo di vedere spesso attestato.

11 Tradizioni e Memorie della Terra di S. Mauro .. cit, Raguaglio X, pag. 79. Trattasi della chiesa che oggi viene comunemente denominata Santa Maria de Francis, ma che nel Cinquecento e nel Seicento troviamo ampiamente denominata Santa Maria Li Frangi o Santa Maria Le Frangis o anche Santa Maria De Frangis. 12 Tradizioni e Memorie della Terra di S. Mauro .. cit, Raguaglio X, pag. 79. 13 Tracce di affioramento di acqua sono tutt’ora visibili in loco. 14 Tradizioni e Memorie della Terra di S. Mauro .. cit, Raguaglio X, pag. 78. Circostanza confermata dall’’inventario che rivela il legato di un’onza annuale per una messa da celebrare nel giorno della Porziungola.

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E ci sembra di vedere anche i pochi frati conventuali minori di San Francesco di Assisi nel loro modesto refettorio dar vita alla scelta di povertà del Santo fondatore consumando il loro pasto su una semplice e malconcia tavola con due sedili attorno. Sempre per voce del La Rocca ci resta anche il ricordo del palchetto di legno sopra la porta principale utilizzato dai frati per l’esercizio del coro e del piano davanti al convento delimitato da mura di pietra a secco con un arco nel mezzo. Il piano della chiesa di San Francesco aveva la caratteristica di godere dell’immunità ecclesiastica. Emergenze architettoniche quasi tutte scomparse, rovinate, demolite. Nella migliore delle ipotesi parzialmente riutilizzate per lodevoli fini culturali, con la successiva nascita (nel XVIII secolo) del Teatro che, con ampi periodi di chiusura e diverse ristrutturazioni, è arrivato sino ai nostri giorni. L’impianto conserva al suo interno un piccolo ambiente risalente alla vecchia struttura conventuale, opportunamente lasciato a memoria dell’antica configurazione. Il suo studio potrebbe suggerirci oltre a qualche nota relativa alla vecchia sistemazione architettonica del convento anche qualche ipotesi aggiuntiva o qualche conferma sulle cause della sua continua rovina. Dopo decenni di chiusura per ristrutturazioni, il teatro comunale di San Mauro Castelverde, intitolato alla memoria dello studioso maurino Mario Ragonese già nel 1996, veniva inaugurato il 27 febbraio 2000. Da quasi tre secoli, con alterne vicende, luogo di passioni culturali ed inconsapevole memoria di trame storiche ancora più antiche, nel cuore vivo del quartiere al quale il convento di San Francesco di Assisi dell’ordine dei padri minori conventuali ha lasciato il nome a suo imperituro ricordo, nella Terra di Santo Mauro.

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Fig. 1. San Mauro Castelverde (PA). Teatro comunale. Ristrutturazione del XX secolo del teatro ricavato nel XVIII secolo dal soppresso convento di San Francesco di Assisi.

Fig. 2. Ambiente dell’antico convento conservato all’interno del teatro.

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Il portale della chiesa delle Anime del Purgatorio di Cefalù Nuovi contributi documentari ELVIRA D’AMICO La chiesa delle Anime del Purgatorio costituisce uno degli scorci urbanistico-architettonici più caratteristici della città di Cefalù (fig. 1). La facciata col suo coronamento ondulato e il campanile a cuspide, chiaroscurata da finestre a oblò, appare collegata al piano stradale da una scalinata a doppia rampa della seconda metà del secolo XIX che emula le più belle realizzazioni scenografiche del Settecento siciliano. Essa è dotata di un corpo centrale costituito da un plastico portale colonnato con ornati e raffigurazioni attinenti alle anime purganti (fig. 2), sormontato da una finestra con timpano spezzato che accoglie un teschio sormontato da una croce, esplicativo dell’intitolazione della chiesa (fig. 3). Sulla storia e le vicende costruttive dell’edificio ecclesiale ci ragguaglia un approfondito contributo di Nico Marino1 da cui si apprende che una precedente chiesa di S. Stefano, retta dalla omonima confraternita, fu rilevata agli inizi del ‘600 dalla confraternita dei Nigri, o delle Anime del purgatorio, che la ricostruì denominandola sotto il suo titolo e ultimandone il prospetto nel 1668. A tale confraternita che ne diviene la nuova proprietaria, si deve oltre che gran parte della suppellettile dell’interno (fig. 4), anche l’edificazione del ricco portale recante, scolpiti nella locale pietra “Lumachella”, i chiari simboli identitari di essa. Esso è infatti costituito da due colonne con capitelli a festoni di frutti e negli imoscampi due anime purganti a bassorilievo; le colonne sorreggono una trabeazione retta su cui sono adagiate due volute “vegetali” sormontate da due figure simili ad angeli, ma più verisimilmente raffiguranti di nuovo anime del purgatorio, mentre la mostra sottostante contiene ai lati due teschi in gran parte abrasi. Il portale è ancora affiancato da grosse volute a chiocciola – molto simili a quelle di raccordo alla finestra sovrastante – poggianti su mensole ornate da mascheroni di profilo e sormontate da vasi fiammeggianti, secondo il corrente repertorio decorativo del barocco isolano. Infine, sulla chiave dell’arco è collocato uno stemma per buona parte abraso, contenente un’iscrizione2. È noto che in Sicilia, in specie dal periodo rinascimentale, i portali in pietra o in marmo costituiscono elementi a sé stanti ricchi di sculture o intagli attinenti all’intitolazione delle chiese, che finiscono col connotare l’intera struttura architettonica di esse3. In particolare, quelli realizzati nella tenera pietra locale, particolarmente adatta ad essere plasmata, denominata con nomi diversi a seconda delle diverse zone dell’Isola, sono opera di maestri intagliatori appartenenti a corporazioni, che si tramandano il mestiere di generazione in generazione, restando nella maggioranza dei casi sconosciuti rispetto agli architetti delle chiese. La loro opera, benché anonima, costituisce spesso la vera caratteristica di alcune facciate ecclesiali siciliane, come nel caso della nostra di Cefalù. N. Marino, La chiesa di S. Stefano sotto titolo delle Anime Purganti volgarmente detta la chiesa del Purgatorio, reperibile online. 2 Cfr. la Descrizione della chiesa ed oratorio ed inventario mobiliario degli arredi sacri, riportata dal Marino, cit. 3 S. Tusa,“Codice architettonico rinascimentale”. Mistretta tra XV e XVI secolo: considerazioni, in Arte in Sicilia. Studi per Elvira D’Amico, a cura di G. Bongiovanni, Palermo 2018, pp.39-45. 1

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Alcuni appunti archivistici, da me annotati alcuni decenni orsono all’Archivio di Stato di Termini Imerese, rivelano i nomi di almeno due “mastri” autori del portale della chiesa cefaludense, non altrimenti noti. Sebbene poco chiari e sgrammaticati nella esposizione, tali documenti danno però un’idea sufficiente del coinvolgimento di più maestranze nel complesso lavoro, con funzioni e specializzazioni diverse, secondo una prassi che affonda le sue radici nell’età medievale4. Il primo di essi, mastro Antonino Palumbo, il probabile capomastro dell’intera facciata e autore del disegno del portale, che dà in appalto l’opera a un mastro lapicida, con la clausola che questi coinvolga nel lavoro almeno un altro specialista; il secondo, mastro Gio Batta Caito o Lo Caito, verisimilmente il lapicida realizzatore degli elementi portanti di esso, cui va la cifra di onze 70; il terzo, mastro Francesco Camulino palermitano, lo specialista intagliatore-scultore che esegue le parti figurate e ornamentali del portale per poco più di onze 7. Dunque, nel novembre del 1667 “Magister Joannes Batta Caito” si obbliga a “mastro Antonino Palumbo” “a finire e fare tutta l’opera della porta della chiesa dell’Anime del SS. Purgatorio della città di Cefalù per onze 70… con obbligo di cominciare l’opera da domane innante… e finirla entro 5 mesi coi due mastri, cioè uno il detto del Caito”5. Il 3 dicembre dello stesso anno 1667 “Magister Franciscus Camulino di Palermo” si obbliga a “Giobatta Locaito” “lavorarsi dui menzi capitelli coi membretti attaccati delli pilastro conforme al disigno uni e alanciulini et un capitello sano della propria qualità della colonna in frontispizio conforme allo paro finuto et un anima del purgatorio con haverci a dare ditto mastro Batta li dui mensi capitelli in frontispizio sbuzato conforme all’altro con conditione che lo capitello che si trova a Cefalù ditto mastro Batta ha obligato portarcilo in questa citta a parte dove vorra ditto mastro Francesco con travagliare con essere obligato darceli finiti ditto mastro Francesco tra mesi 4 d’hoggi innante da contarsi bene magistrabilmente…Pro mercede unces septem e tt.duodecim…”6. Il Camulino, dunque, che dimora probabilmente nella città di Termini Imerese, la stessa del notaio Jacino che stipula l’atto, esegue gli ornati dei capitelli, le anime purganti alla base delle colonne e ‘l’anciulini’ sopra il portale, attenendosi al disegno dato. L’atto non menziona gli altri ornati del portale e lo stemma, probabilmente contenuti in un’altra tranche di pagamenti, riferibili presumibilmente agli stessi due mastri, l’uno, il Camulino, più versato nelle parti ornamentali, l’altro, il Lo Caito, autore delle modanature e degli elementi architettonici . Alcuni pagamenti in corso d’opera ai mastri Giobatta Caito e Francesco Camolino da parte di un Joseph lo Spagnolo, in data 8 dicembre 16677, ci forniscono pure il nome del probabile tesoriere della confraternita delle Anime del Purgatorio, committente dell’opera. I documenti attestano dunque che il portale, iniziato nel dicembre del 1667, dovette essere ultimato nell’aprile del 1668, confermando la data di ultimazione dei lavori della facciata della chiesa già resa nota dal Marino. Il risultato finale è quello di un lavoro artigianale dignitoso, che si inserisce appieno nell’ambito di altre consimili realizzazioni del barocco siciliano, come l’altro portale della chiesa delle Anime del Purgatorio di Sciacca, intagliato nella locale pietra arenaria, commissionato

S. Greco, Gli strumenti della fine arte del taglio, in L’arte degli intagliatori di pietra. Palazzo Ajutamicristo e le sue collezioni, a cura di L. Bellanca e M. De Luca, Palermo 2015, pp. 97-102. 5 Archivio di Stato di Palermo, sez. Termini Imerese, Notaio Leonardo Jacino, vol. 13402, ff. 189v-190. 6 Ivi, ff. 275-275v. 7 Ivi, f.280v. 4

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dall’omonima Congregazione del Purgatorio della cittadina dell’agrigentino, presumibilmente nella prima metà del secolo XVII (Fig. 5). Le figure Fig. 1. La chiesa delle Anime del Purgatorio di Cefalù, facciata e scalinata (foto Guido Ruggiero). Fig. 2. Gio Batta Caito e Francesco Camulino, il portale della chiesa delle Anime del Purgatorio di Cefalù, 166768. Fig. 3. La finestra della chiesa delle Anime del Purgatorio di Cefalù, sec. XVII. Fig. 4. Pittore siciliano, Cristo impartisce l’eucarestia alle Anime del purgatorio, olio su tela, 1813, chiesa delle Anime del Purgatorio di Cefalù. Fig. 5. Intagliatori siciliani, il portale della chiesa delle Anime del Purgatorio di Sciacca, sec. XVII. Figg. 6-9. Particolari del portale della Chiesa del Purgatorio di Cefalù (foto Giovanni Glorioso).

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Fig. 3

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La decorazione a stucco del periodo barocco a Termini Imerese e la chiesa di S. Maria della Misericordia ELVIRA D’AMICO Il recente restauro della chiesa della Misericordia di Termini Imerese e della sua decorazione a stucco ha restituito alla collettività un monumento integro, unitario e significativo per l’arte sacra della cittadina. La decisione poi di renderlo parte integrante del percorso del Museo civico Baldassarre Romano, col quale comunica tramite una porta laterale, adibendolo talora anche a sala conferenze, ne acuisce l’interesse e stimola la curiosità sulla sua storia e il suo corredo artistico, mettendolo alla ribalta di un pubblico particolarmente attento e sensibile agli eventi culturali. La cittadina di Termini Imerese, nota per le rilevanti stratificazioni di età antica, vede in età moderna una significativa stagione rinascimentale-manieristica, il cui esponente più noto è il pittore e architetto Vincenzo La Barbera. Meno nota è la successiva fase barocca, che annovera il passaggio di uno scultore di spicco, Gaspare Serpotta, padre del più famoso Giacomo, attivo nella chiesa del Monte tra il 1665 e il 1667, assieme al pittore nordico Johann Kraus che vi soggiorna per svariati anni1. Che il Serpotta godesse di una certa fama nell’antico centro del palermitano è dimostrato dal fatto che maestranze locali collocassero nella sua bottega i figli per l’apprendistato, come si rileva da un inedito atto notarile del 29 marzo 1665, in cui «Magister Petrus Antonius Menna […] se obligat Gaspari Serpotta mihi et(iam) co(gnitus) presenti stipulanti servitia Augustini Menna eius fili et servire pro famulo eius artis ut dicitur di stucchiatore pro annis quinque nudis et cursuris […] infra quod terminum de Serpotta teneatur ditto de Menna docere ditta artem stucchiare iuxta eius possibilitatem et ditto de Menna capacitatem et non aliter»2. È possibile, dunque, che lo scultore palermitano abbia dato il suo impulso alla locale decorazione plastica, rappresentata soprattutto da maestranze termitane, che negli stessi anni abbelliscono cappelle e intere chiese, come la Chiesa madre, per la quale il 20 dicembre del 1665 «mastro Didaco de Gerardo» vince l’appalto «per stocchiare tutta la nave, con l’affacciata sopra la porta, l’arco maggiore, gli archi, i sottarchi, il cornicione, le ghirlande con mensole» per un prezzo di onze 1083. Della vasta opera, oggi in massima parte perduta, rimane qualche brano nella cappella dell’Immacolata, che ci rivela come essa fosse perfettamente allineata ai dettami dell’horror vacui propri del barocco siciliano. Lo stesso de Gerardo dovette essere anche il principale artefice della decorazione della chiesa di S. Orsola, da lui ultimata nel 16764, sulla quale un altro inedito documento attesta che il 21 aprile del 1665 i mastri «Didaco de Ilardo e Pietro La Rosa» si obbligavano a stuccare quivi la cappella di S. Martino, «eo modo et forma pro un

E. D’Amico, Kraus Johann, in Dizionario Sarullo. Pittura-II, a cura di M. A. Spadaro, Palermo, 1993. I pagamenti per gli stucchi di Gaspare Serpotta nella chiesa del Monte, oggi perduti, sono registrati all’Archivio di Stato di Palermo, Sezione Termini Imerese (d’ora in poi ASPT), negli Atti del notaio Leonardo Jacino, al 27 marzo 1665 (vol.13398, f.511); al 24 ottobre 1666 (vol.13399, f.135); al 23 marzo 1667(vol.13401, ff. 440-440v). 2 ASPT, not. Geronimo Geraldi, vol. 13451, f. 51. 3 Ivi, not. L. Jacino, vol.13398, ff.275v.276v. 4 G. Corrieri, La chiesa di S. Orsola in Termini Imerese, Edizioni del Cancro 1972, p. 28. 1

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disigno detempto de communi eorum contraentium voluntate p. Sacerdotem don Paulum Impallaria cappellanum ipsius ecclesiae et hoc bene magistrabilmente secondo riquedi l’arte»5. Più nulla è rimasto degli stucchi seicenteschi della chiesa di S. Orsola, ma il documento è oltremodo interessante perché testimonia la prassi in base alla quale i maestri stuccatori locali dovessero attenersi a un disegno che doveva essere da essi detenuto, col benestare e previa approvazione del cappellano della chiesa. Pure sulla chiesa di S. Maria della Misericordia, fondata alla fine del secolo XV, e retta ab antiquo dalla omonima confraternita, fanno ora luce alcuni inediti documenti che ne illustrano la fase seicentesca, questa ancora esistente, attribuendone la paternità allo scultore-plasticatore Andrea Sceusa, conferendogli un ruolo di protagonista dell’arte barocca dell’antica città demaniale. Già il 20 ottobre del 1667 «Pietro di Giorgi maragmeri» riceve da Giuseppe Pirrello onze 62 «in conficiendo sei palmi a torno di fabrica dove si incomincia l’infrascritto damuso della chiesa di Santa Maria la Misericordia et anche per fare dui parti di detto damuso et stucchiare ditto damuso»6. Due anni dopo, il 12 maggio del 1669, «Andreas Sceusa civis thermarum coram nobis sponte se obbligat […] Don Joseph Pirrello uti cappellano Venerabilis Confraternitatis et ecclesie Sancte Marie Misericordie hujus civitatis[…] farci venti quattro statue di stuccho in detta chiesa con esser il stuccho bello bianco conforme richiede magistrabilmente con decoro conforme alla statua fatta in detta chiesa[…] Pro mercede ad rationem unze trium e tarì quindecim pro singula statua finito di tutto punto ex patto»7. In questo caso pare dunque che il “modello” fosse costituito da una statua eseguita preventivamente dallo scultore alla quale, in caso di approvazione da parte del committente, egli si sarebbe dovuto attenere per la prosecuzione dell’opera. Di Andrea Sceusa, artista abbastanza poliedrico se lavora anche come pittore agli apparati effimeri della Matrice8, si sa che nel 1668 esegue alcuni stucchi in una cappella della chiesa di S. Orsola9, ma la sua formazione è avvenuta probabilmente a Palermo, dove lo troviamo nel 1660 attivo nel cantiere di Casa professa, a realizzare stucchi nella cappella dei Tre martiri giapponesi assieme a Vito Sulfarello10. L’intervento sull’intera aula della chiesa termitana dunque costituisce la sua opera più importante, interamente assegnabile a lui, di cui si ha finora notizia. Dal punto di vista stilistico, la decorazione della chiesa della Misericordia appare aggiornata sulle ultime novità della plastica barocca che si andava svolgendo in alcuni oratori palermitani, con particolare riferimento all’opera di Vito Sulfarello, cui sembra rifarsi la soluzione dei Santi entro nicchie rivestite da conchiglie nella parte sommitale, presente nell’oratorio del

ASPT, not. G. Geraldi, vol. 13451 ff. 56-56v. Ivi, not. L. Jacino vol.13401, ff.740-741v. 7 Ivi, vol.13403, f. 446. 8 Biblioteca Liciniana di Termini Imerese, Libro delli Tesorieri della Ven. Cappella del SS. Sacramento della Maggior chiesa, p.155: «a 2 luglio 1669 o.16 pagate ad Andrea Sceusa per haver fatto un giardino tutto impelagostato in prospettiva con suo baldacchino tutti di cartonetti coloriti inargentati per colore, argento, colla, legname, cartoni, mastria d’accordio che servì per la festa del Corpus Domini»” – Ivi, p.165: «a 29 ottobre 1670 o.2.12 ad Andrea Sceusa pittore per havere fatto in pittura un paradiso d’angeli e una sfera dove stava il SS.° Sacramento per la detta solennità». 9 G. Corrieri, op. cit., pp. 27-28. 10 V. Sola, Sceusa Andrea, in Dizionario Sarullo -Arti decorative in Sicilia-IV, a cura di M. C. Di Natale, Palermo 2014. 5 6

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Carminello (ultimato nel 1665)11, oppure l’uso di colonne tortili per l’altar maggiore, visibile nello stesso oratorio, di poco antecedente12. Ciò non è forse un caso se si pensa che lo Sceusa è pure presente al Carminello, come fideiussore dello stesso Vito, assieme al fratello di lui Andrea Sulfarello, a favore della compagnia della Madonna del Carmine, committente dell’opera13. È probabile che, nel caso della chiesa di Termini Imerese, lo Sceusa abbia avuto la sua parte, oltre che nelle scelte stilistiche, anche nella programmazione dei contenuti iconografici dell’intera opera, di concerto col Superiore della confraternita, come spesso avveniva. A una teoria di statue di Santi, Evangelisti e Dottori della chiesa, collocati su piedistalli entro nicchie lungo le pareti della navata, si sovrappone nel registro superiore una serie di statue di Profeti ed altri personaggi del Vecchio Testamento, parimenti alloggiati entro nicchie. I Santi in basso sono poi sormontati da figure angeliche a rilievo recanti corone, entro cornici rotonde di fiori e frutti, ed appaiono intervallati da lesene corinzie scanalate, alla cui base sono apposti medaglioni a bassorilievo contenenti allegorie di Virtù, sovrastate ora da un pellicano che nutre i piccoli, simbolo del Sacrificio eucaristico, ora da un’aquila con ali aperte, simbolo dell’Ascensione di Cristo. Dunque un programma iconografico articolato ed erudito, in rispetto a quella libertà inventiva e sapienza concettuale propria in particolare delle compagnie e confraternite di età barocca, in cui Il Vecchio Testamento ha un ruolo prefigurativo del Nuovo, in connessione alla previsione della virtù eroica dell’Immacolata ed alla sua purezza e le Allegorie, in genere rappresentanti le Virtù – teologali e cardinali – hanno il compito di elevare spiritualmente e condurre alla salvezza, al fine di solennizzare nell’unitarietà del linguaggio figurativo-simbolico la gloria della Vergine e della regola liturgica del Rosario14. Non par dubbio, dunque, che pure nella chiesa termitana della Misericordia la nuova veste figurativa barocca sia finalizzata alla glorificazione di Maria a cui essa è intitolata, come suggeriscono anche le pale sacre contenute negli altari laterali, sormontate da cartigli esplicativi in stucco, culminanti nell’Immacolata del La Barbera, posta sull’altare maggiore. Ciò era testimoniato anche dal pregevole trittico quattrocentesco di Gaspare da Pesaro, raffigurante la Madonna della Misericordia tra S. Michele Arcangelo e S. Giovanni Battista, che vi troneggiava originariamente, identificativo appunto della dedicazione della chiesa e confraternita, ed oggi esposto, dopo un lungo soggiorno nel capoluogo siciliano, nel vicino Museo civico. In una cittadina dotata di una sua peculiare fisionomia artistica, non nuova ad altre vaste imprese iconografico-celebrative – come quella rinascimentale degli affreschi della chiesa di S. Caterina, oppure l’altra tardo-manieristica delle pitture del Palazzo comunale, volte alla esaltazione della storia dell’antico sito romano – la chiesa confraternale della Misericordia presenta un altrettanto complesso programma teologico inneggiante alla Vergine, rappresentato in un materiale sobrio e “povero” come lo stucco, benché altamente versatile ed atto anch’esso alla narrazione per immagini, che solo di lì a qualche anno avrebbe ricevuto, nella vicina città di Palermo, il suggello della grande arte, ad opera del genio di Giacomo Serpotta. 11 P. Palazzotto, La committenza confraternale. Giacomo Serpotta e il fasto degli oratori palermitani tra XVII e XVIII secolo, in La “sovrabbondanza” nel Barocco, Atti del convegno tenutosi a Palermo il 22 giugno 2018 presso la Facoltà Teologica “San Giovanni Evangelista”, a cura di V. Viola, R. la Delfa, C. Scordato, Euno Edizioni Palermo 2019, p. 237. 12 G. Mendola, L’Oratorio della Madonna del Carmine, detto il Carminello, in Giacomo Serpotta, Gli oratori di san Mercurio e del Carminello a Palermo, a cura di S. Grasso, G. Mendola, C. Scordato, V. Viola, Facoltà Teologica di Sicilia, Euno Edizioni, Leonforte (Enna), 2014, pp. 69-81, p. 73. 13 Ivi, p.75. 14 P. Palazzotto, Gli oratori di Palermo, Rotary Club Palermo, Grafiche Renna S.p.A. Palermo, 1999, pp. 44-45.

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Le figure 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Chiesa di S. Maria della Misericordia, Termini Imerese, Decorazione a stucco, 1669 ca. Soprintendenza ai BB.CC.A. di Palermo. Chiesa di S. Maria della Misericordia, Termini Imerese, Decorazione a stucco, 1669 ca. Soprintendenza ai BB.CC.A. di Palermo. Chiesa di S. Maria della Misericordia, Termini Imerese, Decorazione a stucco, 1669 ca. Soprintendenza ai BB.CC.A. di Palermo. Andrea Sceusa, statua in stucco di S. Gregorio, 1669, Chiesa di S. Maria della Misericordia, Termini Imerese. Soprintendenza ai BB.CC.A. di Palermo. Andrea Sceusa, statua in stucco di S. Bonaventura, 1669, Chiesa di S. Maria della Misericordia, Termini Imerese. Archivio Soprintendenza ai BB.CC.A. di Palermo. Gaspare da Pesaro, trittico raff. la Madonna della Misericordia tra S. Michele Arcangelo e S. Giovanni Battista, olio su tavola 1453, Museo civico di Termini Imerese. Soprintendenza ai BB.CC.A. di Palermo.

Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

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Fig. 5

Fig. 4

Fig. 6

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Rinascimento madonita La scultura lignea e la pittura di Giacomo e Manfredi De Dato di San Mauro Castelverde BRUNO DE MARCO SPATA La storia della scultura lignea siciliana tra rinascimento e barocco, nonostante i recenti progressi della ricerca soprattutto archivistica, è ancora tutta da scrivere e da scoprire. La presenza di numerose statue lignee nei centri di provincia ha surrogato, in un certo senso, la più aulica scultura in marmo di tutti i componenti della famiglia Gagini nelle varie generazioni. Tuttavia, per la deperibilità insita nella materia stessa, molta produzione lignea del Cinque e Seicento è andata distrutta. Non mancano però, dai documenti di archivio, testimonianze di una intensa attività nei centri minori, specie delle Madonie, da parte di singoli artisti locali o addirittura di botteghe familiari organizzate in senso artigianale, come nel caso della famiglia De Dato di San Mauro Castelverde. In verità il nome di un Manfredi De Dato (storpiato in De Daro), era affiorato già in una pubblicazione dello studioso Magnano di San Lio dedicata a Castelbuono per una notizia non artistica ma strettamente biografica. Il nome di Manfredi De Dato, forse fratello minore di Giacomo, è documentato per la prima volta in un atto del notaio Fabio Zafarana di Palermo (vol.5640, c.385r) del 22 marzo 1558 nel quale si legge che “Magister Manfrido De Dato Pictor de San Mauro presens Urbis Panormi, se debitorem costituit unciarum 3 Angelo Raguseo, civis pan., pro pretio et valoris tante quantitatis raubarum et colorum...”. Alla carta n°409 dello stesso volume stesso notaio, corrispondente alla data del 7 maggio 1560 trovasi un altro atto col quale si obbliga a pagare onze 4 e tarì 10 sempre ad Angelo Raguseo “pro tante quantitate auri”. Il 30 marzo 1565 VIII ind. con un atto stipulato sempre a Palermo presso lo studio del notaio Gio: Giacomo Potenzano (vol.7900, c.418v), Manfredi De Dato si costituisce debitore nuovamente di Angelo Raguseo di onze 4 e tarì “pro pretio et valore tante quantitatis colorum in pulvere diversorum fortium nec non et tante quantitatis auri et argenti de pannella...”. Il 15 aprile 1569 XII ind., con atto in notar Andrea Buxello di Palermo (vol.8317, c.577v), si costituisce debitore di Jo: de Laudato di onze 3 “pro pretio tante quantitatis pannillorum aurei...”. Se teniamo conto della scarsa viabilità che c’era nella Sicilia del ‘500 e della lontananza di San Mauro Castelverde dalla capitale, si potrebbe verosimilmente pensare che in tutte queste occasioni, Manfredi De Dato si sia potuto trovare a Palermo oltre che per comprare materiale da lavoro anche per eseguire opere commissionategli. Sempre Manfredi lo troviamo documentato nel 1567 per avere eseguito alcune opere nella chiesa di Santo Antonio di Prizzi, mentre due anni dopo, con la sola qualifica di Pictor de Terra Sancti Mauri, riceve la committenza da parte della Confraternita di San Giacomo di Gratteri di una Imaginem Sanctissime Trinitatis relevata, come risulta da un atto del notaio Sebastiano Tortoreti del 16 settembre 1569. Da questo atto risulta altresì una notizia biografica che riguarda un breve periodo di reclusione nelle carceri di Collesano per la qual cosa l’artista Manfredi viene costretto a chiedere ai committenti, una proroga per la consegna dell’opera. Concludiamo le notizie sul pittore Manfredi De Dato, dicendo che in un atto del 2 ottobre 1573 del notaio Girolamo Campanella (vol.9471), l’artista è riportato come No. Manfrido de Dato de terra Gratteri. 111


Più rilevante sembra risultare la figura di Giacomo De Dato, il quale è attivo a Corleone, patria delle famiglie dei bravi intagliatori Scaturro e Milazzo, ampiamente documentati dallo scrivente nel lavoro “Arte e artisti a Corleone” (Pa., 2003), nonché a Chiusa (Sclafani) patria della celebre famiglia di scultori lignei Lo Cascio e a Prizzi, dove, con la qualifica di Pictor et Deaurator eseguì una cona in rilievo per la chiesa di San Biagio, come da atto del notaio Giacomo Anselmo da Chiusa, del 13 marzo 1545, stimata in onze 130 come riferisce lo studioso Giovanni Mendola. Nello stesso anno realizza la statua di San Giuliano con fregi dorati, per la chiesa eponima di Chiusa, come da atto del 20 aprile 1545 in notar Pietro Anselmo. A Corleone si trova l’unica opera superstite di Giacomo, ossia il gruppo ligneo dei Santi Elena e Costantino, situato nella chiesa eponima e realizzato su commissione della Confraternita di Sant’Elena nel 1539, come risulta da atto del 26 aprile di quell’anno del notaio Andrea Riccobono, allorché l’artista si impegnò a “facere imaginem Santi Costantini di lignami di relevo un pocu più grandi di la imagini chi è fatta di Sancta Elena noviter fatte et aportate per dittum Magistrum Jacobu et consignati nobilis Confratribus Ecclesie Sante Elene Terre Corlionis nec non et lu scannello di lignami conformi di potiri conduchiri a ditti Immagini”. Come si evince dal documento, dovevasi trattare di un gruppo processionale, tuttavia nel ‘700 le due statue vennero situate nell’altare maggiore entro una fastosa macchina lignea barocca (vedi foto). Dall’opera risulta che Giacomo De Dato doveva essere un artista di buon livello, formatosi probabilmente nella Capitale, dove la cultura figurativa manieristica sintetizzava la linea rinascimentale italiana con influssi iberici, specie nei motivi ad estofado cioè secondo quella tecnica di decorazione della quale ci si serviva per la realizzazione di immagini sacre, tabernacoli, vare, pulpiti, cornici e altro su legno policromato. Il soggiorno corleonese di Giacomo De Dato si protrasse fino al 1551, anno in cui acquistò per otto onze, da sua cugina Petruccia, vedova di Nicola De Dato, una casa a San Mauro (Castelverde), sita nel quartiere di Santa Margherita, vicino alla casa di Antonino De Dato, come da atto del 26 ottobre dello stesso notaio Riccobono. E’ probabile dunque che negli ultimi anni di vita, l’artista si sia potuto ritirare nella “sua” San Mauro, ove è documentato, alcuni anni dopo, un suo figlio di nome Battista il quale seguì probabilmente la tradizione di famiglia. Ad onor del vero Giacomo De Dato lo troviamo nuovamente a Corleone grazie a un atto stipulato presso il notaio Bartolomeo D’Ampla di Corleone il 28 aprile 1571 (V st., vol.496, cc.1358r-1359v) nel quale leggiamo che Magister Jacobo De Dato de terra Santi Mauri, si obbliga con Don Domenico La Barbera di Corleone della Confraternita di San Marco, “deorare et depingere auri et coloris finis imagini Santi Marci... con il patto che la statua sarà consegnata entro la vigilia della festa di Santo Marco e con l’obbligo del detto di La Barbera di dare a detto Magistro Jacobo stancia et letto per dormiri”. A margine dell’atto trovasi annotato che in data primo settembre 1574, Don Andrea La Prena, procuratore di Giacomo De Dato, giusto atto in notar Sebastiano Polizzotto di San Mauro del 26 agosto 1564, riceve dai Giurati di Corleone onze 6 in aggiunta delle onze 8 già pagate a Mastro Giacomo De Dato, “pro pretio imaginis seu figura Sancti Marcij”. Subito dopo troviamo un altro atto stesso notaio stessa data, con il quale si obbliga con i confrati della parrocchia di San Giovanni Battista di Corleone “deorare et depingere auri et coloris finis ut vulgo dicitur fini imagini Santi Joanne Battista, pro magisterio Antonino Bocognito cum lo suo scannello et relevi...” Per l’occasione riceve onze 4 e più altre 4 le riceverà a metà dei lavori e il resto alla consegna dopo otto mesi. 112


Con un terzo atto, stesso notaio stessa data, Giacomo De Dato si obbliga con la confraternita di San Ludovico di Corleone, “deorare et depingere auri et coloris ut vulgo dicitur fini la imagini di Santo Lugdovico cum lu suo scannello...” incominciando il lavoro dal primo ottobre per finirlo entro maggio con un acconto di onze 4 e altre onze 4 dopo 8 mesi, il resto alla consegna. Infine troviamo l’obbligo da parte dei confrati di fornire all’artista i calciamenta, la stanza e il letto per dormire. Si spera con il presente scritto, di avere tirato fuori dall’oblio questa famiglia di artisti eclettici di San Mauro Castelverde che ebbe un ruolo rilevante nell’arte della scultura lignea e nell’arte decorativa del ‘500 madonita. APPENDICE DOCUMENTARIA De Dato Giacomo Famiglia di scultori lignei e pittori di San Mauro Castelverde, infatti oltre Giacomo troviamo il pittore Manfredi (Bruno de Marco Spata, Arte e artisti a Corleone, Pa, 2003, pp.41-43 Rivista Palermo, marzo-aprile 2006 anno XXVI, p.28). Nel saggio su Corleone alle pagine 41, 42 e 43 leggesi: Il 26 aprile 1539 XII indizione, si obbliga con la confraternita di Sant’Elena di Corleone “facere imaginem Santi Costantini di lignami di relevo un pocu più grandi di la imagini chi è fatta di Santa Elena noviter fatte et aportate per dittum magistrum Jacobu et consignati nobilis confratibus Ecclesie Sante Elene terre Corlionis nec non et lu scannello di lignami conformi di potiri cunduchiri a ditti imagini... presentibus ad hec honorabili mastro Joanni Scarpinato procuratori ditti capelle, nobili Joanni Coppula rettori ipsius ecclesie, nobili et egregio notarii Nicolao de Muria et honorabile Vincencio Scarpinato confratribus ditte cappelle presentibus et stipulantibus bene et magistribiliter ad servicium revidendum che sia a la Imperiali et di la forma et modu che è ditta imagini di Santa Elena d’un modo che sia meglio di ditta imagini huic ad annum unum continuum et completum consignati hic Corleone. Et hoc pro mercede ducatorum viginti quinque aureorum...” (notaio Andrea Riccobono di Corleone, vol.359, V stanza). Il 29 aprile sempre del 1539 si obbliga nuovamente con i rettori della cappella di Sant’Elena di Corleone “deorari et depingere imaginem Santi Costantini et Sante Elene cum eius scannello noviter fatte in cappella ecclesie ditte Sante Elene terre Corlionis...” (ibi, vol.359, c.90rv), da ricordare che Sant’Elena e San Costantino erano madre e figlio. (ibi, vol.367, c.21rv): Da un atto stipulato a Corleone il 26 ottobre 1551 apprendiamo che Giacomo de Dato acquista per 8 onze da sua cugina Petruccia vedova di Nicola de Dato, una casa a San Mauro Castelverde nel quartiere di Santa Margherita vicino alla casa di Antonio de Dato come da atto in notar Marco Pollachi di San Mauro. Da ciò si potrebbe dedurre che Giacomo de Dato dopo avere operato nel corleonese per alcuni anni, decide di tornare al suo paese. Nel 1545, per la chiesa della confraternita di San Biagio di Prizzi, realizza una “cona” con rilievi, la quale viene stimata onze 130 (G. Mendola, op. cit., p.24). Per l’occasione evidenziamo una imprecisione: che per un errore di stampa la data indicata è il 1575 e non il 1545, 113


cosa inverosimile in quanto lontana di ben 36 anni dal 1539, anno nel quale furono realizzate le due opere nuove qui segnalate. not. Bartolomeo D’Ampla di Corleone, V st., prima n. vol.496 cc.1354r-1355r: Ho: magister Jacobo de Dato de terra Santi Mauri cognito pro manus Antonino del fu Simone Maringo di Corleone, si obbliga hon. maestro Silvio Rosso e Francesco Santalucia confrati della parrocchia di San Giovanni Battista di Corleone “... deorare et depingere auri et coloris ut vulgo dicitur fini imagini Santo Joanni Batista, pro magisterio Antonino Bacognito cum lo suo scannello et relevi bene, diligenter et magistribiliter...”, per l’occasione il De Dato riceve onze 4 come acconto altre 4 le riceverà a metà lavori, il restante entro 8 mesi dopo la consegna dell’opera. A margine leggesi: die 2/3/1576 V ind. - G. Battista de Dato de terra Santi Mauri, figlio et heredi ditti quondam Jacobo de Dato dimostrato in forza di fede redatta dai giurati di San Mauro del 20 settembre con sigillo in calce, riceve dal nob. Silvio Russo onze 10 – et sunt ditte onze XXII et tarenos 18 pro manifatture et deoramento et alias expensas fatte pro dictum quondam seu alias personas pro eo et ? in imaginem Santi Joanni Baptista Corleone 28/4/1571 XIV ind. ibi, cc.1356r-1357r: Ho: magister Jacobo de Dato de terra Santi Mauri cognito pro manus Antonino quondam Simoni Maringo huius civitatis Corleonis, si obbliaga ho. magister Nicolao Durina huius civitatis Corilionis tanto a suo proprio nome nonché per parte magnifici Antonino quondam Francisci Maringo confratris confraternitatis Santi Ludovici huius civitatis preditte... deorare et depingere auri et coloris ut vulgo dicitur fini la imagini di Santo Lugdovico cum lu suo scannello bene, diligenter et magistribiliter... incominciando il lavoro dal primo ottobre e col patto di finirlo entro maggio con un acconto di onze 4 e altre onze 4 dopo 2 mesi, il resto alla consegna. Et ex patto ipse no. Jacobo dittum deoramentum, magisterium et picturam cum promissam affidavit et affidat ditto Durina stipulanti ut vulgo dicitur pro anno uno continuo et completo starranno bene et diligentemente et lu oro et pictura non si levirà, cripiranno ne scortichiranno... con l’obbligo che detto magistro Jacobo sia tenuto reconciare bene et diligentemente... e in caso defectu lignaminis imaginis preditte chi xaccassi et chi siano tenuti ipisi confrati da continenti expeduto lo magistro preditto farchi lo tabirnaculo et non aliter. Item chi duranti lo magisterio preditto ipsos Confratres siano tenuti darchi a ditto magistro stantja et letto undi pocza stari ipso magistro Jacobo duranti lo magisterio preditto... in pace. testes: magistro Silvio Russo et Francesco Santalucia S’ha da pingere bunardetti, bandirelli, fiamme, arborette con le sue gaghi che portano li galere nel arbore come pavranno per mezzo delle due prospettivi conforme ordenerà lo detto Ingegniero in pace. Con annotazione a margine: die 3/3/1576 (il giorno dopo la precedente) V ind. - magister Joannes Baptista de Dato de terra Santi Mauri quale figlio ed erede del fu Giacomo de Dato in forza di fede redatta con sigillo dai giurati di San Mauro fatta il 20 settembre V ind., riceve da magister Nicolao Durina onze 4 in conto delle onze 18 Corleone 28/4/1571 XIV ind. cc.1358r-1359v: Hon. magister Jacopo de Dato de terra Santi Mauri cognito pro magnificu Antonino quondam Simone Maringo huius civitatis Corilionis, si obbliga hon. Dominico La Barbera di Corleone... 114


tam uni confratribus Venerabilis Confraternitatis Sancti Marci deorare et depingere auri et coloris ut dicitur fini la jmagini di Santo Marco cum lo suo scannello bene, diligenter et magistribiliter... con il patto che la statua sarà consegnata entro la vigilia della festa di San Marco dell’anno sequenti... Et ex pacto ipse magistro Jacobo dittam deoraturam et pitturam... pro anno uno continuo et completo starranno bene et diligenter et lu oru et pittura non si leviranno cripiranno ne scortichiranno... et in caso defettu lignaminis imaginis preditte si xaccassi et chi siano tenuti ipsi confratri da continenti expeduto lo magistro preditto farchi lo tabirnaculo et non aliter... Item chi duranti lo magisterio preditto ipso don Dominico serà tenuto darchi a ditto magistro stancij et letto undi poza stari ipso magistro Jacopo duranti lo magisterio preditto Testes magistri Silvio Russo et Fr.sco de Santalucia A margine trovasi scritto: primo septembris 1574 – Nob. Andrea la Prena di San Mauro sponte quale procuratore di magistro Jacobo de Dato in virtù di procura fatta agli atti del notaio Sebastiano Polizzotto di San Mauro die 26/8/1574 seconda indizione, riceve onze 6 da Francesco Santalucia depositary iuratorum Corleonis... et sunt ad complimentum delle altre onze 8 corrisposte dal magistro de Dato... et uncias 14 sunt in compotum imaginis seu figuram ditti Sancti Marci Corleone 28/4/1571 XIV ind. notaio Agostino Lo Pacchio di Palermo, prima stanza, vol.7706, c.482r: Ho/ magister Joannes de Angilo de Lucas et magister Simon de Battista cives pan. fabri lignari et scultures in solidum habuerunt et receperunt a no/ Jacobo de Dato de terra Sancti Mauri absente uncias quinque de contanti in argento pro manum Filippi Botta de eodem terra Santi Mauri... et sunt infra solutioem cuisdam vare lignaminis costituende et faciende pro ipsos magistros obligatos... Testes: magister Martinu de Leone et Joannes Labruzo Palermo 11/5/1566 IX ind. In un altro lavoro dello scrivente, dal titolo “Scultori del legno, artisti ricercati” e pubblicato nella rivista “Palermo” (marzo-aprile 2006, anno XXVI, p.28) così si legge: “Più rilevante sembra risultare la figura di Giacomo de Dato, il quale è attivo a Corleone, patria dei bravi integliatori lignei Scaturro e Milazzo, a Chiusa (Sclafani), patria della celebre famiglia di Scultori lignei Lo Cascio e a Prizzi, ove, con la qualifica di “Pictor et Deaurator” esegruì una “cona” in rilievo per la Chiesa di San Biagio, come da atto del notaio Giacomo Anselmo da Chiusa, del 13 marzo 1545. Nello stesso anno realizza la statua di San Giuliano con fregi dorati, per la Chiesa eponima di Chiusa, come da atto in notar Pietro Anselmo del 20 aprile 1545. A Corleone si trova l’unica opera superstite di Giacomo, ossia il gruppo ligneo dei Santi Elena e Costantino, situato nella Chiesa eponima e realizzato su commissione della Confraternita di Sant’Elena nel 1539. Come si evince da un documento, dovevasi trattare di un gruppo processionale, tuttavia nel ‘700 le due statue vennero situate nell’altare maggiore entro una fastosa macchina lignea barocca. Il soggiorno corleonese di Giacomo de Dato si protrasse fino al 1551, anno in cui acquistò una casa a San Mauro (Castelverde), sita nel quartiere di Santas Margherita, vicino alla casa di Antonino de Dato. E’ probabile dunque che negli ultimi anni di vita, l’artista si sia ritirato nella “sua” San Mauro.”

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De Dato Manfredi notaio Fabio Zafarana di Palermo, prima stanza, vol.5640 c.385r: magister Manfrido de Dato pictor de terra Santi Mauri presens c. n. se debitorem constituit magister Angelo Raguseo civis pan. unciarum trium pon. gen. et sunt pro precio et valore tante quantitatis raubarum et colorum... Palermo 22/3/1558 seconda ind. ibi, vol.5641 c.409v: magister Manfredo de Dato pictor de terra Sancti Mauri, si costituisce debitore di Angelo Raguseo c. p. di onze 4 e tarì 10 pro tanta quantitate auri... Palermo 17/5/1560 terza ind. notaio Gio: Giacomo Potenzano di Palermo, prima stanza, vol.7900 c.418v: Hon: magister Manfrido de Dato pictor de terra Sancti Mauri se debitorem constituit no/ Angelo Raguseo civis pan. unciarum quatuor et tarenorum 5 pro pretio et valore tante quantitatis colorum in pulvere diversorum fortium nec non et tante quantitatis auri et argenti ad pannella... Palermo 30/3/1565 ottava ind. notaio Andrea Bruxello di Palermo, prima stanza vol.8317, c.577v: No/ Manfridus de Dato de terra Santi Mauri... sponte se debitorem constituit magister Jo: de Laudato unciarum trium p. g. et sunt pro pretio tante quantitatis pannillorum aurei per ipsum debitorem empti, habiti et recepiti ab ipso criditore... Palermo 15/4/1569 XII ind. Nel saggio Arte e artisti a Corleone dal XVI al XVIII secolo di Bruno De Marco Spata (PA., 2002, p.41) si legge: “Di questo pittore del XVI secolo non si conosce alcuna opera. Si sa della sua esistenza grazie ad un atto notarile stipulato a Corleone il 7 febbraio 1567, tramite il quale risulta creditore di onze 8 nei confronti della chiesa di Sant’Antonio di Prizzi per alcune opere fatte nella detta chiesa nei giorni precedenti (A.S. Pa., notaio Giovanni di Granà, stanza V, I numeraz., vol.438, cc.244v-245r).”. notaio Girolamo Campanella di Palermo, I st., vol.9458, c.71v: Hon. Manfridus De Dato de terra Gratteri si costituisce debitore dei Magnifici Nicolao de Vicari e Antonino Bonamico di Palermo pannieri di onza 1 e tarì 18 per panni Palermo 3/10/1573 II ind. Un articolo scritto dallo scrivente dal titolo “Scultori del legno, artisti ricercati” e pubblicato nella rivista “Palermo” (marzo-aprile 2006, anno XXVI, p.28) è dedicato a questa famiglia di scultori–pittori di San Mauro Castelverde. In esso, di Manfredi De Dato si legge: “In verità il nome di un Manfredi de Dato (storpiato in De Daro) era affiorato già in una pubblicazione dello studioso Magnano di San Lio dedicata a Castelbuono per una notizia strettamente biografica. L’attività lignea di Manfredi de Dato, forse fratello minore di Giacomo, è documentata la prima volta nel 1567 per avere eseguito alcune opere nella Chiesa di Sant’Antonio di Prizzi, mentre due anni dopo, con la sola qualifica di Pictor de terra Sancti Mauri, riceve la committenza da parte della Confraternita di San Giacomo di Gratteri di una Imaginem Sanctissime Trinitatis relevata.” 116


Il gruppo ligneo dei Santi Elena e Costantino, situato nell’omonima Chiesa di Corleone

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Le figure FOTO 1: Pianta del territorio del Comune di Collesano – anonimo, senza data ma post ottobre 1829 Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/27 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 1a: Pianta dell’abitato di Collesano – anonino, senza data ma post ottobre 1829 (particolare) Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/27 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 2: Pianta topografica del territorio del Comune di Gangi e zone limitrofe – ing. agrimensore Andrea Li Pani di Gangi, anno 1834 Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/28 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 2a: Particolare col centro abitato di Gangi – ing. agrimensore Andrea Li Pani, anno 1834 Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/28 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 2b: Pianta topografica del territorio del Comune di Gangi con gli ex feudi – ing. agrimensore Andrea Li Pani, anno 1834 Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/28 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 3: Pianta topografica del territorio del comune di Alimena con gli ex feudi aggregati e da aggregarsi dal territorio di Petralia Soprana e Petralia Sottana – Copia conforme della pianta catastale compilata dall’agrimensore Gioacchino Scelfo nel 1855 Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/24 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 4: Pianta topografica del territorio di Bompietro - Francesco Rinaldi agrimensore, anno 1853 Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/26 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 4a: I centri abitati di Bompietro e Locati – Francesco Rinaldi agrimensore, anno 1853 Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/25 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 4b: Centro abitato di Locati (particolare) – Francesco Rinaldi agrimensore, anno 1853 Archivio di Stato di Palermo, Direzione Centrale di Statistica, Carte Topografiche, carta 174/25 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 5: Polizzi. Terre già dell’Ospedale locale in contrada Corbo, soggette alla Regale chiesa della SS. ma Trinità di Polizzi – Gandolfo Termini regio agrimensore – XIX secolo Archivio di Stato di Palermo, Commenda della Magione di Palermo, busta 1671, c.1

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(Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 6: Polizzi. Vigne e terre in contrada dell’Acqua Nuova sotto S. Maria di Gesù, soggette alla Regale Chiesa della SS. ma di Polizzi e concesse a privati – Gandolfo Termini regio agrimensore, XIX sec. Archivio di Stato di Palermo, Commenda della Magione di Palermo, busta 1671, c. 2 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 7: Polizzi. Pianta delle vigne e terre site nella contrada Saraceni concesse a privati e soggette alla Regale chiesa della SS. ma Trinità di Polizzi – Gandolfo Termini regio agrimensore, XIX sec. Archivio di Stato di Palermo, Commenda della Magione di Palermo, busta 1671, c. 3 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 8: Polizzi. Pianta del giardino del sac. Vincenzo Siragusa nella contrada Dirupo Bianco, soggetto alla Regale chiesa della SS. ma Trinità di Polizzi – Gandolfo Termini regio agrimensore, XIX sec. Archivio di Stato di Palermo, Commenda della Magione di Palermo, busta 1671, c. 5 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23) FOTO 9: Polizzi. Pianta topografica della terra del Piano delli lucerti della Commenda della Magione di Palermo – Gandolfo Termini regio agrimensore, XIX sec. Archivio di Stato di Palermo, Commenda della Magione di Palermo, busta 1671, c. 4 (Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Sopr. Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, prot. N. 6056. 28. 10. 13/23)

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Un interessante dipinto di Giovanni Giacomo Lo Varchi a Castelbuono Il San Tommaso d’Aquino nella chiesa del SS. Rosario MARCO FAILLA «L’ho conosciuto così: ero entrata nella chiesetta dell’Annunziata costruita per volontà di Susanna Gonzaga a Collesano – il primo paesello delle Madonie, allungatosi pigramente tra un declivio ed una rupe brulla – per porgere il primo saluto a Donna Elvira Moncada, che giace dal 1406 in un bel sarcofago candido […]». È con queste parole che Maria Accascina, in un articolo pubblicato sull’edizione del «Giornale di Sicilia» del 17 luglio 19351, inizia il racconto del suo primo incontro con le opere di Giovanni Giacomo Lo Varchi (1606-1683), pittore e poliedrico artista collesanese, avvenuta nel corso del suo incessante peregrinare per i borghi e le chiese delle Madonie alla scoperta del ricco e prezioso patrimonio d’arte qui conservato. Nel suo articolo l’Accascina, passando in rassegna alcune delle principali opere di un artista che fino a quel momento restava per lei del tutto sconosciuto («Cerco nella mia memoria, ma tra tanti pittori e pittorelli antichi e moderni, Giacomo li Varco non c’è, proprio non c’è»), ne apprezzava, con grande sorpresa, le interessanti qualità pittoriche. Il saggio dell’Accascina segna la riscoperta del pittore collesanese e, al contempo, anche, il suo ingresso nella moderna critica artistica; tuttavia, occorrerà attendere almeno un sessantennio, fino ad arrivare nel pieno degli anni Novanta, per avere degli studi critici più approfonditi circa la vita e l’attività artistica del Nostro2. Il profilo che ne è emerso è quello di un buon pittore di provincia, molto legato alla tradizione ma al tempo stesso aggiornato sul panorama artistico, gli stili e i modelli iconografici più importanti del proprio tempo, che lo stesso assimilerà e rielaborerà nelle proprie opere, sempre caratterizzate da un marcato spirito devozionale, frutto del suo animo profondamente cristiano. Il dipinto oggetto del presente contributo riguarda una delle prime opere di un certo rilievo realizzata dal nostro artista nei primi anni della sua attività: si tratta per l’appunto della tela raffigurante San Tommaso d’Aquino conservata presso la chiesa del SS. Rosario di Castelbuono, a lui ricondotta su base documentaria.

M. ACCASCINA, Nei paesi delle Madonie: Giacomo Li Varco il pittore di Collesano, in «Giornale di Sicilia» del 17 luglio 1935. Lo stesso articolo venne ripubblicato dall’Accascina nella rivista «Giglio di Roccia» nel 1957, e riedito più recentemente in Maria Accascina e il Giornale di Sicilia. Cultura tra critica e cronache 1934-1937, a cura di Maria Concetta Di Natale, Caltanissetta 2006, pp. 186-189. 2 Si vedano: E. DE CASTRO, ad vocem Lo Varco Giangiacomo in L. SARULLO (a cura di), Dizionario degli artisti siciliani. Pittura, Palermo 1993, p. 305; R. TERMOTTO, Giovanni Giacomo Lo Varchi pittore di Collesano (1606-1683). Un allievo dello Zoppo di Gangi, in «Bollettino della Società Calatina di Storia Patria e Cultura», nn. 5-6 (1996-1997), pp. 259293; G. DAVÌ, Appunti sul tardo manierismo isolano, in Vulgo Dictolu Zoppo di Gangi, Catalogo della mostra (Gangi, Chiesa del SS. Salvatore - Palazzo Buongiorno - Chiesa Madre - Chiesa di S. Paolo, 19 aprile – 1giugno 1997), coordinamento scientifico di Vincenzo Abbate, Palermo 1997; V. ZORIĆ, scheda n. 59, La Circoncisione, in Vulgo dictolu Zoppo di Gangi, cit., pp. 258-260. Inoltre, più di recente: G. MENDOLA, Dallo Zoppo di Gangi a Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie, in VINCENZO ABBATE (a cura di), Porto di mare 1570-1670. Pittori e pittura a Palermo tra memoria e recupero, Napoli 1999, p. 58. A queste si aggiungono anche le ricerche documentarie edite negli anni Ottanta dallo studioso locale Francesco Scelsi, che hanno permesso di fare luce su diversi aspetti circa la vita e l’attività del Lo Varchi. 1

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La chiesa del SS. Rosario venne fondata per volere testamentario della marchesa Anna d’Aragona Tagliavia, moglie del marchese di Geraci Giovanni III Ventimiglia, deceduta due anni prima3 dell’inizio della sua costruzione, avvenuta nel 15833. Essa sorge lungo il limite orientale di Castelbuono, un tempo in posizione nettamente isolata rispetto all’abitato, e la sua fondazione avvenne in un periodo particolarmente fecondo sotto il profilo religioso per il centro ventimigliano, marcato dall’arrivo e dall’insediamento di nuovi ordini monastici (Cappuccini, Domenicani, Minori Osservanti, Agostiniani). Scrive a tal proposito Orazio Cancila che “L’insediamento dopo il concilio di Trento (1545-1563) di altri ordini religiosi, favorito dal marchese (e dalla sua famiglia) che vi scorgeva un ulteriore motivo di prestigio e di affermazione politica, significò anche la costruzione di nuovi conventi e di nuove chiese, che modificavano notevolmente il volto del borgo, collocati com’erano in aree periferiche le più elevate”4. La chiesa, ad unica navata, presenta diversi altari distribuiti lungo le pareti, il primo dei quali, entrando a destra, ospita la nostra tela. Il dipinto, come accennato, è attribuito al Lo Varchi sulla scorta di un documento pubblicato alcuni anni fa da Rosario Termotto5, nel quale il pittore nel gennaio del 1630 si impegnava con padre Giulio Trabona, vicario del venerabile convento di San Domenico di Castelbuono, a «facere quatrum unum Imaginis dive thome», delle dimensioni di «longitudinis undecim palmorum cum sua proportione», pari cioè ad un’altezza di 275 cm. (corrispondente quasi perfettamente con l’altezza reale della tela, che misura 279 cm. di altezza per 203 cm. di larghezza), per il prezzo pattuito di dieci onze. Nel corso della propria vita il Lo Varchi ebbe rapporti molto stretti con i domenicani di Collesano, per i quali realizzerà diverse opere6 e nella cui chiesa verrà seppellito dopo la morte7. In questa vicinanza potrebbe individuarsi, verosimilmente, l’origine della committenza per il dipinto castelbuonese, che tuttavia non rappresenterebbe la sola opera realizzata dal nostro pittore per dei domenicani fuori dal centro natìo8. Il dipinto, restaurato poco meno di un decennio fa9, presenta particolare rilievo non tanto per la sua qualità pittorica – che tra alti e bassi rimane comunque di buon livello – quanto per il soggetto rappresentato, veramente originale ed interessante. Ma leggiamone dunque i contenuti figurativi. O. CANCILA, Nascita di una città. Castelbuono nel secolo XVI, collana «Quaderni Mediterranea ricerche storiche», n. 21, Palermo 2013, tomo II, p. 478. 4 Ivi, p. 474. 5 R. TERMOTTO, Una tela di Giovanni Giacomo Lo Varchi a Castelbuono, in «Le Madonie», n. 5 (maggio 2007), p. 3. Antonio Mogavero Fina attribuiva invece quest’opera al Salerno (A. MOGAVERO FINA, Castelbuono. Sintesi storicoartistica, Castelbuono 2002, p. 84). 6 Per la chiesa dei domenicani di Collesano, l’artista realizza infatti un ciclo di affreschi con S. Domenico che predica agli Albigesi; quattro tele, esistenti almeno fino alla seconda metà del XIX secolo e di cui oggi si sono perse le tracce, tra le quali un S. Tommaso d’Aquino, e infine il dipinto ancora esistente raffigurante la Circoncisione di Cristo del 1634. 7 R. TERMOTTO, Giovanni Giacomo Lo Varchi…cit., p. 275. 8 Al Lo Varchi è attribuita infatti anche la tela raffigurante San Domenico, oggi conservata presso la chiesa di Sant’Antonio Abate di Polizzi Generosa, ma proveniente dalla locale chiesa domenicana di Santo Spirito. L’opera, datata su uno stemma in basso a sinistra al 1630 (ANNO D O [M] [I] N [I] MDCXXX), presenta un’iconografia identica all’omonima tela dipinta dal Bazzano per la chiesa di San Domenico di Palermo, seppur con qualche aggiunta e alcune variazioni (su quest’ultimo dipinto: E. D’AMICO, scheda n. 9, San Domenico, in Vulgo dictolu Zoppo di Gangi, cit., pp. 258-260). 9 Restauro eseguito nel 2011 dalla Dott.ssa Belinda Giambra per conto dell’Accademia del restauro (Abadir) di San Martino delle Scale. 3

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Al centro dell’opera si erge stante sopra un piedistallo la figura di San Tommaso d’Aquino, identificato dall’iscrizione Doctor Angelicus posta a mo’ di nimbo sopra il capo, mentre regge una penna ed un libro, rispettivamente nella mano destra e nella sinistra. Il volto, ruotato di tre quarti verso sinistra, porge l’orecchio destro alla colomba dello Spirito Santo, fonte d’ispirazione per il dotto santo domenicano. Sul suo petto pende in bella vista il noto Collare del Toson d’oro, prestigiosa e ambita onorificenza conferita a personalità di un certo rilievo distintesi per alti meriti e servigi prestati in favore del cristianesimo. L’iscrizione ricurva posta sopra la testa del santo, insieme al semicerchio della catena del Toson d’oro, formano un perfetto ovale che ne incornicia il volto, conferendogli risalto e centralità. Sopra la sua testa, in posizione assiale, si trova un piccolo Crocifisso, ai piedi del quale un cartiglio recita l’iscrizione (parzialmente deteriorata, ma ancora ben leggibile): «IPSE SCRIPSIT BENE ME» (“Lui ha scritto bene di me”). La salda e imponente figura del Santo poggia i piedi sopra un piedistallo circolare, nel cui bordo corre l’iscrizione «ECCE PLUSQUAM SOLOMON HIC» (“Ecco, qui c’è più di Salomone”) e subito sotto la scritta «SUMMA D. T.» (“Summa Divi Thomae”). Sia la colomba raffigurata accanto al viso del santo che le due iscrizioni appena analizzate, sono delle citazioni inerenti la vita e la fama di San Tommaso d’Aquino. Se la prima allude infatti all’aneddoto secondo cui San Bonaventura da Bagnoregio, entrato nello studio di Tommaso mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al volto del santo, il Crocifisso con l’iscrizione “Ipse scripsit bene me” rimanda invece all’episodio secondo cui San Tommaso, una volta ultimato il suo trattato sull’Eucaristia, pose il testo sull’altare per cercare un segno del Signore; subito udì una voce provenire da un crocifisso:“Bene scripsisti, Thoma, de me, quam ergo mercedem accipies?” (“Tu hai scritto bene di me, Tommaso, quale sarà la tua ricompensa?”). E Tommaso rispose: “Non aliam nisi te, Domine!” (“Nient’altro che Te, Signore!”). Dialogo che, secondo alcuni biografi, sarebbe avvenuto nella cappella di San Nicola all’interno della chiesa di San Michele Arcangelo a Morfisa, sulla quale verrà eretta l’attuale Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli10. Infine, l’iscrizione “Ecce plusquam Solomon hic”, da intendersi quale termine di paragone con la proverbiale sapienza del celebre re biblico, è una citazione tratta dal Vangelo di Matteo (Mt 12,42), dove è rivolta a Cristo; secondo la tradizione lo stesso elogio venne ripreso per esaltare la sapienza di San Tommaso, a seconda dei casi, da papa Innocenzo VI, da papa Giovanni XXII o ancora dall’arcivescovo Pierre Roger, futuro papa Clemente VI11. Il piedistallo sul quale poggia la figura del santo sovrasta a sua volta una fontana dalle cui tre bocche, aventi forma di cherubini alati, sgorgano altrettanti fiotti d’acqua contenenti le scritte «PRIMA PARS», «SECUNDA PARS» e «TERTIA PARS» (“prima parte”, “seconda parte” e “terza parte”). L’acqua viene raccolta in una vasca di forma poligonale, composta da una serie di libri impilati e caratterizzati da diverse iscrizioni nel dorso, che riportano i titoli di alcune Per questi aspetti si vedano in particolare: GUGLIELMO DA TOCCO, Ystoria Sancti Thomae de Aquino (1318-1323 ca.), riedizione con traduzione a cura di Davide Riserbato in GUGLIELMO DA TOCCO, Storia di San Tommaso d’Aquino, Milano 2015; RAIMONDO SPIAZZI, San Tommaso d’Aquino. Biografia documentata di un uomo buono, intelligente, veramente grande, Bologna 1995. 11 Per i primi due si vedano: F. VINCENZO GREGORIO LAVAZZOLI, Elogi di San Tommaso d’Aquino raccolti ed esposti da F. Vincenzo Gregorio Lavazzoli de’ PP. Predicatori, Napoli 1791; Biblioteca scelta di orazioni sacre ossia collezione completa di panegirici per le feste di Nostro Signore, della B. Vergine e de’ Santi, Volume X, Como 1829. Per il terzo: ANTONIO TOURON, Vita di S. Tommaso d’Aquino dell’Ordine dei PP. Predicatori, Tomo II, Venezia 1753. 10

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delle principali opere del santo domenicano. La dicitura “Summa D. T.”, unitamente alle indicazioni alludenti alla prima, alla seconda e alla terza parte presenti nei zampilli della fontana, si riferiscono invece al più importante trattato teologico di San Tommaso, la monumentale e celebre Summa Theologiae, scritta tra il 1265 e il 1274. Le scritte alludenti alla prima, alla seconda e alla terza parte presenti nei zampilli, si riferirebbero quindi alle tre parti di cui si compone l’opera tomistica. Due frati domenicani inginocchiati, posti in basso ai lati della fontana, raccolgono l’acqua della vasca con delle scodelle e la porgono ad un nutrito gruppo di religiosi appartenenti a diversi ordini assiepati alle loro spalle. Tra i vari personaggi intenti a ricevere l’acqua nella scodella o ad attingerla direttamente alla fonte, troviamo nella parte sinistra della scena anche dei francescani. Il primo di essi, posto in primo piano, indica con la mano sinistra San Tommaso, mentre nella destra riceve l’acqua nella scodella; benché non presenti nessuno dei canonici attributi iconografici, le fattezze somatiche sembrerebbero alludere a San Francesco d’Assisi. Alle sue spalle compare il volto di un personaggio in saio bianco, dai connotati fisionomici ben definiti, nel quale sembrerebbe riconoscersi invece San Bernardino da Siena. Se i numerosi personaggi religiosi accalcati attorno alla fontana, in attesa di abbeverarsi, sono una chiara allusione alla supremazia del sapere teologico tomista su quello degli altri ordini, la presenza francescana volutamente evidenziata nella scena, più in particolare, sarebbe da mettere in relazione in particolare con l’antica disputa teologico-filosofica esistente tra domenicani e francescani, sostenitori della dottrina aristotelico-tomista i primi e di quella platonico-agostiniana i secondi, che scaturita già alla fine del Duecento con il cosiddetto dibattito sui Correctoria, era incentrata proprio sulla critica del pensiero tomista da parte dei francescani, che successivamente porterà alla dissoluzione della Scolastica per opera di Duns Scoto e Guglielmo d’Ockham12. Risulta più complesso, invece, identificare i personaggi presenti nel gruppo di destra a causa dello stato di conservazione non del tutto ottimale di questa zona del dipinto (all'estrema destra riusciamo tuttavia a riconoscere un oratoriano), disposti secondo un rapporto speculare ben equilibrato con quelli del gruppo di sinistra. Sullo sfondo, alle spalle del santo, si scorgono su entrambi i lati due gruppi di popolani intenti a raccogliere l’acqua da due rivoli provenienti dalla fontana; più in alto, a sinistra, è raffigurato invece lo stemma dei Ventimiglia retto da un putto alato. Dietro di esso, per motivi di ordine cronologico, può leggersi certamente una presenza diretta nel finanziamento dell’opera di Francesco Ventimiglia d’Aragona (1580-1648), principe di Castelbuono dal 1620 al 1648 e figlio di Anna D’Aragona Tagliavia, fondatrice del convento domenicano. Risulta purtroppo poco leggibile lo stemma posto simmetricamente a destra, a causa di una un’estesa lacuna nel film pittorico che interessa la zona alta del dipinto sia a sinistra che a destra, che avrebbe potuto fornire ulteriori informazioni su una compartecipazione nella sovvenzione dell’opera. Sul piano stilistico il dipinto, come già notato13, si connota per la sua rigidità e “umbratilità”, tipica della fase tardo manierista del Lo Varchi. Effettivamente la raffigurazione, caratterizzata da un’atmosfera decisamente cupa, è impostata su un forte rigore formale e iconografico che nulla concede alla decorazione, che ne fanno a buon diritto un chiaro esempio di pittura controriformata. Per questo aspetto si vedano, tra gli altri: MAARTEN J. F. M. HOENEN, A Oxford: Dibattiti teologici nel tardo Medioevo, Milano, Jaca Book, 2003; F. ALTEA, La ricerca dell’essere. Il cammino verso il trascendente, Roma, Armando Editore, 2016. 13 R. TERMOTTO, Una tela di Giovanni Giacomo Lo Varchi…, cit. 12

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Alcuni particolari stilistici, come i volti dei personaggi rudi, pallidi e inespressivi; atmosferici, come il clima cupo e, infine, la stessa impostazione compositiva dell’opera, sembrano richiamare il dipinto raffigurante la Madonna del Rosario e Santi, conservato presso la chiesa dell’Annunziata Nuova di Collesano. Il collegamento con quest’opera, documentata al pittore gangitano Gaspare Bazzano e datata al 162314, in cui è stata colta «una marcata inclinazione verso il languido patetismo di Pietro D’Asaro»15, appare molto interessante perché rafforza ulteriormente la posizione del Bazzano quale modello di riferimento stilistico iniziale da parte del Lo Varchi, come hanno messo in evidenza in passato anche alcune analisi critiche di diverse opere dell’artista collesanese, e come al tempo stesso sembrano confermare recenti ritrovamenti documentari16. In conclusione il dipinto (da riconoscere come l’opera più complessa sotto il profilo iconologico tra quelle giunte sino a noi del Lo Varchi, ma dietro la cui colta raffigurazione possiamo scorgere senza alcun dubbio l’intervento della committenza domenicana), rappresenta un’opera dagli evidenti intenti propagandistici, finalizzati ad esaltare la figura e il pensiero di San Tommaso d’Aquino, qui celebrati come fonte di sapienza teologica17. Le figure Fig. 1. Giovanni Giacomo Lo Varchi, San Tommaso d’Aquino, 1630. Castelbuono, chiesa del SS. Rosario. Fig. 2. Giovanni Giacomo Lo Varchi, San Tommaso d’Aquino. Particolare con la figura del santo. Fig. 3. Giovanni Giacomo Lo Varchi, San Tommaso d’Aquino. Particolare con la fontana. Fig. 4. Giovanni Giacomo Lo Varchi, San Tommaso d’Aquino. Particolare con i personaggi di sinistra. Fig. 5. Giovanni Giacomo Lo Varchi, San Tommaso d’Aquino. Particolare con lo stemma dei Ventimiglia.

R. TERMOTTO, Pittori, intagliatori lignei e decoratori a Collesano (1570-1696). Nuove acquisizioni documentarie, in «Bollettino della Società Calatina di Storia Patria e Cultura», nn. 7-9 (1998-2000), pp. 241-243. 15 G. DAVÌ, Appunti sul tardo manierismo isolano, cit., p. 92. 16 Si veda in particolare: G. MENDOLA, Dallo Zoppo di Gangi a Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie, in VINCENZO ABBATE (a cura di), Porto di mare 1570-1670. Pittori e pittura a Palermo tra memoria e recupero, Napoli 1999, p. 58. 17 Ringrazio vivamente la dottoressa Belinda Giambra per le indicazioni tecniche sul restauro dell’opera e la concessione dell’immagine. 14

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Fig. 5



Note iconografiche sul San Tommaso d’Aquino fonte di Sapienza e le Storie della Passione di Cristo del pittore Giovanni Giacomo Lo Varchi ANGELO ANTONIO FARACI Sulle Madonie, accanto agli altisonanti nomi di Bazzano1 e di Salerno2, un manipolo di pittori meno conosciuti3mostra, in seno ad un linguaggio differenziato, di possedere una particolare cifra espressiva che coniuga la dotta maniera con i modi più provinciali della cultura figurativa, in armonia con le esigenze della tradizione e della committenza locale. Tra tali interpreti vi è certamente la personalità artistica di Giovanni Giacomo Lo Varchi4 (1606-1683) che torna in luce ora tramite le attestazioni documentarie, ora grazie alle testimonianze pittoriche disseminate nelle chiese di alcuni centri madoniti. Piccoli tasselli della variegata cultura figurativa manierista di Sicilia che proprio su queste alture mise solide radici. La roccaforte della pittura controriformata prestante il fianco ai sempre vivi devozionalismi con i suoi rigidi formulari iconografici e grazie ai suoi esponenti attivi in tutto il territorio consegna alla contemporaneità interessanti esempi di arte e di fede. Le grandi e le piccole tele dipinte collocate sopra gli altari, al pari dei sermoni di teologi e predicatori dai pulpiti delle chiese, replicavano gli argomenti dottrinali ed esaltavano antiche e nuove devozioni rafforzate nel periodo post-tridentino5. La stampa poi, potentissimo canale di divulgazione dei principali temi del pensiero dei vari ordini religiosi, contribuì in maniera determinante a diffondere in ogni dove la nuova codificazione delle immagini sacre. Una traslitterazione visiva efficace, sostenuta dalla vasta circolazione di stampe, incisioni, xilografie che formano un solido zoccolo per tutta l’arte della Controriforma. Sul pittore cfr. P M. R. Chiarello, Lo Zoppo di Gangi, presentazione di M. Calvesi, Saggio introduttivo di T. Viscuso, Palermo 1975; Vulgo dicto lu Zoppo di Gangi, saggi di V. Abbate et alii, Gangi 1997; G. Mendola, Dallo Zoppo di Gangi a Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie in Porto di mare 1570-1670. Pittori e pittura a Palermo tra memoria e recupero, a cura di V. Abbate, Catalogo della Mostra, Palermo 30 maggio-31 ottobre 1999, Napoli 1999; G. Mendola, Aggiunte allo Zoppo di Gangi in Manierismo siciliano. Antonino Ferraro da Giuliana e l’età di Filippo II di Spagna, Atti del convegno di studi, Giuliana, Castello Federiciano, 18-20 ottobre 2009, a cura di A. G. Marchese, Palermo 2010; T. Pugliatti, Pittura della tarda Maniera nella Sicilia occidentale (1557-1647), Palermo 2011. 2 Sul pittore cfr. M. R. Chiarello Lo Zoppo…cit.; Vulgo dicto…cit.; M. Siragusa, Gli inquietanti legami dello Zoppo di Gangi. Storia inedita del pittore Giuseppe Salerno: il torbido intreccio tra criminalità organizzata, Santa Inquisizione, politica ed arte nelle Madonie del Seicento, Leonforte 1997; R. Termotto, Nuovi documenti su Giuseppe Salerno e altri pittori attivi nelle Madonie tra ‘500 e ‘600 in Manierismo siciliano. Antonino Ferraro…cit.; T. Pugliatti, Pittura della tarda Maniera…cit. 3 Alcuni dei quali recentemente indagati cfr. R. Termotto, Su alcuni pittori poco noti del Sei e del Settecento attivi nelle Madonie. Note documentarie in Arte e storia delle Madonie Studi per Nico Marino, Vol. VI, Atti della sesta edizione, Castelbuono, Museo Civico – Castello dei Ventimiglia, 22 ottobre 2016, a cura di G. Marino e R. Termotto, Cefalù 2018. 4 Sul profilo biografico e artistico di Lo Varchi cfr. M. Accascina, Giovanni Giacomo Lo Varchi il pittore di Collesano in Giglio di Roccia, N. S. IX, 1957; L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, vol. II. Pittura, ad vocem, a cura di M A Spadaro, Palermo 1994, p. 305; R. Termotto, Giovanni Giacomo Lo Varchi pittore di Collesano (1606-1683). Un allievo dello Zoppo di Gangi, in «Bollettino Società Calatina di Storia Patria e Cultura», 5-6, 1996-1997; T. Pugliatti, Pittura della tarda Maniera…cit., passim. 5 A. Barricelli, La pittura in Sicilia per una sintesi della pittura siciliana tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento cfr. V. Abbate, I tempi del Caravaggio, situazione della pittura in Sicilia (1580-1625), in Caravaggio in Sicilia, il suo tempo, il suo influsso, Siracusa, Catalogo della Mostra, Museo Regionale di Palazzo Bellomo, (10 dicembre 1984-28 febbraio 1985), Palermo 1985, pp. 43-76. 1

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Il san Tommaso d’Aquino a Castelbuono Quando l’artista si appresta ad elaborare le sue tele per i committenti religiosi può attingere dal fondo di un repertorio di immagini non solamente di matrice consolidata e semanticamente avvalorate dall’ortodossia cattolica, ma altresì di fresca attualità figurativa6. Non va dimenticato che alla forte incisività pedagogica e alle implicazioni ideologico-dottrinali, si aggiunge una precisa funzione devozionale indiretta, comportandosi l’immagine dipinta alla stregua di una illustrazione mnemonica nel contesto del rito e della pietà religiosa7. Le immagini mnemoniche, com’è noto, erano quelle la cui funzione consisteva nel richiamarne alla mente i passaggi fondamentali di un testo; figurazioni concepite affinché si imprimessero meglio determinati concetti nel pensiero. Ed è in questo preciso solco che può calarsi la scelta del soggetto dipinto in analisi, caratterizzato da una raffinata ed eloquente simbologia cara all’Ordine Domenicano che della predicazione ha fatto il centro del proprio carisma. La tela di san Tommaso d’Aquino fonte di Sapienza o di Scienza (fig.1) nella Chiesa di san Vincenzo a Castelbuono può ritenersi un caso isolato di iconografia, quantomeno in Sicilia, che vede comunemente la raffigurazione del santo seduto alla cattedra o nello studio mentre lo Spirito Santo lo istruisce8. Appare evidente che ci troviamo di fronte ad un dipinto programmatico, la cui intrecciata commistione di elementi, indubbiamente in riferimento alla vita di Tommaso, lasciano tuttavia molti interrogativi aperti sulla scelta di questo specifico modello, soprattutto in una piccola comunità come quella di Castelbuono. La lettura del contratto di allogazione del dipinto, rintracciata pochi anni fa da Rosario Termotto9, è utile ad illustrare i termini del processo e dei rapporti di lavoro ed è altresì valida a chiarire l’orizzonte d’attesa della committenza madonita. Nel definire le condizioni del rapporto tra pittore e committente, l’atto steso presso il pubblico notaio Luciano Russo, stabilisce il soggetto del dipinto «a facere quatrum unum imaginis dive Thome», richiedendone le garanzie circa la qualità della pittura «del modo, forma e qualità per come è stato disegnato su carta dallo stesso pittore» nonché prevedeva che «li colori siano fini»; inoltre il contratto detta i tempi di consegna stabiliti per il 5 marzo 1630 e le dimensioni «longitudinis palmorum undecim cum sua proportione». Quale fosse poi il gusto della committenza domenicana, e come questo si inserisse, condizionandolo, nel filo evolutivo del percorso stilistico del pittore, è il dipinto stesso a rivelarcelo. Nella stipulazione si fa cenno di un disegno su carta fornito da Lo Varchi, eppure è del tutto inverosimile pensare che l’ideazione del complesso apparato iconografico e iconologico sia stata elaborata dal Nostro. La tela di Castelbuono, in linea con la precettistica in fatto di immagini e arte sacra, evidenzia il principio della corrispondenza fra rappresentazione figurativa e testo scritto. Questa pone l’accento sull’elemento simbolico, rielaborando l’immagine dell’Aquinate e condensandola di versetti scritti

Cfr. E. Mâle, L’Arte religiosa nel ‘600. Italia, Francia, Spagna Fiandra, Milano 1984, p. 39. Nel periodo della Controriforma la nuova iconografia diviene sì espressione dottrinale ma in egual modo cerca di rendere il divino familiare e soprattutto riconoscibile agli occhi dei tanti cfr. D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Torino 1993, pp. 421-469. 8 Cfr. Dell’iconografia di San Tommaso d’Aquino: Lettera Di Pietro Antonio Uccelli, Napoli 1867, pp. 33-34; per una casistica più ampia sull’iconografia del santo cfr. A. Pérez Santamaría, Aproximacion a la iconografia y simbologia de Santo Tomas de Aquino in Cuadernos de Arte e Iconografia, vol. III, n. 5,1990 e S. Pagnotta, La figura di San Tommaso d’Aquino nell’arte: tentativo di analisi storico-teologica dell’iconografia tommasiana, University of Fribourg 1995. 9 R. Termotto, Una tela di Giovanni Giacomo Lo Varchi a Castelbuono in Le Madonie, 5, 1-15 maggio 2007, p. 3. 6 7

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utili per la diffusione d’idee edificanti, aspetto in linea con l’orientamento culturale e artistico della Chiesa post-tridentina10. Per quanto, dunque, il profilo biografico e artistico di Lo Varchi possa far intendere una fervenza religiosa11, egli non poteva di certo codificare un’immagine così semanticamente complessa. È più attendibile supporre che il committente fra Giulio Trabona12, abbia fornito la stampa di Adriaen Collaert13 (1560-1618), esponente della celebre famiglia di incisori di Anversa, circolate nell’ordine domenicano; o tuttalpiù che Lo Varchi ne possedesse una copia (fig. 2). Il dipinto di san Tommaso ripropone in modo pedissequo la robusta carica allegoricadottrinale, la cui radice coltissima del modello iconografico fu probabilmente ideata, come si apprende dal dedicatorio, dal domenicano Agostino Baretti (? -1620), frate italiano, ben presto passato in Francia, dove la regina Caterina de Medici lo chiamò nel 1582 per predicare alla corte in italiano14: ipse tamquam imbres mittet eloquia sapientiæ suæ, e palam faciet disciplinam doctrinæ eius: / collaudabunt multi sapientiam eius & vsque in seculum non delebitur. Eccl. 39./RDO ADM. PATRI, PF AVGVSTINO BARETI ST DOCT. ORD. PRÆD. /REGINÆ FRANCIÆ CONCIONATORI CELEBERRIMO/ DD.FNMM. Al centro della stampa e dunque anche della vasta tela campeggia san Tommaso raffigurato stante alla sommità di una fontana, a due ordini di vasche, alimentata da zampilli e colma d’acqua; una singolarità iconografica che, del resto, rispecchia l’unicità dell’Aquinate nel panorama agiografico. Per tracciare lo sviluppo del tema della fontana nell’iconografia sacra in età moderna, approfondendone i complessi e molteplici significati spirituali, è indispensabile rapportarsi ai testi teologici e alla letteratura mistica, agiografica e devozionale che hanno notevolmente sospinto la formulazione di questa criptica raffigurazione. L’immagine di San Tommaso fonte di Sapienza si lega strettamente, per aspetti formali, a quella di Cristo fons pietatis o di grazia15, seppur vada rilevato da subito che in Sicilia tale iconografia trova una ristretta casistica di esempi pittorici16. Nel corso del XVII secolo l’immagine della S. Macione, Undique splendet. Aspetti della pittura sacra nella Roma di Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605), Roma 1999, pp. 49-52. 11 Lo storico Gallo ricorda il pittore come un uomo dal profondo senso religioso, allineato con il sentire del proprio tempo. Lo Varchi fece parte della Compagnia dell’Immacolata Concezione e vestì l’abito del Terzo Ordine Francescano cfr. R. Gallo, Il Collesano in oblìo…, ms. del 1736, passim; F. Scelsi, Giacomo Lo Varco - pittore collesanese (22.3.1606-17.9. 1683) in Maron Pagine Collesanesi, 4, ottobre 1983. 12 Fra Giulio Trabona fu predicatore domenicano, vicario del convento di s. Domenico di Castelbuono e già Provinciale dell’Ordine, cfr. S. Termotto, La chiesa dell’Annunziata nuova e il convento dei domenicani a Collesano. Il rilievo per la conoscenza, Tesi di Laurea, relatore prof. N Marsiglia, Università degli Studi di Palermo, Corso di Laurea in Architettura 4/S, a.a. 2012-2013, p 40. 13 A. Diels, M. Leesberg, The Collaert Dynasty, Part V, in The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts:1450-1700, 2005, p. 81, n. 1127. 14 Fra Agostino Baretti dalla corte di Caterina de’ Medici passò nei Paesi Bassi meridionali dove predicò alla corte di Bruxelles. Pubblicò numerosi testi di carattere sacro elencati nelle memorie dell’Ordine cfr. J. Quetif, J. Echard, Scriptores Ordinis praedicatorum recensiti, notisque historicis et criticis illustrati, vol.2, Parigi 1719-1720, pp. 414-415. 15 Per una panoramica italiana e alcuni esempi siciliani cfr. A. Loda, Cristo fons Pietatis: il Sangue di Cristo fonte viva di redenzione in Il Sangue della Redenzione, a. IV, gennaio-giugno 2006, n. 1, pp. 191-215. 16 Questa iconografia, tuttavia, trova largo impiego nelle arti decorative come ostensori, porticine da tabernacolo e numerosi paliotti. Per una letteratura più ampia sull’inserimento della fonte mistica nei paliotti siciliani cfr. M.C. Ruggeri Tricoli, Il Teatro e l’altare, paliotti d’architettura in Sicilia, Palermo 1992, pp.112-115. 10

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fonte si sviluppò in modo particolare grazie alla stampa di testi ermetici e di numerosi emblemata, ma anche grazie all’attività di predicazione operate dagli ordini religiosi, ai quali tale elemento era particolarmente appetibile per via del portato ideologico. La fonte assume un particolare ruolo celebrativo e trionfalistico anche all’interno del tessuto civile e laico dell’età moderna17. Essa, caratterizzata dalla sua forma le cui linee direzionali originate dalla base si restringono verso l’alto, fino a congiungersi con la figura apicale, si presta perfettamente al messaggio di massima glorificazione umana o divina. La tela, dunque, possiede una precisa valenza simbolica, che vede Tommaso come dispensatore di Sapienza la cui linfa vitale discende dall’alto delle vasche. La fonte, inoltre, veicola perfettamente, con la sua pluralità comunicativa, la divulgazione dottrinale cara ai frati predicatori. Una scelta iconografica modernissima, testimoniante la raffinata e vivida cultura simbolica e trattatistica che ben si attaglia ai frati che gravitavano intorno al convento di san Domenico di Castelbuono. Nel caso specifico la fontana non è altro che una visualizzazione allegorica della stessa Summa Teologica di Tommaso d’Aquino; il soggetto, chiaro e didascalico, si collega anche alla promulgazione meramente devozionale del santo e all’universalità della sua dottrina, enfatizzata e teatralizzata per mezzo dell’acqua. La sua ieratica figura con una mano brandisce la penna, strumento più fidato e spada potente contro l’eresia, con l’altra afferra un libro chiuso, mentre lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, lo istruisce sussurrandogli le parole all’orecchio, riflettendo così il carattere soprannaturale della sua dottrina (fig.3). Sulla cappa nera dell’abito domenicano sfolgora il sole raggiato, suo attributo per eccellenza, circondato dalla collana onorifica del toson d’oro18. Ai suoi piedi, in parte non leggibili a causa della lacuna pittorica, vengono rovesciate le insegne dei poteri temporali ed ecclesiali- pastorale, mitra e corona - a cui Tommaso ha rinunciato. La costruzione della fonte è composta dalla vasca superiore recante l’iscrizione tratta dal versetto dell’evangelista Luca: «Ecce plvs qvam Salomon hic19» (Ecco, qui vi è uno più grande di Salomone), frase con la quale Papa Innocenzo VI iniziò l’elogio dedicato al santo e che trovò ampio eco nel periodo della Controriforma20. La vasca ovoidale grava su un libro color amaranto mostrante il dorso con inciso il titolo dell’opera: SVMMA D.T. (deTheologia) testo cardine e capolavoro della produzione letteraria dell’Aquinate. Il volume è sorretto da un fusto piriforme da cui, tramite tre ugelli a guisa di teste alate, sgorgano getti di acqua recanti le iscrizioni che fanno riferimento alla suddivisione in parti del suo complesso testo: prima pars., secunda pars., tertia pars. (fig.4). L’acqua riempie la grande vasca esagonale costruita con pile di libri e diviene pertanto la rappresentazione altamente allegorica della conoscenza insita nel testo di Tommaso. E ancor più, i vari libri mostrano sul taglio e sul dorso i titoli della sua vasta produzione letteraria, ad indicare come questi, siano solide pietre della spiritualità e contenitrici di acqua di salvezza e sapienza, pronte a rinfrancare l’anima del

Cfr. M. Guttilla, Le vie dei dragoni: fontane a Palermo da Mariano Smiriglio a Ignazio Marabitti, Palermo 1984, p. 19. Il santo apparve con questi ornamenti al domenicano Alberto da Brescia nel XIII secolo. Il sole raffigura la sua dottrina che irradia e illumina la Chiesa, quest’ultimo è comunemente tenuto sul petto per mezzo di una collana riprodotta in tutta l’iconografia post-tridentina e nella letteratura agiografica cfr. P. Ribadeneira, Flos Sanctorum, cioè vita dei santi, vol. I, Venezia 1629, p. 316. 19 Luca 11,31 20 L’elogio fu usato anche da Giovanni XXII e ampiamente diffuso nella letteratura successiva, a tal proposito si veda il Panegerico in onore a san Tommaso d’Aquino, ecce plvs qvam Salomon hic cfr. Panegirici del padre Saverio Vanalesti della Compagnia di Gesù, Venezia 1742, p. 57. 17 18

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fedele21. La fluidità dell’acqua è un potente mezzo espressivo che comunica al devoto la propaganda domenicana, una raffinata iconografia apparentemente genuina, sintetizzante perfettamente il complesso e articolato ordine degli scritti di san Tommaso. Sul bordo della vasca è riportato un versetto tratto dal libro di Ester: «Ecce fons parvus crevit in fluvium22» (Ecco la piccola sorgente che divenne un fiume) motto esplicativo per lo svolgersi della scena. Oltre a esaltare la dottrina tomistica, i domenicani di Castelbuono tramite la scelta di questo modello iconografico, affermano fieramente che l’Aquinate sia il più grande frate predicatore della storia. Il suo magistero, ampiamente riconosciuto, può racchiudersi in alcune definizioni assegnategli, ora Doctor Angelicus, per l’eleganza con cui trattò delle creature sovracelesti, che ritroviamo iscritta nell’aureola e rimarcata dalle grandi ali spiegate alle sue spalle, ora Doctor communis (da cum e munus), ossia ricchezza di tutti, poiché fonte universale e di unità dottrinale. Sia attraverso l’immagine che la parola, i domenicani hanno sempre difeso la supremazia della dottrina tomistica ammirata da tutti gli ordini religiosi. Alla fonte infatti attingono una moltitudine di personaggi alcuni facilmente individuabili, una compagine di uomini religiosi si accalca intorno per ricevere la conoscenza dall’alto e diffonderla attraverso la Chiesa tutta. Due domenicani in primo piano immergono le coppe spirituali in questa dissetante saggezza, seguiti da francescani, gesuiti, carmelitani, benedettini, oratoriani, minimi o cappuccini raffigurati in diversi atteggiamenti e invitano lo spettatore a prenderne parte23. I loro volti marcatamente chiaroscurati, alcuni dei quali resi con una puntuale caratterizzazione fisiognomica, mostrano gli echi delle sollecitazioni novellesche, con esiti dal linguaggio provinciale. L’intento pedagogico perseguito nelle scelte artistiche della committenza domenicana, con il proposito di fortificare nell’esercizio delle virtù gli animi dei fedeli e soprattutto dei frati, si rivela appieno nella capacità di collegare visivamente episodi collaterali che esaltino sempre più la potenza del messaggio dottrinale di Tommaso. È singolare, in tal senso, la piccola variazione sul tema iconografico del frate domenicano inginocchiato, il quale travasa l’acqua di sapienza nella coppa del francescano alle sue spalle (fig.5). In questa curiosa gestualità è possibile leggere una malcelata e lunga diatriba tra i due ordini che, proprio nella temperie culturali della stesura dell’opera, continuava ad alimentarsi su vari fronti non risparmiando anche l’ambito più locale24. L’immagine, mettendo in scena il passaggio di sapienza potrebbe tuttavia riflettere una forma di fraterna rappacificazione che cerca di allentare le tensioni dei dibattiti teologici tra le due scuole: i domenicani tomisti e i francescani istruiti dagli scritti di san Bonaventura da Bagnoregio25. Ricordiamo l’episodio della vita di fra Eleuterio, francescano, 21 Sulle pietre della fontana si leggono i titoli abbreviati delle opere di san Tommaso: Suma con. gen; De veritate.; In 1m inviato. / In 2m inviati. ; In 3m inviati. ; In 4m inviati. / In eplas Pauli. ; Nel Cant. cantic. ; Serm. di tempo. / Serm. da Sanc.; In metaphijs.; In 8. lib. Phijl. / In lib. Per […] ierm; In lib. per pubblicare; Opuscula / In 4 lib. ad Han; In Iob; Catena aur. / In Mat. e Ioan; Quest. quodl; In Salmo. 22 Ester 10, 3. 23 Sul rapporto tra l’Aquinate e la Sicilia e soprattutto sulla cospicua produzione della scuola tomistica isolana cfr. I. Carini, S. Tommaso e la Sicilia: discorso letto all’Accademia palermitana di scienze e lettere, Palermo 1874, pp.18-26. 24 A rilevarci questa faziosità tra i due ordini nella città di Castelbuono è il priore del convento fra Vincenzo Saladino il quale avanzava la pretesa che nelle pubbliche processioni i padri predicatori precedessero i Minori Conventuali di San Francesco, in virtù di un rescritto apostolico che regolava le precedenze. I francescani, ovviamente, si rifiutarono facendo leva sull’antichità dell’insediamento del loro ordine a Castelbuono cfr. O. Cancila, Nascita di una città, Castelbuono nel secolo XVI, Quaderni mediterranea, ricerche storiche 21, Palermo 2013, pp. 636-637. 25 I francescani si posero in opposizione alla dottrina tomistica fin dal primo momento. William de la Mare,

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studente di teologia che, riscontrando alcune difficoltà interpretative, chiese aiuto al padre serafico Francesco attraverso la preghiera. In quel momento gli apparvero la Vergine, san Tommaso e il Poverello d’Assisi, consigliandogli di leggere la Summa Teologica dell’Aquinate, in cui il frate avrebbe trovato la soluzione ai suoi profondi dubbi. Questa lotta dottrinale finì per riflettersi copiosamente nell’iconografia26. Il tema è ampiamente sviluppato da numerose stampe e opere pittoriche, di cui, in questa sede, ricordiamo la tela di un giovane Bartolomé Esteban Murillo, La Vergine con Fratello Lauterio, San Francesco e San Tommaso (1638-40) dipinta per il convento domenicano di Siviglia, oggi al Fitzwilliam Museum di Cambridge. Deve esser stato di particolare gradimento per i religiosi di Castelbuono l’episodio di fra Eleuterio, al punto di replicarlo con la sofisticata variazione figurativa del frate francescano attingente alle acque della Summa Teologica, celando così questa articolata diatriba nei pochi e semplici gesti dei due personaggi in primo piano. Lo Varchi aggiunge alcuni elementi peculiari della cultura figurativa manierista, quali l’immancabile schiera angelica che danza intorno al piccolo Cristo Crocifisso immerso nel pulviscolo dorato. Grazie alla stampa di Adriaen Collaert, che tuttavia mostra solo la croce, è possibile decifrare meglio le zone lacunose del registro alto del dipinto, seriamente compromesso. Il Crocifisso commemora l’episodio della vita di Tommaso in cui udì dalle labbra del Salvatore la propria lode: «Bene de me scripsisti, Thoma» parole riportate nel mal visibile filatterio svolazzante sopra il suo capo. Di fianco l’Aquinate, i due angeli raffigurati mostrano gli scudi araldici, uno di questi purtroppo non leggibile, e l’altro recante l’emblema della famiglia Ventimiglia, Signori della città di Castelbuono che mantennero continui e stringenti legami con l’Ordine Domenicano27. Sul fondo si apre la vallata, punteggiata di architetture, che degrada verso toni bruni in una crepuscolare atmosfera, mentre emergono a fatica i pochi brani ritraenti i due corsi d’acqua ai lati del santo (fig.6). Due gruppi di uomini giunti dalle campagne attingono ai due fiumi scaturiti dalla fonte e dipanantisi sulla terra. Sul velo dell’acqua affiora il versetto del profeta Isaia28 rimarcante, ancora una volta, il concetto dottrinale e propagandistico che pregna l’opera di Castelbuono: «Omnes sitientes» a sinistra «venite ad aquas» a destra. In tutta la membro dell’ordine, scrisse nel 1278 il Correctorium fratris Thomae, un’aspra critica degli scritti dell’Aquinate. L’introduzione del pensiero aristotelico nella teologia tomista suscitò una reazione instabile da parte dei pensatori neoplatonici tradizionali, che avevano dominato la teologia occidentale sin dai tempi di sant’Agostino. De la Mare, desideroso di fornire agli studenti francescani una guida per arginare la diffusione dei nuovi pensieri, scelse 118 articoli di Tommaso d’Aquino, per lo più dalla sua celebre Summa Teologica, e notò i punti in cui l’influenza aristotelica producesse concetti o interpretazioni contrarie all’ortodossia. Il Correctorium di fra William fu approvato per l’intero Ordine Francescano nel 1282, quando il ministro generale Bonagratia proibì lo studio della Summa di Tommaso d’Aquino, tranne che per gli studiosi che usavano lo standard critico del Correctorium. Dopo la pubblicazione, il testo Correctorium fu a sua volta corretto dai tomisti, in particolare dai domenicani inglesi Richard Clapwell e Thomas Sutton e dal francese Giovanni di Parigi. La loro risposta non tardò e nel Correctorium corrottii fratris Thomae (Correttivo del corruttore di fratello Tommaso), sottolinearono l’incapacità di fra William de la Mare di comprendere sia l’Aquinate che Aristotele, cfr. S. Ramirez, Introducción a Tomás de Aquino. Biblioteca de Autores Cristianos, vol. 36, Madrid 1975, p. 170. 26 La visione di fra Eleuterio o Lauterio si sviluppa notevolmente negli scritti devozionali e nell’iconografia cfr. A Pérez Santamaría, Aproximacion a la iconografia...cit., s.p. 27 Il convento di Castelbuono fu fondato il 25 aprile 1583 grazie all’aiuto della marchesa Anna Tagliavia e del marchese Giovanni III Ventimiglia, il quale lo dotò di terreni e rendite, cfr. S. Cucinotta, Popolo e Clero in Sicilia nella dialettica socio-religiosa fra Cinque-Seicento, Messina 1986, p. 444; O. Cancila, Nascita di una città. Castelbuono…cit., pp. 447-482. 28 Isaia 55,1. 148


Bibbia, l’acqua è portatrice di vita. Nell’Antico Testamento è segno di benedizione già per mano di Mosè, che durante il cammino nel deserto, fece sgorgare acqua dalla roccia per dissetare il popolo Israelita29.Proprio la figura del profeta fu messa in relazione con Tommaso nei sermoni del frate spagnolo Carlo de la Concepción, il quale scrive: «Maestro così famoso, che la sua penna divise le acque della Saggezza in parti»30. A tal proposito è inevitabile ricordare l’opera su lavagna di Antoine Nicolas del 1648, Tommaso d’Aquino, fontana della Saggezza attualmente nella cattedrale di Notre Dame a Parigi31, città dove il santo insegnò (fig. 7). Tommaso siede su un’alta cattedra, ai sui piedi si erge una fontana che assume le fattezze di una roccia stillante acqua, intorno appaiono vari ordini religiosi: domenicani, carmelitani, francescani, e tra loro è stato individuato forse un giovane Luigi XIV vestito di ermellino. La teologia dell’Aquinate è paragonata a un "liquore" spirituale che disseta le anime che hanno sete di Dio, un inesauribile fiume da cui la Chiesa universale può attingere, concetto vivo nel responsorio dell’Ufficio delle Letture della festa di san Tommaso: «La fonte della sapienza riversò in Tommaso le sue acque, come limpido fiume di scienza, e Tommaso riversò la sua pienezza, fecondò tutta la Chiesa». In altri sermoni dedicati all’Aquinate, Francesco di Majorca espone metafore più complesse. Il frate paragona Tommaso a una fonte d’acqua in paradiso, abbondante e cristallina, da cui nasceranno quattro fiumi possenti che attraverseranno le quattro parti del mondo32. Svariate incisioni sviluppano queste eloquenti metafore traducendole in elaborate iconografie. Non si può che ricordare la stampa di san Tommaso d’Aquino, fiume di Saggezza di C. Bouzonnet-Stella (1641-1697) dove in mezzo a una rigogliosa selva scorre un torrente che si dirama, per mezzo di una piccola cascata, in quattro ricadute d’acqua da cui attingono delle alte cariche ecclesiastiche in abito domenicano. La diffusa allegoria delle acque spirituali si ritrova nelle orazioni chiamate Gioie che, tra tutte le manifestazioni devozionali dedicate al santo, sono le più popolari, ma anche quelle che mantengono la tradizione orale intessendola con episodi della vita di Tommaso a leggende profane33. Una combinazione di elementi influenti su parte dell’iconografia dell’Aquinate fino alla fine del XVIII secolo: «La sua saggezza è necessaria e importante per i cristiani quanto l’acqua di Giacobbe per le pecore», così recita il versetto della Gioia pubblicata nel 170834. Un corso d’acqua è raffigurato nella grande tela della chiesa di san Domenico di Granada caratterizzata dal santo armato di spada contro gli eretici, ai suoi piedi, da una frastagliata roccia, scorre l’acqua raccolta dai suoi confratelli per essere riversata sui corpi convulsi degli eretici. Un messaggio chiaro, sull’eccellenza della saggezza tomista in grado di soddisfare un duplice obiettivo: insegnare ai suoi numerosi discepoli distribuiti in tutto il mondo e combattere tutti i tipi di eterodossie. Tornando ora all’elemento della fontana, anche l’artista M. Ricarte la rielabora con l’immagine di Tommaso assiso su un corpo nuvoloso sopra la vasca superiore, mentre in basso un domenicano attinge da quella sottostante tramite una simbolica conchiglia battesimale, Esodo 17,1-7; Numeri 20,1-13. Carlo de la Concepcion, Oracion panegirica, evangelica en aplauso del Angel entre los Doctores, y Doctor entre los Angeles Santo Thomas de Aquino Brillante Sol en el Cielo de la Iglesia, Barcellona 1689, p. 40. 31 M.P. Auzas, Une représentation française inédite de saint Thomas d’Aquin, in Bulletin de la Société de l’histoire de l’art français, 1974, pp. 35-42. 32 A. Pérez Santamaría, Aproximacion a la iconografia...cit., s. p. 33 Eadem 34 Goigs de Sant Thomas de Aquino, Doctor quint de la Iglesia, Barcellona 1708. 29 30

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accompagnato da un altro frate assorto nella preghiera (fig.8). Questi elementi fanno subito comprendere il profondo significato dell’acqua, annunciando le notevoli implicazioni allegoriche sacramentali scaturite. Dal mercato antiquario giunge un’altra interessante attestazione che condivide con l’esempio di Castelbuono i due gruppi eterogenei di religiosi alla fontana, sulla quale svetta il santo alato che schiaccia l’eresia; tutt’intorno, svolazzanti cartigli replicano alcuni dei versetti chiarificatori già presenti nella stampa di Collaert (1560-1618 circa) (fig. 9). La tela, attribuita ad un ignoto artista flando-iberico, orienta le proprie coordinate culturali verso un’area di appartenenza molto vasta quanto mai vicina alle manifestazioni pittoriche siciliane sullo scorcio del XVII secolo, le cui filiazioni peraltro guardano abitualmente all’ambito fiammingo e ai suoi interpreti35. Allo stato attuale degli studi è emersa solo un’opera replicata dalla codificazione grafica di Collaert conservata nel convento di san Domenico a Quito in Ecuador36 (fig.10). La tela d’ignoto artista, ripropone, seppur in maniera semplificata e dai tratti naïf, l’immagine data alle stampe ad Anversa, caratterizzandola nel registro superiore con due piccole cattedre affrontate sulle quali siedono sant’Agostino e sant’Alberto Magno, intenti ad istruire le schiere angeliche. Quest’ultimo dipinto testimonia, ancora una volta, la potenza del mezzo grafico e come questo abbia raggiunto il nuovo mondo navigando gli oceani in seno all’Ordine Domenicano. Sempre nell’ambito dell’ordine, la fontana è stata adoperata in un’altra immagine allegorica, particolarmente efficace ai fini della propaganda devozionale. Ci riferiamo al caso del san Domenico in Soriano sulla fonte, che riporta il versetto «Omnes sitientes venite ad aquas» sul margine della vasca, mentre da sette ugelli attingono all’acqua di grazia, uomini, donne e bambini (fig.11). Le storie della Passione a Collesano Lo Varchi nella sua città natale, Collesano, si trovò impegnato tra il 1632 ed il 1636 nei cantieri di riassetto e decorazione con stucchi ed affreschi della cappella del Ss. Crocifisso (oggi della Madonna dei Miracoli), nella navata sinistra della chiesa Madre37. Delle pitture murali, ne permangono solo due strette da aggettanti e sontuose cornici sulla parete di destra della cappella: nella sezione alta, Pilato che mostra Cristo al popolo o più semplicemente l’Ecce Homo (fig.12), in basso Cristo alla colonna, come Uomo dei dolori. La dinamica composizione sovrastante fu desunta da Lo Varchi da una celebre stampa di Johann Sadeler I del 1585, tradotta dall’invenzione del pittore fiammingo Maerten de Vos (fig 13). I molteplici riferimenti culturali dell’articolata modulazione dell’impianto figurativo, sono memori della formazione artistica di de Vos e dei suoi soggiorni italiani. L’affresco traendo dunque da questa incisione, orchestra su un ardito scorcio architettonico manierista, d’inflessione tosco-veneta, lo spazio vitale della piazza, sulla quale prospettano il sontuoso palazzo di Pilato e un grande edificio che funge da quinta Sui notevoli influssi fiamminghi in Sicilia, cfr. T. Viscuso, Pittori fiamminghi nella Sicilia Occidentale al tempo di Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie, in Pietro Novelli e il suo ambiente, Palermo 1990; G. Mendola, Dallo Zoppo di Gangi A Pietro Novelli…cit. 36 4266A / 4266B, Projeect on the Engraved Sources of Spanish Colonial Art, (PESSCA), colonialart.com. 37 La cappella è decorata con gli stucchi eseguiti, secondo R. Gallo, dal nostro maestro collesanese, tuttavia C. Filangeri li ascrive alla bottega dei Li Volsi da Tusa. Va rilevato che ad oggi per tutta la decorazione della cappella non è stata rintracciata un’attestazione documentaria, seppur sia nota da tempo l’attività di Lo Varchi come stuccatore in varie chiese di Collesano. Cfr. R. Termotto, Collesano.Guida alla Chiesa Madre Basilica di S.Pietro. Prefazione Mons. P. Vacca, Collesano 2010, pp. 29-33, con bibliografia precedente. 35

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scenica. Un tono enfatico sigla il gruppo di sommi sacerdoti in primo piano che, di spalle, su un evocativo pulpito cinto da balaustra, incitano il popolo a invocare a gran voce la crocifissione. L’agitazione generale è palesata dai gesti convulsi della folla accalcata alla base dei gradini circolari, sulla cui sommità sosta Pilato che con fare solenne presenta al popolo Cristo, già penitente, coronato di spine, ammantato della porpora e con in mano la canna. Sul fondo avanza la folla in un corteo capeggiato dalla croce, strumento del martirio, da lì a breve affidata dolorosamente alle spalle di Cristo. Lo Varchi ripropone lo schema grafico con una resa cromatica particolarmente squillante e ariosa, virante verso un apprezzabile, seppur debole, ricerca coloristica del cangiantismo delle vesti dei personaggi. Il tema per il forte afflato mistico e l’intensa partecipazione emotiva che suscitava, assolveva il chiaro obiettivo delle direttive controriformate, che predilessero l’accentuazione dei toni espressivi nella resa lacerante della sofferenza mistica38. Un’atmosfera languorosa, di tutt’altro cromatismo, caratterizza il secondo affresco, dove i toni bruni e ovattati ben si confanno con la drammaticità scenica, calcandone il rigido disegno dei personaggi (fig.14). La sua stesura pittorica con inflessioni largamente ispirate dai più comuni registri espressivi nell’ambito di stretta osservanza tardo manierista, trova una singolare armonia con la tradizione locale. Una certa continuità narrativa si avverte nella scelta di Lo Varchi di porre nell’abitazione d’interno un’apertura balaustrata dalla quale probabilmente lo stesso Pilato, disquisendo con un dignitario, si affaccia ad osservare il patetico mistero. Tale elemento può considerassi un cliché diffusissimo nel soggetto iconografico di Cristo alla Colonna in tutta la stampa di traduzione, senza considerare i dignitari, con le loro lunghe barbe e gli artificiosi copricapi, sempre accompagnati da soldati vestiti con rilucenti armature. Sembra comunque che anche in questo specifico caso la scena sia orientata dalla stampa di un altro componente della nota famiglia Sadeler, Aegidius II con la sua traduzione della flagellazione di Cristo dal Cavalier d’Arpino (fig. 14 bis); tuttavia all’osservazione più attenta non sfugge come l’artista, nonostante tenga conto della recente tradizione figurativa, rielabori il modello compositivo allora in voga, aggiungendovi sostanziali elementi di novità. A ben guardare, l’affresco collesanese propone una tematica iconografica piuttosto sporadica, una peculiarità e rarità data dalla presenza dei dolenti ritratti a mezzo busto sotto la base del rialzo dove Cristo, ancora legato alla colonna, si volge ai loro occhi. Un’iconografia che se da un lato prefigura il compianto sul corpo del Salvatore morto, dall’altro ricalca una variazione disegnativa cara alla stampa e alla pittura nordica del Rinascimento. Il Cristo, statico e quasi privo di sofferenza, osserva i personaggi cardini nell’evento della Passione: la madre Maria, l’apostolo Giovanni, e Maria Maddalena, mentre sul patibolo, in primissimo piano, si dispongono gli Arma Christi (flagelli e catene). Tali caratteristiche figurano nelle molteplici composizioni grafiche e pittoriche di area tedesca, basti pensare al Cristo come l’uomo dei dolori sulla colonna del flagello di Lucas Cranach il vecchio del 1515 al Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda dove è raffigurato il Salvatore, sul piano sopraelevato del patibolo della colonna, dinanzi Maria e Giovanni e i santi Sebastiano e Rocco (fig.15). Si associa per aspetti iconografici anche alla prima immagine della serie la Passione incisa di Albrecht Dürer del 1509, in cui Cristo Uomo dei dolori, ritratto gracile e

M. Guttilla, La collezione dei dipinti, ambiti culturali e stato di conservazione, in Arte e Spiritualità nella Terra dei Tomasi di Lampedusa. Il Monastero Benedettino del Rosario di Palma di Montechiaro, a cura di M.C. Di Natale, F. Messina Cicchetti, Palermo 1999, pp.129-130. 38

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stante alla colonna, è scortato dalle figure dei dolenti in adorazione39(fig.16). Del resto è diffusamente noto il rapporto di dipendenza culturale che molti artisti locali hanno con delle incisioni e delle xilografie nordiche o più specificatamente dureriane che andarono ad arricchire il loro variegato bagaglio figurativo40. Fino alla prima metà del XVII secolo la pittura siciliana presenta forti legami con quella nordica, non mancano appunto esempi e brevi citazioni tratte dall’artista tedesco le cui invenzioni, liberamente interpretate, penetrano capillarmente nella cultura artistica e affollano gli altari di Sicilia. All’interno dei convenzionali schemi rappresentativi del genere, Lo Varchi sviluppa una sua personale proposta figurativa, ne deriva una commistione stilistico-iconografica, frutto di una rielaborazione dei moduli rappresentativi della pittura devozionale. L’affresco di Collesano si discosta, ma in egual modo condivide, con la cautela del caso, gli elementi di una celebre tela di Correggio, l’Ecce Homo, conservata alla National Gallery di Londra nota attraverso l’incisione che ne trasse Agostino Carracci nel 1587 (fig.17), le cui stampe furono molto apprezzate dai suoi contemporanei41. Lo Varchi, difatti, ha disarticolato i modelli iconografici proponendo l’affaccio di Pilato, il Cristo come Uomo dei dolori che mostra ancora il candore e l’innocenza del corpo, e in primo piano la Vergine con Maria Maddalena colta nell’atto di coprirsi il volto. L’affresco di Collesano, dunque riesce a generare una commistione che se non direttamente accostabile, per precisi riferimenti stilistici agli esempi citati, rimane pur sempre una notevole rielaborazione iconografica, benché resa con un linguaggio popolare ma efficace.

Le figure alla base nella stampa del maestro tedesco sono state interpretate come semplici fedeli in preghiera cfr. M. Venturini, scheda 20.I, in Dürer e dintorni, incisioni dei musei civici di Padova. Itinerario siciliano, a cura di S. Masone Barreca, Catalogo della mostra, Caltanissetta, Museo Diocesano, 14 dicembre 1996-30 marzo 1997, Milano 1997, p.69. 40 R. Bernini, Dürer a Palazzo Abatellis in Dürer e dintorni…cit., pp. 236-237. 41 Per la fortuna delle stampe dei Carracci cfr. D. De Grazia, Le stampe dei Carracci con i disegni, le incisioni, le copie e i dipinti connessi, Bologna 1984, p. 150, n. 143, fig. 170; M. Mussini, Correggio tradotto, Milano 1995, p.147, n. 196. 39

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Le figure 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 1. 15. 16. 17.

G. G. Lo Varchi, 1630, San Tommaso d’Aquino fonte di Sapienza, Castelbuono, chiesa di san Vincenzo Ferreri. (Ph. A. Cucco) A. Collaert, (1560-1618 circa) Ecce plvsqvam Salomon hic, Tommaso d’Aquino, fontana della Scienza, Amsterdam, Rijksmuseum. G. G. Lo Varchi, 1630, San Tommaso d’Aquino fonte di Sapienza, (part. del santo) Castelbuono, chiesa di san Vincenzo Ferreri. (Ph. A. Cucco) G. G. Lo Varchi, 1630, San Tommaso d’Aquino fonte di Sapienza, (part. fontana) Castelbuono, chiesa di san Vincenzo Ferreri. (Ph. A. Cucco) G. G. lo Varchi, 1630, San Tommaso d’Aquino fonte di Sapienza, (part. fra Eleuterio con il domenicano) Castelbuono, chiesa di san Vincenzo Ferreri. (Ph. A. Cucco) G. G. lo Varchi, 1630, San Tommaso d’Aquino fonte di Sapienza, (part. paesaggio) Castelbuono, chiesa di san Vincenzo Ferreri. (Ph. A. Cucco) A. Nicolas, 1648, Tommaso d’Aquino, fontana della Saggezza, Parigi, Cattedrale di Notre Dame . M. Ricarte, XVIII secolo, Ecce plvsqvam Salomon hic,san Tommaso d’Aquino, fontana della Scienza, ubicazione sconosciuta Ignoto artista flando-iberico, XVII secolo, La gloria del SS. Sacramento, san Tommaso d’Aquino fonte di dottrina, Germania, mercato antiquario. Ignoto artista, San Tommaso d’Aquino, fontana della Saggezza, XVIII secolo, Quito (Ecuador), Convento di san Domenico. Ignoto, Simbolo delle Gratie che Dio concede alli devoti della Santa Imagine di Soriano, san Domenico fonte di Grazia, Roma, collezione privata. G. G. Lo Varchi, 1632-1636, Ecce Homo, Collesano, Chiesa Madre Basilica di S. Pietro. J. Sadeler da Maerten de Vos, 1585 c., Ecce Homo, Amsterdam, Rijksmuseum. G.G. Lo Varchi, 1632-1636, Cristo alla colonna, come Uomo dei dolori, Collesano, Chiesa Madre Basilica di S. Pietro. 14 bis. A. Sadeler II dal Cavalier d’Arpino, La flagellazione di Cristo. L. Cranach il vecchio, 1515, Cristo come l’Uomo dei dolori sulla colonna del flagello, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister. A. Dürer, 1509, Cristo Uomo dei dolori, Princeton, Museo dell’Università. A. Carracci dal Correggio, 1587, Ecce Homo, Parma, Biblioteca Palatina.

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Fig. 1

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Fig. 2

Fig. 3

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Fig. 5 155


Fig. 6 Fig. 8

Fig. 7

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Fig. 14 bis

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Fig. 17 160


Giorlamo Fatta Barile Una simpatica canaglia GIOVANNI FATTA Nell’antica famiglia siciliana Fatta della Fratta, notoriamente mite e timorata di Dio, uno è “fuori razza”, temerario, iracondo, prepotente, ma anche cordiale, estroverso, allegro, di compagnia. Nell’articolo, basato su inediti documenti d’archivio rigorosamente verificati, l’autore Giovanni Fatta, già professore ordinario presso l’Università di Palermo, delinea una vicenda ottocentesca originale e ricca di spunti. Nella placida Polizzi, non ancora ufficialmente “Generosa”, nei primi anni dell’Ottocento abitava la nobile e stimata famiglia Fatta: da Orazio Calcedonio Fatta Torre, figlio del barone Girolamo Fatta Bonomo e di Teresa della Torre, sposato con Caterina Barile (o anche Barrile) dei baroni di Turolifi, erano nati Girolamo (1797), Giovanni (1798), Maria Stella (1802), Francesco (1804) e Maria Teresa (1814). Orazio gestiva un discreto patrimonio essenzialmente composto da fondi agricoli e attività zootecniche, a differenza del fratello minore Francesco Paolo Fatta Torre (1770-1844) che aveva intrapreso una carriera che lo portò alla prestigiosa carica di Intendente di Ponti e Strade per la Sicilia e componente del Consiglio Civico della città di Palermo. Curiosamente, Francesco Paolo già a 25 anni aveva presentato una ampia documentazione per acquisire il titolo di barone della Fratta, per regola spettante al fratello maggiore, titolo che ottenne rapidamente e di questo poté fregiarsi per tutta la vita, anche nei tanti documenti ufficiali che lo riguardavano. Non mise su famiglia e non ebbe figli, lasciando, alla sua morte, eredità e titolo ai figli del fratello maggiore Orazio Calcedonio. Il giovane Girolamo Fatta Barile a 24 anni, forse anche per la mancanza di una guida paterna (il padre Orazio era morto quando aveva soltanto sedici anni) che lo indirizzasse evitando eccessi e atteggiamenti scorretti, aveva sedotto (termine utilizzato anche negli atti giudiziari) la bella Angela Leto non ancora quindicenne, ed i due si erano sposati in maniera frettolosa nel giugno del 1819 in quanto Angela era in gravidanza avanzata, con grande scandalo per la gente di Polizzi, ma soprattutto gravissima offesa per i genitori ed i parenti stretti della ragazza. Nel mese di settembre nacque il figlio Orazio Fatta Leto, ma questo lieto evento non riuscì per nulla a quietare gli animi. Girolamo aveva maturato un vero e proprio odio nei confronti del suocero Andrea Leto, che aveva più volte manifestato pubblicamente la propria vergogna per questo fatto che ne infangava la reputazione, ma soprattutto era montata nel genero una rabbia incontrollabile perché il suocero aveva rifiutato di corrispondere la ricca dote che di norma toccava alla figlia. La famiglia Leto, baroni di Cammisini, era considerata molto ricca, sia per il consistente patrimonio che amministrava, sia in quanto “arricchita per alcune vantaggiose circostanze”: Andrea Leto era il “cassiere comunale” della città di Polizzi, il fratello Michele aveva assunto la carica di “prosegreto”, incaricato cioè della riscossione dei dazi del macino e della fondiaria. Il loro padre Gandolfo era da tempo l’esattore delle tasse comunali e titolare dell’arrendamento del patrimonio civico, cioè prendeva in affitto i beni comunali per poi 161


subaffittarli a prezzo libero. Inoltre sia Andrea che la sorella Pasquala Leto avevano contratto “buoni” matrimoni con alcuni dei Gagliardo, la famiglia più in vista della cittadina. Si può facilmente supporre che la potenza e l’ostentata opulenza dei Leto avessero suscitato risentimenti, invidie e gelosie, sia nel popolo minuto assillato da problemi economici quotidiani, sia presso le classi più elevate, anche per il loro recentissimo arrivo al titolo nobiliare rispetto ad altre famiglie di nome assai più antico. I Gagliardo di Carpinello inoltre avevano da tempo questioni legali con i Leto per la rivendica del feudo stesso di Cammisini, presso Collesano, di cui la famiglia Leto si fregiava. Nel luglio 1820 erano dilagati a Palermo i moti che scuotevano buona parte dell’Europa e, nei disordini che coinvolgevano la politica della Sicilia nei confronti del governo di Napoli, si insinuarono questioni locali fomentate da faccende generali e private. La tranquillità di Polizzi venne in quei giorni turbata da alcuni “villani” che cercarono di distruggere e bruciare i registri delle odiate tasse: secondo l’atto di accusa, Girolamo Fatta Barile approfittò di questa occasione per compiere le sue vendette, insieme ad altri che nutrivano gli stessi interessi, tra cui l’amico Giorlando Gagliardo di Carpinello, chiamato comunemente “baronello Cottonaro”. Le sue malevole intenzioni erano già note da giorni, quando al cugino Salvatore Fatta Salonia aveva confidato di voler finalmente fare i conti con quelli (i Leto) che avevano “devorato” un intero comune e che lu primu che avi a dari li cunti avi ad esseri me’ soggiru. La notizia correva veloce per il paese, e non ebbero successo né i tentativi di dissuaderlo del fratello Giovanni, più giovane ma anche assai più saggio, né i rimproveri dello zio Francesco Paolo Fatta Torre che, come sopra accennato, rivestiva un’importante carica pubblica. Insieme a Giorlando Gagliardo ed una moltitudine di polizzani sobillati nei confronti dei Leto e dei loro amici, Girolamo riorganizzò i ruoli comunali: azzerate le cariche di tutti i Leto, il baronello Cottonaro divenne capo provvisorio di pubblica sicurezza, Giovanni Fatta Barile sostituì Andrea Leto come cassiere comunale e lo stesso Girolamo Fatta Barile aggiunse alla precedente carica di decurione quella di componente della nuova giunta municipale, presieduta questa dal barone Gagliardo di Carpinello, padre del baronello Cottonaro. La piazza era ormai incontrollabile nella sua rabbia contro la famiglia Leto, certamente per motivi più profondi e non solo perché sobillata da Girolamo Fatta ed i suoi amici. Guidati da un gruppetto ristretto di persone più violente delle altre, più di duecento uomini di ogni ceto sociale avevano deciso di farsi immediatamente giustizia da sé. Gli scempi si consumarono in poche ore tra il 27 ed il 28 agosto 1820. Il lungo e circostanziato atto d’accusa, le cronache coeve di Giuseppe Errante e Domenico Scinà, i tanti saggi commentati, ed in particolare quelli di Gaetano Falzone e Salvatore Mazzarella, raccontano i fatti accaduti e particolari raccapriccianti delle barbare uccisioni di Gandolfo Leto barone di Cammisini, dei suoi tre figli il “baronello” Andrea, Michele e Giuseppe, ed infine del notaio Gandolfo Dominici. Si era fatto credere alla popolazione che i rivoluzionari di Palermo avessero espressamente richiesto “cinque teste” per ottenere un ricco compenso, e queste vennero atrocemente staccate dai corpi dei cinque assassinati ed esposte sanguinanti per le strade della cittadina, col proposito di spedirle a Palermo. La responsabilità diretta di Girolamo Fatta Barile, del Cottonaro e di pochi altri maggiorenti nelle azioni crudeli e violente contro i Leto, invocata nell’atto di accusa, ai più recenti commentatori appare, al contrario, come “una assurda pretesa che tutto sia da spiegare 162


con rancori personali malignamente usati per manovrare il popolo”. Ciò, in quanto era noto il fierissimo odio che il popolo tutto nutriva nei confronti degli esattori, pur non potendo negarsi a Fatta e Gagliardo l’evidente ruolo di sobillatori, travolti poi anch’essi dall’evoluzione tragica degli eventi. Passata la tempesta, si quietarono rapidamente gli animi, anche per l’intervento risolutore del conte Antonino Rampolla, futuro suocero di Giovanni Fatta Barile che ne sposerà la figlia Andreana (chiamata talvolta più comunemente Adriana), che dapprima riuscì a porre sotto la propria tutela i parenti residui dei Leto, e quindi fu inviato in delegazione a Palermo dove dal principe di Villafranca, capo del governo rivoluzionario, ottenne la chiusura di ogni ulteriore conflitto e delle violenze nel paese di Polizzi. Malgrado le evidenti responsabilità per le uccisioni dei parenti della moglie, non si hanno notizie di particolari dissidi o di incrinature nel rapporto tra Girolamo e la giovanissima Angela. Questa era in avanzata gravidanza durante i fatti di sangue, ed il 18 novembre successivo nacque il secondogenito che (stranamente) decisero di chiamare Andrea, il nome del nonno odiato da Girolamo, che per di più aveva avuto un ruolo di protagonista nella sua fine. Questo nome era del tutto estraneo dalla tradizione della famiglia Fatta, ma spettava per regola al secondogenito secondo un’idea di normalizzazione dei rapporti sociali, dopo un breve momento in cui la follia aveva avuto il sopravvento. Il piccolo, destinato forse alla continuità del titolo, non avrebbe avuto fortuna, e cessò la sua breve vita dopo neppure quattro anni. I buoni rapporti matrimoniali tra i coniugi Fatta Barile proseguirono intatti, ed il 1° gennaio 1822 si fece nuovamente festa per la nascita di Caterina Fatta Leto. La restaurazione borbonica giunse rapidissima anche a Polizzi, già alla metà del mese di settembre 1820, mentre a Palermo il generale Florestano Pepe massacrava oltre 5000 rivoltosi. I superstiti Leto ottennero l’incarceramento di alcune decine di soggetti direttamente implicati in atti di violenza, ma non riuscirono a far arrestare immediatamente Girolamo Fatta Barile, malgrado avessero cercato importanti appoggi. L’amnistia generale declamata a gran voce non salvò alcuni dei più crudeli autori materiali degli eccidi: il processo penale portò nel 1823 alla condanna dei soli esecutori, con cinque pene di morte, eseguite nella piazza di Polizzi il 22 ottobre dello stesso anno, oltre ad alcuni ergastoli ed altre lunghe pene detentive. Un dispaccio di polizia comunicava l’avvenuta esecuzione “nel massimo buon ordine al Piano degli zingari fuori abitato, vestiti di giallo e piedi nudi con cartello in petto a lettere cubitali con scritto: Per aver portato la Stragge contro una Classe di Persone va’ alla morte”. Si era adoperata la Guillottina ed esposta alla vista del pubblico ogni testa recisa. Il grosso dei facinorosi non venne condannato, ma non si può non notare come Girolamo Fatta e il baronello Carpinello di Cottonaro siano riusciti ad evitare l’immediata condanna, malgrado il durissimo contenuto dell’atto di accusa e le testimonianze nel dibattimento. Uno di questi testimoni lamentava che “la prepotenza degli stessi però è tanto intricante che nella istituzione di questo processo ne ha cercato soffocare le prove, e quelle che a stento si han potuto raccogliere, piene di timore e prevenzione, sono state il risultato delle pratiche adoperate dal delegato giudice barone Martinez”. A proposito dell’impunità delle famiglie maggiorenti, commentatori postumi richiamavano “l’inevitabile riannodarsi delle antiche e profonde solidarietà, solo momentaneamente interrotte dalla rivoluzione autonomista”.

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Fu comunque spiccato un successivo mandato di cattura nell’agosto 1822 a carico di Girolamo Fatta Barile, del “baronello” Cottonaro, del “contino” Gaetano Rampolla e di altri che erano fortemente sospettati di avere avuto un ruolo negli eccidi, tra cui Salvatore Fatta Salonia, cugino di Girolamo. La notizia era già conosciuta da più giorni, ed ognuno di questi in fretta ed in modo autonomo fuggì da Polizzi per evitare l’arresto. Ai primi di novembre dello stesso 1822 l’occhiuta polizia borbonica, da sempre ben inserita nei meandri malavitosi dell’isola di Malta che solo da pochi anni era a pieno titolo nell’orbita dell’impero britannico, segnalava il fermo alla Valletta di un sedicente commerciante di Positano di nome Asmondo Romanoco, proveniente con una “speronara” maltese da Calabernardo nei pressi di Noto, il cui passaporto era evidentemente contraffatto. Indagini successive chiarirono che il nome era stato alterato più volte, ed in realtà si trattava di “Girolamo Fatta figlio del Barone Fatta di Polizzi”. La ricostruzione del rocambolesco arrivo a Malta fa luce sui vani tentativi di fare perdere le tracce nei vari spostamenti. Girolamo, col nuovo nome di Salvatore Bonomo da Polizzi, dopo brevi tappe a Palermo e Napoli, era giunto fino a Livorno, e da lì su un brigantino svedese era tornato a Trapani. Sbrigate alcune faccende private, aveva poi proseguito la fuga precipitosa con soste e segnalazioni a Spaccaforno (Ispica), Noto e Siracusa, simulando commerci di carne e frumenti. Nella città aretusea, dopo aver comprato per ottanta onze il passaporto del Romanoco, aveva ricevuto “lettere commendatizie” ed il denaro necessario per la latitanza, attraverso una cambiale che gli era stata pagata dal negoziante inglese Scott. Il governo luogotenenziale di Malta gli aveva notificato un decreto di espulsione con l’ordine di lasciare l’isola entro un mese. A Malta negli stessi mesi si erano rifugiati anche gli amici Giorlando Gagliardo di Cottonaro e Gaetano Rampolla, ma sappiamo che tanti altri speravano di ottenere asilo nell’isola: un anno dopo a Malta venne arrestato un presunto marinaio spagnolo, che poi si rivelò essere il già citato Salvatore Fatta Salonia, proveniente da Gibilterra dopo lunghe peripezie, che viaggiava sotto il falso nome di Salvatore Rennis. Si rivelò inutile il suo tentativo di eludere il carcere cercando di imbarcarsi sulla nave Ulisse per raggiungere Zante: fu infine espulso verso il regno delle Due Sicilie nelle galere della nave inglese Principessa Elisabetta, accompagnato alla triste partenza dal cugino Girolamo e da altri fuoriusciti. Dei tre compagni di sventura, Gaetano Rampolla era l’unico che effettivamente aveva poco o nulla da farsi perdonare, e comunque nessuna responsabilità negli eccidi. Alle ripetute richieste di autorizzazione al ritorno a casa, inoltrate dal padre Mariano Rampolla, nel giugno 1823 la stessa polizia riconosceva l’assenza di validi capi d’accusa nei suoi confronti, ma si ipotizzava l’appartenenza alla Carboneria dei tre giovani, e che Gaetano ne fosse addirittura uno dei capi locali. Lungaggini burocratiche rallentarono la decisione, e addirittura si resero necessari un’apposita delibera del Consiglio di Stato ed un decreto del sovrano. Così soltanto nei primi mesi dell’anno successivo gli fu restituito il passaporto e Gaetano poté tornare nella sua Polizzi. Al contrario, Girolamo Fatta e Giorlando Carpinello inviavano continue istanze per evitare l’estradizione in Sicilia, dove sarebbe stato alto il rischio di una dura detenzione, mentre a Malta erano liberi di agire come meglio credevano. Le indagini della polizia borbonica avevano verificato che Giorlando, malfermo in salute, attendeva a Malta l’esito del processo, pronto a far arrivare nell’isola la propria famiglia nel caso di esito sfavorevole della sentenza, 164


e di lì rifarsi una vita in Francia. Lo stesso proposito aveva espresso Girolamo Fatta che, con l’aiuto impagabile del fratello Giovanni, chiedeva al Sovrano la grazia di potere restare a Malta nelle more del processo e che non fosse obbligato a lasciare l’isola, poiché non si era macchiato di un delitto politico. Pur di non tornare subito in Sicilia, era disposto a trasferirsi provvisoriamente in uno “stato estero” qualora glielo si fosse richiesto. Gli abituali dispacci di polizia accettavano questa versione: Girolamo non si era macchiato personalmente di fatti di sangue e poteva ritenersi questo un reato di opinione, compatibile con la grazia richiesta. Dopo altri quattro lunghi anni di lontananza, nel 1828 Girolamo chiedeva al sovrano di poter tornare in Sicilia, ma soltanto l’anno successivo l’amnistia generale del 1825 venne estesa anche a fatti delittuosi come quelli avvenuti a Polizzi nel 1820. Malgrado l’ordine di fare in fretta, il console di Malta non poté emettere il passaporto a Girolamo perché la sua condotta gli aveva causato ulteriori problemi: era nota “la sua vita la più licenziosa e dissoluta” che l’aveva condotto “nelle pubbliche prigioni” per essere accusato di avere capeggiato una vera e propria banda dedita alla fabbricazione ed allo spaccio di moneta falsa. Addirittura, nell’aprile 1830 Girolamo era stato condannato dalla Suprema Corte Criminale di Malta alla “galera in vita con catena ai piedi e con dover servire alle opere pubbliche”, sentenza che doveva essere messa in esecuzione nel mattino seguente. Le pressioni esercitate da amici dei familiari sul Luogotenente Generale di Malta, profittando anche della prossima festività di San Giorgio, riuscirono però nell’effetto di far sospendere immediatamente la condanna, commutandola nell’allontanamento perpetuo dai cosiddetti “Domini Britannici”. Non si trattava della grazia, in quanto Girolamo avrebbe dovuto restare recluso in un carcere a Palermo in attesa della conclusione del processo a suo carico. Giunto in nave a Siracusa nel giugno 1830, grazie anche ai buoni uffici del fratello Giovanni, otteneva tuttavia il permesso di scontare la detenzione nel forte di Castellammare, assai più confortevole rispetto alla bolgia della Vicaria. Ma non dovette subire neppure un giorno di carcere, perché il reato venne riconosciuto coperto dall’amnistia generale, a condizione che non si muovesse da Palermo e venisse controllato dalla polizia ogni 15 giorni. Gli stessi benefici di amnistia furono concessi in quei giorni anche al baronello Cottonaro ed al cugino Salvatore Fatta Salonia, che così poterono fare ritorno in città. Tornare in Sicilia significava per Girolamo anche cambiare del tutto i modi di vita, doversi adeguare a quelle convenzioni ineliminabili che nei i nove anni di esilio e di disordine morale e materiale aveva potuto eludere. Una lettera intercettata dalla polizia, fatta recapitare tramite un avvocato e l’anziana cameriera di Girolamo Elena Attard ad una sua concubina in Malta nominata Angiola Cauchi di anni 21 nativa di colà battezzata in Burmola, figlia di Vincenzo Zammit, e di Maria Mastrojeni, ci racconta di una relazione affettiva che aveva costruito in quegli anni e della nascita del figlio Annibale a cui sarebbe stato legatissimo per il resto degli anni a venire. Girolamo desiderava che Annibale arrivasse al più presto in Sicilia e chiedeva fiducia nella continuazione del loro rapporto affettivo, cercando di tranquillizzarla anche riguardo al suo futuro economico. “Per mezzo dell’avvocato Balzan e D. Elena [Attard] ti ho fatto sapere il mio felice arrivo in questa ed il desiderio che avrei di ricevere tue nuove. Voglio sperare che in breve sortirai e verrai in questa con il caro Annibale, io ho combinato con Carpinello di unirti con Maddalena e Maria, e venire se però ancora non hai ricevuto la grazia allora abbi un puoco di pazienza fintanto 165


che io procurerò il mezzo di liberarti ed allora dipartirai o per Trapani o per Marsala per questo direttamente ch’è meglio, avvisami pari se il Sig. Gen…. ti passa i sei soldi al giorno, donami notizie di Pilé [suo compagno di avventure a Malta] s’è partito ti raccomando di restar saggia se vuoi la mia stima, e ti assicuro che non ti abbandonerò mai. Ti abbraccio col caro Annibale e credemi. Il tuo Girolamo Fatta”. Per Girolamo l’obiettivo primario era di tornare a Polizzi, presso i suoi congiunti e dove aveva i suoi affari e rendite, ma soltanto nel 1831, insieme al baronello Cottonaro, poté fare ritorno “in patria”, dopo che la loro richiesta fu attentamente vagliata in relazione all’effetto, eventualmente provocatorio, che il rientro nel loro paese avrebbe potuto determinare. Certamente, durante il lungo periodo di lontananza dalla Sicilia, a Girolamo fu molto vicino il fratello minore Giovanni, nell’amministrazione dei beni privati e familiari, ma anche e soprattutto nella capacità di tessere rapporti con le autorità di Pubblica Sicurezza: in un dispaccio del duca di Lumia, Direttore Generale di Polizia, inviato per conoscenza anche a D. Giovanni Fatta Barile, si segnalava la buona condotta di Girolamo nel suo “soggiorno”a Malta e nei mesi di permanenza a Palermo, nella prospettiva di una prossima autorizzazione al ritorno nella sua cittadina. Iniziò allora un nuovo corso della vita di Girolamo, scandito da lunghi viaggi di piacere e privo di legami stabili. Già nei primi mesi di permanenza a Polizzi si concesse una traversata navale per Napoli, dove poté incontrare dopo lungo tempo le sorelle Maria Stella e Maria Teresa. Appena tornato riebbe il passaporto per un lungo giro che lo avrebbe portato a Costantinopoli, attraverso Zante e Navarino in Peloponneso, dove la polizia ipotizzava che avrebbe dovuto incontrare un cugino “per lavoro”. Girolamo fece ritorno a Polizzi in compagnia della maltese Elena Attard, che rimase nella condizione di sua “servitrice” fino al 1847, quando morì ottuagenaria con grande dolore di Girolamo, occupandosi anche del piccolo Annibale, visto che non ho trovato alcuna notizia riguardo alla presenza in Sicilia della giovane mamma Angiola Cauchi. Il figlio “spurio”, nato nel 1827, per buona parte della vita dovette sottostare alla difficile condizione di figlio illegittimo, non riconosciuto ufficialmente dal padre, malgrado questi lo facesse partecipare a tutte le attività familiari ed amicali. Della moglie Angela Leto non si hanno che poche notizie, neppure nei diari o nella corrispondenza: dai registri anagrafici sembra che si fosse trasferita a Palermo, dove visse fino al suo decesso avvenuto nel 1864. È probabile che il lungo esilio/latitanza ed il figlioletto illegittimo siano stati causa di una separazione di fatto, di una interruzione totale di ogni rapporto, così che non si trova neppure una parola sulla moglie Angela Leto nel testamento del 1848. Soltanto in qualche passo della corrispondenza privata sembra che Girolamo avesse assunto degli obblighi nei confronti di questa, ma tendesse a non rispettarli tenendole nascoste alcune delle proprie attività e gli eventuali complimenti ricevuti per tema di qualche firiticchio. D’altra parte, dal nipote Orazio Fatta Rampolla sappiamo della disordinata vita affettiva di Girolamo nel corso di oltre un decennio: il giovane timido e riservato notava, non senza un evidente imbarazzo, che lo zio in un’occasione est trainé par une femme qui domine sa volonté, in altre era invischiato in un laido amoraccio. Al contrario, rispetto alla cautela mostrata verso i Leto superstiti (la moglie Angela e lo zio prete), si mantennero abbastanza stretti i rapporti tra Girolamo ed il primogenito Orazio, anche se alquanto sporadici per le lunghe permanenze di entrambi fuori dal regno di Napoli.

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Ritengo che nei sei-sette anni successivi al ritorno a casa, Girolamo abbia viaggiato molto per l’intera Europa: solo così può spiegarsi la conoscenza approfondita di luoghi lontani che più volte dimostrerà. Dal diario inedito del nipote Orazio Fatta Rampolla (nonno del padre di chi scrive) e da un interessante carteggio familiare si conoscono fatterelli e piccoli aneddoti, che diventano significativi per conoscere meglio Girolamo e la sua vera indole. Dal 1840-41 risiedeva stabilmente a Polizzi, con lunghe permanenze a Termini presso la casa del fratello Giovanni che da tempo vi si era trasferito, ed a Palermo, specie nei periodi di festa. Fin da quegli anni a casa di Girolamo Fatta Barile si organizzavano allegre attività socializzanti che duravano diverse settimane, talvolta mesi con cadenza quotidiana. Grazie alle proprie conoscenze artistiche, ma anche dei più rinomati locali pubblici, ristoranti, alberghi e delle migliori abitudini locali, nel 1842-44 si impegnava a costruire le tappe dei lunghi viaggi dei familiari in giro per l’Italia, da Napoli e le sue antichità, a Roma con i principali monumenti, a Firenze e Livorno. Appassionato di teatro, come tutti in famiglia, quando si recava a Termini, ma soprattutto a Palermo, non mancava alle serate nei teatri di ogni ordine e grado, dal Carolino, al San Ferdinando e al Santa Cecilia. Nelle lunghe settimane festive del carnevale Girolamo, più che cinquantenne, teneva testa a figli e nipoti con maschere e camuffamenti: colorava colla calce la barba interamente cresciuta carbone, si travestiva da novizio Scolapio, con vestiti e parrucca femminili, o mascherato da bautta con mantello nero di velluto, un cappuccio aperto solo sul volto coperto da mascherina e cappello a tricorno. Il nipote ne ammirava la forte costituzione fisica che a 48 anni agissait mieux qu’un giovane, sia nelle spedizioni di caccia nelle campagne di Sant’Onofrio (nei pressi di Trabia) che duravano alcuni giorni, sia nella pesca con le reti. Ma ciò in cui Girolamo eccelleva era la capacità di animazione di gruppi di amici, anche con frequenti pesanti burle che non di rado rischiavano di degenerare. Dal diario del nipote: egli muove e tiene animata la compagnia, quando parte se ne sente il vuoto. Mattina e sera si giocava a carte da lui, anche con poste molto elevate, ma sempre con buonumore e spensieratezza. Tornei di zecchinetta e bassetta costituivano il naturale epilogo anche di gite, escursioni e giornate di caccia, organizzate con attenzione per i dettagli anche durante la mobilitazione generale del 1848. Girolamo mostrava più volte soddisfazione per l’apprezzamento di cui godeva, soprattutto per l’allegria che riusciva a trasmettere: richiesto di intervenire e riorganizzare il gruppo a Termini, prometteva di tornare presto e di riprendere gli incontri divertenti con Cassata, Riso, il Bianco e anche il Timbale: non rinunciava alla passione per il buon cibo, talvolta da lui stesso preparato e cucinato, ma soprattutto per i dolci tipici delle Madonie. Nel corso dei moti del ‘48 seguiva con interesse le parate militari della Guardia Nazionale, vicino a soggetti influenti quali il barone Riso e il Presidente della Nazione Ruggero Settimo, pronto ad approfittare delle sue buone conoscenze nel Consiglio Civico e nel governo rivoluzionario per ottenere qualche lucrosa carica, come la Ricevitoria Distrettuale di Termini (che poi non ottenne). Girolamo non smentì mai il proprio carattere molto energico: non esitava a rimproverare aspramente i figli anche per scelte molto personali, quali i fidanzamenti con donne a lui non gradite, o per comportamenti a suo avviso non corretti. Appare effettivamente paradossale che, malgrado il passato non certo cristallino ed il presente ugualmente discutibile, se non riprovevole, il padre accusasse più volte lo schivo Annibale di “condurre una vita 167


dissipata e non educata”. Lo stesso nipote poco più che ventenne Orazio Fatta Rampolla, di cui aveva continuo bisogno ed a cui ricorreva (più che il padre di questi, Giovanni) per sbrigare tanti affari e seccature, per amministrare le sue proprietà nei lunghi periodi di assenza, veniva rimproverato aspramente perché non sufficientemente sobrio nel vestire, come lo zio pretendeva. Le richieste del giovane Orazio di calze di alta qualità, di “tait ed equipaggio” dimostravano di non tenere conto delle sue esigui finanze, allargando la querelle all’altro nipote Corrado, assai più giovane ed inesperto, ed al proprio sfortunato matrimonio ormai da tempo finito:“… che diavolo sogni sarò quello che sono stato e con qualche deterioramento. Tu sarai la rovina del povero Corrado ma questi è abbastanza filosofo per non succhiare le tue massime di Coscia Tesa, e tanto mi ha promesso se la fortuna mi sarà favorevole forse mi farò un “scias” per … del felice e prospero matrimonio a cui il destino mi condannò per farmi esquilibrare ma pazienza”. Che l’indole di Girolamo avesse degli aspetti provocatori oltre il limite, è dimostrato dalla questione che creò e portò lungamente avanti riguardo alla successione araldica della famiglia della moglie. In mancanza di eredi maschi, vittime dell’eccidio del 1820 tranne il sacerdote Francesco che era stato risparmiato, il titolo di barone di Cammisini di cui si fregiavano i Leto doveva essere trasmesso maritali nomine in altra famiglia. Di questo credeva di potersi valere Girolamo, che appunto chiamò il secondo figlio col nome del nonno, sperando ed immaginando di potere così ereditarne il tiolo. Sarebbe stato certamente paradossale se Girolamo Fatta Barile, pesantemente coinvolto nella responsabilità per la morte dei maschi di casa Leto, avesse assunto la baronia di Cammisini, che invece, a seguito di una lunga causa, andò attraverso la sorella Rosalia al marito di questa Giuseppe Porcari. L’indomabile Girolamo non si arrese, e più volte in documenti privati si firmò come barone di Cammisini, pur sapendo che si trattava di usurpazione di titolo. Che faccia tosta!

Girolamo Fatta Barile si firma provocatoriamente col titolo del suocero.

Nel novembre 1854, senza che si fossero manifestati particolari disturbi, Girolamo fu improvvisamente preda di forti dolori addominali, con convulsioni che portarono ad una morte rapida a 57 anni, lasciando i familiari e i tanti amici attoniti ed inconsolabili. Nel testamento redatto sei anni prima, nominava erede universale il figlio Orazio. Un’attenzione particolare veniva osservata per Annibale, di cui il padre conosceva la fragilità e le difficoltà quotidiane, al quale si assegnava un legato di denaro 50 onze annuali, il fondo Panitteri, il quarto a Polizzi, col mobilio completo, e anche quello proveniente dalla casa di Termini. Annibale, portato da Malta dalla mia serva Elena Attard, dovrà chiamarsi col mio nome Fatta. Il testamento rivelava inoltre che dalla defunta Elena Attard gli erano state consegnate in Prek (forse a Malta 168


tanti anni prima dalla famiglia della madre naturale) 150 onze da dare ad una persona il cui nome fino allora era rimasto segreto, e che si svelò essere il figlio Annibale. In nessuna parte del testamento veniva citata la sfortunata moglie Angela Leto. Dei tre figli superstiti di Girolamo, la minore Caterina visse la maggior parte della sua vita come moniale benedettina in un convento a Polizzi, dove morì nel 1871. Assai diversi tra loro i destini dei figli maschi. Di Orazio si notano fortissime affinità di carattere rispetto al padre: se a quest’ultimo era mancata la guida paterna, Orazio non lo conobbe neppure, se non verso i 12-13 anni, affidato alla sola madre giovanissima e inesperta, orfana e bisognosa di aiuto piuttosto che in grado di offrirne. Le frequentazioni giovanili non sembra fossero sempre limpide e guidate da saggezza, conducendo il più giovane omonimo cugino nelle prime esperienze di vita. Dal diario inedito dell’anno 1842: Je fus mené ou mieux dire trascinato pour la première fois dans un B. par mon cousin Horace. Tra i due cugini trasparirà sempre evidente un rapporto molto stretto, sia per l’aiuto che lo zio Giovanni, fratello di Girolamo, aveva sempre dato alla cognata ed ai suoi figli, sia per la vera e propria ammirazione che il timido Orazio Fatta Rampolla, il cui orizzonte era limitato a Polizzi, Termini e Palermo, nutriva nei confronti di Orazio Fatta Leto, più grande, esperto e conoscitore del mondo per i continui viaggi in varie parti dell’Europa: Genova, Firenze, Roma, Milano, Torino, ma anche Uri in Svizzera, Fiume in Croazia, Bucarest e Parigi. Beato lui! Combien je voudrais imitarlo! I beni e gli interessi economici di quest’ultimo erano totalmente affidati al cugino, che con pedante attenzione annotava tutto e ne riferiva di continuo. Era chiamato familiarmente “Orazio maggiore” perché il più grande di età fra i tre cugini omonimi, o “Orazio il grosso” per la stazza, ed alternava brevi periodi di soggiorno familiare a Polizzi e Palermo con lunghe permanenze all’estero, che si protraevano anche per più di un anno. Non ho chiarissimo di quali affari si occupasse, ma ritengo che Orazio fosse ben inserito nell’imprenditoria teatrale, ambito che mostrava di amare molto, visto che in ogni momento libero frequentava le opere liriche e ogni altra forma di rappresentazione nei teatri di Palermo e Termini. A questo ambiente artistico Orazio dedicava anche i suoi interessi sentimentali: doveva godere di un certo fascino se riusciva in più occasioni a tessere relazioni più o meno lunghe e stabili con alcune delle cantanti d’opera più in vista dell’epoca. Si dichiarava “prossimo sposo” della genovese Luigia Abbadia, poi en amitié per più di un anno con la Marziali che andava seguendo in giro per l’Europa nelle sue applauditissime esibizioni, e ancora anni dopo il cugino lo indicava come ufficiale “amante di Marietta Anselmi”, notissima soprano e primadonna al Carolino. Puntuali arrivavano i rimproveri del padre Girolamo, che pretendeva di mettere il naso nelle scelte sentimentali del figlio: con una lettera personale invitava la Abbadia a desistere da ogni velleità matrimoniale, ed arrivò quasi a minacciare lo stesso Orazio (disquietavasi col figlio) che dichiarava di essere in procinto di sposarsi con Adele Binotti, figlia di un facoltoso commerciante fiorentino. Morto il padre (1854) e più libero nelle proprie scelte, Orazio intensificò la frequentazione con la madre e lo zio Abate, imbarcandosi in rapporti di maggiore impegno. Nel 1858 presentò al cugino un figlioletto, probabile frutto di una delle relazioni sopra richiamate, ma 169


di cui non sono in grado di fornire altre informazioni. Tre anni dopo (ottobre 1861) Orazio Fatta Leto si sposa a Palermo con Carolina Perez, anch’essa una cantante dilettante, malgrado l’affezionato cugino l’avesse vivamente sconsigliato (io gli ho detto vituperi! Egli se ne mostra mortificato). Dal diario inedito viene fuori fin dall’inizio un rapporto matrimoniale non facile: grandi regali del marito, vita brillante e dispendiosa, viaggi per l’Italia. Il cugino commentava quanto fosse esigente la moglie e notava molti problemi: pazzo in dispendi per abiti e galanterie, oggi più che un marito sembra un innamorato. Difatti il matrimonio, in crisi già dopo un anno circa, naufragò presto risvegliando in Orazio il desiderio di riprendere la vita erratica: Orazio parla sempre della sua sventura pel matrimonio, agogna partire in Grecia in aprile 1864. Si era rivelata disastrosa la gestione in società del teatro Bellini, e piuttosto che imbarcarsi in nuove imprese, Orazio organizzò per lungo tempo una vera e propria bisca a casa propria, dove si giocava con poste molto alte. Questa fase mette in luce la somiglianza del figlio al padre, per capacità aggregativa e naturale simpatia: organizzatore di gite e spedizioni di caccia, di allegri travestimenti e di scherzi anche piuttosto crudeli. Orazio maggiore porta sempre delle novità. Con un atto notarile datato giugno 1869 Orazio Fatta Leto, abitante in via del Volturno a Palermo, cedeva al cugino Orazio Fatta Rampolla il titolo di barone della Fratta che gli competeva di diritto in quanto figlio ed erede del padre primogenito Girolamo, optando per quel titolo baronale proveniente dalla linea materna che, a suo dire, gli spettava. “… dapoiché il medesimo comparente [cioè lui stesso] possiede il titolo di Barone di Cammisini, pervenutogli per eredità materna, del quale titolo trovasi in atto investito”. Continuava così l’atteggiamento provocatorio che il padre aveva condotto per tutta la vita nei confronti della famiglia Leto. Orazio Fatta Leto muore a Palermo nel 1874 a 55 anni.

Orazio Fatta Leto consapevolmente si firma col titolo usurpato.

Assai diverso dal padre e dal fratello maggiore era invece Annibale, chiamato talvolta Zammit forse per il cognome del nonno maltese. Dall’epoca dell’arrivo da Malta, rimase accanto al padre Girolamo che gli fece frequentare l’Educandato delle Scuole Pie a Palermo e lo conduceva con sé in ogni circostanza. Per tutta l’età giovanile fu costretto a subire, lui timidissimo, la dirompente ed eccessiva personalità del padre, pronto a sindacare ogni sua scelta autonoma, a rimproverarlo per una vita, a suo dire, sconveniente. Partecipò con grande passione alla rivoluzione del 1848, pronto a prendere parte ad una spedizione per aiutare i “fratelli di Lombardia”, assai contento di non ricevere la solita “scomunica” dal padre per il suo ardore condensato nel motto o morire o rigenerare! richiamato in una lettera in cui si firmava “Il cittadino Annibale”, indirizzata al solito cugino Orazio che ne curava gli interessi e gli inviava a Palermo scarpe, vestiti, un fucile e tanto altro. 170


I rapporti difficili col padre si chiusero soltanto alla morte di questo, nel 1854, e nel dicembre dell’anno successivo Annibale convolò a nozze a Polizzi con la ventiquattrenne Teresa Trapani, figlia del “dottore in legge” Nicolò e di Angela Dominici, proveniente da una famiglia piuttosto in vista che aveva ed avrebbe dato alla cittadina alcuni sindaci. Come per il padre ed il fratello, il matrimonio non fu certo felice, privo di figli e pieno di problemi caratteriali ed economici, e si concluse duramente pochi anni dopo. Si racconta che Annibale sia stato così costretto a restituire alla famiglia della moglie la dote di 3000 lire, con un grave appesantimento delle già esigue finanze. Tentò, sembra senza successo, anche di rintracciare la madre naturale maltese attraverso l’avvocato Di Marco, per ottenere “gli alimenti” che, a suo dire, gli sarebbero spettati. Il carattere mite e le effettive condizioni di difficoltà gli facevano ottenere piccoli ma costanti aiuti da parte dei parenti: la zia Maria Stella, sorella di Girolamo e moglie benestante di Andrea Spinelli barone della Scala, nel testamento del 1877 gli assegnò il legato di lire 1275 annue, che contribuì un poco ad alleviare i problemi del nipote Annibale. Visse tra Polizzi e la masseria di Torretonda e assunse qualche marginale ruolo di rappresentanza nel suo paese: sappiamo che nel 1881 la delegazione CAI per la visita sulle Madonie fu accolta da Annibale Fatta e dal sindaco cav. Antonio Trapani, forse parente della moglie. La corrispondenza con i parenti più stretti degli ultimi anni conferma l’aggravarsi della depressione dovuta alla solitudine ed alle difficoltà economiche. Al cugino Corrado confidava da Torretonda: la mia posizione finanziaria mi ha reso sfiduciato … perdo la fidata persona di servizio … malato e con una vita di intollerabile di prolungata agonia. Pochi mesi dopo, il 21 novembre 1889 a 62 anni Annibale, già vedovo, moriva a Polizzi in Chiasso Fatta. Così, dopo molti lutti e qualche sorriso, si chiudeva anche la discendenza (conosciuta) di Girolamo Fatta Barile.

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Le infrastrutture del grano nella Sicilia d’età moderna I mulini dei Moncada e le masserie della feudalità ecclesiastica in area madonita GIUSEPPE GIUGNO La storia dei feudi nella Sicilia di età moderna evidenzia lo stretto legame che pone in diretta relazione i numerosi abitati, di fondazione medievale e moderna disseminati nelle aree interne dell’isola collinari e montane, con i territori circostanti. La lettura delle fonti d’archivio prodotte tra Cinque e Settecento proietta, a tal proposito, l’immagine di un entroterra in continua evoluzione, nel quale le esigenze della messa a coltura di nuovi fondi agricoli, alimentata dalla previsione di profitti, promuove il moltiplicarsi di un radicato apparato di infrastrutture rurali composto perlopiù da borghi, masserie e mulini ubicati nelle prossimità di corsi d’acqua. Negli Stati feudali dei Moncada, il sistema dei mulini posto sotto la giurisdizione del Duca di Montalto enumerava diverse strutture, di cui è possibile ricostruire le vicende architettoniche mediante i contratti relativi alla loro costruzione, ricostruzione o semplice riparazione. Inoltre, il quadro d’insieme che le fonti restituiscono, con particolare riferimento al comprensorio madonita, consente di far luce sulle maestranze intervenute nelle fabbriche, il cui coinvolgimento veniva giustificato dal possesso di competenze maturate nell’ambito costruttivo e in quello della ingegneria ambientale oltre che idraulica. Non a caso, emergono dalle fonti problematiche, perlopiù idrogeologiche, che hanno determinato nei secoli il ripetuto intervento sui mulini, ora danneggiati dalla esondazione delle acque del fiume nei cui pressi erano installati, ora resi improduttivi da smottamenti di terreno1. Occorre ricordare, a tal proposito, che nel 1592 l’architetto siracusano Alfio Vinci venne mandato dai Moncada a risolvere le problematiche strutturali dei mulini delle «terre delle Petralie», interessati da una lavanca, prevedendo l’impiego di pali «in riparo di detta lavancha». Il coinvolgimento di Vinci, figura nota per il suo impegno nella progettazione di architetture civili e sacre, ne denota la versatilità professionale, frutto di una cultura alimentata dalla conoscenza libresca e dalla pratica costruttiva2. Prova ne è, del resto, l’epìtome che Nicola Aricò attribuisce all’architetto, rimasta anepigrafa sino al Settecento quando riceve il titolo di Libro di Architettura. Numerose sono, infatti, all’interno del testo le tracce del clima di interferenze culturali che proiettano Vinci al magistero di Jacopo del Duca e all’operato dell’Alberti, Vitruvio, Palladio e Serlio3. Anche Giovanni Amico inserisce l’uso della palificata per il consolidamento di terreni paludosi nel suo trattato L’Architetto prattico, attingendo alla tradizione vitruviana e

Per un inquadramento generale delle problematiche attinenti allo studio dei mulini ad acqua in Sicilia si vedano A. GIUFFRIDA, Permanenza tecnologica ed espansione territoriale del mulino ad acqua siciliano (secoli XIV-XVIII), in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», LXIX, 1973, pp. 193-215; S. TRAMONTANA, Mulini ad acqua nella Sicilia Normanna, “Studi per Paolo Brezzie”, in «StudiStorici», n. 188-192, Roma 1988, pp. 811-824. 2 Cfr. G. GIUGNO, Architetti e maestranze negli Stati feudali dei Moncada. Spigolature d’archivio sul comprensorio madonita, in Arte e storia delle Madonie. Studi per Nico Marino, voll. IV-V, Atti della quarta e quinta edizione Cefalù e Castelbuono, 18-19 ottobre 2014, Gibilmanna, 17 ottobre 2015, Ass. Cult. Nico Marino, 2016, pp. 280-281. 3 Cfr. N. ARICÒ, Libro di Architettura. Da L. B. Alberti ad anonimo gesuita siciliano del tardo secolo XVI, vol. I, GBM, Messina 2005, p. 138 sgg. Sull’argomento si veda anche G. GIUGNO, Caltanissetta dei Moncada. Il progetto di città moderna, Lussografica, Caltanissetta 2012, pp. 109-110. 1

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mostrando estrema attenzione nell’esplicitare le essenze lignee da impiegare nella sua realizzazione tra quelle di «castagna, ulivo, quercia, faggio, rovere»4. [Fig. 1] Tra i casi di intervento su fabbriche molitorie danneggiate emerge, nel 1640, il «molino soprano» di Collesano, nel quale non era possibile al tempo praticare la molitura dei cereali a causa di una frana che ne aveva travolto le strutture. Per questo motivo se ne decise la ricostruzione in altro sito: «mulino non può più macinare per causa che si trova in menzo di una lavanca né può più stare in questo luogo. Dichiara che in detto loco ci è parte che si può fabricar detto molino di novo»5. Oltre al «molino soprano», vengono attestati in ambito madonita lungo la fiumara delle Petralie altri «molendina et paratura», di cui è documentata nel 1640 l’ingabellazione a mastro Francesco Siragusa ad opera di don Antonio Napoli, principe di Santo Stefano, nella qualità di procuratore generale di don Luigi Moncada Aragona e Lacerda6. In cambio della concessione, Siragusa si obbligava a costruire un nuovo mulino con paraturi: una gualchiera per la follatura della lana che si aggiungeva a quelle già esistenti nel territorio. L’opera viene, in effetti, edificata l’anno seguente in località Favara vicino Collesano, come attesta il contratto di obbligazione stipulato per la sua realizzazione. Il costo complessivo dei lavori fu stimato in 150 onze e venne prevista nell’ambito delle opere da eseguire una «butti di ditto molino seu caduta» di settanta palmi7. [Fig. 2-3] Le fonti informano che nel 1616 vennero trasmesse alcune somme di denaro a Giovanni Marco David, secreto di Caltavuturo, per aver provveduto alle «reparationi necessarij della bucciria di Caltavuturo e fundaco e molini di Scillato»8. Occorre, a tal proposito, verificare mediante ulteriori scandagli archivistici se il riferimento al fundaco di Scillato non vada invece inteso come toponimo della località nella quale sorgeva il complesso. Qualora tale ipotesi venisse confermata sarebbe verosimile identificare la struttura col mulino Fundeca, che nel 1156 la contessa Adelasia, nipote di re Ruggero II, donò alla diocesi cefaludense, nuovamente citato in una concessione dell’imperatrice Costanza del 11969. Così scrive Vito Amico sull’abbondanza di acque che attraversano il centro madonita e sulle strutture molitorie lì presenti lungo i corsi dei torrenti Agnello e Gulfone sin dal basso medioevo: [Fig. 4-5] «abbondante di copiose fonti, delle quali subito adattansi le acque in movimento di molini di frumento, e poi raccolgonsi nel letto del’Imera settentrionale ossia del Fiume grande»10. Cfr. G. AMICO, L’Architetto prattico, in cui con faciltà si danno le regole per apprendere l’Architettura Civile, Nella Stamperia di Gio. Battista Aiccardo, Palermo 1726, p. 60. 5 Archivio di Stato di Palermo (ASPa), Fondo Moncada, vol. 3864, a. 1640, f. 297r. 6 Archivio di Stato di Caltanissetta (ASCl), Notai Defunti, Not. A. La Mammana, vol. 641, a. 1640, f. 114r. 7 ASCl, Notai Defunti, Not. A. La Mammana, vol. 641, a. 1641, f. 418r. 8 ASPa, Fondo Moncada, vol. 1093, a. 1616, f. 88r. 9 Per il riferimento alla concessione normanna si veda ASP, Tabulario della Mensa Vescovile di Cefalù, 11, 1156, ind. IV. 10 Cfr. V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia¸ tradotto dal latino e continuato sino ai nostril giorni per Gioacchino di Marzo, vol. II, Salvatore di Marzo editore, Palermo 1859, p. 477. 4

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Risalgono al 1707 i lavori eseguiti dai mastri Francesco Calabrò e Benedetto Nicolosi su mandato di Giuseppe Calafato, deputato della Deputazione degli Stati del Principe di Paternò e Duca di Montalto, su un mulino di Scillato non meglio identificato, il cui costo di ricostruzione fu stimato in oltre 400 onze. Dalla lettura della perizia redatta dai mastri emerge che venne totalmente rinnovato un impianto preesistente, a partire dallo scavo dei «fossati seu pedamenti dove si devono fabricare le case di ditto molino ed il molino sudetto». Tra gli altri interventi indicati nel documento emerge il «fosso dove deve collocarsi il garraffo di detto molino». La relazione degli esperti prevedeva anche la ricostruzione della botte, della quale vengono dettagliatamente fornite le misure assieme al dalfinato, vale a dire la struttura concepita per irrobustirne le murature: «per la fabrica di detta Botte quale fabrica si deve incominciare dal suo pedamento a canne due di larghezza e finire a canna una di detta larghezza bisognandovi canne cinque d’altezza dovendo incominciare dal solo del garraffo sudetto e terminare sino alla gorga di sopra della Botte sudetta»11. Il sistema delle strutture dedite alla molitura dei cereali, pur ricadendo prevalentemente nell’ambito della giurisdizione feudale, non escludeva tuttavia la possibilità che anche i cives di una terra potessero detenerne il possesso. Inoltre, non era rado ritrovare mulini anche nelle vicinanze di masserie, le quali costituivano di fatto un nodo strategico nella organizzazione del territorio e nel sistema della produzione cerealicola. Al loro interno, infatti, si distribuiva intorno al baglio una sequenza ben codificata di strutture e funzioni, segnata da magazzini, talvolta imponenti, dove avveniva la conservazione del grano, dalla panetteria per la produzione del pane, dal palmento e dalle ‘stanze’ per l’alloggio baronale e per quello dei contadini impegnati nella lavorazione delle terre prossime al complesso. Accanto alle masserie gestite dalla aristocrazia di antico e nuovo lignaggio, le fonti restituiscono anche il quadro, in continua evoluzione, di complessi – comunemente indicati col termine stantij – ricadenti nella sfera della giurisdizione delle grandi abbazie feudali12. È il caso, ad esempio, in ambito madonita della masseria posta nell’ex feudo di San Giorgio nel territorio di Polizzi Generosa, dipendente dalla quattrocentesca abbazia di Santa Maria del Parto di Castelbuono eretta da Francesco II Ventimiglia13. A tal proposito, le fonti informano che nel 1722 l’abbate don Giuseppe Silvestri ne concesse in gabella al barone Giuseppe Culotta il feudo con «stanze e beveratura»14. [Figg. 6-7] Legata al territorio di Collesano era la masseria di Annaliste ubicata nell’eponimo ‘comune’ dello Stato di Caltanissetta, confinante con gli ex feudi della Cicuta Nova, Cicuta Vecchia e ASCl, Notai Defunti, Not. L. Fantauzzi, vol. 786, a. 1707, f. 304r. Sul tema dei privilegi e benefici ecclesiastici in Sicilia in età moderna si rimanda a F. D’AVENIA, La feudalità ecclesiastica nella Sicilia degli Asburgo: il governo del regio patronato (secoli XVI-XVII), in Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell’Italia Meridionale, Associazione Mediterranea, Palermo 2011, pp. 275-292. 13 Sull’abbazia di Santa Maria del Parto si veda A. MOGAVERO FINA, L’abbazia di Santa Maria del Parto. Castelbuono medievale, Lo Giudice, Palermo 1970; O. CANCILA, Castrobono e i Ventimiglia nel Trecento, in «Mediterranea. Ricerche storiche», n. 15 (aprile 2009), pp. 103-104; R. Termotto, L’abbazia di Santa Maria del Parto a Castelbuono. La chiesa e la terra in Alla corte dei Ventimiglia. Storia e committenza artistica, Atti del convegno di studi (Geraci Siculo, Gangi, 2728 giugno 2009) a cura di Giuseppe Antista, Geraci Siculo, Edizioni Arianna 2009, pp. 64-77. 14 ASCl, Notai Defunti, Not. B. Fantauzzi, vol. 3235, a. 1722, f. 407r. 11 12

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San Martino. L’area viene censita tra i beni dei Moncada nel 1565, nel tempo in cui era data possibilità ai cittadini nisseni di recarvisi per il pascolo degli animali15. Annaliste, o Antilisti, compare nel patto stabilito nel 1637 per la ridistribuzione delle terre comuni tra Luigi Guglielmo Moncada e l’università di Caltanissetta, rientrando tra quelle rimaste nelle disponibilità dei Moncada16. Più avanti, si attesta nel 1639 la cessione del ‘comune’ a don Pietro Carriglio o Carrillo17, noto per aver esercitato tra il 1636 e il 1643 il ruolo di segretario e visitatore generale degli Stati del principe di Paternò. Ma il Carriglio riveste anche la funzione di abbate e commendatario dell’abbazia di Santa Maria del Pedale fino al 1666, anno in cui istituisce un beneficio ecclesiastico legato al possedimento nisseno18. [Fig. 8] Dopo la sua morte, la masseria di Annaliste passa nelle mani di don Aloisio Ossorio e Carrillo, probabilmente suo congiunto. Questi viene documentato nel 1692 nella qualità di giudice della Deputazione degli Stati di Ferdinando Aragona e Moncada, principe di Paternò, e viene menzionato col titolo di marchese di Aniliste19. Sia le terre che le fabbriche esistenti nel sito vengono date in gabella da Francesco Notarbartolo, procuratore dell’Ossorio, ad un tale Antonino Fiascone nel 169820. Questi deterrà il fondo sino al primo decennio del nuovo secolo, come attesta nel 1706 la concessione in gabella ad opera di Pietro Notarbartolo, nel ruolo di procuratore del marchese di Annaliste. Con la morte di don Aloisio avvenuta verosimilmente nel 1708, anno in cui si dispose la vendita del titolo marchesale su Annaliste – «emendum titulum Marchionatus Aniliste»21 –, il fondo viene assegnato alla Comunia e al Clero di Collesano e nuovamente ingabellato al Fiascone, mediante il suo procuratore, il sacerdote Francesco Giorgio Scelsi22. [Figg. 9-10] Nonostante la masseria dipendesse fino alla sua cessione alla chiesa collesanese dal governo degli Ossorio Carrillo, parrebbe che l’onere della sistemazione del complesso, in virtù probabilmente della concessione di natura enfiteutica del sito stabilita nel Seicento, fosse di competenza dello Stato di Caltanissetta. Infatti, nel 1709 i capomastri nisseni Francesco Scarpulla e Francesco Licitri, su ordine di Geronimo Guitardo capitano di giustizia, si recano ad Annaliste per quantificare i costi delle opere di riparazione da eseguire nelle fabbriche del sito: «per acconciarsi li muri che sono alla dritta, fare ditto muro mediante di ditto reposto e far le liste e ticchiene»23.

15 ASCl, Notai Defunti, Not. B. Bruno, vol. 266, a. 1565, ff. 84r-104r. Si ringrazia Rosanna Zaffuto per le notizie relative ad Annaliste nel Cinquecento e alla sua cession nel Seicento a Pietro Carriglio. 16 ASCl, Notai Defunti, Not F. la Mammana, vol 380, a. 1637, ff 192-198r. Sull’argomento si veda anche A. LI VECCHI, Caltanissetta feudale, Salvatore Sciascia¸Caltanissetta-Roma1975, p 233-243, doc I. 17 Cfr. F. D’ANGELO FABIO, La capitale di uno stato feudale, Caltanissetta nei secoli XVI e XVII, Tesi di dottorato di ricerca, Università degli Studi di Palermo, 2010-2012, doc 68. Sulla figura di Pietro Carriglio si rimanda a R. TERMOTTO, Collesano. Guida alla Chiesa Madre Basilica di S. Pietro, Notiziario Parrocchiale Insieme, Collesano 2010, pp. 103, 109. 18 ASCl, Notai Defunti, Not. L. Fantauzzi, vol. 788, a. 1710, f. 340r. 19 ASCl, Notai Defunti, Not. L. Fantauzzi, vol.773, a. 1692, f. 263r. 20 ASCl, Notai Defunti, Not. L. Fantauzzi, vol. 777, a. 1698, f. 29r. 21 ASCl, Not. L. Fantauzzi, vol. 786, a. 1708, f.795r. 22 ASCl, Not. M. Fiannaca, vol. 831, f. 576r. 23 ASCl, Not. L. Fantauzzi, vol. 787, a. 1709, f. 445r.

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La masseria presenta un impianto nel quale è abbastanza riconoscibile l’originario nucleo fondativo, di cui sono ancor oggi visibili nelle murature due archi ogivali di fattura verosimilmente cinquecentesca. La struttura parrebbe essersi accresciuta nel tempo con la costruzione di un ‘horreo’, un granaio forse seicentesco per lo stoccaggio delle granaglie, ricoperto con volte a crociera, nel quale sono ancor oggi evidenti le imboccature per il carico degli aridi24. Intorno al nucleo descritto, risalirebbero ad un intervallo temporale posto tra Sette e Ottocento le strutture che definiscono il baglio quadrangolare, sul quale sono ancor oggi riconoscibili la panetteria e il sistema delle stalle. Unito al territorio di Annaliste era un bevaio, noto per essere stato comune «per consuetudine inveterata», come documentato nel 1710 quando le sue acque furono concesse ai gabelloti del vicino feudo di San Martino25. [Figg. 11-13] Le ultime notizie su Annaliste risalgono al 1738, anno in cui don Antonio Bonforti e don Raffaele Cordoni, procuratori della venerabile comunia del clero collesanese, ingabellano le terre «cum stantijs» e bevaio a Pietro de Figlia, barone di Granara26. Intorno agli anni Quaranta del Settecento, la gestione del beneficio ecclesiastico passa direttamente al vescovo di Cefalù. Si ha notizia, infatti, che prima del 1746 su ordine di mons. Domenico Valguarnera, «ex principibus Valguarnere et Episcopi Cephaludensis», era stato dato mandato al nisseno Vincenzo Mario Guagliardo di ingabellare il fondo con le sue fabbriche al sacerdote Michelangelo Palmeri, prima che la sua gestione passasse al notabile Paolo Barrile27. Si tratta di concessioni che non obbligavano i suoi conduttori a farsi carico delle opere della sua manutenzione, dal momento che queste restavano di competenza del concedente. Infatti, in quell’anno, il nisseno mastro Francesco Miccichè su mandato del Guagliardo si reca ad Annaliste per quantificare i costi delle riparazioni da effettuare nella cavallerizza, poi eseguite da mastro Didaco Milia28. Legato alla diocesi di Cefalù era pure il feudo di Matarazzo, nel territorio di Santa Caterina Villarmosa, concesso nel 1713 dal chierico Giovanni Frattallone su commissione del vescovo Matteo Muscella ad un tale Giuseppe Stilla, «cum marcatis» e acque lì esistenti29. L’analisi fin qui condotta sui mulini di area madonita, benché incipiente, contribuisce a far luce sul radicato apparato di impianti legati alla produzione cerealicola in Sicilia tra Sei e Settecento. Essa evidenzia, nello specifico, il ruolo esercitato dall’aristocrazia terriera nel controllo delle strutture molitorie mediante il sistema delle concessioni in gabella, fonte certa di introiti per le casse dell’erario feudale. Arricchisce il quadro di conoscenze sull’argomento il riferimento alle maestranze specializzate, impegnate nella stesura di perizie per la riparazione o ricostruzione delle infrastrutture danneggiate da esondazioni fluviali o smottamenti di terreno. Nella definizione degli aspetti intorno ai quali si strutturava l’organizzazione del territorio era, infine, determinante il rapporto funzionale stabilito tra mulini e magazzini del grano esistenti

24 Per una visione più dettagliata delle tipologie di strutture adibite allo stoccaggio delle granaglie si rimanda a C. EBANISTA, La conservazione del grano nel medioevo: testimonianze archeologiche, in La civiltà del pane. Storia, tecniche e simboli dal Mediterraneo all’Atlantico, G. Archetti (a cura di), Atti del convegno internazionale di studio (Brescia, 1-6 dicembre 2014), Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2015, pp. 469-521. 25 ASCl, Not. M. Fiannaca, vol. 831, a. 1710, f. 63r. 26 ASCl, Not. A. Falci, vol. 2027, a. 1738, f. 380r. 27 ASCl, Not. G. Bevilacqua, vol.2284, a. 1746 f. 166r. 28 ASCl, Not. F. N. Curcuruto, vol. 3850, a. 1746, f. 51rII. 29 ASCl, Not. M. Fiannaca, vol. 834, a. 1713, f. 115r.

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nelle masserie. Quest’ultime, non a caso, possono essere intese come epicentro della conservazione delle granaglie prodotte nei numerosi feudi e ‘comuni’ della Sicilia interna. Il tentativo di una visione di sintesi sulla questione presentata, benché incompleta nella sua lettura generale per le difficoltà sovente connesse alla identificazione delle fabbriche nel territorio, è in ogni modo utile per comporre lo spaccato di una societas feudale ben organizzata e radicata nel ricco latifondo agricolo. Inoltre, essa proietta nuove piste di indagine archivistica sui rapporti documentati tra l’entroterra dell’isola e la costa, dove abbazie e vescovadi esercitavano il governo dei loro possedimenti attraverso il sistema delle concessioni in gabella. Le figure Fig. 1. Palificata. Disegno pubblicato in G. AMICO, L’Architetto Prattico, Nella Stamperia di Gio. Battista Aiccardo, Palermo 1726, Cap. 1.5.16, fig. 10 Fig. 2 (a-b). Il mulino soprano in località Favara a Collesano, particolare della botte (a) e della macina (b) (Ph. G. Giugno) Fig. 3 (a-b-c). Altro mulino in località Favara a Collesano, particolare della saia (a) e del garraffo (b-c) (Ph. G. Giugno) Fig. 4. Mulino di Scillato identificabile probabilmente con le strutture descritte nel 1616, particolare della botte (Ph. G. Giugno) Fig. 5. Mulino di Scillato identificabile probabilmente con le strutture descritte nel 1616, particolare del garraffo (Ph. G. Giugno) Fig. 6. La masseria dell’ex feudo di San Giorgio nel territorio di Polizzi Generosa Fig. 7. L’abbazia di Santa Maria del Parto a Castelbuono Fig. 8. Ritratto di Don Pietro Carriglio attribuito al pittore Giovanni Giacomo Lo Varchi, sacrestia della Chiesa Madre Basilica di S. Pietro a Collesano (Foto di Vincenzo Anselmo) Fig. 9. Cartografia con indicazione della masseria nel ‘comune’ di Annaliste (conservata nell’Ufficio Tecnico Comunale di Caltanissetta) Fig. 10. Esterno della masseria di Annaliste (Ph. L. Torregrossa) Fig. 11. Arco ogivale in gesso nella masseria di Annaliste (Ph. L. Torregrossa) Fig. 12. Il magazzino del grano della masseria di Annaliste (Ph. G. Giugno) Fig. 13. Una imboccatura del grano della masseria di Annaliste (Ph. G. Giugno)

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Fig. 1

Fig. 2b

Fig. 2a

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Fig. 3a

Fig. 3b

Fig. 3c Fig. 4 Fig. 5 Fig. 6

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Fig. 7

Fig. 8

Fig. 6

Fig. 10

Fig. 11

Fig. 9

Fig. 12

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Fig. 13



Un santuario delle divinità ctonie di età pre-protostorica sulla Rocca di Cefalù NADIA GUGLIUZZA Verso la parte opposta, verso la punta Lena e Acquedolci, Torremuzza e Finale, s’ergeva quella rocca con tre punte, a forma di corona sulla testa blunda d’un Ruggero Normanno o d’un Gugliemo, di quel paese vecchio come il cucco che era Cefalù. (V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio)

Nuove indagini sul popolamento umano della Rocca di Cefalù hanno portato all’individuazione di un complesso sacro preposto al culto delle divinità ctonie, sorto probabilmente intorno alla fine dell’età preistorica, in un momento collocabile tra VI e IV mill. a. C., e di cui si vuole presentare, per la prima volta, la sintesi dei risultati1. Il sito si articola in tre aree distinte ma non distanti l’una dall’altra e poste sul fronte occidentale del promontorio calcareo localmente chiamato Rocca2: l’edificio megalitico noto come tempio di Diana e finora datato tra VI e V sec. a. C.3; Grotta Grande, grande cavità carsica di speleotemi in cui venne ritrovato lo scarabeo del cuore di Thutmose IV4, oggi al Museo Salinas di Palermo; un ingrottamento nei pressi della grande cisterna di età bizantina sita oltre la porta sulle seconde mura bizantine. Le diverse zone risultano accomunate dalla presenza di manifestazioni di arte rupestre rimandanti al tema del passaggio (fisico/iniziatico-spirituale) dal mondo terreno a quello ultraterreno e la cui coerenza semantica, nonché la ricorrenza iconografica di alcuni soggetti, ha portato a considerare come attinenti ad un contesto culturale e cultuale unitario e riferibile a divinità dal carattere ctonio, simbolo del ciclo continuo di vita – morte – rinascita/rigenerazione. A rappresentazione delle tre fasi suddette le fonti preistoriche giunte fino a noi nelle tavolette in cuneiforme (IV mill. a. C.) e in lineare B (II mill. a. C.)5, indica gruppi di tre divinità, ovvero una madre, una paredra (un alter ego) e uno sposo comune chiamati Inanna/Ereshrigal/Tammuz e Damater/Ariadne/Dioniso (ovvero Demetra/KorePersefone/Ade e Cerere/Proserpina/Plutone di età greca e romana), come è comune nei relativi 1 Il resoconto completo, dal titolo Le evidenze preistoriche e protostoriche della Rocca di Cefalù (PA): nuove indagini, sarà pubblicato a breve. 2 Per una trattazione completa sul popolamento umano della Rocca: ILARDO R., L’Eccelsa Rupe, Officina di studi medievali, Palermo, 2013. 3 MARCONI P., Cefalù (Palermo). Il cosiddetto Tempio di Diana, “Notizie dagli scavi”, V, 1929, pp. 273-395. Per una datazione tra V e IV sec. a. C. propende invece TULLIO A., Indagini archeologiche sulla Rocca di Cefalù in La Rocca di Cefalù. Recupero architettonico e indagini archeologiche, Cefalù., 1995, p. 35, nota 12. 4 MANNINO G., Le grotte della Rocca di Cefalù, “Sicilia Archeologica”, 105, 2011, p. 77; BACCHI, Lo scarabeo del cuore di Thutmose IV, “Rivista di Studi Orientali”, vol. 20, fasc. 2, Roma, 1942, pp. 16-17; MARTINEZ M., I manufatti egiziani ed egittizzanti in Sicilia, Tesi di Dottorato di Ricerca, ciclo XXV, Alma Mater Studiorum, Bologna, 2013, p. 291. 5 FURLANI G., Miti babilonesi e assiri. Sansoni ed., Firenze, 1958, pp. 283-314.

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racconti la presenza di una catabasi, di una discesa nel mondo ultraterreno, regno della divinità maschile, nonché, sotto varie forme, di acqua. All’interno di queste triadi, la cui origine va ricercata quindi almeno in età Neolitica (o comunque precedente le prime fonti di IV mill. a. C.), le due divinità femminili rappresentavano l’aspetto duplice della Natura, ovvero la vita e l’amore ma anche la morte e la guerra, ed è per questo motivo che spesso i templi dedicati, come quelli di Mnajdra a Gantjia (Malta) erano doppi, i santuari, come quelli dell’età del Bronzo Creta (es: Knosso), articolati in un’area all’aperto e una al chiuso (per le età più antiche generalmente una grotta, poi ambienti ipogeici o stanze buie), e armi, come la labrus (l’ascia bipenne a Creta), se non intere panoplie6, come nel caso del sito sicano di Polizzello (VI a. C.), offerte come ex voto insieme a simboli di fertilità. La figura maschile simboleggia invece la transizione, il passaggio dalla morte alla vita e viceversa, ed è per questo le sue caratteristiche risultavano una fusione di tali aspetti ma anche di maschile e femminile. D’altronde, Dioniso7, come tramandato da Euripide (Baccanti, vv. 274-85), era anche un alter ego di Demetra, secondo un approccio alle due figure che rispecchia una concezione della Natura e di riflesso della vita umana altrettanto fluido, in cui, donna e uomo, bianco e nero, vita e morte partecipando della stessa essenza, non sono antitetici ma univoci. Demetra e Dioniso quindi, la protettrice delle donne sposate e il dissacratore del matrimonio, legati dalla figura di Arianna, alter ego della stessa madre, sposa di Dioniso e regina dell’Ade, dalle caratteristiche comuni del loro cerimoniale - musica, danza, sesso, assunzione di sostanze psicotrope – dei luoghi dedicati – grotte e alture con presenza di acqua, del loro essere, infine, delle figure di confine8. La costante dell’acqua nel mito e in complessi sacri individuati dalle ricerche archeologiche di età preistorica e storica presso laghi (uno fra tutti il lago di Pergusa, vicino Enna, in cui si colloca il mito di Persefone), sorgenti, o con presenza di vasche, pozzi e fontane è dovuta all’essere essa stessa simbolo della vita, dell’unione del cielo e della terra (basti pensare al ciclo idrologico), mezzo di purificazione e di transizione al mondo ultraterreno come testimoniato dalle scene di tuffo, spesso nel mare, l’oinops

6 Per i templi di Malta: GIMBUTAS M., Le dee viventi, Medusa ed., Milano, 2005, pp. 142-148; per i santuari cretesi e la presenza di armi nei depositi votivi: ibidem pp. 192-202; per la presenza di armi nei santuari sicani: PALERMO D., Un elmo di bronzo cretese dalla Sicilia in (W.D. Niemeier, O.Pilz, I. Kaiser a c.d.), Akten des Internationalen Kolloquiums am Deutschen Archäologischen Institut, Abteilung, Atene (27 – 29 Januar 2006), pp. 303-311. GUARDUCCI M., Una nuova dea a Naxos in Sicilia e gli antichi legami fra la Naxos siceliota e l’omonima isola delle Cicladi, Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité, vol. 97, 1, pp. 7-34. 7 Per una trattazione completa sul Dioniso: KERENYI K., Dioniso, Adelphi ed., Milano, 1992; sul Dioniso di età greca: VERNANT J. P., Dioniso a cielo aperto, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1988; ibidem, L’Universo, gli dei, gli uomini, Einaudi, Torino, 2015 pp. 141-158; VERNANT J.P., VIDAL-NAQUET P., Mito e Tragedia due. Da Edipo a Dioniso, Einaudi, 2001; sul culto di Dioniso in Sicilia: MODEO S., Dioniso in Sicilia, Edizioni Lussografica, 2018. 8 ..ma anche di Artemide come figura “liminare”: VERNANT 1987, op. cit. n. 7, pp. 19-35; VERNANT-VIDAL NAQUEL, Mito e..pp. 18-23. Per una trattazione completa sui culti misterici si vedano: SCARPI P. (a c. d.), Le Religioni dei Misteri: Eleusi, Dionismo, Orfismo, vol. 1, Mondadori ed., Milano, 2002, p. 226.

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pontos omerico, rappresentate nelle tombe etrusche e greche9, o dalla rappresentazione di animali acquatici come i famosi delfini di un affresco del tempio di Knosso o le altrettanto note scene di pesca delle tombe egizie ed etrusche. La stessa funzione di tramite tra cielo e terra è poi facilmente ipotizzabile per le alture in cui sono stati identificati questo tipo di santuari, come quelli cretesi della fine del III mill. a. C. 10o, in Sicilia, quelli sicani di VI-V a. C. come Polizzello (CL) e Cozzo Matrice (EN) e greci di V a. C., come il tempio di Demetra ad Agrigento (V a. C.), ma anche grotte11 articolate, ricche di acqua, speleotemi, conformazioni carbonatiche particolari (spesso antropomorfe), come Grotta Scaloria (FG) (VI mill. a. C.)12 o, nel nostro caso, Grotta Grande, metafora del grembo materno e dell’aldilà, in ogni caso di uno stato di transizione. Uno dei simboli di questo mondo di passaggio che potremmo quindi definire di pertinenza dell’anima è nell’Europa neolitica e protostorica, un’immagine costituita da due triangoli contrapposti e uniti al vertice a creare una farfalla (o clessidra)13, quella che nel mondo minoico sarà la labrus, da cui laburinthos14, e che nel mondo greco sarà chiamata psichè (lo stesso termine utilizzato per l’anima), attestata, solo per citare alcuni vicini esempi, sui vasi neolitici di Grotta Scaloria, su quelli dell’età del Bronzo della necropoli di Castelluccio (SR) (inizi del II mill. a. C. ) e dell’età del ferro dalla colonia di Himera (metà VII-inizi VI a. C.)15. Tale immagine composita risulta quindi come sintesi dei due aspetti femminile (triangolo col vertice in basso) e maschile (con vertice in alto), di vita e morte. Il triangolo col vertice in basso, anche nella variante del bucranio è infatti in età neolitica, eneolitica e protostorica rappresentazione del pube e dell’utero e pietre della stessa forma e con i medesimi simboli si trovano generalmente all’ingresso di edifici sacri (templi e tombe megalitici, pozzi sacri) dall’ Ungheria alla Sardegna prenuragica; viceversa, nelle strutture funerarie o su oggetti di 9 Come, ad esempio, la nota Tomba del Tuffatore o quella c.d. della Caccia e della Pesca di Cerveteri (V sec. a. C.). Per approfondimenti sul tema in età etrusca e greca si veda il bellissimo volume: CERCHIAI D., D’AGOSTINO B., Il mare, la morte, l’amore: gli etruschi, i greci, l’immagine, Donzelli ed., Roma, 1999. 10 JONES D. W., Peak Sanctuaries and Sacred Caves in Minoan Crete: Comparison of Artifacts in “Studies in Mediterranean archaeology”, vol. 156, P. Aströms Ed., 1999; GIMBUTAS, op. cit. n. 6, pp. 199-201. 11 Sul ruolo cultuale delle grotte nell’Italia preistorica e neolitica: WHITEHOUSE R., Underground religion. Cuylt and Cultur in Prehistoic Italy e PESSINA A., TINÉ S., Archeologia del Neolitico, Carocci ed., Roma, 2015, pp. 265-274. 12 GIMBUTAS op. cit. n. 6, pp. 101, 115; PESSINA, TINÉ, op. cit., pp. 269-271; TINE’ S., ISETTI E., Culto neolitico delle acque e recenti scavi nella Grotta Scaloria, “Bullettino di Paletnologia Italiana”, 82, 1980, pp. 31-70. 13 Per approfondimenti sul triangolo e il doppio triangolo, sulla loro evoluzione iconografica tra Preistoria e protostoria e bibliografia relativa si veda: GIMBUTAS op. cit. n.6, pp. 73-77 e GRAVINA A., MATTIOLI T., Cronologia e iconografia delle pitture e delle incisioni rupestri della Grotta del Riposo e della Grotta Pazienza (Rignano Garganico, Foggia) in Atti del 30° Convegno Nazionale sulla Preistoria- Protostoria-Storia della Daunia (21-22 novembre 2009, San Severo), p. 102, n. 15; per un catalogo dei simboli di età Neolitica legati alla dea madre: GIMBUTAS M., Il linguaggio della Dea, Venexia ed., Venezia, 2008. 14 DETIENNE M., La scrittura di Orfeo, Laterza, Milano, 1990, pp. 5-18. 15 VALENTINO M., Himera. Necropoli est scavi 2016-18. Nuovi rinvenimenti di vasi indigeni in “Notiziario Archeologico della Soprintendenza di Palermo”, 43, Palermo, 2019. I vasi indigeni cui si fa riferimento sono attribuibili a genti sicane.

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corredo è possibile notare anche triangoli col vertice in alto. Altri simboli legati alla sfera ctonia sono poi i germogli, i tridenti, i ramiformi, i cruciformi, gli asteriformi, e i pettiniformi, gli uccelli acquatici e i pesci, i serpenti e gli anfibi, le capre (ungulati in genere) e i tori, le api e le piante, come l’ulivo, il fico e la vite, cari a Demetra e Dioniso, e in età successiva anche l’edera, le fave, la trottola, lo specchio, la maschera e la bambola16. Le nuove evidenze La connessione alla suddetta sfera culturale del tempio di Diana è testimoniata dalla presenza sulla facciata principale, quella occidentale, di due elementi finora mai individuati e che, a loro volta, insieme all’evidente megalitismo, lo fanno datare ad un’età compresa tra Neolitico ed Eneolitico (VI-IV mill. a. C.). Si tratta infatti di un quadrilite con risparmio centrale a forma di farfalla (fig. 2) allineato con il tramonto del sole durante gli equinozi17, quando una proiezione luminosa di tale forma doveva disegnarsi sul costone di roccia sottostante l’abside medievale, e una grossa pietra triangolare (con vertice in basso), incisa e caratterizzata da tre registri bipartiti contenenti numerosi simboli, ideografici e non. Alcuni di questi, ridondanti, come la farfalla e il triangolo (figg. 3, 4), sono comuni tanto nell’Europa neolitica di VI- V mill. a. C. o quella minoica di III-II mill. a. C. e, come detto, per i contesti di rinvenimento (grotte, necropoli, strutture cultuali) sono inequivocabilmente legati al ciclo della vita/morte/rigenerazione. L’allineamento col tragitto del sole in un particolare momento dell’anno, come nel noto caso di Stonehenge, aveva un significato diverso a seconda che coincidesse con l’alba o il tramonto, con il solstizio estivo o invernale o gli equinozi. In tutti i casi, il manifestarsi di tale evento era un indicatore temporale utile ad organizzare le attività di sussistenza e, poiché ogni fenomeno naturale era espressione della Madre Terra, ecco allora che il fascio di luce o il simbolo luminoso (farfalla/bipenne, bucranio, triangolo) doveva apparire come la manifestazione della divinità che la personificava. Il luogo predisposto perché ciò avvenisse era allora sia un osservatorio astronomico che, di conseguenza, un luogo di culto in cui nei giorni preposti si tenevano cerimonie rituali che potremmo definire di tipo misterico18. Opp. cit. n. 7. L’ipotesi nasce da alcune osservazioni sullo studio di ORLANDO D., GORI D., The archeoastronomical analysis of the Temple of Diana of Cefalù (PA) in The light, the stone and the sacred, Springer Internationl publishing, Berlino, pp. 7994. A scapito del perfetto orientamento della struttura con i punti cardinali, il non perfetto allineamento del sole durante gli equinozi con l’ingresso (vi è infatti uno scarto di 2°) che si pensava interessato dal fenomeno per il presunto culto delle acque ipotizzato da una, a mio avviso, scorretta interpretazione della cisterna data in primis da Pirro Marconi (op. cit nota 3, p. ), sarebbe da addebitare al fatto che fosse il quadrilite (posto a m 2 ca dall’ingresso) ad essere interessato dal fenomeno. Oggi la proiezione luminosa non è più apprezzabile a causa della presenza all’interno dell’ambiente S di una struttura muraria pertinente alla cripta della chiesa di età bizantina S. Venera: BRUNAZZI V., La chiesetta medievale sull’edificio megalitico di Cefalù in Archeologia e territorio, 1, G. B. Palumbo Editore, Palermo, 1997, pp. 361-374. 18 Pe un esaustivo rendiconto sui Misteri: SCARPI P. (a c.d.), Le religioni dei Misteri. Eleusi, Dionisismo, Orfismo, vol. 1, 16 17

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Il fenomeno delle proiezioni luminose è stato riconosciuto in diversi contesti megalitici europei, anche italiani, come nel sito dolmenico di san Lorenzo nel Caprione in Liguria19 quando al tramonto del solstizio d’estate una farfalla di luce viene proiettata su una roccia da un quadrilite (fig. 5) e in tombe nuragiche e prenuragiche in cui, all’alba del solstizio estivo, bucrani e bipenne si proiettano sulle camere sepolcrali ad augurare la rinascita del defunto. Le analogie del quadrilite con il Caprione sono, a mio avviso, evidenti ed è inoltre suggestivo notare come i due siti si trovino da una parte e l’altra del mar Tirreno. Il fatto poi che nel nostro caso, come a S. Lorenzo, sia la luce del tramonto ad aver rilevanza porterebbe a confermare il legame con la sfera della vita/rigenerazione, legame confermato dall’orientamento della pietra triangolare (con vertice in basso), dalla divisione in registri e dai simboli presenti, come il triangolo del pannello in alto a sinistra e la farfalla del corrispettivo a destra. In questa lettura, la cisterna dolmenica cui finora si è pensato, per il presunto allineamento con l’ingresso e per il rinvenimento nei suoi pressi di materiali ceramici databili “possibilmente al periodo del Bronzo avanzato, o forse anche più tardi” 20, gravasse il fulcro del tempio, non essendo essa in realtà interessata da alcun tipo di fenomeno, non avrebbe altra funzione se non quella di bacino funzionale ai rituali che qui dovettero svolgersi tra il VI mil. a. C. e l’età bizantina e medievale. Per quanto detto sopra possiamo quindi ipotizzare che il tempio fosse un luogo in cui in età preistorica e protostorica (e oltre) venisse celebrato l’arrivo della primavera e dell’autunno, la nascita e la morte del mondo naturale. In quest’ottica la divisione in tre registri bipartiti potrebbe vedersi come una scansione temporale dell’anno inteso come periodo intercorrente tra due equinozi primaverili e i simboli rappresentati come attinenti alle varie manifestazioni “stagionali” della terra e del cielo ma serviranno studi più approfonditi per poter comprenderne cronologia (es: divisione in registri contestuale alla prima fase del tempio o successiva?) e significato. Per il momento basti aggiungere che anche allo stato attuale di comprensione questo reperto costituisce, per contenuto e contesto, insieme alla struttura che lo contiene, un unicum per la Sicilia. Riassumendo, i dati fin qui esposti portano a retrodatare la prima fase del culto e quindi la prima fase costruttiva del tempio (finora datata tra VI e V sec. a. C.) tra Neolitico ed Eneolitico (VI-IV mill. a. C.) momento cui si datano anche una testa di mazza in marmo (IV mill. a. C.), oggi non più reperibile, ritrovata negli anni ‘70 nel terreno colluviato all’esterno del tempio21 e alcuni reperti ceramici da grotta delle Mondadori, Milano, 2002; per un tuffo nell’occulto: LUCK G., Arcana Mundi. Magic and Occult in the Greek and Roman worlds, British Library, Great Britain, 1987. 19 CALZOLARI E., GORI D., L’impronta della costellazione di Cassiopea nel Caprione: lettura astronomica e archetipi sciamanici, “Atti del 3′ seminario di Archeoastronomia” (Osservatorio Astronomico di Genova, 6 marzo 1999), Genova, 1999. 20 MARCONI, op. cit. pp. 287-288, 293. 21 BERNABO’ BREA L., La Sicilia prima dei Greci, Milano, 1960, p. 72: la datazione è desunta da identici rinvenimenti da contesti di IV mill. a. C. come la Grotta del Conzo (SR), nella facies S. Cono- Piano Notaro di Grotta Zubbia 187


Giumente e grotta Grande22, di cui la prima con funzione abitativa e la seconda cultuale. Come accennato, non tutte le grotte erano destinate a diventare “sacre” ma solo quelle in cui si ravvisavano particolari caratteristiche23 quali l’abbondanza di acqua, la presenza di stillicidio, formazioni carbonatiche particolari e una pianta articolata, come si può osservare nel nostro caso e nel citato esempio di Grotta Scaloria (FG) (V mill. a. C.), dove sono presenti sia una necropoli che un sistema di raccolta delle acque di stillicidio da cui un supposto culto delle acque24. Anche in grotta Grande, in uno dei vani murati da un crollo, era/è presente un sistema di raccolta25 e sebbene i confronti siciliani si datino tra l’Eneolitico iniziale e l’età del Bronzo Antico26, la presenza segnalata dal Mannino di ceramica per lo più datata al Neolitico Antico e Medio (prima metà VI – metà V mill. a. C.) farebbe propendere per una importante frequentazione della cavità proprio in questi momenti non escludendo chiaramente una frequentazione in epoche successive come testimoniato dallo scarabeo (XIV a. C.) conservato al Museo Salinas e che sarà oggetto di un articolo di prossima pubblicazione. Il reperto, che la maggior parte degli studiosi vede come proveniente da commerci di età fenicia27 (VIII a. C.) se non da scavi irregolari28, ma che sappiamo, grazie al Mannino provenire da Grotta Grande29, potrebbe quindi essere stato portato all’interno della cavità proprio in virtù della sacralità del luogo e in un momento che nulla porta ad escludere diverso dall’epoca della sua datazione, ovvero intorno alla metà del XIV sec. a. C.30 La coerenza del reperto con il contesto si può infatti ravvisare, oltre che dall’oggetto in sé, anche dall’iscrizione che, dopo le formule comuni, recita: “Si metta ella come uno degli elogiati (dell’altro mondo) che è al seguito del dio. La signora di casa, la musicante della dea Bastet, Thj (=nome di mese) fatta dalla signora di casa M’’t – b’ śtjt (= (AG), “la grotta del Fico di Isnello, Valdesi, Cefalù”. 22 MANNINO, op. cit. n. 4, pp. 76-77, 79-83. 23 GIMBUTAS., Le dee…, pp. 100-102, 198-199.. 24 TINÉ, ISETTI, op. cit. n. 12, pp. 31-70. 25 MANNINO G., Guida alla Preistoria del Palermitano, Istituto Italiano di Studi Politici ed Economici, Palermo, 2008, p. 32. 26MANISCALCO L., Considerazioni sull’età del Rame nella media valle del Platani,” Rivista di Scienze Preistoriche”, LVII, pp. 167-184; GULLÍ D., La grotta Palombara presso Raffadali e il culto delle acque di stillicidio di età eneolitica in Atti del I Congresso Internazionale di Preistoria e Protostoria siciliane, Corleone (17-20 luglio 1997), pp. 377-386; 27 BACCHI., op. cit. n. 4, p. 17; BOVIO MARCONI J., I monumenti megalitici di Cefalù e l’Architettura Protostorica in Atti del VII Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura (Palermo 24-30 settembre 1950), Palermo, 1956, pp. 213-221; MARTINES op. cit. n. 4. 28 FRANCO A., Periferia e Frontiera nella Sicilia Antica, Supplementi a “Kokalos”, 19, 2008, p. 56 e nota 80 (nella stessa pagina). 29 MANNINO op. cit. n. 4: da un confronto con la scopritrice del reperto, la Soprintendente Jole Bovio Marconi, sulla quale credo non si possa dubitare, il Mannino venne a conoscenza del reale contesto di ritrovamento, Grotta Grande. 30 Ad “età micenea”, quindi coincidente temporalmente con la datazione del reperto, lo inquadra anche TUSA CUTRONI A., Sopravvivenza di un motivo miceneo su monete siceliote in Atti e Memorie del I Congresso Internazionale di Miceneologia, (Roma, 27 settembre- 3 ottobre 1967), Roma, 1968, p. 272, n. 16. 188


Maat è Bastet)” (BACCHI, p. 227) e in cui la frase “Si metta ella come uno degli elogiati che è al seguito del dio” indica chiaramente lo stato di adepta del dio Osiride, signore di quel mondo di transizione rappresentato dai meandri bui, umidi e contorti delle grotte, dell’oltretomba quindi, e che nel mondo greco è identificato con Dioniso31. E’ da notare inoltre come anche Bastet, la dea gatto alter ego di Iside, avesse un doppio, la dea leonessa Sekhmet, simbolo della forza e della guerra. Alla sfera “dionisiaca” potrebbe inoltre riferirsi l’unica pittura32 in stile naturalistico e di colore rosso rinvenuta al tetto (m 10 p.d.c. ca) della c.d. sala della Madonnina in Grotta Grande e rappresentante una figura danzante con un copricapo a corna, un fungo nella mano destra e forse uno strumento musicale, una sorta di sistro, molto evanide a dire il vero, nella sx (fig. 8) Queste particolari figure, come quelle del Tassili n’ajjer di età neolitica33, portano in genere, come la nostra, un copricapo a corna e uno più funghi in mano e sono rese in movimento) o se schematiche, sono identificabili per la resa del a T del capo con appendici orizzontali più o meno curve come il soggetto, c.d. sciamanico, da Grotta Pazienza34 (FG) e si datano in genere all’Eneolitico. La ricorrenza di tale modello dal Neolitico ad almeno l’età del Ferro all’interno di grotte o luoghi semichiusi o su reperti mobili, come su un vaso della cultura neolitica di Vinça (metà VI-inizi V mill. a C.)35 con incisione che richiama la divinità danzante dipinta nella grotta di Porto Badisco (OT)36 (metà V-inizi Iv mill.a C.), comprova la sacralità e dei luoghi e degli oggetti e li lega alla sfera rituale. La amplissima diffusione a partire dal neolitico di un’iconografia valida e convenzionalmente accettata dai popoli europei così come da quelli nord africani indica da una parte l’uso di pratiche comuni e, di rimando, forse anche una visione comune del mondo e del posto occupato in esso dall’uomo; il ritrovare la stessa iconografia chiaramente pre indoeuropea in contesti già indoeuropei e di età storica prova inoltre sia che la psicologia profonda dell’animo umano non cambia nel tempo che la continuità del culto di quel dio che i micenei chiamavano Diwoniso, le cui radici affondano nella notte dei tempi. Un esempio di quanto longevo sia stato il culto di un dio a lui assimilabile è costituito dalla rappresentazione africana di età neolitica di un antropomorfo con testa di ape e corpo umano contornato da funghi, quasi delle

ERODOTO, II, 42. Per uno studio dettagliato sull’arte rupestre in contesti di grotta: MATTIOLI T. et alii, Echoing Landsacpe: Echolocation and placement of rock art in the Central Mediterranenan, “Journal of Archeological Science”, 83, 2017, pp. 1225. 33 SAMORINI G., The oldest rapresentation of hallucinogenic mushrooms in the world (Sahara Desert, 9000-7000 BP), “Journal of mind-mooving Plants and Culture”, 2/3, 1992, p. 72. 34 Per la figura “sciamanica” da Grotta Pazienza, le figure a T e relativa bibliografia: GRAVINA A., MATTIOLI T., op. cit. n. 13, pp. 101-112. 35 GIMBUTAS, Le dee..., p. 85, fig. 44 a. 36 PESSINA, TINÉ, op. cit. n. 11, fig. 8a p. 266 e pp. 265-267. 31 32

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escrescenze, e l’associazione minoico-micenea e poi greca tra Dioniso (ma anche Demetra) e il miele37. Rientrando in grotta, le altre pitture rinvenute sono invece di colore nero e riprendono nella loro schematicità le incisioni presenti sul masso triangolare del tempio di Diana come le farfalle38 (fig. 6) e i cruciformi. La presenza di farfalle nella sala più grande e umida della cavità, in corrispondenza di un varco monumentale creato da due grandi colonne carbonatiche (fig. 7), si inserisce perfettamente nel contesto finora ipotizzato per la prima fase del tempio di Diana, quello di un santuario dedicato a divinità ctonie in virtù della sua funzione di calendario equinoziale e in cui la grotta in esame era il luogo della transizione della psichè, il labirinto del Minotauro in cui, al termine del rituale iniziatico, dovevano manifestarsi le divinità, le due colonne suddette, una delle quali ancora oggi è detta della “madonnina” perché assimilata ad una figura femminile con bambino. Ricordando a questo proposito che anche Anna, cui la grotta venne ad un certo punto dedicata39 e a cui è intitolata una chiesetta (XII d. C.) nei pressi del tempio di Diana, divinità taumaturgica e legata al parto (vedi infra) nel cui nome è impossibile non notarne l’assonanza con quello dell’Arianna cretese, dea dell’oltretomba. Alla sfera della transizione si riferiscono poi alcune pitture in ocra rossa facenti parte di un complesso più ampio identificato nei pressi della grande cisterna bizantina oltre le seconde mura bizantine e che per la presenza di una manta abbiamo deciso di chiamare “complesso della Manta” (figg. 9, 10, 11). La parete interessata dalle pitture si trova nei pressi di un’antica fuoriuscita d’acqua testimoniata dalla presenza di travertino e nelle immediate vicinanze di un antico ingresso, oggi murato, della retrostante Grotta Grande. L’insieme dei due aspetti, uniti all’esposizione ad Ovest, alla luce rossa del tramonto cefaludese, deve aver determinato la sacralità dell’area, e l’iconografia di alcuni soggetti che rimanda al mondo acquatico e, nella scena del salto/tuffo, alla metafora di un passaggio di tipo fisico e/o spirituale. Oltre la suddetta manta, il soggetto più grande finora individuato, si trovano infatti anche soggetti “ibridi” e resi naturalisticamente come l’antropomorfo in Grotta Grande: un uomodelfino reso nella scena del tuffo, una figura assimilabile ad una sorta di sirena e una ad una c.d. “bird goddess”, dea con le sembianze di uccello (fig. 11), resa in picchiata nell’atto di congiungersi o trasformarsi ulteriormente in un volatile; altri soggetti risultano invece resi schematicamente e la loro interpretazione rimane al momento dubbia. Come per le incisioni sul tempio di Diana anche in questo caso sarà necessario discriminare le diverse fasi pittoriche ipotizzate preliminarmente dalla diversa colorazione delle figure nonché da indagini archeometriche condotte presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Ferrara sotto la supervisione Sulla relazione tra Dioniso e il miele si vedano: KERENYI, pp. 47-68 e DUEV R., Zeus and Dionysus in the light of linear B records, “Pasiphae”, 1, 2007, pp. 223-227. Per l’immagine si veda: SAMORINI op. cit. n. 30. 38 Oltre quella visibile in foto 6, se ne identificano almeno altre due, ch 39 MANNINO, Le Grotte…, p. 76. 37

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della professoressa Carmela Vaccaro, sui pigmenti prelevati da due delle figure (dalla manta e da un soggetto lineare/schematico) e che hanno evidenziato non solo la natura antropica di tali manifestazioni pittoriche ma anche“ricette” diverse40 per i due campioni di pigmento prelevati. Nel complesso, come per le nuove evidenze del tempio megalitico e di Grotta Grande, si tratta di testimonianze eccezionali e, nel caso delle pitture in ocra rossa, uniche, al momento, per stile, iconografia e contesto di rinvenimento, sia per la Sicilia che per l’Italia. Breve analisi antropologico-religiosa di una sovrapposizione millenaria Il culto della divinità femminile, la Dea madre rappresentata in tanti idoli femminili preistorici, è coerente con la dedica che nel mondo greco nel VI-V sec. a. C. venivano chiamate Demetra e Kore, derivazione della Dameter e Ariadne minoiche, i cui santuari erano recinti in aree rupestri, spesso elevate, con presenza di grotte e acqua, come chiesette rupestri connesse a grotte e/o acqua saranno successivamente quelle dedicate a S. Venera e S. Anna, figure dai poteri taumaturgici legate all’acqua e alle grotte, al parto, alle donne e alle messi come le precedenti pagane. Secondo la credenza popolare, Santa Venera, una volta arrivata in Sicilia, abitò in una grotta che divenne poi luogo di culto e accanto al quale, in epoca successiva, dopo aver liberato la popolazione da una pestilenza, venne costruita una chiesa. In regione sono infatti vari gli esempi di chiesette a lei dedicate con presenza di acqua e/ cavità naturali come la Chiesa di Santa Venera a Catania (XII sec.) con annesso hospitalium edificato presso acque termali solforose; la cappella di santa Venera al Pozzo (CT) o ancora a Barcellona Pozzo di Gotto (ME) (VII-XII sec.) dove la chiesa è costruita a ridosso della grotta in cui avrebbe vissuto la santa. Sicuramente più numerose in tutto il sud Italia le cappelle dedicate a S. Anna (centinaia solo in Sicilia), che se per la religione ufficiale è la madre di Maria, per quella popolare è una divinità ctonia festeggiata, come S. Venera, il 26 luglio, in corrispondenza della mietitura. Oltre le caratteristiche ctonie di Venera e Anna, la continuità nel culto dall’era pagana a quella cristiana si intuisce, a mio avviso, nei toponimi stessi. Non è casuale né raro che in età cristiana si dedicassero luoghi di culto a figure coerenti con le divinità pagane preesistenti, come avvenuto ad esempio per i templi di Atena ad Agrigento e Siracusa rispettivamente trasformati in S. Maria dei Greci e nella Natività di Maria Santissima. È interessante notare come la stessa coerenza fra culto indigeno, greco e cristiano si possa notare anche nel santuario rupestre delle divinità ctonie di Agrigento a cui tra l’altro Pirro Marconi accostò, ormai un secolo fa, il tempio di Diana41: i Greci costruirono infatti il tempietto di Demetra e Kore (V a. C.) sullo sperone di roccia al 40 Le analisi archeometriche (SEM e RAMSAN) sono state condotte in seno alla tesi di Laurea Magistrale citata in n. 1; i risultati sono di prossima pubblicazione. 41 MARCONI P., op cit. n. 3; ibidem, Girgenti. Ricerche ed esplorazioni, “Notizie dagli Scavi”, II, 1926 pp. 93-148.

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di sopra del già esistente santuario indigeno, in un’area rupestre lontana dai templi dedicati al culto ufficiale e con presenza di grotte e acqua. Al di sopra del tempio greco, intorno al XII sec., venne quindi eretta la chiesetta di S. Biagio, taumaturgo e protettore delle messi come Demetra, Kore, Anna e Venera, a testimonianza del fatto che i toponimi scelti, e quindi le divinità (pagane o cristiane), fossero frutto di un sincretismo religioso dovuto al riconoscimento di caratteristiche simili ravvisabili anche nei luoghi scelti per celebrarle. Per lo stesso motivo, Diana, per l’essere profondamente legata alla natura, come dea taumaturga, protettrice del parto e delle messi, venne assimilata dai romani all’Artemide greca così come questa lo fu in età micenea alla Demetra/Artemide minoica e, per la coerenza semantica che tanto caratterizza il pensiero greco, anche a Dioniso42 , alla morte e in genere alle grotte, come rappresentazione del mondo ultraterreno e del grembo materno. Il forte legame che la Sicilia ebbe già dagli inizi del II mill. a. C con l’isola di Creta (tramandatoci dal mito di Dedalo e Minosse alla corte del re Kokalos43) legame poi ulteriormente rafforzato dal contingente cretese che partecipò alla fondazione di Gela nel VII a. C., era, come testimoniato da Diodoro Siculo ancora nel 1° sec. a. C.44, riconoscibile nei culti delle divinità ctonie praticati in area sicana, soprattutto ad Engyon45, centro di fondazione cretese, e che venivano associati a quelli delle c.d. Meteres (madri). Riguardo gli appellativi, per così’ dire non canonici (per noi del XXI sec.), dati a queste figure è pervenuto fino a noi solo il teonimo Enyò, dea guerriera di origine minoicomicenea46, da un temenos (recinto sacro) dall’area sacra suburbana (metà VII a. C.) presso il torrente S. Venera (una coincidenza?) della colonia greca di Naxos e il cui nome non può, a mio avviso, che richiamare quello dell’antica città di Engyon. Tutti i popoli primitivi associarono un’immagine ai fenomeni stagionali della natura concretizzandoli in alcuni di quelli che sono giunti fino a noi, attraverso i miti, sotto forma di dei. Un esempio lampante è costituito, a tal proposito, dalla coincidenza della VERNANT M., La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Il Mulino, Bologna, 1987. Sulla leggenda di Minosse in Sicilia si vedano: ERODOTO, VII, 170-171 e BERARD J., La Magna Grecia, Einaudi, Milano, 1963, pp. 405-413. 44 Sulla derivazione cretese dei culti sicani: PALERMO D., Prima di Demetra. Divinità femminili della Sicilia indigena, Le donne e il sacro in Dee, maghe sacerdotesse, sante. Fondazione Buttitta, Palermo, 2009, pp. 59-65; ibidem op. cit. n. 6. 45 Sulla fondazione di Engyon: DIODORO, Biblioteca Storica. Libri I-V, ed. Sellerio, Palermo, 1986, IV, 79-80, pp. 240242. Il centro non è ancora stato identificato (PALERMO, Prima di di Demetra, p. 59; COLLURA F., I Nebrodi nell’antichità. Città, Culture, Paesaggio, Archeopress, 2019, p. 319.) ma, a mio avviso, non è da escludere possa trattarsi di Enna e per l’evidente assonanza del nome e per l’essere sede del mito di Persefone e Core e, soprattutto, per l’esistenza a Cozzo Matrice (toponimo esplicativo) di un santuario dedicato alle madri. Sull’identificazione di Engyon con Gangi FARINELLA S., Engyon: dal Mito alla Storia in “Atti delle giornate di storia locale” (Nicosia 20082010), pp. 1-92; per un’ipotesi di identificazione con Nicosia o Troina: COLLURA, I Nebrodi, pp. 312-319. 46 PELAGATTI P., L’attività della Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Orientale, 2Kokalos”, XXVI-XXVII, t. II, 1980-81, pp. 695-706; GUARDUCCI M., Una nuova dea a Naxos in Sicilia e gli antichi legami fra la Naxos siceliota e l’omonima isola delle Cicladi, Mélanges de l’École Française de Rome, 97, 1985, pp. 7-34; op. cit. n. 6, pp. 7-34; MODEO op. cit. n.7, pp. 136-137. 42 43

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nascita di figure come Orione, Adone, Mitra e Gesù nei giorni del solstizio d’inverno o dalla triade Dameter, Ariadne, Dioniso simbolo in realtà di un’unica dea, la Natura. Come abbiamo visto, la storia di queste prime triadi divine47, è tramandata fin dalle prime fonti scritte della fine del IV mill. a. C. che narrano di una triade di divinità – In-anna, figlia di An, sua sorella Ereshkigal, dea dell’oltretomba, e lo sposo Tammuz – le cui vicende sono assimilabili a quelle delle triadi Demeter, Ariadne e Dioniso, di Demetra, Kore e Ade micenee di derivazione certamente cretese. Quello che è interessante notare è, a mio avviso, la ricorrenza del prefisso Er/Ar (EreshrigalArianna), dove in greco ἀρά significa preghiera ma anche maledizione, e del suffisso anna (Inanna-Arianna) che in età sumerica indica la discendenza da An (o l’appartenenza al suo sacerdozio) e che nel greco (ἀγνή, lett: annè), forse derivante da questo per via cretese (-adne), significa “pura”. L’associazione di Arianna all’oltretomba spiegherebbe quindi, a mio avviso, la frequentazione di grotta Grande e il primo toponimo con cui è stata chiamata, S. Anna. A tal proposito, ricordando le parole dell’Aurìa48che visitò l’area alla metà del Seicento (“Io ho più volte diligentemente osservato quelle fabbriche, ed ho visto, che in fatti vi sono rimaste alcune Pietre Quadrate di straordinaria grandezza, senza calce, le quali sono presso di due piccole Chiese, hoggi dedicate a Sant’Anna, e Santa Venera, che in fatti donano segno di non poca, ma di grande antichità.”), è spontaneo chiedersi se anche la chiesetta omonima poco distante dal tempio facesse parte, almeno per un periodo, del contesto fin qui delineato come controparte, come doppio del tempio di Diana. A tal proposito mi pare d’obbligo ricordare che la chiesetta in questione era, fino a qualche decennio fa, sede di veri e propri pellegrinaggi da parte di persone provenienti da tutto il mondo per celebrarvi rituali legati all’esoterista e massone inglese Aleister Crowley49 che intorno al 1920 scelse Cefalù per fondarvi la sua sede, Thelema. L’elementare parallelismo che si può instaurare tra i suddetti riti basati sull’energia sprigionata dall’atto sessuale, nonché sull’uso di sostanze psicotrope, e i misteri in onore di Demetra o Dioniso in cui si svolgevano rituali anche di natura sessuale e in stato di alterazione, è evidente e non trascurabile, ed è prova di una tradizione scomoda ma millenaria. È lecito quindi chiedersi se Crowley avesse optato per Cefalù per la conoscenza pregressa dei culti che qui si svolgevano (tramandatagli forse dal sapere massonico?) o per lo stesso motivo per cui in età preistorica era stato qui fondato il complesso sacro, ovvero la Rocca. Rocca percepita quindi come montagna sacra, divinità nuda, perché brullo era il promontorio fino agli anni ‘60, con la testa alta che sfiora il cielo, i piedi giù, nel mare, il ventre buio e umido, cunicoli come vene e arterie e l’acqua dolce del Cefalino e delle 47 Anche le teogonie indoeuropee sono caratterizzate da triadi. A tal proposito si veda DUMEZIL G., Gli dei Sovrani degli indoeuropei, Einaudi paperbacks, Torino, 1985. 48 AURIA V., op. cit. n. 21, p. 15. 49 ZOCCATELLI P. L. (a. c. d.), Aleister Crowley. Un mago a Cefalù, Ed. Mediterranee, Roma, 1998.

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risorgive, che, come sangue, la rende viva; ma anche microcosmo concluso in sé, fatto di alto e basso, luce e buio, asciutto e umido, vita e morte. Un mondo di opposti, che di fatto opposti non sono, e che si uniscono, si miscelano nel ventre della terra, al buio, nei cunicoli che come il labirinto di Minosse rappresentano la sede della labrus, della farfalla che Aristotele50 chiama psychè, un mondo di mezzo, finito e infinito insieme, i cui simboli, come il Minotauro, non possono che essere “ibridi” come Dioniso, il dio che regna sul mondo “sotterraneo” delle anime ma i cui santuari si trovano in montagna, a cui sono associati simboli riferibili all’ambiente semantico del doppio, come la veste femminile e l’associazione a Demetra, lo specchio e la bambola, entrambe riflesso/imitazione, l’edera e la vite che dalla terra tendono a salire verso l’alto, la capra che salta e si arrampica su pareti verticali, l’altalena che oscilla, la trottola che nel suo movimento crea un vortice-spirale richiamando così l’idea del labirinto. La montagna quindi come materializzazione della divinità primordiale, specchio della concezione del mondo, un mondo che ha origine dall’acqua, chiuso in sé ma proiettato verso il cielo, che all’apparenza si mostra semplice ma che all’interno riserva un meandro caotico e imprevedibile di alternative, come la vita terrena, fatta di alti e bassi, della sicurezza della materia che ci circonda e dell’incertezza di un mondo eterico stabile ed eterno che non è tangibile ma è certo che ci sia. Questa concezione si ravvisa in molte culture, indoeuropee e non, e denota una visione comune e pressoché continuativa secondo cui è proprio il mondo della psychè, il punto d’unione dei due triangoli della farfalla, il centro del labirinto, a costituire la realtà perfetta in cui tutto confluisce e che rimane stabile, come il perno dell’altalena, ma sfocato, come quello della trottola in movimento, come Dioniso, divino, umano e ferino insieme. Appare quindi chiaro che l’anima venisse considerata eterna e quindi divina, finita durante la sua sosta corporea, infinita nell’altro mondo, e che soltanto un certo tipo di conoscenza, unita ad un certo modo di agire nella società, potesse bloccare il ciclo delle reincarnazioni e garantire la vita nell’aldilà. Ed è proprio l’eternità in quel mondo che veniva ricercata dagli adepti di Dioniso (come gli Orfici) e Demetra, e che poteva essere raggiunta attraverso il percorso iniziatico: il sacrificio di una parte del proprio essere, del proprio modo di far parte della società a vantaggio di una scintilla divina che illumina come una fiaccola la vita dell’adepto e lo condurrà ad una vita eterna, felice perché libera dal suo contenitore materiale. L’esempio minoico, in cui tale tipo di conoscenza era ampiamente diffusa nell’età del Bronzo Antico, la sua origine neolitica, portano da una parte a chiedersi se è possibile generalizzare questa condizione alle società pre-indoeuropee e dall’altra a considerare come all’affermazione delle società basate su religioni patriarcali fondate sulla proprietà e sulla guerra, consegua la progressiva, lenta ma inesorabile, emarginazione della cultura “misterica” nella sfera dell’esoterismo, di una emarginazione dalla massa e dalla cultura di massa, quella accettata dalla società “civile” e orientata, allora come 50

Ma anche Teofrasto e Plutarco (cfr. Dizionario Guido Ricci). 194


oggi, dai c.d. poteri forti. Come se lo squilibrio economico nella società si riflettesse/fosse il riflesso della concezione del mondo, un mondo diviso51, fra uomini e dei (vedi Prometeo), uomini e animali, fra maschi e femmine (vedi Pandora), e in cui la realtà finita, materiale, simboleggiata allora dai metalli, avesse preso il sopravvento sul mondo immateriale dell’anima intrappolandola in una colata di bronzo. Una realtà che non lascia quindi scampo alla salvezza e che viene ancora di più esasperata dal sempre maggiore allontanamento dell’uomo dalla sfera “celeste” e il conseguente affievolimento di quella scintilla divina, verso l’inconsapevolezza della propria essenza in modo direttamente proporzionale al bisogno di avere uno o più referenti esterni, come se tutta l’energia della fede confluisse da un polo, l’orante, all’altro, la divinità, dalla terra al cielo, come il fumo delle carni offerte in sacrificio. Conclusioni La scoperta sulla Rocca di Cefalù di un complesso sacro tanto importante quanto “inquinato” da un intreccio di sovrapposizioni culturali millenarie non può che aprire vecchi e nuovi interrogativi cui si spera di poter rispondere al più presto attraverso nuove indagini archeologiche (studio di fotografie aeree, ricognizioni sistematiche all’aperto e in grotta, sulla Rocca e ai suoi piedi; campagne di rilievo delle evidenze di arte rupestre in grotta e delle stesse cavità; revisione dei materiali raccolti nello scorso secolo e loro catalogazione etc..). Quali sono le origini dell’antica Kefa? Da dove provenivano le genti che misero in piedi il quadrilite del Tempio megalitico? È plausibile, in virtù di quanto emerso, supporre l’esistenza di uno o più abitati sparsi, di età neolitica e protostorica, sulla Rocca o altrove, al Villaggio dei Pescatori o nell’area dell’attuale centro storico? E’ possibile che questa zona, ricca di acqua e terreni fertili, che ad un certo momento inglobò l’unico accesso alla Rocca, non sia stata interessata da una contemporanea frequentazione/occupazione? Procedendo nella storia, in virtù del sincretismo religioso che caratterizzava i culti antichi, per il quale Demetra venne associata a Diana, Dioniso a Osiride e questi, come dio dell’oltretomba, al Melqart fenicio; nell’ottica di un centro connotato da un forte aspetto sacrale e caratterizzato, in età storica, da una popolazione sia punica che ellenizzante, ci si chiede se, a questo punto, sia possibile riconsiderare come provenienti da Cefalù i dibattuti tetradrammi 52 di IV a. C. con legenda Ras Melqart, ovvero promontorio di Ercole, e interpretare le monete coeve coniate da un gruppo di Eracleioti53, come emissione da parte di un santuario dedicato, non escludendo poi che altre strutture imponenti, suggerite dalla la presenza dei megaliti riutilizzati nel nartece della Cattedrale normanna, potessero trovarsi anche nella città bassa54. Infine, un tuffo nella realtà e nell’ignorante cupidigia del secolo scorso e dei nostri tempi. Su una lettura in tal senso dei miti di Prometeo e Pandora: VERNANT, L’Universo.., pp. 53-68. FRANCO A., Periferia e Frontiera nella Sicilia Antica, Supplementi a “Kokalos”, 19, 2008, p. 82. 53 CONSOLO LANGHER N., Gli ΗΡΑΚΛΕΙΩΤΑΙ ΕΚ ΚΕΦΑΛΟΙΔΙΟΥ, “Kokalos”, 7, 1961, pp. 166-198. 54 Anche questa tematica verrà sviluppata in un articolo di prossima pubblicazione. 51 52

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Cosa hanno distrutto le cave che nel 1955 hanno illegalmente55 asportato parte delle grotte delle Giumente e dei Colombi, anch’esse coinvolte da una lunghissima frequentazione antropica, e sconvolto l’area della foce del Cefalino in corrispondenza del porto? Cosa altro è stato distrutto sulla Rocca quando si progettava di costruirci sopra il villaggio che poi sarà il Club Mediterranée? Che danni hanno fatto le esplosioni per la creazione del tunnel ferroviario o quelli causati dalle radici dei pini piantati negli anni ‘60 sulla Rocca, oltretutto su una delle rare cittadelle bizantine della Sicilia e su chissà quali altri resti? Quali danni continuano a fare gli sciacalli tombaroli per i quali sul web è possibile, ad esempio, trovare monete inedite di zecca cefaludese (che saranno oggetto di un ulteriore studio)?

Affinché questo non avvenga ancora e nella speranza che i tempi siano maturi, e che lo siano anche le menti di chi volesse liberarsi da un ricordo ingombrante o da un peso (dando per scontata, per troppo ottimismo, una coscienza culturale o di qualsiasi tipo, oltre quella del peso delle proprie tasche) o, semplicemente, per dare un contributo alla Storia della nostra bella cittadina testimoniando la presenza di ulteriori evidenze (ad esempio nell’area del porto o del Villaggio dei Pescatori), non si può che augurarci che, come Dioniso e Arianna, la preistoria e la protostoria cefaludese, come anche lo scomodo rudere della Thelema crowliana, che volenti o nolenti fa pur sempre parte della Storia, ri-escano finalmente a “riveder le stelle”. Le figure Fig. 1. Il tempio di Diana visto da Ovest. Fig. 2. Il quadrilite sul fronte del Tempio. Fig. 3. La pietra triangolare incisa. Fig. 4. Rilievo (parziale) delle incisioni sulla pietra triangolare. Fig. 5. Farfalla di luce proiettata su una roccia dal Quadrilite del sito dolmenico di S. Lorenzo del Caprione (da CALZOLARI-GORI p. 11). Fig. 6. Pittogrammi sulla parete alle spalle della colonna antropomorfa: in basso e in alto a destra sono visibili delle scritte moderne; al centro in alto una “farfalla” schematica, alla sua sinistra un simbolo (fungiforme/ascetta?) evanide e un antropomorfo che sfrutta una convessità della parete. Fig. 7. Il varco monumentale creato da due colonne carbonatiche. A sinistra la c.d. madonnina. Fig. 8. Figura antropomorfa al tetto della sala della “madonnina”. Fig. 9. Rilievo del complesso della Manta con indicazione del travertino sulla parete. Un grosso blocco di travertino è invece presente sulla parete sinistra e non è indicato nel rilievo. Fig. 10. La manta realizzata in ocra rossa dal complesso pittorico omonimo (immagine modificata). Fig. 11. Particolare della presunta “bird goddess” con volatile sulla sinistra.

55 Il racconto di quelle tristi distruzioni programmate si ritrova negli appunti di G. Meli conservati presso l’archivio della Soprintendenza ai BB. CC. AA. Di Palermo, da me visionati.

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Il Monumento “al Sacrifizio dei Giovani Collesanesi nella Guerra Europea (1915-1918)” NUCCIO LO CASTRO Se già non fosse bastato il bilancio dei milioni di morti nel primo conflitto mondiale, in aggiunta la guerra aveva decimato famiglie, minato il morale delle popolazioni, privato tantissimi dei beni primari, prodotto un senso di disorientamento e impotenza, da cui derivò la necessità di elaborare e superare l’immane tragica esperienza vissuta. Sul piano ideologico si ebbe lo sforzo compiuto dai poteri forti e dagli intellettuali del tempo, che valse ad alimentare il culto della guerra, il mito della Nazione e quello dell’eroico sacrificio, così esorcizzando la paura diffusa per un futuro dai precari orizzonti che andava affrontato senza gran parte delle più giovani e vitali energie; al contempo venivano intraprese in tal senso più o meno efficaci iniziative che avessero un sottendimento risarcitorio e consolatorio. Tra queste ebbe una favorevole accoglienza l’idea di erigere nei vari paesi un monumento o grandi targhe celebrative a memoria dei propri Caduti, che costituissero una memoria scolpita nella pietra delle tante vite gloriosamente offerte per la Patria. Pertanto, per oltre un decennio in Italia si mise in moto una vera e propria euforica operosità che portò alla costituzione di specifici comitati, a promuovere collette presso circoli, enti e privati cittadini, alla ferma determinazione dei Comuni per promuovere delle azioni in tal senso. L’“epoca d’oro” di tali fermenti si ebbe tra il 1920 ed il 1927, quando vennero creati retorici Monumenti ai Caduti, enfaticamente dotati di iscrizioni, simboli, allegorie, tripodi, fregi, bassorilievi, figure di soldati in avanzamento, caduti intrepidamente, pianti dalla personificazione della Patria, incoronati da una Vittoria alata. Le innumerevoli realizzazioni portarono ad attivare una dinamica serie di commissioni che riguardarono progettisti, tecnici, artisti, artigiani e manodopera, da cui derivarono opere non sempre di elevata qualità. All’iniziale, entusiastica spinta promossa dalle istituzioni nazionali e dalla stessa stampa, si sostituì la percezione che il fenomeno fosse eccessivamente inflazionato e senza controllo, e i vari interventi ripetitivi e di scarso pregio. Il Ministero della Pubblica Istruzione nel 1927 pubblicò sul “Foglio d’Ordine” del Partito Nazionale Fascista un articolo titolato “Non monumenti ma asili”, in cui tra l’altro si leggeva: “troppi monumenti, che sovente contrastano con l’arte, già adornano le piazze e le strade d’Italia”. Tale posizione bastò a rallentare il dilagante processo innescato, non impedendo tuttavia che si portassero a compimento i lavori già da tempo avviati ma ancora non conclusi per contrattempi e rallentamenti verificatisi in corso d’opera. È il caso di Collesano, dove l’iniziativa era già partita nel 1919, quando venne costituito un Comitato Magistrale Promilitari, più tardi seguito da un Comitato Esecutivo per il Monumento ai Caduti, che promosse una raccolta tra enti, circoli, associazioni degli emigrati d’America, congregazioni, banche e privati anche attraverso iniziative varie, vendite e lotterie che però solo nel 1926 aveva raggiunto le 20.000 lire1. I lavori pertanto tardarono ad iniziare per motivi economici; da un documento rintracciato da Salvatore Termotto presso l’Archivio di Stato di Palermo2 si apprende che il 10 febbraio 1924 1 Da un articolo su “Sicilia Nuova” del 18-19 gennaio 1926. Le informazioni provengono dalle carte custodite presso l’archivio privato dell’allora presidente del comitato, prof, Nicolò Schicchi, Direttore Didattico, a Collesano. 2 Salvatore TERMOTTO, La Chiesa dell’Annunziata … (cit.); il documento ricordato si trova in: Archivio di Stato di

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il Comune deliberò la creazione di un Parco della Rimembranza negli spazi davanti allo stesso edificio e fece apporre nel prospetto una targa in ricordo dei Caduti, forse già prevedendo i lunghi tempi di realizzazione; fu allora che, decidendo di “attendere tempi migliori per far sorgere il monumento”, venne incrementato l’impegno per la raccolta dei fondi, anche attraverso l’organizzazione di serate danzanti nelle scuole durante il Carnevale o la messa in scena della Passione del Cristo da parte di alcuni “giovani entusiasti”; nel 1928 la somma raccolta raggiunse le 31.000 Lire, maggiore rispetto a quella inizialmente preventivata, e dunque venne dato il via alle operazioni necessarie per completare l’opera. Il costo del basamento fu di L. 8.830 e quello del recinto in pietra e ferro battuto di L. 4.500; la spesa sostenuta per l’acquisizione, il trasporto e la collocazione della statua del Fante ammontò a 15.243, mentre per le altre decorazioni fu necessaria una somma aggiuntiva di L. 7.0003. Di fatto compiuto solo undici anni dopo l’avvio del progetto, la sua inaugurazione avvenne nel maggio del 1930. Così come riferisce Cicero, la cerimonia, “contestuale, in quel giorno, a quella del Bosco del Littorio, della Casa Balilla e del Dopolavoro, del Circolo del Littorio e dell’Ospedale civico ..., fu presenziata, tra gli altri, dall’allora prefetto Albini, dal podestà Paglionica, dal parroco (sic) Tommaso Li Pira, dal maresciallo Carta, dal commissario Bilione, dal capo della milizia forestale Squadrito, dal segretario federale del partito Paternostro”4 ed altre Autorità. Il luogo scelto fu un breve spazio antistante il Palazzo Comunale, a fianco della porta principale, edificio costituito dal cinquecentesco Convento dell’Annunziata Nuova dei PP. Domenicani, requisito per effetto delle “leggi eversive” del 1866 e qualche anno appresso ristrutturato per accogliere i nuovi uffici e al contempo dotato di un prospetto in stile neogotico5. La terminale statua del Fante fu tuttavia non apprezzata da molti, in quanto si era venuti a conoscenza che fosse stata un’opera già “scartata” da una città vicina; ancora, il gesto di tenere sollevato il fucile da parte del soldato, in realtà in segno di vittoria, appariva come se questi fosse in procinto di “sparare agli uccelli”, ovvero come segnale di una disonorevole resa. Pare che la notte successiva si fosse verificata una segreta operazione da parte dei detrattori, che appesero un cartello recante frasi alquanto ironiche, una sorta di “pasquinata” volta ad irridere l’opera e i suoi fautori6. L’insieme, tuttavia, oggetto di alcune insignificanti modifiche e aggiunte, continuò a permanere fin oltre l’esaurirsi di tali lamentele, riscattando un proprio posto nell’immaginario collettivo dei cittadini collesanesi. Palermo, sez. Gancia, Fondo Sottoprefettura di Cefalù, busta n° 40. 3 Antonino CICERO, Collesano. Memorie - Quel milite che sparava… in aria, in “Espero”, Anno VI, nn. 65-66-67, Agosto/Ottobre 2012, p. 10; A. CICERO, Collesano - Il Monumento ai Caduti. Un’opera della “star” degli anni Venti, in: “Espero”, Dicembre 2014, pp.1, 7. Il comitato promotore era composto da Niccolò Schicchi (Presidente), Giovanni de Giorgio, Stefano Dolce fu Antonino, Orazio Leone, Tommaso Li Pira, Giuseppe Tamburello fu Nicolò e Giuseppe Meli fu Tommaso. Dall’archivio privato del prof, Nicolò Schicchi, Direttore Didattico (v. Appendice Documentaria, Informazione pubblicata il 10/5/1928). Si ringraziano qui l’avv. Antonino Cicero per aver gentilmente messo a disposizione il materiale già da lui consultato presso l’archivio Schicchi, e il caro prof. Rosario Termotto per gli utili suggerimenti. 4 A. CICERO, Collesano, memorie … cit. A parlarne ampiamente furono il Giornale di Sicilia del 21 maggio (Collesano, Echi dell’inaugurazione del Monumento ai Caduti), il Giornale d’Italia del 25 maggio 1930 (I gerarchi di Palermo a Collesano per l’inaugurazione del Monumento ai Caduti), il quotidiano “L’Ora” del 20 maggio 1930 (Il discorso del Cav. Schicchi). 5 Rosario TERMOTTO, Monachesimo a Collesano, i Domenicani, in “Collesano per gli emigrati”, (a cura di R. Termotto e A. Asciutto), Castelbuono 1991, pag. 146; Salvatore TERMOTTO, La Chiesa …. (cit.), pag. 111. 6 A. CICERO, Collesano, memorie … cit. 202


Il Monumento, oggi privo dell’originario recinto in ferro e anticipato da un basso pilastrino che sostiene una lucerna, si alza su un basamento in pietra grigia cui si sovrappone un alto ed esile parallelepipedo in travertino bianco rastremato verso l’alto fino alla quota di m. 3.10, sormontato dalla slanciata figura bronzea del Fante. Intorno sono sistemati dei cimeli dell’ultima Guerra, e vi si affiancano la semplice stele marmorea con incisi i nomi dei 57 caduti della I Guerra Mondiale e quella più recente che ricorda le vittime del successivo conflitto. Sul fronte anteriore della stele si succedono, dal basso, inserti bronzei come il bassorilievo recante un episodio della battaglia del Piave, un’aquila imperiale ad ali spiegate e la testa rivolta verso sinistra, compresa dentro una classica ghirlanda di foglie; quasi al vertice sono un festone ed una stella a cinque punte raggiata. A metà altezza compare la scritta dedicatoria a caratteri maiuscoli che recita: “AI GIOVANI COLLESANESI / CHE / NELLA GUERRA EUROPEA / (1915 – 1918) / COL SACRIFIZIO EROICO DELLA VITA / RAFFORZARONO / LA FEDE DI NOSTRA GENTE / NELLA GRANDEZZA DELLA PATRIA / LA CITTADINANZA DEDICA”. La giovane figura del fante si staglia in cima con le gambe divaricate, guardando in alto alla sua sinistra ed alzando con le braccia un fucile dalle canne che si prolungano in una affilata baionetta; la sua uniforme è la più semplice, con solidi scarponi e gambali fasciati, pantalone ampio e stropicciato con sbuffo alle ginocchia, giacca abbottonata sul davanti, ulteriormente aderente al corpo per la stretta della tracolla di un tascapane, alla cui vita si allineano quattro giberne per le munizioni e pende una seconda baionetta7. Lo sviluppo verticale del manufatto trova quindi particolare slancio per la figura del soldato, raggiungendo l’altezza complessiva di circa m. 5.50. La cerimonia dell’inaugurazione fu accompagnata dalla pubblicazione di una cartolina-ricordo in B/N recante una buona immagine in cui il monumento, fasciato alla base dalla sua ringhiera in ferro battuto, era guardato con voluta angolazione sullo sfondo del Palazzo Comunale; la foto veniva corredata in basso da una poesia e dalla breve nota didascalica che specificava la circostanza dell’evento, il titolo e il nome dell’Autore, offrendo qualche notizia sullo stesso:

7 La rappresentazione estremamente realistica del vestiario del milite conferma la profonda capacità analitica e il rigore nella resa del dettaglio, qualità che venivano diffusamente riconosciute dai suoi contemporanei a Francesco Sorgi, autore della scultura. L’uniforme adottata dall’esercito, in panno pesante di colore grigio-verde, fu in uso fin dal 1908 (circolare n. 458 del 4 dicembre 1908) per le Armi a piedi; sotto la giubba ad un petto con cinque bottoni era un gilet di taglio classico, mentre i pantaloni, come nel caso del monumento di Collesano, poteva essere del tipo di montagna, poco più ampio e meglio adatto alla vita di trincea. Nelle giberne venivano custoditi alcuni caricatori per un totale di 168 cartucce, oltre a quelli trasportati nello zaino; il fucile ad otturatore era del tipo Cercano Mod. 91, già d’ordinanza fin dal 1891, corredato da sciabola-baionetta lunga 41 cm. Nel tascapane in tela impermeabilizzata grigia si conservavano un panetto, un fazzoletto, un paio di calze, gallette e altri alimenti, una tazza di latta, una gavetta in lamiera contenente un cucchiaio e una forchetta, tre tipi di borracce da un litro. Nello zaino in tela grigia con rifiniture in cuoio (non riproposto nella scultura in questione) si trovavano due paia di mutande e due camicie di tela, fasciame per le gambe, corredo da fatica e del sale; nelle varie tasche, l’occorrente per la pulizia del fucile, per quella personale e degli scarponi; cartucce ed una scatola di carne, infine strumenti per il montaggio delle tende da campo (notizie fornitemi da Ciro Artale, che qui ringrazio).

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Il Fante (Inaugurazione del Monumento ai Caduti di Collesano 1915 – 1918) Giuseppe Meli (ex-bersagliere della Classe 1859) Crepita secca e miete la mitraglia le vite ... a cento ... I ferrei battaglioni son sempre avanti tra fulgori e tuoni ... Un’epica orda Sicula ... si scaglia! ... Le valli, su le balze, a la boscaglia ferve la pugna in orride tenzoni ... Urla di gente ... romba di cannoni … e schiaffi … e tonfi … Roggia è la battaglia! In fuga è l’Unno. A la trincea fumante -tra mola e sangue l’anima cantava giovinezza, beltà, romano Aprile- … Sereno balza su l’Ignoto Fante, e, al Ciel, solleva, fulminosa clava emblema di Vittoria, il suo fucile! La composizione poetica, di buona qualità, è nella tipica forma del sonetto, composta da due quartine e due terzine di endecasillabi, le prime con rima incrociata (del tipo ABBA) secondo lo schema più diffuso, le seconde con rima ripetuta (o replicata, del tipo ABC ABC), come spesso si ritrova al piede della canzone o nelle terzine del sonetto. Dovendo ipotizzare che l’iniziativa non sia stata personale, ma promossa dal Comune, la scelta di far ricadere l’incarico sul Meli dovette essere dettata dal credito di cui godeva il personaggio cui si riconosceva il ruolo di “vate” cittadino, e di cui peraltro si contano alcune pubblicazioni di componimenti poetici. Il Meli infatti aveva già dato alle stampe i volumi dal titolo “Alba, versi” (Palermo, 1894) e “Alba, nuovi versi” (Torino, 1903), dimostrando una collaudata conoscenza del lessico e della metrica. La particolare circostanza e l’adesione alle formule che costituivano le coordinate culturali entro cui, fra intransigente censura e strategie del consenso, muovevano le istituzioni del tempo, hanno motivato il carattere della composizione letteraria: con la memoria e la poesia lo sfondo della guerra come tragedia collettiva si fa sempre più lontano, e allo spaesamento, alla perdita degli affetti e alle condizioni di miseria che ne sono derivati, viene via via sostituita la consolatoria concezione per la quale il glorioso sacrificio della vita eroicamente offerto è stato pegno di gloria e radioso futuro per la Patria. Col chiaro intento di ricreare il clima epico e drammatico di una battaglia che si conclude vittoriosamente (lo stesso autore si vanta della trascorsa esperienza da bersagliere), con toni che sembrano esprimere sentimenti personali e possono compiacere le autorità del regime, il poeta narra di un’azione militare arditissima, come in una cronaca comunicata direttamente dal campo di battaglia, nella sua crudezza e in un clima di esaltazione, ancor più attualizzata dal frequente ricorso ai puntini di sospensione come per rendere presente il tumultuoso 204


succedersi degli eventi, suscitare nell’animo trepidazione ed una inquieta apprensione sull’esito finale. L’ardimento e l’eroismo “dei ferrei battaglioni” si esplicita attraverso immagini ed espressioni di altisonante retorica e pathos: gli scenari sono valli, le balze, i boschi in cui “l’orda Sicula si scaglia”, portandosi sempre più in avanti; i suoni sono il terribile crepitio di mitraglia, romba di cannoni, urla di gente; il colore evocato è il rosso, balenante nelle esplosioni (fulgori), nei fuochi, nel sangue sparso delle vite dei soldati, “cadute… a cento”, accentuando la carica emotiva che domina il racconto. La coraggiosa azione ha messo in fuga “l’Unno”, e ciò porta all’esaltazione dei militi, che esprimono “giovinezza, beltà, romano Aprile”; tra loro l’ignoto fante si porta in alto sollevando il suo fucile in segno di vittoria, immagine che si pone come esplicito richiamo al monumento collesanese. È dai giornali dell’epoca e dal carteggio dell’Archivio dell’allora presidente del Comitato che si ha contezza di quali furono gli artefici del corredo di elementi in bronzo, gli scultori Francesco Sorgi di Palermo e il siciliano Turillo Sindoni operante nella capitale; mentre il primo fornì la scultura principale, l’altro – così come si ricava dallo scambio epistolare avvenuto nel 1928 – fornì le altre decorazioni, come il bassorilievo bronzeo con una scena della battaglia del Piave8. La tradizione orale, sagacemente raccolta da Antonino Cicero e i documenti anzidetti, congiuntamente alla comparazione di diversi elementi scultorei con altre opere di consolidata attribuzione, consentono pertanto di assegnare quelle del nostro monumento con certezza a ciascuna delle due personalità. È ricondotto il più grande bronzo al palermitano Sorgi, in virtù fra l’altro della sovrapponibilità e della puntuale rispondenza di ogni dettaglio con la figura del monumento di Petralia Sottana, che diversamente solleva in alto una panneggiata bandiera, ed è firmata appunto nella base: F. SORGI, 1924. Alla luce di tale evidenza è da ritenere verosimile il fatto che l’opera rifiutata dai petralesi – e sostituita con altra che presenta una significativa variante – sia rimasta nella disponibilità del suo autore e conservata per anni nello studio palermitano per poi essere destinata a combinarsi nel più tardo monumento di Collesano con gli altri manufatti bronzei acquisiti nel laboratorio romano di Sindoni; appare allo stesso tempo comprensibile il fatto che pur essendo trascorso un notevole lasso di tempo, nella comunità di Collesano si fosse alimentato un certo malcontento e reazione, trovandosi certamente a conoscenza del respingimento avvenuto nella vicina città madonita o comunque per una constatazione di inadeguatezza della figura del Fante. Tant’è che la nuova scultura realizzata da Sorgi per Petralia Sottana, con la determinante collaborazione del figlio Cosmo, faceva già bella mostra di sé da diversi anni, ed appariva di più felice concepimento e apprezzabilità estetica, concessi dalla nuova soluzione formale: in essa all’austero carattere realista della figura si accostava la plasticità simbolista ed espressionista individuabile nelle voluminose pieghe della grande bandiera, cosi come si osserva nell’analogo monumento di Caltanissetta (1922), dovuto agli stessi Sorgi padre e figlio. Come ha Comunicazioni del Comitato Esecutivo per il Monumento ai Caduti di Collesano del 10-5-1928, v. Appendice Documentaria. Sugli autori si argomenta ne: “Il Giornale d’Italia” del 25 maggio 1930 (art. citato), dove della scultura del Fante si dice “opera di buona fattura del prof. Sorge; sul Giornale di Sicilia del 15 maggio; nel Giornale di Sicilia del 15 maggio (art. citato) si dice “opera degli artisti cav. Francesco Sorge e dr. uff. (?) Turillo Sindoni”; esiste anche una riproduzione fotografica del pannello con la “Battaglia del Piave” tra le carte del presidente N. Schicchi (cit. alla n. 3), con una nota a penna che lo riferisce a Sindoni.

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giustamente osservato Giuseppe Giugno, nell’opera nissena il prevalente apporto “moderno” è dovuto al più giovane scultore, di cui si conosce un disegno preparatorio, che certamente influenzò la scelta della variante apportata nel definitivo modello della scultura collocata a Petralia9. Nel nostro caso, dunque, le “decorazioni accessorie” pervennero dal laboratorio di Turillo Sindoni, uno degli artisti del tempo che vantavano maggiore credito presso il Regno e gli stessi sovrani. Di esse sarebbe stata comunque accertabile la paternità, malgrado non compaia la firma che di solito accompagnava orgogliosamente le sue opere, per la confrontabilità con altre realizzazioni bronzee ottenute dall’uso degli stessi stampi di fusione anche solo parzialmente reimpiegati dallo scultore o per la derivazione dai medesimi bozzetti. È il caso del rilievo con una sintetica scena della battaglia del Carso, avente un immediato taglio “fotografico”, lì dove si assiste all’avanzata decisa di alcuni soldati, uno delle quali porta sulle spalle un commilitone ferito, incitati da un superiore, mentre in secondo piano si scorge un cannone nemico accanto a cui giacciono due corpi; la maggiore evidenza volumetrica viene riservata agli uomini dell’esercito italiano all’attacco, caratterizzati da forte dinamismo e tensione emotiva, contrapposti alla scena di desolazione che si esprime nella rappresentazione della sconfitta e della morte che pervade l’altro fronte. Il rilievo trova uguali repliche nei simili che si collocano nel Monumento ai Caduti di Nocera Inferiore (Salerno), in cui compaiono alla base due simmetrici rami di alloro e di quercia con al centro una piccola targa recante la scritta: TURILLO SINDONI FECIT – ROMA 1924, in quello di Vittoria (Ragusa) e in quello calabrese presente a Laureana di Borrello. Analogamente è possibile trovare un esemplare gemello dell’Aquila Imperiale inghirlandata nel monumento al “Dovere Italico” di Sindoni presente all’interno del Ministero della Difesa a Roma, in cui l’elemento sovrasta la scritta (AGLI EROI DEL DOVERE - 1915-18) incisa sulla base marmorea in cui poggia una statua che, riprodotta in diverse copie grazie alle possibilità offerte dalla tecnica della fusione in bronzo, ebbe grande fortuna per l’impiego in numerosi monumenti sorti in tutta l’Italia10. Identico simbolo bronzeo è ad esempio ai piedi della statua di guerriero nel Monumento di Tortorici (Messina). Al laboratorio dello stesso vanno attribuite per analoghe considerazioni le decorazioni minori presenti sull’alto basamento. Non si hanno documenti che possano chiarire la circostanza per la quale si dovette far ricorso a due diversi artefici per il corredo scultoreo né tantomeno per conoscere l’identità del progettista che ha concepito il supporto lapideo (risultato in definitiva apprezzabile per quanto convenzionale), tuttavia appare interessante il fatto che la scelta è caduta su due figure di spicco e con collaudata esperienza nella realizzazione di tali opere. Francesco Sorgi nacque a Bagheria nel 1870 e seguì a Palermo gli studi accademici insieme a Vincenzo Ragusa; fu un abile ritrattista ed eseguì anche monumenti funerari per colte e nobili

9 Giuseppe GIUGNO, La Sicilia e la Grande Guerra. Il Monumento ai Caduti di Cosmo e Francesco Sorgi a Caltanissetta, in: “TeCLa”, rivista dell’Università di Palermo, nn. 15-16. http://www1.unipa.it/tecla/rivista/1516_rivista_giugno.php. 10 Esemplari della scultura raffigurante il guerriero che simboleggia “Il Dovere Italico” di Sindoni, apprezzata anche dai Regnanti che fecero visita al laboratorio romano dell’artista mentre la statua era in corso di realizzazione, si trovano a decorare numerosi Monumenti ai Caduti di diverse città italiane. Per citarne alcune: in Sicilia a S. Agata Militello e Tortorici, nella Penisola a Laureana di Borrello, in Sardegna a Calangianus.

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famiglie palermitane, riscuotendo apprezzamenti da molte personalità del mondo dell’arte11. Dopo un esordio in cui si conferma la vocazione verso una plastica impregnata da un forte naturalismo, il suo stile sarà toccato da influenze simboliste e moderniste. Fece pervenire le sue opere in numerosi centri siciliani (Partinico, Lercara, Agrigento, Castelvetrano, Partanna) e partecipò a mostre in Italia e all’Estero in cui conseguì premi e riconoscimenti; a Washington vinse il concorso per il monumento al generale americano Nelson Miles. Insieme al figlio Cosmo, notevole scultore aperto a nuove sollecitazioni culturali e artistiche per i suoi soggiorni all’estero e per gli studi effettuati alla scuola di personalità del calibro di Ernesto Basile, Gaetano Geraci, Vincenzo Ragusa e Antonio Ugo, eseguì il Monumento ai caduti di Caltanissetta (1922), forse in tutto concepito da Cosmo (di cui si conosce un bozzetto firmato), col quale ha certamente collaborato pure al definitivo progetto per il Monumento di Petralia12. Ben altra carriera e notorietà artistica sono state quelle che hanno riguardato Turillo Sindoni13, che durante la sua attività romana svoltasi nell’immediato dopoguerra hanno visto una straordinaria ascesa. Nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1868 e formatosi dapprima nelle botteghe dei figulinai del suo paese e quindi a Messina, si guadagnò ben presto un sostegno economico grazie al Comune di Barcellona, alla Provincia e alla Camera di Commercio di Messina per proseguire gli studi di scultura a Roma. Il forte e disinvolto carattere gli permise di guadagnare stima e favori: nel 1917 la commissione del Monumento al “Dovere Italico” per il Ministero della Guerra meritò allo scultore numerosi consensi. Anche il matrimonio con una nipote del Papa Pio X aveva favorito l’imporsi nel panorama della scultura nella Capitale. Grazie alla capacità di concedere alle sue figure quella vena retorica e magniloquente tanta apprezzata negli ambienti istituzionali e poi dal regime fascista, acquisì numerosi incarichi, in particolare per la realizzazione di Monumenti ai Caduti in diverse città italiane. Legato ad un classicismo di tardanze ottocentesche, nelle sue opere si colgono aspetti fortemente realisti e simbolisti, nulla concedendo alle preziose raffinatezze e lineari forme del Liberty, né tantomeno ai linguaggi espressivi delle Avanguardie, che al tempo avevano già disperso ed esaurito la loro dirompente carica rivoluzionaria. Particolarmente incline alla scultura in bronzo, Sindoni lavorò anche sul gesso e sul marmo, eseguendo ritratti e monumenti funerari. Di lui parlarono i giornali dell’epoca, come la “Domenica del Corriere”; alcune opere presero la via delle Americhe (Stati Uniti, Argentina, Uruguay, Brasile), come tiene a ricordare Luigi Sarullo, autore di un noto Dizionario degli Artisti Siciliani14. Il terzo decennio del secolo fu il periodo di massima produzione, cosa che fece di lui uno dei più importanti artisti dell’epoca, assolvendo a commissioni che gli pervennero prevalentemente da centri dell’Italia Centromeridionale, ma trovando un temibile concorrente nel più Un breve profilo sullo scultore è in: Antonina GRECO, Sorgi Francesco, in: L. Sarullo, “Dizionario degli Artisti Siciliani – Scultura”, (a cura di B. Patera), Palermo 1994, pp. 316-17. 12 Antonina GRECO, Sorgi Cosmo, in: L. Sarullo, “Dizionario …” cit., pp.. 315-16; sul monumento di Caltanissetta si veda ancora G. GIUGNO, La Sicilia… (cit. in nota 9). 13 Della consistente bibliografia su Sindoni si ricordano qui: M. Cristina SIRCHIA, Sindoni Turillo, in: L. Sarullo, “Dizionario …” cit., pag. 311; Andrea ITALIANO, Turillo Sindoni, un grande artista italiano (prefazione), in: Simone CARDULLO – Massimo SINDONI, Turillo Sindoni, Un tempo scultore di fama mondiale, Patti 2020, pp. 5-10; Andrea ITALIANO, Straordinari. Storie di uomini, cose e paesi da Messina a Mistretta, T. Vigliatore 2018, pp. 103-111. 14 L. SARULLO, Dizionario… cit. p. 311. 11

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giovane Tommaso Tomagnini (Perugia 1886 – Roma 1965), sensibile e aperto a suggestioni moderniste, che realizzò un gran numero di monumenti ai Caduti rendendosi più presente in gran parte della Penisola. Più o meno gradito alle gerarchie del partito fascista cui non si volle mai legare, da imprenditore versato alla produzione seriale, non si curò di evolvere il suo stile, continuando a eseguire opere ripetitive e standardizzate, incoraggiato dalla facile riproducibilità delle opere di fusione e delle sempre più affinate competenze in questo campo. Tanto che, dopo essersi esaurita la parabola della sua celebrità, venne pian piano dimenticato e ignorato dai libri di Storia, guardato dalla critica solo come interprete della propaganda di regime, fino alla sua morte, avvenuta a Roma nel 1941. Stesso pregiudizio perdurò ancora nei confronti di tutta la produzione artistica di quel tempo; solo in anni recenti si è guardato con più interesse ed oggettività all’interessante ed enorme patrimonio di manufatti, documenti straordinari di un momento significativo per la storia del nostro Paese, in cui si sono intrecciati accadimenti, idee, storie di vita, drammi, committenze, artefici, linguaggi artistici, fedi in ideali diversi, sentimento popolare15. Il caso esemplare di Collesano testimonia la partecipazione dei suoi abitanti alla grande Storia da veri protagonisti, avendo concorso ad un grande evento con la propria quota di sangue versato per quella che appariva un’importante causa. E di come gli stessi cittadini abbiano con determinazione perseguito l’impegno a serbare la propria memoria, a differenza dell’oggi in cui si cerca di dimenticare in fretta, ormai disillusi nel tentativo di trovare un senso in alcuni avvenimenti che forse un senso non hanno in realtà avuto. Le figure Fig. 1. Il monumento ai Caduti, da una cartolina anni Trenta. Fig. 2. Il monumento oggi. Fig. 3. La statua bronzea del Fante (F. Sorgi). Fig. 4. Particolare del bassorilievo posto alla base (T. Sindoni). Fig. 5. Rilievo con l’aquila imperial (T. Sindoni). Fig. 6. Foto di T. Sindoni (da “La Domenica Del Corriere”).

Una grande parte dei Monumenti ai Caduti italiani si trova censita nel Catalogo Generale dei Beni Culturali dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD). E’ utile ricordare alcuni recenti studi sull’argomento, talvolta giustificati da un sempre crescente interesse per la storia locale e che confluiscono in alcune tesi di Laurea o ricognizioni spesso seguite da interessanti pubblicazioni, come nel caso della Provincia di Messina: si vedano a titolo di esempio: Laura CERAOLO, Il culto postumo della Grande Guerra, in “Paleokastro”, A. IV, num. 16, luglio 2005, pp. 17-22, sintesi di un più ampio lavoro; Memorie della Grande Guerra. Monumenti ai Caduti nella Provincia di Messina (a cura di L. Giacobbe), Larderia-Messina 2016, studio avviato nella ricorrenza delle celebrazioni per il centenario della Guerra del ‘15-18.

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APPENDICE DOCUMENTARIA COMITATO ESECUTIVO PER IL MONUMENTO AI CADUTI DI COLLESANO 10-5-1928 – Anno VI Concittadini, I continui perseveranti sacrifici, sostenuti per dieci anni, non sono ancora valsi a dare pronto per l’inaugurazione il Monumento ai Caduti. Ma, né le difficoltà, né gli ostacoli, né altro ci arrestano nel proposito di onorare degnamente i nostri fratelli, che per la grandezza della Patria, per la difesa della libertà sacrificarono la vita. Finora si sono spese: 1. Per le fondamenta e il riparo… L. 723,15 2. Per il basamento … “ . 8.330, 3. Per il fante compreso il trasporto e il collocamento … “ 15.243, 4. Per la cancellata compresa la base di pietra … “ 4.500, 5. Per la propaganda in America, per posta e per altre piccole spese … “ 359,70 6. Per crisantemi in occasione della Celebrazione del pane … “ 100, 7. Per il trasporto dei cimeli di guerra … “ 67, E l’introito è stato: 1. Vendita degli oggetti rimasti nelle lotterie per l’assistenza durante la guerra … L. 301,65 2. Offerte pervenute dall’America “ 15. 862,15 3. Offerte di enti, associazioni, cittadini in Italia fino al 1927 … “ 4.396,35 4. Sussidio della Cassa di Risparmio V. E. (1928) “ 7.127,85 6. Veglione del 1924 di netto … “ 283,75 7. Rappresentazione della vita di Gesù Cristo di netto … “ 1.880,30 8. Interessi di mutui e delle Casse postali di risparmio … “. 1.094,69 9. Vendita di tavole e corde usate … “ 44,50 TOTALE L. 31.491,24 Si ha perciò un costo di L. 2.163,39, oltre a Lire 1.000 deliberate dal Comune. A suo tempo renderemo al pubblico i conti documentati, ma questi sono sempre a disposizione di chi voglia esaminarli. Il basamento richiede degli ornamenti e alcuni si son potuti avere dal Governo per mezzo del Maggiore Dottor Vincenzo Meli. Son cimeli di guerra (preda bellica): un lanciabombe, una mitragliatrice, e quattro palle vuote. Il celebre scultore Turillo Sindoni, per le sole spese di settemila lire, sarebbe disposto a fare “i lavori decorativi di bronzo, così da ingrandire, ingigantire, completare il monumento, in modo che questo riesca veramente fastoso e opera d’arte” (lettera del 30-4-1928). Egli è a ciò disposto per patriottismo siciliano e per amore dell’arte. Questo Comitato crede doveroso non lasciare sfuggire un’occasione tanto favorevole per completare artisticamente il monumento e promuove una lotteria con polizze vuote e piene, una beneficiata da inaugurarsi per S. Vincenzo (corretta a mano con: per S. Giuseppe) nel solito 209


locale delle scuole maschili, allo scopo di avere una buona parte delle cinquemila lire mancanti per pagare gli abbellimenti. I premi della lotteria a sorteggio saranno compresi tra quelli della nuova lotteria e i biglietti già venduti avranno il valore di denaro sull’acquisto delle polizze. La lotteria è stata autorizzata da S. E. il Prefetto di Palermo con Decreto del 5 corrente. Ci permettiamo intanto di rivolgere un ultimo invito al patriottismo della cittadinanza per offrire qualche dono, anche modesto, che contribuisca alla riuscita della lotteria. Non diffidiamo della considerazione del pubblico puro, intelligente e colto, che saprà comprendere come per il ritardo dell’inaugurazione, avremo un monumento veramente completo, degno dei nostri gloriosi Caduti: ogni male, se male si può dire il detto ritardo, non viene per nuocere. Del resto, Collesanesi, tanti paesi, tante città tra cui Palermo non hanno ancora iniziato i lavori del proprio monumento ai caduti dell’ultima guerra. Noi contiamo di proporre all’assemblea del Comitato cittadino la data del decimo annuale della Vittoria, che cade di domenica, per l’inaugurazione. IL COMITATO ESECUTIVO Giovanni de Giorgio Stefano Dolce fu Antonino Orazio Leone Tommaso Li Pira Giuseppe Meli fu Tommaso Giuseppe Tamburello fu Nicolò Niccolò Schicchi

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Fig. 2

Fig. 1

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Fig. 6 Fig. 3

Fig. 5

Fig. 4

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Giuseppe Bonomo Il partigiano “Pippo”* GIUSEPPE SPALLINO Giuseppe Bonomo nacque il 20 luglio 1918 a Castelbuono, in via Sant’Agostino 49, da Paolo e Grazia Ciolino. Come la maggior parte dei siciliani si trovava al Nord per il servizio militare, nel reparto Artiglieria c.a. dell’Esercito, quando venne annunciato l’armistizio. Fu così che decise di fare la grande scelta della sua vita: lottare per liberare l’Italia dal nazifascismo. Diventò partigiano con il nome di battaglia “Pippo”, arruolandosi il 15 settembre 1943 nella Formazione Val di Lanzo, dove rimase fino al 15 aprile 1944. Il 15 ottobre passò all’8ª Divisione Val Orco, rimanendovi fino al 20 dicembre, poiché l’indomani fu arrestato e condannato alla deportazione, ma riuscì a fuggire gettandosi dal treno il 31 marzo 1945. Lo stesso giorno si aggregò alla 32ª Brigata dell’8ª Divisione Val Orco assumendo la qualifica di capo squadra e vi rimase fino al 7 giugno1. In questi anni operò soprattutto a Torino, dove conobbe Sandra Assone, anche lei partigiana, che divenne sua compagna di lotta e di vita. Da una lettera del 22 febbraio 1946, scritta dal tenente colonnello Biagio Augusto Zaffiri2, sappiamo che «Bonomo era caporal maggiore. Venne, se non erro, promosso dal Tenente Fugalli; promozione a sergente che ha attinenza partigiana non dell’esercito»3. È lo stesso Zaffiri a descriverci in un memoriale le prime attività partigiane di Bonomo: In servizio all’8 settembre 1943, mi rifugiai – per i noti e tristi eventi – in valle di Lanzo con l’ardente desiderio di sfogare l’italico sentimento nel combattere i tedeschi e coloro che ai tedeschi stessi vollero rimanere avvinti. Più volte – in località Pessineto Fuori – venne a trovarmi l’eroico patriota-partigiano Giuseppe Bonomo […] allo scopo di formare nuclei di patrioti con una sola idealità e con un solo nome: Italia. E questo avvenne. […]. 20 dicembre 1943: il patriota Giuseppe Bonomo venne, in una baita in cui ero con un figlio, Ersilio, temporaneamente rifugiato, a chiedermi la mia nuova pistola Berretta Mod. 38: ne aveva urgente necessità. Lo fissai a lungo. Compresi l’alto significato. Consegnai l’arma e le munizioni. “Per la libertà, per la nuova redenzione d’Italia” dissi e l’abbracciai4. * Il presente saggio costituisce un arricchimento dell’articolo uscito con lo stesso titolo in «Le Madonie», 6, 15 giugno 2015, p. 3 e p. 6. 1 Questi dati sono tratti dall’apposito fascicolo conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato nel fondo Ufficio per il riconoscimento delle qualifiche partigiane (Riconpart), la cui copia si trova presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (ISTORETO), che lo ha inserito nella banca dati del proprio sito internet; http://intranet.istoreto.it/partigianato/dettaglio.asp?id=13522. Cfr. anche 8ª Divisione Alpina Vall’Orco – XXXII Brigata, Organico degli ufficiali e Sottufficiali della Brigata (ISTORETO, Prima Sezione, b. B 49, fasc. a). 2 Zaffiri fu un ufficiale dei bersaglieri. Dopo l’armistizio, raggiunse le Valli di Lanzo, in Piemonte, dove diventò partigiano nella 7ª Divisione GL. Nel marzo del 1944 divenne il capo, col nome di battaglia “Rossi Cerutti”, della “Missione Guido”, che diresse sino alla Liberazione; http://www.anpi.it/donne-e-uomini/biagio-augusto-zaffiri/. 3 In Archivio Privato della Famiglia Barreca (APFB). Erroneamente all’epoca il periodico locale scrisse che Bonomo era vice brigadiere; I nostri nuovi caduti, in «Le Madonie», 1, 1 gennaio 1947, p. 2. 4 Memoriale del Ten. Col. B. A. Zaffiri, pp. 1-2 (ISTORETO, Fondo Felice Mautino e Giorgio Nicodano – 7ª Divisione GL, b. B M 1, fasc. 1). 213


Giuseppe Bonomo è ricordato per aver fatto parte della squadra di partigiani guidati da Ennio Pistoi5 che il 19 settembre 1944 liberò dal carcere militare torinese di via Ormea 115 detenuti politici, tra cui molti carabinieri che avevano rifiutato il giuramento di fedeltà alla Repubblica di Salò e per questo erano destinati alla deportazione. L’operazione del carcere di via Ormea fu probabilmente tra le più clamorose compiute a Torino durante la Resistenza6. Ne parla anche Norberto Bobbio nella sua Autobiografia7. Ecco la descrizione che Pistoi fa dei suoi compagni: Eravamo in sei: io e una squadra di cinque uomini eccezionali, ciascuno di loro valeva un battaglione. Uno era un marinaio di Trieste che, alla firma dell’armistizio, era scappato da La Spezia rifugiandosi nelle valli di Lanzo. Il suo nome era Giovanni Travain, ma da noi veniva chiamato “Bruno il Triestino”. Altri due, Nino Remogna e Ludovico Marogna, venivano chiamati rispettivamente “il Rosso” e “il Piccolino”. Completavano la squadra due miei carissimi amici: Armando Boscarino, (conosciuto da me e da Irma nella nostra adolescenza, rimasto nostro amico fino alla sua morte avvenuta per malattia alcuni anni fa), e Giuseppe Bonomo, un siciliano che, militare al nord al momento dell’armistizio, era sfuggito alla cattura diventando partigiano. Qualche tempo dopo la nostra azione, Bonomo verrà arrestato, separatamente da me, e orribilmente seviziato. Terrà un comportamento così coraggioso da suscitare addirittura la stima dei suoi aguzzini che gli risparmiarono la vita condannandolo alla deportazione. Io ero già in carcere, ma alcuni nostri compagni riusciranno a farlo fuggire ad una stazione di frontiera. Morirà poi tragicamente, a guerra finita, tentando di raggiungere con mezzi di fortuna la sua famiglia in Sicilia. Questi erano gli uomini che avevo scelto per l’azione8.

Finita la guerra, Giuseppe Bonomo abitò a Torino a casa di Sandra, in corso Giulio Cesare 131. Trascorreva il tempo scambiandosi cartoline con i suoi amici partigiani. Il 20 luglio 1945 gliene arrivò una raffigurante la Mole Antonelliana dal tenente colonnello Zaffiri: Ringrazio del tuo ricordo che contraccambio con sincero affetto. Pregoti salutarmi il buon maresciallo del quale non rammento mai il nome9. Leggo sul tuo scritto “famiglia”. Sono giunti i tuoi cari? Se così fosse dico a loro d’essere orgogliosi del figlio che seppe essere degno d’Italia senza macchiarsi d’egoismo.

Per una sua breve biografia cfr. Addio a Pistoi partigiano e segretario Dc, in «la Repubblica», 7 febbraio 2009. E. PISTOI, Nonno Ennio racconta. Perché parlare di Resistenza ai giovani, L’Arciere, Cuneo 1997, p. 113. 7 Ma il filosofo torinese, non avendoli vissuti, non descrive i fatti correttamente. Scrive infatti: «Il 20 settembre l’avvenimento è l’attacco dei partigiani al carcere militare: “ieri verso le 12 un gruppo di circa 180 partigiani ha attaccato il carcere militare di via Ormea, fatta prigioniera l’intera guardia e liberati i detenuti, in massima parte renitenti o disertori”»; N. BOBBIO, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Editori Laterza, Bari 1997, p. 71. 8 E. PISTOI, Nonno Ennio racconta…, cit., pp. 114-115. Le dinamiche della morte di Bonomo, come vedremo, furono diverse. 9 Francesco Collotti, maresciallo maggiore dell’Esercito, anche lui di Castelbuono, che come Bonomo e Zaffiri iniziò l’attività partigiana nelle Valli di Lanzo; http://intranet.istoreto.it/partigianato/dettaglio.asp?id=25341. Cfr. anche Memoriale del Ten. Col. B. A. Zaffiri, p. 1 (ISTORETO, Fondo Felice Mautino e Giorgio Nicodano – 7ª Divisione GL, b. B M 1, fasc. 1). 5 6

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Bonomo ritornò presto a Castelbuono per riabbracciare i genitori e la sorella Angela. Nel suo paese natale preparò i documenti per sposare Sandra e non cessò il contatto con i suoi compagni. Il 27 agosto 1945 gli venne inviata una cartolina con san Martino protettore della fanteria da Eugenio Reisoli Matthieu10: Caro Pippo, Ti ringrazio di cuore dell’affettuoso ricordo che ricambio affettuosamente. Sono lieto che tu abbia trovato bene tutti i tuoi e che in seno alla tua famiglia tu possa trovare un po’ di felicità. Te la meriti e te la sei duramente guadagnata11.

Morì il 29 settembre in un incidente stradale mentre ritornava a Torino. È sepolto nel cimitero di Castelbuono nella cappella privata della famiglia Barreca Bonomo. Accanto a lui le spoglie dell’amata Sandra, con cui avrebbe voluto condividere l’esistenza12. La notizia di questa tragica morte venne appresa anche dai partigiani con cui Giuseppe Bonomo aveva combattuto, i quali inviarono delle lettere di cordoglio alla famiglia. Il 16 ottobre dal tenente colonnello Zaffiri: Gentile e buona famiglia, in data di oggi ho appreso la ferale notizia. Il vostro figlio Giuseppe è deceduto per una fatale sciagura che gradirei conoscere. Egli non dev’essere dimenticato. Dite al vostro paese che vostro figlio era un eroe. In tutte le circostanze con la sua umiltà, col suo esemplare ardire diede prova d’incrollabile fede per la nuova redenzione d’Italia. Mai nulla chiese, tutto diede. L’Italia nostra dilaniata ha perso uno dei suoi figli migliori. Vostro figlio non dev’essere considerato morto poiché Egli spiritualmente vive. Le sue nobili virtù non possono e non devono perire.

Il 24 ottobre da Reisoli: La notizia della scomparsa del “nostro Pippo” mi ha colpito duramente. Nei lunghi mesi che lo ebbi compagno di lotta imparai a conoscerlo ed a stimarlo per la Sua rettitudine e per il Suo entusiastico patriottismo. Vi sia di conforto il pensiero che molti sono gli amici che Egli ha lasciato e che tutti lo ricorderanno sempre con sincero affetto e come uno dei migliori figli d’Italia.

Il 31 dicembre Sandra Assone ricevette una lettera da Pasquale Fugalli, colui che promosse Giuseppe al grado di sergente: Reisoli Matthieu fu il comandante delle Valli di Lanzo nel primo periodo resistenziale. Lasciò la zona per fondare il movimento «Nuovo Risorgimento», che non venne riconosciuto dal Cln regionale e sconfessato nel settembre 1944; P. GRECO, Cronaca del Comitato piemontese di liberazione nazionale. 8 settembre 1943 – 9 maggio 1945, in Aspetti della Resistenza in Piemonte, Books Store, Torino 1977, pp. 183 e ss.; cit. da C. CHEVALLARD, Diario 1942-1945. Cronache del tempo di guerra, a cura di R. Marchis, Blu Edizioni, Torino 2005, p. 218. Sulla sua esperienza partigiana cfr. E. PISTOI-E. REISOLI MATTHIEU-A. ROSSO, Il nuovo Risorgimento italiano. Storia di una stroncatura, a cura di U. Costamagna, prefazione di F. Bertolino, Tip. Anrò, Torino 1946. 11 Le cartoline si trovano in APFB. 12 Necrologio di Sandra Assone, in «Le Madonie», 16, 15 ottobre 1992, p. 5. 10

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Gentile Signora, grazie alla sua lettera ho potuto avere l’indirizzo che desideravo. Sarà così buona di esternare ai familiari del carissimo Giuseppe tutta la mia simpatia e la mia partecipazione al loro grande dolore. Dite loro che fra i molti amici di Beppe vi sono anch’io che lo ho tanto stimato ed amato, che ho condiviso con lui ansie, sacrifici, pericoli e anche qualche gioia. Che ho vissuto un periodo idealmente significativo della sua vita e che attraverso la familiarità e la comunanza di idee si era stabilita un’amicizia sincera, profonda che non sarebbe bastata un’intera esistenza a cancellarla. Il Suo ricordo rimarrà sempre vivo nella mia anima e mi sarà di guida e di conforto nei momenti più delicati, poiché da Lui ho attinto la fede nella realtà delle cose e delle virtù che a volte sembrano pure immaginazioni della nostra mente. Soltanto nella pratica dell’onestà e della rettitudine si può credere in esse, soltanto nella dimostrazione di ciò che noi pensiamo ideali possiamo vederne la realizzazione. L’affetto e la gratitudine che nutrivo per Lui sono immensi e sarei felice se potessi riversarli sui suoi cari. Sono contento che le sue care spoglie siano tornate a riposare nella sua terra così generosa. Essa sola potrà dar Loro il riposo prematuro ma meritato all’Eroe nostro. È l’unica soddisfazione in tanto dolore. Spero che la sua presenza possa lenire un poco le pene di chi aveva il diritto di vederlo vivere e di partecipare alla sua felicità. Dite loro che sono tanto vicino con il cuore e che seguo con intima commozione tutti i moti del loro spirito. Porgete loro il mio caldo voto di serenità, di pace e l’augurio sincero affinché il fiero ricordo di un’anima così bella sia il loro maggiore conforto.

Pistoi si mise in contatto con la famiglia di Giuseppe Bonomo decenni dopo. Il 24 novembre 2000 scrisse alla sorella Angela questa lettera: Cara Signora Angela, con grande piacere ho ricevuto la sua telefonata: l’attendevo per avermela preannunziata l’editore del mio libro che è uscito da diversi anni anche se “Famiglia Cristiana” ne ha riparlato di recente insieme con l’episodio del Carcere Militare nel quale Suo fratello mi fu compagno. Di Lui io e mia moglie abbiamo un ricordo incancellabile. Era con me ogni giorno in quel periodo, fino al momento del mio arresto, o meglio del mio ultimo arresto. Quando c’era qualcosa di importante e rischioso da fare, lui era immancabilmente con me, il più fidato, il più sicuro, il più coraggioso. Del resto, il suo eroismo ebbe severa prova nei momenti più difficili che dovette attraversare, proprio quando la nostra lotta per le libertà volgeva al termine. Anche mia moglie ha di Lui un ricordo affettuoso: quando ero in prigione veniva a trovarla, a confortarla e altrettanto faceva con la mia mamma. Cara Signora, sarei felice di conoscerLa, di incontrarLa. Se avesse occasione di venire a Torino, la casa sarebbe per Lei aperta, non lo dimentichi. Non so come sia composta la Sua famiglia (io ho cinque figli, nove nipoti, quattro pronipoti): a tutti comunque porgo auguri di ogni bene e un abbraccio affettuoso nel ricordo di un uomo raro che da tempo ci ha lasciati. Io lo ricordo sempre giovane come era allora, buono, dolce, motivato negli ideali, fedele nell’amicizia13.

Nel libro Pistoi scrisse la seguente dedica: «Ad Angela Bonomo nel ricordo del fratello Giuseppe uomo giusto, partigiano valoroso, amico dolcissimo».

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A Giuseppe Bonomo venne riconosciuto il «Certificato al Patriota», numero 329087, dal maresciallo Harold Rupert Alexander, comandante supremo alleato delle forze nel Mediterraneo centrale, con queste parole: NEL NOME DEI GOVERNI E DEI POPOLI DELLE NAZIONI UNITE, RINGRAZIAMO Bonomo Giuseppe DI AVERE COMBATTUTO IL NEMICO SUI CAMPI DI BATTAGLIA, MILITANDO NEI RANGHI DEI PATRIOTI TRA QUEGLI UOMINI CHE HANNO PORTATO LE ARMI PER IL TRIONFO DELLA LIBERTÀ, SVOLGENDO OPERAZIONI OFFENSIVE, COMPIENDO ATTI DI SABOTAGGIO, FORNENDO INFORMAZIONI MILITARI. COL LORO CORAGGIO E LA LORO DEDIZIONE I PATRIOTI ITALIANI HANNO CONTRIBUITO VALIDAMENTE ALLA LIBERAZIONE DELL’ITALIA E ALLA GRANDE CAUSA DI TUTTI GLI UOMINI LIBERI. NELL’ITALIA RINATA I POSSESSORI DI QUESTO ATTESTATO SARANNO ACCLAMATI COME PATRIOTI CHE HANNO COMBATTUTO PER L’ONORE E LA LIBERTÀ14.

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Le lettere, il libro e il certificato si trovano in APFB. 217


Fig. 1. Il partigiano castelbuonese Giuseppe Bonomo (APFB).

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Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari L’esempio della Roccella (Campofelice di Roccella, Palermo) nei secc. XII-XVIII PATRIZIA BOVA○, ANTONIO CONTINO*○, GIUSEPPE ESPOSITO○, SALVATORE GIGLIO# Introduzione Il pittoresco sprone roccioso carbonatico della Roccella (Campofelice di Roccella, Palermo), ad andamento c. NO-SE, è ubicato nel settore tirrenico della Sicilia centro-settentrionale, prospiciente sull’ampio e lunato golfo di Termini Imerese (quest’ultimo limitato ad E dalla Rocca di Cefalù e ad O dal Capo Zafferano), ad oriente del capoluogo regionale, tra Buonfornello e Capo Plaia. Il sito confina a N con il mare (verso cui si protende con l’apice della falesia, sormontato dai ruderi del castello medievale), ad O ed a S con la piana di Campofelice, ad E con il tratto terminale e la foce del torrente Lino-Roccella. Il luogo, esteso complessivamente circa un ettaro fu, senza alcun dubbio, il naturale punto di sbocco di un vasto e fertile entroterra1, gravitante sulle Madonie [fig. 1], collegato ad un diverticulum di importanti antichi assi viari. Ad un dipresso dalle vestigia superstiti del castrum2, seguono le suggestive strutture fortificate monumentali, in posizione dominante, del mastio dei Ventimiglia3 [fig. 2] che esibiscono reminiscenze del donjon romanico (quali il massiccio habitus parallelepipedo a tre elevazioni marcate da riseghe), e le rovine sia del burgum di origine medievale, disposti attorno al tipico cortile Dipartimento di Scienze della Terra e del Mare (DiSTeM), Università degli Studi di Palermo, via Archirafi 20, 90123 – Palermo; °Accademia Mediterranea Euracea di Scienze Lettere e Arti (A.M.E.S.L.A.), Via Gregorio Ugdulena, 62, 90018 Termini Imerese (Palermo); # Contrada Settefrati, 90015 Cefalù (Palermo). Ideazione: P. Bova, A. Contino. Rilievi e studi geologici: P. Bova, A. Contino, G. Esposito, S. Giglio; ricerche storiche, etimologiche ed archivistiche: P. Bova, A. Contino con il contributo di G. Esposito e di S. Giglio. 1 Cfr. H. BRESC–F. D’ANGELO, Structure et évolution de l’habitat dans la région de Termini Imerese, «Mélanges de l’École française de Rome», Moyen-Age, Temps modernes, t. 84, n° 2, 1972, pp. 361-402. 2 Cfr. G. SPATRISANO, lo Steri di Palermo e l’architettura siciliana del Trecento, Palermo 1972, pp. 168-177; G. SANTINI, Il castello di Roccella, Palermo 1984; S. MAZZARELLA–R. ZANCA, Il libro delle torri, Palermo 1985; F. MAURICI, Il Castello di Roccella, in «Sicilia Archeologica», XXVII, 85-86, 1994, pp. 49-75; ID., Roccella, una finestra sul Tirreno, «Kalós», VIII, n. 5, 1996, pp. 32-37; R. NOTO, La Roccella e il suo territorio nei secoli XII e XIII, in «Archivio Storico Siciliano», s. IV, VI, 1980, pp. 81-112; L. LO BUE, Campofelice di Roccella, memorie e testimonianze, Comune di Campofelice di Roccella 1988; F. MAURICI, Castelli medievali in Sicilia, dai Bizantini ai normanni. Sellerio, Palermo 1992, pp. 354-357; L. LO BUE, Campofelice di Roccella. Dal feudo alla Democrazia, Nuova Graphicadue, Palermo 2003; Provincia Regionale di Palermo. Piano Territoriale Provinciale di massima. Relazione illustrativa generale. Allegato 2 Centri storici urbani (n° 82 schede + tabella riassuntiva). Palermo, ottobre 2009, Inventario di Protezione del Patrimonio Culturale Europeo N° I-19-82-017 0.3, a cura d i G. Gangemi, pp. 42-43; L. LO BUE, Opera Omnia di Pasquale Cipolla, 2007; ID., As-Sahrah o Castrum Roccella fra Bizantini e Mussulmani, manoscritti arabi e accadimenti storici, Palermo 2014; CUCCO R. M., Il Castello di Roccella, in Palermo. Le Mappe del Tesoro. Venti itinerari alla scoperta del patrimonio culturale di Palermo e della sua provincia. Archeologia. I siti costieri, a cura di S. Vassallo e R. M. Cucco, Soprintendenza per i Beni culturali e ambientali di Palermo, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni culturali e dell’Identità siciliana, 2015, pp. 10-13; D. BARBERA, Castello di Roccella. Le stanze d’abascio e la cisterna della superstite Torre grande, in R. Termotto–G. Marino, Arte e storia delle Madonie. Studi per Nico Marino, associazione culturale “Nico Marino”, Cefalù 2016, voll. IVV, pp. 37-51; ID., Signori di Roccella e Bonfornello. Indagine per una storia della baronia di Roccella e del feudo di Bonfornello tra i secoli XVI e XVII, Milani, SiciliAntica, 2016; ID., Roccella seu Campofelice. Signori e popolo. Indagine per una storia economica e sociale nei secoli XVIII e XIX della signoria di Roccella e del suo nuovo sito con i primi abitanti, 2019. 3 Cfr. A. FIORINI, Il castello di Roccella: analisi archeologica di un sito fortificato medievale, in «Archeologia dell’Architettura», IX, 2004, pp. 69-87. *

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centrale con pozzo, sia del complesso acquedottistico (che meriterebbe ulteriori indagini), su arcate, per l’approvvigionamento idropotabile, protoindustriale ed irriguo, che si ritiene fosse alimentato dal Roccella, mentre sin dal 1631 è attestata l’esistenza del sistema irriguo che captava le acque dell’Imera settentrionale4. Il burgum nel 2006 è stato oggetto di un’apposita indagine archeologica, mentre, l’ambito territoriale è stato investigato alla fine degli anni 90’ del XX secolo5. La Roccella costituisce un emblematico esempio di un felice connubio tra il naturale assetto geologico e geomorfologico del sito e la millenaria attività antropica volta a sfruttare pienamente la rilevante valenza strategica e commerciale di questo sperone roccioso, ubicato allo sbocco in mare di un’importante via di penetrazione naturale nell’entroterra, attraverso la quale giungevano prodotti agricoli, caseari, legnami ed altre mercanzie6. Del resto, nel contesto dell’apogeo in Sicilia della monocultura del grano, soprattutto sotto il dominio della potente casata di origine ligure dei Ventimiglia7, la Roccella ebbe anche una notevole valenza economica, poiché svolse anche la funzione di Caricatore del Grano8, cioè di deposito transitorio di vettovaglie, specialmente di cereali e legumi, da sdoganare prima delle operazioni di carico-scarico. Inoltre, nella Roccella sorsero mulini a forza idraulica ed un opificio (trappeto) per la richiestissima e rinomata produzione zuccheriera, legata alle vicine coltivazioni di canna saccarifera (cannameli), note sin dal Quattrocento e, secondo lo storico Carmelo Trasselli, scomparse nell’ultimo ventennio del Seicento9. Si tratta, quindi, di qualcosa di simile al duplice ruolo di fortezza e di “azienda agricola”, ben attestato nell’Italia settentrionale10.

Cfr. D. BARBERA, Castello di Roccella. Le stanze d’abascio...cit., p. 40 e 45; Carta delle irrigazioni siciliane, Ministero dei Lavori Pubblici consiglio superiore, Servizio Idrografico Sezione autonoma di Palermo, pubblicazione n. 19 del Servizio, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1940 p. 58, Superfici totali irrigate ed asciutte: Campofelice di Roccella (n. 16), superficie totale: 1476 ha; superficie agraria (a): 1315 ha; superficie irrigata (b): 47 ha; superficie asciutta: 1268 ha; Rapporto % (b/a): 3,6. Atlante: tav. F. n. 259 Termini Imerese, scala 1:100000, zone irrigate da: Imera settentrionale e canale relativo (n. 9); Roccella (sponda destra). 5 Cfr., rispettivamente, R. GRADITI–S. VASSALLO, Il “Borgo” di età medievale e moderna del castello di Roccella (Campofelice di Roccella), «Notiziario Archeologico della Soprintendenza di Palermo», 25/2017, 60 pp.; R. M. CUCCO, Il territorio tra il fiume Imera e il torrente Roccella, in O. BELVEDERE, A. BERTINI, G. BOSCHIAN, A. BURGIO, A. CONTINO, R. M. CUCCO, D. LAURO (a cura di), Himra III. 2. Prospezione archeologica nella valle dell’Imera. Dipartimento di Beni Culturali Storico-archeologici, Socio-antropologici e Geografici, Sezione Archeologia, Università degli Studi di Palermo, L’Erma di Bretschneider, Roma 2002, pp. 231-375. 6 Cfr. P. CORRAO, Un castello, un assedio, un territorio: la Roccella, 1418, «Incontri e Iniziative. Memorie del Centro di cultura di Cefalù», III, 1986, pp. 37-50; 57-71. 7 Sulla casata, cfr. A. MOGAVERO FINA, I Ventimiglia. Conti di Geraci e conti di Collesano, baroni di Gratteri e principi di Belmonte: correlazione storico-genealogica, Arti Grafiche Siciliane, Palermo 1980; H. BRESC, I Ventimiglia a Geraci, in Geraci Siculo arte e devozione. Pittura e santi protettori, a cura di M. C. Di Natale, Comune di Geraci Siculo, 2007, pp. 9-10; O. CANCILA, I Ventimiglia di Geraci (1258-1619), «Quaderni –Mediterranea Ricerche storiche», associazione no profit “Mediterranea”, Palermo 2016, vol. 30, tomo I, pp. 13-31. 8 Cfr. Il tabulario Belmonte, a cura di E. Mazzarese Fardella, Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1983, p. 90, doc. 28, M. FAILLA, La Roccella, un presidio fortificato costiero dei Ventimiglia, in Alla corte dei Ventimiglia. Storia e committenza artistica, atti del convegno di studi (Geraci Siculo-Ganci, 27-28 giugno 2009), a cura di G. Antista, Bagheria 2010, pp. 119-125. 9 Cfr. C. TRASSELLI, Una cultura saccarifera del 1606, «Rivista di Storia dell’Agricoltura», anno VI, n. 1, marzo 1966, pp. 50-64. 10 Cfr. A. A. SETTIA, Tra azienda agricola e fortezza: case forti, “motte” e “tombe” nell’Italia settentrionale. Dati e problemi, «Archeologia Medievale», VII, 1980, pp. 31-54. 4

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I sistemi di fortificazione, e relative opere (ad es. mura, torrioni, argini artificiali, fossati, strade militari etc.), come ha saputo ben tratteggiare il geomorfologo ungherese Zoltán Ilyés, costituiscono degli esempi eloquenti di forme del paesaggio legate all’attività umana (Human landforms) e, nella fattispecie, di origine militare, quindi realizzate per fini difensivi e/o offensivi, secondo opportuni miglioramenti tecnologici sviluppatisi ed affinatisi nel corso dei secoli11. In relazione allo studio delle forme del paesaggio prodotte dall’attività antropica per fini militari, oltre ai metodi di ricerca proprie delle Scienze della Terra, appare indispensabile l’apporto delle discipline umanistiche legate alle Scienze storiche, quali ad es. l’archivistica, la storia dell’arte e dell’architettura militare, l’etimologia, l’archeologia etc. Il presente studio è un contributo del gruppo di lavoro “Geomorfologia antropogenica in Sicilia nel contesto mediterraneo” (progetto: “Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari in Sicilia”, responsabile scientifico: A. Contino), nel quadro dell’attività scientifica dell’Accademia Mediterranea Euracea di Scienze, Lettere e Arti (A.M.E.S.L.A.) di Termini Imerese (Palermo). Gli obiettivi attesi sono: a) investigare gli aspetti metodologici dell’indagine tenendo conto di un approccio multidisciplinare; b) realizzare studi mirati relativi alle modificazioni geomorfologiche prodotte dall’attività antropica e relative forme del paesaggio (landforms); e) sviluppare strategie di conservazione, tutela e valorizzazione dei man-made landforms come beni culturali non solo storico-architettonico o archeologico, ma anche geologici. Questo approccio di ricerca è già stato testato nel sito del distrutto castello di Termini Imerese12. Spigolature geomorfologiche ed etimologiche: da Roccamaris a ṣaḫrat ‘al ḥadîd/ḥarîr, da ‘aṣ ṣaḫrah a Rocella/(La) Rochella/Roccella. Toponimi analoghi a quello di Roccella sono presenti in Calabria ed in Sicilia. In Calabria: S. Maria della Roccella, nell’agro di Borgia (Catanzaro), sede di un’abbazia normanna, con torre omonima, sita in località Roccelletta del Vescovo di Squillace13; Roccella Ionica (Reggio Calabria)14; in Sicilia: Roccella Valdemone (Messina), già Roccella di Randazzo15; Roccella frazione di S. 11 Cfr. Z. ILYÉS, Military Activities: Warfare and Defence, in J. SZABÓ, L. DÁVID, D. LÓCZY (Eds.), Anthropogenic Geomorphology. A Guide to Man-Made Landforms, Springer, Dordrecht 2010, Chapter 14, pp. 216 e segg. 12 Cfr. P. BOVA–A. CONTINO, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950. «Esperonews, Giornale del Comprensorio Termini-Cefalù-Madonie», Lunedì, 14 Settembre 2020 15:20, all’indirizzo: https://www.esperonews.it (/2020091412527/categoria-g-z/terminiimerese/geomorfologia-antropogenica-legata-ad-attivita-militari-l-esempio-della-rocca-del-castello-diterminiimerese-dallantichita-al-1950.html#startOfPageId12527). 13 Cfr. A. RACHELI–R. SPADEA, La Roccelletta in Scolacium una città romana in Calabria. Il Museo e il Parco Archeologico, a cura di R. Spadea, Edizioni ET., Milano 2005, pp. 169-176. 14 In latino Rochella ed in greco ρογϰέλλας come attesta un documento normanno, dato a Palermo il 20 marzo VIII indizione 1145, nel quale Ruggero II conferma a Celsio vescovo di Squillace le donazioni contenute in tre diplomi pregressi e soprattutto quella della chiesa di detta località calabrese, cfr. F. TRINCHERA, Syllabus Graecarum Membranarum quae partim Neapoli in maiori tabulario et primaria bibliotheca partim in Casinensi Coenobio ac Cavensi et in Episcopali Tabulario Neritino iamdiu delitescentes et a doctis frustra expetitae, Cataneo, Neapoli MDCCCLXV, doc. CXXXIX, pp. 182-185. 15 Cfr. L. GENOVESE CAMARDA, Su Roccella Valdemone, Reale Ospizio di Beneficenza, Catania 1855, 66 pp.; P. SARDINA, Gli Spatafora di Randazzo e Roccella: una famiglia tra fedeltà e ribellione agli Aragonesi, «Quaderni Catanesi», anno VII, n. 14, 1985, pp. 491-522.

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Cataldo (Caltanissetta). Nella Francia occidentale, su un promontorio rivolto sull’Atlantico, protetto da due isole (Ile de Ré ed Ile d’Oléron), esiste il toponimo, etimologicamente equivalente, La Rochelle (nell’omonimo arrondissement, dipartimento Charente-Maritime, regione Poitou-Charentes). Possiamo dedurre, quindi, una comune origine di questi toponimi di ascendenza romanza16, nello specifico, di ambito franco-normanna. Le fonti latine di epoca normanna attestano il toponimo Roccamaris, divenuto poi Rochella/Rocella/Roccella. Sia pure in maniera dubitativa, Michele Amari ed Auguste-Henri Dufour identificarono il sito di Roccamaris, ricordato nella bolla di papa Gregorio VII (Ildebrando di Soana, 1073–1085), datata 1082 VI indizione, che sanciva la giurisdizione della diocesi di Troina (voluta da Ruggero I), con quello di Roccella17. Il toponimo, si trova menzionato ancora nella bolla di papa Urbano II (Oddone de Châtillon, 1088–1099), datata 10 ottobre 109818, in relazione alla chiesa di S. Giovanni (sancti johannis de rocca de mari), inclusa tra i possedimenti che Ruggero I concedette all’abbazia calabrese di Mileto, intitolata alla SS. Trinità ed a S. Michele Arcangelo. S. Giovanni de rocca de mari, divenuto appannaggio della cattedrale di Cefalù, come attesta un diploma del gennaio XIVa indizione 1135 (1136), viene menzionato in relazione con il toponimo de rochella o de roccella/roccilla, piccola rocca, confermando quindi, in maniera incontrovertibile, l’identità del sito19. Ancora nel XV sec., è attestato il toponimo castello a mare di Roccella (castri ad mare rocelle), che per certi versi richiama quello più antico di Roccamaris. Nel 1154 c., il geografo islamico Abū ‘Abdallāh Muḥammad ibn Muḥammad ibn ‘Abdallāh ibn Idrīs al-’Alī bi-Amr Allāh al-Idrīsī, solitamente noto come al-Šarīf (leggi Sciarìf, titolo di distinzione, appartenendo egli al ramo hammudita andaluso della dinastia idriside del Marocco) al-Idrīsī o, semplicemente, al-Idrīsī, italianizzato in Idrisi (n. c. 1100; m. 1164-1165)20, come vedremo cita il sito di Roccella nella sua opera Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo (Nuzhat al-mushtāq fî ikhtirāq al-āfāq). Il trattato geografico di Idrisi è altresì noto come Libro di Ruggero (Kitāb Ruğār), Italiano rocca; francese roche; provenzale, portoghese e spagnolo rocha; catalano e gaelico roc; basco arroca; inglese rock; tedesco spinnrocken; olandese rots, cfr. F. DIEZ, Etymologische vörterbuch der romanische sprachen, Marcus, Bonn 1859, pp. 293-294; Rocca, castellum vel præsidium in rupe seu clivio extructum, cfr. C. DU FRESNE DU CANGE, Glossarium Ad Scriptores Mediae et Infimae Latinitatis. Ed. Novissima Insigniter Aucta. Jungium, Francofurti ad Moenum MDCCX, 3 tomi, tomo III, p. 686, dove vengono citati gli Annales regni Francorum (cfr. Annales regni Francorum (741-829) qui dicuntur Annales Laurissenses maiores et Einhardi. Ed. F. Kurze, post editionem G. H. Pertz, in «Scriptores rerum germanicarum in usum scholarum», 6, Hannover 1895) relativi all’anno 767 nei quali è già attestato il lemma rocca. 17 Cfr. M. AMARI–A. H. DUFOUR, Carte comparée de la Sicile moderne avec la Sicile au XIIe siècle d’après Édrisi et d’autres géographes arabes, Plon, Paris 1859, Index topographique de la Sicile au Moyen Age, p. 47; R. PIRRO, Sicilia sacra disquisitionibus et notiis illustrata, tomus primus, editio tertia emendata, et continuatione aucta cura et studio S. T. D. D. Antonini Mongitore. Accessere additiones et notitiae abbatiarum ordinis sancti Benedicti, Cisterciensium et aliae quae desiderabantur, auctore P. Domino V. M. Amico, Panormi [Venetia] 1733, tomus primus, p. 495; F. BONANNO, Memorie storiche della città di Troina del suo vescovado, e dell’origine dell’Apostolica Legazia in Sicilia, Pastore, Catania MDCCLXXXIX, p. 69. 18 Cfr. P. KEHR, Papsturkunden in Rom, «Göttingische Nachrichten», 1900, pp. 111-197, in particolare p. 150. 19 Cfr. L. T. JR. WITHE, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, [Cambridge Mass. 1938] trad. it. di A. Chersi, Dafni, Catania 1984, doc. XIV, pp. 398-400; R. NOTO, La Roccella e il suo territorio nei secoli XII e XIII...cit., p. 87; Rogerii II regis diplomata latina, ed. C. Brühl (Codex diplomaticus regni Siciliae. Series I. Diplomata regum et principum e gente Normannorum 2, 1), Böhlau Velag, Köln-Wien, 1987, XVI-426 pp., in particolare, D Ro. II. 42, pp. 117-118. 20 Cfr. T. LEWICKI, A propos de la genèse du Nuzhat al-Muštaq fi ihtiraq al-afaq d’al-Idrisi, «Studi Magrebini», 1, 1966, pp. 41-55; IDRISI AL-, Opus geographicum, sive Liber ad eorum delectationem qui terras peragrare studeant [= Nuzhat al-muštaq fi ihtiraq al-afaq], Leiden-Napoli-Roma, 1955-1984; G. OMAN, Al-Idrisi in Encyclopédie de l’Islam, Vol. III, Nouvelle Edition, Leiden-Paris 1971, pp. 1032–1035; J.-C. DUCÈNE, Les œuvres géographiques d’al-idrīsī et leur diffusion, «Journal Asiatique», 305(1), Janvier 2017, Peeters, pp. 33-41. 16

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denominazione per l’appunto legata all’incarico, da parte di Ruggero II (1105-1154), di redigere una dettagliata descrizione del mondo conosciuto. Per convenzione, per i codici di tale opera conviene utilizzare le sigle proposte da Amari, corrispondenti alle prime lettere maiuscole dell’alfabeto: A e B, che si conservano nella Bibliothèque National de France (Paris), Département des manuscrits, con le segnature, rispettivamente, ms. Arabe 2222 (Supplément arabe 893) e ms. Arabe 2221 (Supplément arabe 892); il primo, giudicato dall’Amari di mediocre qualità, in carattere africano, scritto ad Almeria (Spagna) l’anno 1343-44; mentre il secondo, datato fine XIII inizio del XIV secolo, è unanimemente considerato il migliore dei manoscritti di Edrisi, in carattere nasḫî di Siria od Egitto, corredato da 1 planisfero e 68 carte geografiche colorate; C e D (che si conservano nella Bodleian Library, Department of Oriental Collection, University of Oxford, con le segnature, rispettivamente Pococke 375 (Uri n. 887) e Grav. 3837-42 (Uri n. 884), il primo, che fa parte della Oriental Manuscripts Pococke Collection raccolta da Edward Pococke (1604-91), primo docente di arabo ad Oxford, mostra frequenti scambi di lettere e, talvolta, di lezione incerta, copia redatta al Cairo da ‘Alī ibn Ḥasan al-Hūfī al-Qāsimī, completata il 13 Sha’ban 960 (25 luglio 1533) e corredata da carte molto belle, ma più scarne di informazioni rispetto al B; mentre il secondo è elegante, ma incompleto, contenendo tre sole sezioni (non comprendenti la Sicilia) e carte relative21. Ulteriori copie, alcune provviste di carte, sono state recentemente rintracciate. Ad es., nel 2000 lo studioso Angelo Cutaia ha pubblicato la carta a colori della Sicilia, contenuta nel manoscritto datato 1556, ai segni ms. Or. 3168, quest’ultimo custodito nella Biblioteca Nazionale della Bulgaria, SS. Cirillo e Metodio di Sofia22. Relativamente a Roccella, la traduzione italiana del testo di Idrisi, L’Italia descritta nel Libro di re Ruggero, curata dagli arabisti Michele Amari e Celestino Schiaparelli23, così recita: «A dodici miglia dalla detta fortezza [Bûrqâd, Brucato, i cui ruderi appaiono sul Monte Castellaccio] è ṣaḫrat ‘al ḥadîd («la rupe di ferro», Roccella fino al XVIII secolo, in oggi comune di Campofelice), picciol casale con un forte in cima della rupe, la quale si avanza, scoscesa d’ogni banda, su la spiaggia del mare. Dalla parte di terra le si stende una spianata di sabbia (detta in oggi Piana di Roccella) e [poi] de’ buoni poderi e delle fertili terre da seminare». La lezione del toponimo arabo, preferita nella traduzione predetta, è ṣaḫrat ‘al ḥadîd, cioè «la rupe di ferro». Abbiamo contezza di tale scelta nella nota a piè della pagina 28: «Così leggo col Fleischer, secondo il codice C, invece di ‘al ḥarîr «della seta» che abbiamo in A e B. Si avverta che la medesima lezione ‘al ḥarîr è data da un diploma arabico del 1145 presso Cusa24, Dipl[omi]., greci e arabi ecc. pag. 479 lin[ea]. 10». Si allude al massimo arabista tedesco dell’Ottocento, prof. Heinrich Fleischer (Schandau 1801 - Lipsia 1888), docente a Lipsia e Consigliere Cfr. M. AMARI, C. SCHIAPARELLI, L’Italia descritta nel Libro di re Ruggero, Atti R. Accademia Lincei, Anno CCLXXIV, 1876-77, s. II, vol. VIII, Salviucci, Roma 1883, p. xiv; M. PINNA, Il Mediterraneo e la Sardegna nella cartografia musulmana (dall’VIII al XVI secolo), vol. II, Nuoro 1996, pp. 52-53 e 62-63; per i codici B ed A: https://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc209771 e /cc301474; per il codice C: https://digital.bodleian.ox.ac.uk/inquire/p/ced0d8bd-1019-4af2-9086-e411115f1507 22 Cfr. A. CUTAIA, L’itinerario arabo-normanno Sutera Agrigento nel libro di al-Idrisi. Il tracciato e gli abitati. Siculgrafica, Villaggio Mosé, Agrigento, 2000, 160 pp., in particolare pp. 108-109. 23 Cfr. M. AMARI–C. SCHIAPARELLI, L’Italia descritta...cit., pp. 28-29. 24 Cfr. S. CUSA, I diplomi, greci e arabi di Sicilia pubblicati nel testo originale, tradotti ed illustrati, Lao, Palermo 1868 [187478], 2 tomi, I, Diplomi della chiesa di Cefalù, II, pp. 472-480; Tabulario della Mensa Vescovile di Cefalù 1123-1551, Soprintendenza Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, Inventario-Regesto, a cura di S. Falletta, doc. n. 2: platea, ossia ruolo arabo-greco di villani, appartenenti alla chiesa di Cefalù. 21

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della Società Orientale di Germania, altrove ricordato dallo stesso Amari25: «primo promotore della Biblioteca Arabo-Sicula, il quale m’aitò sempre col suo patrocinio e col suo grande sapere». Da notare che la traduzione in lingua francese, basata sui due codici parigini, curata da Pierre Amédée Jaubert (Aix-en-Provence 1779 - Paris 1857), docente di lingua persiana nel Collège de France e di lingua turca presso l’École Spécial des Langues Orientales, che presenta nella sua interezza il Kitāb Ruğār (edita nella Recueil de voyages et de mémoires della Société de Géographie de Paris, tomi V e VI, stampata presso Arthus Bertrand, rispettivamente nel 1836 e nel 1840), mostra qualche rilevante differenza rispetto a quella di Amari-Schiaparelli26. La frase iniziale del testo di Jaubert collima abbastanza con la traduzione di Amari-Schiaparelli, poiché si legge che la Roccella è un «piccolo forte costruito su un capo scosceso che s’avanza sul mare» (petit fort bâti sur un cap escarpé qui s’avance sur la mer), mentre dissente parzialmente nel secondo passo, laddove leggesi: «dalla parte di terra vi sono delle dune sabbiose, dei campi fertili e dei luoghi perfettamente coltivati» (du coté de la terre sont des dunes sablonneuses, des champs fertiles et des lieux parfaitement cultivés). In effetti, un vero e proprio sistema deposizionale di barriera dunare litoranea-laguna, scoperto e segnalato per la prima volta da Antonio Contino27, caratterizzava il paesaggio costiero oggi compreso tra il settore orientale del territorio di Termini Imerese e quelli di Campofelice di Roccella e di Lascari. Questo sistema deposizionale, ubicato tra le foci dei fiumi Torto, Imera settentrionale, Roccella e Piletto, che non dovette sfuggire all’acuto occhio osservatore di Idrisi, era costituito da:

1. una lunga fascia di dune sabbiose estesa circa 18 km, disposta parallelamente al lido, oggi visibile discontinuamente a seguito dell’intensificarsi dell’impatto antropico durante il Ventesimo secolo e nell’ultimo ventennio; 2. aree umide, lacustri (spesso evolute a palustri), alcune delle quali documentate sin dal Millecento28, collocate in un settore immediatamente retrodunare, dove cresceva una fitta vegetazione ripariale, i cui resti si andavano progressivamente accumulando sul fondo29.

Cfr. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, versione italiana, Loescher, Torino-Roma 1880-89, 2voll., II, Appendice, Prefazione, p. V. 26 Cfr. P. A. JAUBERT, Géographie d’Édrisi traduite de l’arabe en français d’après deux manuscrits de la bibliothèque du Roi et accompagnée de notes. Tome second. Recueil de voyages et de mémoires publié par la Société de Géographie. Tome sixième, Bertrand, Paris 1840, p. 79; A. CONTINO, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centrosettentrionale), Giambra Editori, Termegrafica, Terme Vigliatore, Messina, pp. 77-78. 27 Cfr. A. CONTINO, Geologia e Geomorfologia della bassa valle del fiume Imera settentrionale, in: BELVEDERE, et al. (a cura di), Himera III. 2...cit., pp. 25-48; A. CONTINO, Aqua Himerae...cit., p. 72 e pp.75-78. 28 Nel privilegio di Ruggero II, bilingue, greco-latino, datato marzo Xa indizione 1132 (6640 dalla creazione del mondo), che designa i confini delle terre comprese nella giurisdizione diocesana della nuova sede vescovile di Cefalù, è citato il luogo detto Pantanum: et inde descendit per flumen ipsum (fiume Torto) usque ad pantanum quod est in parte orientis ad chandac (vallone) harse, identificabile con il fiume di Gratteri, l’attuale Piletto, cfr. G. SPATA, Le pergamene greche esistenti nel Grande Archivio di Palermo, Clamis e Roberti, Palermo 1862, s. II, Chiesa e Vescovado di Cefalù, III, pp. 423428. 29 Nel 1866, il naturalista termitano Saverio Ciofalo (1842-1925) relativamente alla zona umida di Cannemasche, scriveva che «giace una vastissima pianura intersecata dal fiume Torto, di portentosa feracità, particolarmente in quella parte, che resta al di là del fiume. Un gran tratto di essa fu sino a cinquant’anni fa pantano, che non produceva se non piante palustri; l’annuale decomposizione di esse venne tratto tratto colmando la superficie e formò un suolo, cui quasi impropriamente si dà il nome di terra, essendo in realtà un ammasso di vegetabili putrefatti da secoli. Oltracciò questo suolo è così abbondante di acqua, che se ne trova in qualunque sito a poca profondità: 25

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Questi ambienti umidi, dopo l’esaurirsi dei cannameleti, furono utilizzati dapprima come risaie, attestate sin dal 1713, le cui esalazioni esiziali ammorbavano l’aria, dando origine a polemiche relative alla salubrità30, e successivamente per la cotonicoltura. Tornando alle due versioni del toponimo islamico di Roccella, ṣaḫrat ‘al ḥadîd, «la rupe di ferro» e ṣaḫrat ‘al ḥarîr «la rupe della seta», rimane di tentare di scoprirne l’origine. Il termine arabo ḥadîd/ḥadîda(t), che letteralmente significa ‘ferro’, potrebbe richiamare alla robustezza della rupe e/o della fortezza, ed è probabile che possa essere questa la motivazione del Fleischer nel preferire questa lezione del testo di Idrisi, rispetto ad harîr ‘seta’ (menzionata dai codici A e B e da un diploma arabico del 1145), che potrebbe alludere alla presenza di gelseti per la bachicoltura e relativo opificio per la manifattura serica, che allo stato attuale delle conoscenze, ha un’attestazione molto più recente31. Il lemma islamico ḥadîd/ḥadîda(t), nei dizionari arabi32 esibisce anche il significato di ‘spada aguzza (di ferro)’ che, a nostro avviso, in senso figurato, si attaglia perfettamente non solo con la conformazione morfostrutturale e planimetrica della Roccella, ma anche con la precisa ed efficace descrizione di Idrisi: «rupe, la quale si avanza, scoscesa d’ogni banda, su la spiaggia del mare». Secondo questa nostra interpretazione, qui proposta per la prima volta, il toponimo assume una precisa connotazione geomorfica che ben si confà all’acuto spirito di osservazione tipico della mentalità e della cultura arabo-islamica. Da notare che, ancora Idrisi33, attesta una forma abbreviata del nome arabo di Roccella:’aṣ ṣaḫrah, cioè ‘la rupe’ o ‘la roccia’ o ‘la rocca’ o ‘la grande pietra molto compatta’, da un punto di vista etimologico34 anch’essa di notevole valenza geomorfica e che corrisponde in pieno con le caratteristiche geologiche e geomorfologiche del sito. Infine, relativamente al lemma arabico ḥarîr ‘seta’, ci preme evidenziare la somiglianza con ḥarîz ‘fortificato’35, per cui non è da escludere una possibile svista dei copisti. Il dibattito relativo all’etimologia del toponimo islamico della Roccella, allo stato attuale delle ricerche, rimane comunque aperto.

onde la terra ha una perenne naturale irrigazione». Cfr. S. CIOFALO, Topografia di Termini-Imerese e suoi dintorni, Perino, Palermo 1868, p. 14. 30 Cfr. B. ROMANO, Notizie storiche intorno alla città di Termini dal 1660 al 1838, ms. 1838, Biblioteca comunale di Palermo, ai segni 4 Qq D 78, edizione a stampa a cura di A. Contino–S. Mantia, GASM, Termini Imerese 1997, pp. 43-75, in particolare p. 43 e pp. 46-47; M. DI MICHELE-DI NAPOLI, Considerazioni di economia agraria sopra la industria del cotone e del riso, con una memoria in appendice pubblicata nel 1846 sulla utilità di sostituire la coltivazione del cotone alle micidiali risaie, Morvillo, Palermo 1863. 31 Nel Termitano i gelseti e la bachicoltura sono ben documentati nel Seicento, cfr. B. ROMANO, Notizie storiche intorno alla città di Termini...cit. pp. 47-48; secondo G. E. ORTOLANI, Nuovo dizionario geografico, statistico, e biografico della Sicilia antica e moderna colle nuove divisioni in intendenze, e sottintendenze, Abbate, Palermo 1819, p. 136, da Roccella si esportava ancora seta. 32 Cfr., ad es., F. STEINGASS, The student’s arabic dictionary, London, Crosby Lockwood and Son, 1248 pp., in particolare p. 268: Ḥadid, pl. Ḥada’id ‘iron’, armour, helmet; Ḥadida-t pl. Ḥada’id ‘piece of iron’, sharp sword, weapon, iron tool. 33 Cfr. M. AMARI–C. SCHIAPARELLI, L’Italia descritta...cit., p. 68. 34 Cfr., ad es. A. KAZIMRSKI DE BIBERSTEIN, Dictionnaire arabe-français. Nouvelle édition, Maisonneuve, Besson & Chantemerle, Paris 1960, 1392 pp., in particolare p. 1317a. 35 Cfr. F. STEINGASS, The student’s arabic dictionary cit. p. 274. 225


Lineamenti geologici e geomorfologici relativi al sito della Roccella Il sito della Roccella, almeno sino ad oggi, curiosamente sembra rimasto misconosciuto nell’ambito degli studi geologici e geomorfologici, nonostante meriti approfondite indagini, mentre siamo qui costretti, per evidenti motivi di spazio, a darne un breve ragguaglio, con l’auspicio che future dettagliate indagini (sedimentologiche, paleontologiche, geochimiche etc.), possano gettare nuova luce su questo emblematico affioramento pertinente alla cosiddetta formazione Baucina36 i cui depositi datano allo stage Messiniano e, precisamente, tra 6,44 e 5.96 milioni di anni37. I calcari di Roccella [cfr. cartografia geologica e geomorfologica in fig. 3], si presentano abbastanza compatti sui toni biancastri o bianco-giallastri, a luoghi, con variazioni cromatiche rossastre. Sono esposti nella falesia costiera, intagliata alla base da un solco di battente, per un’altezza massima c. 6-7 m e per una lunghezza di una trentina di metri, che interrompe la monotonia della fascia litoranea, orientate ENE – OSO, altrimenti sufficientemente rettilinea, ad eccezione delle foci. L’affioramento, costituisce un piccolo alto morfostrutturale (pilastro tettonico od horst), cioè un blocco roccioso delimitato da scarpate di faglia e/o di linea di faglia degradate. Questi calcari, possono essere assimilati a delle biocostruzioni di scogliera, essendo caratterizzati dalla ripetuta presenza di laminazioni calcaree stromatolitiche, interpretabili come antichi tappeti algali (facies ad alghe calcaree) che, a loro volta, venivano periodicamente “colonizzati” da altri organismi di mare basso (coralli di scogliera, spugne, briozoi, brachiopodi, molluschi, echinidi, crostacei, organismi tubicolati etc.), che hanno contribuito alla “armatura” della biocostruzione [fig. 4]. Biocostruzioni algali, tipiche di un ambiente infralitorale, affiorano diffusamente nelle sponde del Mediterraneo e, in particolare, tramite superfici di erosione più o meno accentuate, ricoprono generalmente le porzioni sommitali delle ultime scogliere coralline fossili (chiaramente oligospecifiche essendo rappresentate soprattutto dal genere Porites, capace di adattarsi a condizioni climatiche ed ambientali ristrette), dell’era Terziaria come nei spettacolari esempi del Mediterraneo occidentale, tra i quali va ricordata la sezione di Santa Pola presso Alicante, nella Spagna meridionale38. Questi depositi testimoniano l’instaurarsi, nel corso del Messiniano, della riduzione progressiva delle vie di comunicazione tra Mediterraneo ed oceano Atlantico, che sfociarono poi nella creazione di un vero e proprio bacino evaporitico. 36 La denominazione deriva dalla sezione geologica tipo di questa formazione, affiorante nei dintorni di Baucina (Cozzo S. Pantaleo), cfr. L. ARUTA, G. BUCCHERI, Biostratigraphy and paleoecology of the Early Messinian carbonates (Baucina Fm.) in western Sicily, «Memorie della Società Geologica Italiana», 16, 1976, pp. 141–152, 4 figg.; R. CATALANO, Scogliere ed evaporiti messiniane in Sicilia. Modelli genetici ed implicazioni strutturali, Lavori Istituto di Geologia, Università di Palermo, 18, 1979, 20 pp., Stass, Palermo; G. LO CICERO, E. DI STEFANO, R. CATALANO, R. SPROVIERI, M. AGATE, A. CONTINO, G. GRECO, G. MAURO, The Ciminna Messinian basin Cyclical sedimentation and Eustatic Control in a Transpressive Tectonic Setting. in: R. CATALANO (Ed.), Guidebook, Field in Western Sicily, 8th Workshop of the ILP Task Force “Origin of sedimentary Basins”, Palermo (Sicily) June 7-13, 1997, Netherlands Research School of Sedimentary Geology, Geomare sud––CNR, Napoli; Società Geologica Italiana, Dipartimento di Geologia e Geodesia, Università degli studi di Palermo, 1997, pp. 71-86. 37 Cfr. R. SPROVIERI, S. BONOMO, A. CARUSO, A. DI STEFANO, E. DI STEFANO, M. L. FORESI, S. M. IACCARINO, F. LIRER, R. MAZZEI, F. SALVATORINI, An integrated calcareous plankton biostratigraphic scheme and biochronology for the Mediterranean middle Miocene, «Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia», 108, 2002, pp. 337–353. 38 Cfr. J.-M. ROUCHY, J.-P. SAINT-MARTIN, A. MAURIN, M.-C. BERNET-ROLLANDE, Évolution et antagonisme des communautés bioconstructrices animales et végétales à la fin du Miocène en Méditerranée occidentale; biologie et sédimentologie, «Bulletin– Centres de Recherches Exploration-Production Elf–Aquitaine», 10 (2), 1986, pp. 333-348.

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Nel 1994, Martyn Pedley e Mario Grasso, hanno riconosciuto che i depositi biocostruiti messiniani della Sicilia centro-settentrionale esibiscono due livelli, corrispondenti a due distinti episodi: quello inferiore mostra un assemblaggio prevalentemente a coralli poligenerici, mentre quello superiore esibisce scogliere a coralli monogenerici (Porites) con croste algali. Secondo questi autori, lo sviluppo delle croste algali sarebbe legato a periodiche condizioni ambientali ristrette dovute alla formazione di sotto-bacini, parzialmente isolate dal mare aperto a causa dei movimenti tettonici39. I calcari di Roccella hanno come termine di paragone più vicino la parte alta della sezione di Salemi40, dalla quale si discostano soprattutto per l’assenza di evidenti strutture biocostruite a duomo (build-up), di dimensioni metriche. Ricordiamo, infine, che nel fianco orientale del sito dove sorge l’abitato di Campofelice di Roccella, l’effetto erosivo prodotto dal corso d’acqua omonimo, dalla valle essenzialmente a V, ha messo in luce un altro affioramento della formazione Baucina [fig. 3], costituito prevalentemente da calcari bioclastici, ricoperto alla sommità, in discordanza, da depositi marini ciottoloso-sabbiosi del Pleistocene medio. Questi ultimi, mascherano la presenza dei depositi che, di regola, fanno seguito ai calcari bioclastici, cioè le evaporiti (gessi selenitici del Messiniano, ed i sovrastanti calcari marnosi biancastri (Trubi, Pliocene inferiore, attestanti il ritorno delle condizioni di mare aperto, affioranti nel versante settentrionale) che, in realtà, sono presenti nel sottosuolo dell’abitato, come attestano le stratigrafie di alcuni sondaggi geognostici. Da notare che rocce evaporitiche (argille gessose e gessi) sono state intercettate anche in sondaggi geognostici effettuati nella piana di Campofelice (ad una profondità compresa tra -18 m e -23,7 m dal p. c.). Lineamenti storici sulla fortezza della Roccella Le strutture del castrum, per l’incuria del tempo e degli uomini (leggi: autorità competenti), ridotte oggi a ruderi, appaiono realizzate in opus incertum, prevalentemente con ciottoli quarzarenitici e calcarei di origine fluviale (dal greto del Roccella) e, subordinatamente, da elementi litici calcarei lastriformi e/o scheggiati (probabilmente di reimpiego), rilegati da malta, sabbia fluviale e cenere di fornace (cinnirazzu). Questi parametri murari costituiscono un pallido barlume di un edificio castrense che doveva essere abbastanza imponente. Fortunatamente ne conosciamo quantomeno l’aspetto esteriore grazie ai disegni acquarellati di due toscani, Tiburzio Spannocchi (1575-78) e di Camillo Camilliani (1583-84). Tiburzio Spannocchi (Siena 1541 – Madrid 1606), ingegnere militare e cartografo, fu autore di una Descripcion de las marinas de todo el Reino de Sicilia, attualmente conservata nella Biblioteca Nacional de España in Madrid41, dove, a margine sinistro del f. 73, appare effigiato in piccolo

39 Cfr. H. M. PEDLEY–M. GRASSO, A palaeoenvironmental model for the Late Miocene reef and tripolaceous associations of Sicily and its relevance to aberrant growth-forms and reduced biological diversity within the Palaeomediterranean, «Géologie Méditerranéenne», 21, 1994, pp. 109-121. 40 Cfr. J. P. SAINT MARTIN, G. CONESA, J.J. CORNÉE, A new type of Messinian composite microbialitic build-up (Salemi, Sicily, Italy), Sedimentary Geology, 106, 1996, pp. 51-63; J. P. SAINT MARTIN, Implications de la présence de mud-mounds microbiens au Messinien (Sicile, Italie), «Earth and Planetary Sciences», 332, 2001, pp. 527–534. 41 Cfr. T. SPANNOCCHI, Descripcion de las marinas de todo el Reino de Sicilia. Con otras importantes declaraciones notadas por el Cavallero Tiburcio Spanoqui, del Abito de San Juan Gentilhombre de la Casa de su Majestad. Dirigido al Príncipe Don Filipe Nuestro Señor en el año de M DX CVI, ms. Biblioteca Nacional de España, Madrid, ai segni Ms. 788, 186 pp.

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bozzetto come appariva negli anni 1575-78, il castello de La Roccella, dalle fortificazioni coronate da merlature, dominate dal mastio, cinte da mura che le cingevano. Camillo Camilliani (Firenze, XVI secolo – Palermo, 1603) scultore, architetto, ingegnere e cartografo42, fu autore di una Descrizione della Sicilia e di una serie di splendide vedute acquarellate, datate 1583-84, tra le quali una molto elegante e minuziosa del castello e borgo di Roccella, simile a quella di Spannocchi, ma di più ampio respiro, tanto da esibire a S una serie di arcate dell’acquedotto. Nella veduta43, la fortezza esibisce almeno tre fila di aperture, in corrispondenza di altrettante elevazioni, ed è rinforzata da torri angolari merlate (di cui due raffigurate). Le rovine superstiti del castello oggi mostrano ambienti semi-ipogei provvisti di volta a sesto alquanto ribassato, generalmente con profilo a botte (dammusi), che sostenevano i locali del primo livello, oggi in gran parte visibili solo nella porzione apicale della falesia [fig. 5], però con elevazione ridotta e molto discontinua, comprendenti anche una stanza, parzialmente superstite in altezza sino a qualche anno addietro, che in sezione esibiva una copertura a calotta ottenuta con la messa in opera di anelli concentrici sovrapposti, a diametro decrescente verso la sommità, opportunamente realizzati con conci lapidei. A tutt’oggi, mancano indagini storico-architettoniche e, soprattutto, archeostratigrafiche. Per la descrizione di dettaglio della torre del mastio rimandiamo agli importanti studi di Spatrisano, Santini, Maurici e Fiorini, già citati nelle note. La prima fonte documentaria certa, relativa al castello Roccella, come abbiamo visto è Idrisi, il quale ricorda sia la fortezza o borgo fortificato (ḥiṣn) che il borgo aperto o casale44. Nel febbraio VIIIa indizione 1205, Paolo di Cicala45, conte di Collesano (Golisanum) ed Alife (Aliphia, oggi comune campano in provincia di Caserta), donò Roccella alla diocesi di Cefalù, retta dal fratello Giovanni (dal 1194-95 al settembre 1215). Il territorio di pertinenza era 42 Cfr. F. NERI ARNOLDI, Camilliani Camillo, in «Dizionario Biografico degli Italiani» (d’ora in poi DBI), vol. 17, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, 1974, ad vocem (cum bibl.); M. SCARLATA, L’opera di Camillo Camiliani, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1993. L. DUFOUR, Dalle piazzeforti al territorio: gli ingegneri militari e la cartografia in Sicilia tra ‘500 e ‘700. “Effigies Siciliae”, Società Geografica Italiana, Roma 1999, pp. 69-87; C. POLTO, La Sicilia di Tiburzio Spannocchi. Una cartografia per la conoscenza e il dominio del territorio, Istituto Geografico Militare Italiano, Firenze 2001. 43 Cfr. Ms. Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino ai segni Codex III.N.I.3, diviso in tre parti: la descrizione delle marine (16 ff.), una raccolta di vedute a china ed acquarellate (218 tavv.), indici relativi. M. SCARLATA, L’opera di Camillo Camiliani cit., tav. 215. 44 Sulla nomenclatura, cfr. CH. MAZZOLI-GUITARD, ḥiṣn, qal’a, qaṣaba…chez Idrīsī, «Qurṭuba», 3, 1998, pp. 95-111. Nell’anno 858 d. C., capitolò il qaṣr ‘al ḥadîd (castello di ferro) o qaṣr ‘al jadīd (castello nuovo), che Amari (cfr. M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, 3 voll., Le Monnier, Firenze 1854-1872, I, pp. 326-327, nota n. 1), rigettò una eventuale identificazione con Roccella propendendo per una individuazione con il pittoresco castello di Gagliano (oggi Gagliano Castelferrato, Enna). Quest’ultimo esibisce una rocca di arenarie quarzose, ricche di concrezioni ferro-manganesifere (flysch numidico, Oligocene superiore-Miocene inferiore). L’identificazione con Roccella è stata proposta da H. BRESC, Terre e castelli: le fortificazioni della Sicilia araba e normanna, in Castelli. Storia ed archeologia, atti del convegno, Cuneo, 6-8 dicembre 1981, a cura di R. Comba ed A. A. Settia, Torino 1984, pp. 73-87 e, in particolare, p. 74, da E. SANTINI, Il castello di Roccella, cit. p. 16 e, soprattutto, nella recentissima monografia di L. LO BUE, As-Sahrah o Castrum Roccella...cit. 45 Cfr. Tabulario della Mensa Vescovile di Cefalù 1123-1551 pergg. 131, voll. 3, Soprintendenza Archivistica della Sicilia, Archivio di Stato di Palermo, Inventario-Regesto, a cura di S. Falletta, doc. n. 40, l’anno dell’era cristiana è espresso secondo lo stile dell’incarnazione (computo pisano); sul Cicala, cfr. N. KAMP, Cicala, Paolo di, DBI, vol. 25, 1981, ad vocem (cum bibl.); R. NOTO, La Roccella e il suo territorio...cit. pp. 102-109.

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compreso tra il luogo detto Pantanum, contiguo al fiume di Gratteri (attuale Piletto), sino a quello del Siniscalco (attuale Fiume Grande o Imera settentrionale). Nel giugno IVa indizione 1216, il detto Paolo di Cicala, qualificato soltanto come conte di Collesano, assieme alla moglie, la contessa Sica, ed i figli Andrea, Simone e Matteo, donarono la loro Roccella, con altri beni e prerogative, all’abbazia di S. Maria de Monte Virgine46, quest’ultima fondata da S. Guglielmo da Vercelli (1085-1142) attorno al 1120, oggi nel territorio comunale di Mercogliano (Avellino). Il privilegio, redatto da tal Giuliano pubblico notaio di Palermo, specifica che Roccella era sita lungo il mare, topograficamente sottostante la regia via, nel tratto tra Termini e Cefalù (in gran parte ricalcata dalla strada per Messina andando per le marine, attuale statale 113 “Settentrionale Sicula”), con le sue pertinenze estese dal ponte di Gratteri (sul fiume omonimo, attuale Piletto), sino al fiume del Siniscalco (attuale Fiume Grande o Imera settentrionale). Il mulino di Roccella, donato all’abbazia totum cum aquis et Rationibus suis liberum et quietum, invece, era ubicato a monte della via regia. Oltre a ciò, l’abbazia ebbe anche tres partes della caccia ai conigli, durante la stagione venatoria, nel tenimento di Collesano e della stessa Roccella. Nel marzo VIa indizione 1218, Arduino II, succeduto l’anno precedente a Giovanni di Cicala nel vescovato di Cefalù, su istanza di Paolo di Cicala, conte di Collesano, concedette all’abbazia di Montevergini l’assenso per la costruzione di una chiesa nel castello della Roccella, sotto il titolo della Beata Vergine Madre di Dio, in uno con la conferma della donazione predetta, con tutti i diritti e tutti i tenimenti, che lo stesso conte aveva già concessi alla sua diocesi. Il conte, da parte sua, confermò d’autorità le libertà e le immunità spettanti al priore del luogo, obbligandosi per quest’ultimo al versamento, in favore della chiesa di Cefalù, a titolo di censo annuale, di mezza oncia d’oro nella festività della trasfigurazione di Cristo, oltre al vitto e l’alloggio nelle visite pastorali47. Nel maggio VIIa indizione 1219, Federico II di Svevia e I di Sicilia con privilegio dato ad Augusta, nuovamente donò e confermò all’abbazia di Montevergini tutte le donazioni e concessioni pregresse, compresa quella di Roccella, voluta da Paolo (Cicala) conte di Collesano48. Nel luglio IXa indizione e nell’ottobre Xa indizione 1221, con due privilegi imperiali dati entrambi nella felice città di Palermo, il luogo di Roccella (Roccella o Rocchella), in uno con la chiesa di S. Maria che era grangia monasterii (tenuta) e relativi possedimenti, furono concessi e confermati all’abbazia di Montevergini, anche se Federico II riservò per se il diritto, come già era avvenuto al tempo del re Guglielmo II (m. 18 novembre 1189), felicis recordationis, in praedicta Rocchella custodiam fieri faciamus, evidentemente da riferirsi alla custodia del locale castello49, già in uso durante il dominio normanno. Cfr. A. MASTRULLO, Monte Vergine Sagro, Del quale si descrive il Sagro Tempio, e Real Monasterio di Monte Vergine, come Capo, ch’è della Congregatione, detta di Monte Vergine, dell’Ordine di S. Benedetto, instituita da S. Guglielmo da Vercelli. Fregiato, con una Notitia de’ Monasterij de Monaci, e Monache, ch’hà havuto detta Congregatione, nell’Isola di Sicilia, Fusco, Napoli 1663, pp. 364-370; J.-L.-A. HUILLARD-BREHOLLES, Historia Diplomatica Friderici Secundi sive constitutiones, privilegia, mandata, instrumenta quæ supersunt istius imperatores et filiorum ejus, 6 tomi, Plon, Parisiis MDCCCLII-MDCCCLXI, tomus II, pars II, p. 920 nota n. 1; Regesto delle pergamene. Abbazia di Montevergine, a cura di G. Mongelli, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1956-1962, 7 voll., vol. II (1200-1249), 1957, doc. n. 1399. 47 Cfr. Regesto delle pergamene. Abbazia di Montevergine, a cura di G. Mongelli, cit., II, doc. n. 1419. 48 (…) «similiter etiam Pauli comitis Golisani Roccellam cum possessionibus et rationibus suis, in qua sita est ecclesia ad laudem Salvatoris et Beate Marie semper Virginis et molendinum et tres uncias auri de venatione cuniculorum in territorio ejusdem in partibus Sicilie, sicut in instrumentis et scripturis publicis eidem inde factis plenius continetur», cfr. J.-L.-A. HUILLARD-BREHOLLES, Historia Diplomatica Friderici Secundi...cit., I (I), pp. 631-633. 49 Cfr. J.-L.-A. HUILLARD-BREHOLLES, Historia Diplomatica Friderici Secundi...cit., I (I), pp. 197-199 e pp. 204-206. 46

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Durante la guerra ventennale tra angioini ed aragonesi che dilaniò la Sicilia dopo il Vespro, troviamo menzione, sia pure indiretta, della Roccella. Nella sua Historia Sicula il cronista fra Michele da Piazza, riferisce che all’albeggiare del giorno 11 maggio VIa indizione 1338, la flotta angioina, comandata da Charles d’Artois (Karolus Artus), figlio naturale di Robert d’Anjou, forte di 50 imbarcazioni tra galee ed altri legni, grazie ai venti propizi poté sbarcare tranquillamente nella marina del Siniscalco (nel testo erroneamente maniscalci invece di siniscalci) ovvero di Roccella (auricelle), da identificare con l’attuale piana di Roccella. Con l’Artois erano Federico ed Alduino Ventimiglia, figli del fu Francesco I, esuli alla corte angioina di Napoli. L’esercito francese, composto di 1200 elementi tra soldati e cavalieri, poté fare provvista d’acqua e di altre cose necessarie e ripartire (seguendo probabilmente la mulattiera lungo la sponda sinistra del Roccella) alla conquista della contea di Collesano e della baronia di Gratteri che capitolarono, rispettivamente il 13 ed il 14; mentre il 15 cadde Brucato e monte Sant’Angelo50. Nel 1354, i Ventimiglia ottennero dal giovanissimo re Ludovico, con due privilegi dati a Catania, rispettivamente il 15 ed il 20 giugno VIIa indizione51, dapprima la restituzione in toto del patrimonio confiscato agli eredi (compresi gli illegittimi) del defunto conte Francesco I e, successivamente, in favore esclusivo del solo Francesco II, la riconsegna della contea di Collesano, nonché di Gratteri e Caronia, con obbligo sia del servizio militare, che dello ius francorum, cioè di seguire l’asse ereditario patrilineare maschile ed il maggiorasco. Il 27 dicembre IXa indizione 1385, Francesco II Ventimiglia, conte di Geraci e di Collesano diede in permuta a Nicolò, vescovo di Cefalù il feudo di Albiri, nel territorio di Petralia Sottana, ricevendone in cambio il tenimentum di Roccella, comprensivo del castrum omonimo, nonché una casa grande ordinata e raddoppiata da solaio (domum magnam moratam et solaratam) a Polizzi52. L’atto, dato nella cittadina demaniale di Cefalù (probabilmente nell’Osterio Magno, dimora prediletta del conte), sanciva de jure un possesso che era già de facto, visto che il castello era già stato precedentemente ricostruito dal Ventimiglia a proprie spese, come ribadisce il documento: constructum est castrum per dictum dominum comitem suis propriis sumbtibus (sic) et expensis. Successivamente, si ebbe il definitivo regio avallo da parte dal re Martino I, con regio diploma addì 13 novembre 1a indizione 1392, al figlio Antonio53. Quest’ultimo, nel testamento paterno, datato 8 gennaio IXa indizione 1386, alla presenza di notar Pietro di Notarpietro, era stato nominato erede della contea di Collesano e della signoria di Gratteri, Isnello, le due Petralie,

50 Cfr. M. DA PIAZZA, Historia Sicula ab anno MCCCXXXVI1. Ad annum MCCCXXXLX1., in R. GREGORIO, Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, ex Regio Typographeo, Panormi MDCCXCIMDCCXCII, 2 voll., I, pars I, caput XV, pp. 511-780, in particolare, pp. 544-545. 51 Cfr. Documenti relativi all’epoca del Vespro tratti dai manoscritti di Domenico Schiavo della Biblioteca Comunale di Palermo, a cura di I. Mirazita, Comune di Palermo, 1983, pp. 197-208; Il tabulario Belmonte, a cura di E. Mazzarese Fardella, cit., pp. 64-70. 52 Cfr. Il tabulario Belmonte, a cura di E. Mazzarese Fardella, cit., pp. 113-119; G. L. BARBERI, I capibrevi, a cura di G. Silvestri, Palermo 1886, vol. II, I feudi di Val Demone, pp. 100-101; F. MAURICI, Il castello di Roccella...cit., pp. 50-51; H. BRESC–F. MAURICI, I castelli demaniali della Sicilia (secoli XIII-XV), in Castelli e fortezze nelle città italiane e nei centri minori italiani (secoli XIII-XV), a cura di F. Panero–G. Pinto, Cherasco, Centro Internazionale di Ricerca sui Beni Culturali, 2009, pp. 291-292; Tabulario della Mensa Vescovile di Cefalù 1123-1551, a cura di S. Falletta, cit., doc. n. 120: Polizzi Generosa, 1° aprile XII indizione 1419, Filippo vescovo di Cefalù, fece redigere il trasunto dell’atto del 1385, con cui il suo predecessore Niccolò assegnò il casale della Roccella a Francesco Ventimiglia, conte di Geraci e Golisano, permutandolo con il feudo di Albiri. 53 Cfr. Il tabulario Belmonte, a cura di E. Mazzarese Fardella, cit., pp. 125-148.

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Caronia, Termini, Roccella e Bilici54. Il caricatore di Roccella, protetto dal castrum, era strategicamente importante per i Ventimiglia che nel 1386 vi detennero 2000 tratte di frumento55. Morto il padre, Antonio Ventimiglia mostrò un’indole particolarmente bellicosa anche verso i propri familiari e più volte, con alterne vicende, si ribellò alla corona e si riappacificò coi Martini56, finché nel 1408, fu arrestato con l’accusa di tradimento e confinato nel castello di Malta (dove poi si spense nei primi mesi del 1415). Pertanto, la contea di Collesano fu retta dapprima da Enrico Rosso, poi dalla contessa Elvira (Alvira), seconda moglie di Antonio57. Nel 1412 c., Francesco Ventimiglia figlio di Antonio, con l’appoggio del fratello Giovanni (entrambi nati dalla prima moglie Margherita Peralta Aragona), ribellatosi, intervenne in armi, ma fu catturato a Collesano ed imprigionato dalla matrigna nelle prigioni del castello di Roccella. Riuscito rocambolescamente a liberarsi, ribaltò la situazione: eliminò il castellano, catturò la donna e la sorellastra Costanza e riuscì a contrastare l’assalto tentato da Giovanni Ventimiglia conte di Geraci. A Malta, il 9 dicembre VIIa indizione 1413, il conte Antonio nel suo nuovo testamento agli atti di notar Antonio Agrippardo, diseredò definitivamente i figli Francesco e Giovanni, nati dalla prima moglie Margherita Peralta Aragona, ed essendo morto Enrico, nominò erede universale la figlia Costanza (avuta dalla seconda moglie Elvira Moncada), che andò poi in sposa al catalano Gilberto Centelles, che nel 1418 ebbe poi riconosciuto il titolo di conte di Collesano58. Erede particolare fu nominato il nipote Giovanni Ventimiglia, conte di Geraci, per i feudi di Gratteri e Caronia59. Secondo lo storico spagnolo Jerónimo Zurita y Castro (Saragozza, 1512–ivi, 1580), nel 1414, durante l’esame della causa relativa al conte Antonio, i castelli di Geraci (Girachi) e della Roccella (La Rochela) restarono in potere del regio fisco60. Francesco, tentata inutilmente la via della diplomazia con un viaggio in Catalogna, tornò in Sicilia fomentando la rivolta, ma fu catturato. Temendo il dilagarsi della ribellione, i viceré Domenico Ram vescovo di Lerida ed Antonio Cardona, decisero di dare l’esempio inviando delle truppe regie per porre d’assedio Roccella (fine estate 1418), in mano a Giovanni Ventimiglia. Nel serratissimo accerchiamento furono utilizzate quattro bombarde, una delle quali enorme, realizzate a Termini e trasportate in loco via mare, ottenendo facilmente, dopo qualche colpo, la capitolazione del Ventimiglia61. 54 Cfr. A. MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana (1282-1390), Le famiglie feudali, «Mediterranea Ricerche storiche», Palermo 2006, p. 449. 55 Cfr. H. BRESC, Un monde méditerranéen. Economie et société en Sicile 1300-1450, Roma-Palermo 1986, 2 voll., I, p. 524 e p. 543. 56 Cfr. V. D’ALESSANDRO, Politica e società nella Sicilia aragonese, Manfredi editore, Palermo 1963, pp. 133-142; Il tabulario Belmonte, a cura di E. Mazzarese Fardella, cit., pp. 148-164 e pp. 200-212. 57 Cfr. O. CANCILA, Castelbuono medievale e i Ventimiglia, «Quaderni Mediterranea Ricerche storiche», 12, Associazione Mediterranea, Palermo 2010, p. 107. 58 Cfr. H. BRESC, Ventimiglia et Centelles, in ID., Politique et societé en Sicile, XIIe-XVe siècles, Variorum, Aldershot 1991, pp. 360-362. 59 Cfr. O. CANCILA, Castelbuono medievale e i Ventimiglia...cit., pp. 106-113. 60 Cfr. J. ZURITA Y CASTRO, Anales de la corona de Aragón, a cura di Á. Canellas López, voll. 9, Institución Fernando el Católico, Zaragoza, 1967-1986), t. III, lib. XII, cap. XXXVI, Libertad del conde de Veintemilla, y lo que en esto hubo, p. 243 dell’edizione on line sul sito www.dpz.es/ifc2/libros/fichas/ebook2473_ 5asp, ultimo accesso 1.10.2020; Il tabulario Belmonte, a cura di E. Mazzarese Fardella, cit., p. 113, doc. 33.9. 61 Cfr. P. CORRAO, Un castello, un assedio, un territorio...cit. p. 68.

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Nel 1434, mantenendo la sua rilevanza strategica ed economica, Roccella fu concessa da Alfonso di Trastámara detto il Magnanimo, I di Sicilia, al proprio fratello Pietro, signore delle terre di Tarrasa, Vilagrasa e Tàrrega in Catalogna, che nel suo testamento è qualificato come duca di Noto e signore delle terre di Piazza (oggi Piazza Armerina), Caltagirone, Aci (oggi Acireale) e del castello a mare di Roccella (castri ad mare rocelle), e che si spense nella piazza del Carmine in Napoli il 18 ottobre IIa indizione 143862. Nello stesso anno, Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci, per i servigi resi alla corona, ebbe la castellania di Roccella vita natural durante (ereditaria dal 1440), con il diritto di esercitarvi la giustizia civile e criminale, nonché una rendita di 300 onze annuali relativa all’estrazione dal locale caricatore, esente da dazi, quali i diritti di tratta e tarì63. Nel suo ultimo testamento, rogato da notar Andrea Perdicaro di Polizzi il 20 marzo VIIa indizione 1474, il detto marchese autorizzò il nipote Giovanni Ventimiglia, barone di Gratteri (già da lui nominato, tre giorni prima, governatore del castello di Roccella) a disporre dei proventi derivanti, fino al pagamento del lascito di 10.000 fiorini, da lui promesso con un apposito legato64. Nel giugno XIVa indizione 1481, una disputa tra Enrico Ventimiglia marchese di Geraci ed il nipote Pietro Cardona, diede vita ad un duello conclusosi senza spargimento di sangue tra le parti. Questo episodio, nel 1485 fu utilizzato dal viceré Gaspare de Spes come espediente per contestare ai due contendenti il gravissimo reato di lesa maestà, con conseguente bando, confisca immediata dei beni (che passarono sotto la giurisdizione del regio demanio), ed apertura di un procedimento giudiziario. Il Cardona si consegnò alla giustizia, mentre il Ventimiglia fuggì fuori regno (morì poi in esilio). Il 1° dicembre IVa indizione 1485, essendo in atto il processo in questione, il de Spes ottenne per sé l’assegnazione di Roccella, ma quattro anni dopo anch’egli fu processato subendo il sequestro dei beni65. Il 14 luglio Va indizione 1487, Enrico Ventimiglia, condannato in contumacia, subì la definitiva incorporazione dei beni da parte del regio fisco. Solo il giorno 11 ottobre IXa indizione 1490, Ferdinando il Cattolico restituì a Filippo Ventimiglia, primogenito di Enrico, il titolo marchionale ed il marchesato mentre, in virtù del testamento dell’infante Pietro d’Aragona (Acireale, 4 giugno XIVa indizione 1436), fu esclusa Roccella, incamerata nel regio demanio. Nel 1507, il sovrano vendette Roccella, con patto di riacquisto, ad Antonio Alliata, allora conte di Caltabellotta, per la somma di 8000 fiorini66. Gli Alliata ne mantennero il possesso fino al 1666. Nell’investitura feudale, tramite acquisti, subentri e vendite, si avvicendarono poi: Gerolama Corbera Renda (1666), Paola Bonura (1667), suor Maria Rizzo terziaria francescana (1693, 1694) e Gaspare La Grutta Guccio (1699). Quest’ultimo, avendo ottenuta la licentia populandi il 18 dicembre VIIIa indizione

Cfr. atto transunto per ordine della Regia Curia, Palermo, 24 febbraio 1487, in G. LA MANTIA, Testamento dello Infante D. Pietro d’Aragona, fratello di Alfonso il magnanimo, Re di Sicilia, del 4 giugno 1436. Lettura fatta nella tornata del 21 Dicembre 1913, «atti della Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo», III serie, vol. X,1917, 42 pp., doc. IV. In particolare, su Roccella, p. 18, 21, 27 e 34. 63 Cfr. O. CANCILA, I Ventimiglia di Geraci (1258-1619)...cit., I, p. 135. 64 Cfr. ID., Castelbuono medievale e i Ventimiglia...cit., pp. 150-156. 65 Cfr. ID., I Ventimiglia di Geraci (1258-1619)...cit., I, p. 214. 66 Cfr. ID., Castelbuono medievale e i Ventimiglia...cit., pp. 216-223. 62

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169967, fondò il nuovo insediamento di Roccella (oggi Campofelice di Roccella), ma si indebitò al punto di perdere il feudo, che fu acquistato dal principe di Furnari, Antonio Marziani che ebbe l’investitura nel 1709, ed i cui discendenti ne mantennero il possesso feudale sino al 1812. Agli inizi del Settecento, il genovese Sebastiano Gorgoglione, pilota marittimo, nel suo portolano mediterraneo, dopo Capo Plaia, in direzione di Termini, menziona «a miglia 6. la torre della Roccella buono fondo, e caricaturo di grano»68, segno che non era diminuita la fama del sito come caricatore. L’erudito siciliano sac. Giovanni Andrea Massa, della Compagnia di Gesù, nella parte seconda della sua opera postuma La Sicilia in Prospettiva, mostra una minuziosa descrizione delle coste siciliane comprensiva del litorale della Roccella69: «due Stagni d’Acqua morta nella Riviera della Roccella s’incontrano, detti (...) Gorgo longo, e Gorgo grande70: hor dopo la tirata di Spiaggia, detta la Plaja della Roccella, entra in mare con due Foci, come osservò Camilliano, il Fiume della Roccella, in mezzo delle quali sorge il Castello dell’istesso nome: ricomincia nuovamente la Spiaggia della Roccella, che ancora appellano le Terre bianche fino al Fiume grande, che è l’Himera settentrionale (...) nella cui foce farebbono acqua 25. Galee: questo Fiume (...) è limite del Territorio della Roccella». Nel 1714, durante il regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, il cav. Alessandro Ignazio Amico di Castellalfero (oggi Castell’Alfero), nobile astigiano, ingegnere e colonnello d’artiglieria, nella sua dettagliata Relazione Istoriografica delle città, castelli, forti e torri esistenti ne’ littorali [sic] del Regno di Sicilia etc., rammenta Roccella con la «torre munita di due cannoni e di due uomini di guardia e castello con un cannone sopra, ove si raduna e raccoglie quantità di riso, e scarro ove si commettono contrabandi»71. Infine, il benedettino Vito Maria Amico Statella, Regio Istoriografo, nel suo Lexicon Topographicum Siculum sostiene che «di artiglierie si è munita la rocca, ch’è una delle vedette dell’isola»72. Il conoide alluvionale e le due foci del fiume Roccella Il fiume Roccella, allo sbocco nella piana litoranea, a causa della conseguente diminuzione della pendenza ed espansione della corrente, ha determinato la deposizione dei sedimenti Cfr. F. M. EMANUELE E GAETANI, MARCHESE DI VILLABIANCA, La Sicilia Nobile, parte seconda, lib. I, pp. 189192 e p. 193 nota c (Roccella) e pp. 192-194 (Fornari); C. A. GARUFI, Patti agrari e comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia, «Archivio Storico Siciliano», s. III, voll. 2, I, Palermo 1946, pp. 31-111; II, Palermo 1947, pp. 7-131, Licenze dí fondazione di nuovi Comuni rurali in Sicilia nel secolo XVII, n. 72. 68 Cfr. S. GORGOGLIONE, Portulano del mare Mediterraneo, nel quale Si contiene tutta la Navigazione, che si fa da luogo in luogo, e la descrizzione (sic) di tutti i luoghi, Terre, Porti, Isole, Capi, Scogli e Secche, che si trovano dalla Nobile città di Genova fino al Capo di San Vincenzo verso Ponente, e da Genova fino alla Sapienza verso Levante. E così della Barbaria di Terra ferma da Capo Spartello fino a Tripoli nuovo, Paci, Napoli MDCV, p. 78. 69G. A. MASSA, La Sicilia in Prospettiva cioè Le Città, Castella, Terre, e Luoghi esistenti, e non esistenti in Sicilia, la Topografia Littorale, li Scogli, Isole, e Penisole intorno ad essa, parte seconda, Ciché, Palermo MDCCIX, La Topografia Littorale, Che comprende li nomi con la situatione di tutte le Cale, Ridotti, Porti, Seni, Punte, Capi, Promontorii ec., Littorale della Roccella, p. 405. 70A quel tempo siti nell’estremo settore occidentale del territorio di Cefalù. 71 Cfr. Castellalfero & Altri. Sicilia 1713. Relazioni per Vittorio Amedeo di Savoia, a cura di S. Di Matteo, Fondazione Lauro Chiazzese della Sicilcassa, Tea Nova–ILA Palma, Palermo 1994, p. 148. 72 Cfr. V. M. AMICO ET STATELLA, Lexicon Topographicum Siculum, In quo Sicilia: Urbes, Орidа, сит diruta, tum extantia, Montes, Flumina, Portus, adjacentes Insulae, ac singula Loca describuntur, illustrantur, Pulejum, Catanæ, 1757-60, Demana Vallis, tomus tertius, pars secunda, MDCCLX, s. v. Roccella. 67

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trasportati, secondo la direzione del flusso idrico, ad ogni piena disponendo a ventaglio le singole lenti alluvionali, in modo da dare origine ad un conoide. Quest’ultimo è costituito da un corpo sedimentario e, nel contempo, rappresenta una forma del paesaggio di tipo deposizionale, dal caratteristico andamento planimetrico convesso. In tale corpo (qui per la prima volta identificato e cartografato), ampio e dolcemente degradante, costituito da materiali politipici, poco selezionati, eterometrici, di taglia compresa tra ciottoli e limo, si distinguono sia un apice, cioè il punto più alto dal quale si è originato, ed un fronte cioè la parte anteriore più avanzata verso valle. Secondo la calzante definizione di Harvey ed altri73, si tratterebbe di un tipico «conoide alluvionale costiero» (coastal alluvial fan) ma, essendo di origine mista l’apporto sedimentario, è meglio definirlo «conoide poligenetico costiero». Il bolognese fra Leandro Alberti nella sua Descrittione di tutta l’Italia et Isole pertinenti ad essa, ultimata nel 1550 ed edita nel 1594, accenna all’esistenza delle due foci del Roccella: «così ha tratto questo nome l’antedetto fiume dall’oppido della Rocella posto alle foci d’esso»74. Più esplicito, nel 1556-57, è il giurista Anton Giulio Filoteo degli Omodei da Castiglione di Sicilia, nella sua opera manoscritta Descrizione della Sicilia che si conserva nella biblioteca comunale di Palermo ai segni Qq G 71, libro I, che così riferisce: «Passato poi questo fiume (di Gratteri), per spazio di quattro miglia o cinque, si arriva alla rocca o castelletto chiamato Roccella, su la sponda del mar Tirreno, quasi picciola rocca o fortezza, o pure corrottamente così chiamato quasi Auricella, siccome vien detto ne’ libri pubblici e ne’ gesti delli regi di Sicilia; baronia di casa Agliata di Palermo. Ed indi subito il suo fiume discende tra terra sotto Madonìa da un fonte detto la Favara, lungi dalla sua bocca circa sei miglia; e scorrendo giù, mette quivi al sinistro lato di questo castelletto Roccella, donde ne prende il nome»75. Nella già citata Descripcion de las marinas de todo el Reino de Sicilia di Tiburzio Spannocchi sono inserite anche le vedute del 1575-78, relative a Termini (tra i ff. 70 e 71) ed a Cefalù (tra i ff. 72 e 73) che, nella parte inferiore, esibiscono le piante dei rispettivi litorali di pertinenza, nelle quali è riprodotto, enfatizzato nelle sue dimensioni, il promontorio della Roccella proteso sul mare. Nella carta del litorale di Cefalù, il corso del fiume Roccella è ben raffigurato mentre la foce manca essendo tagliata dal disegno della bordura. Nella pianta della costa di Termini, invece, il fiume è appena accennato nel tratto terminale, mentre è chiaramente effigiata la foce sita ad occidente della Roccella. La descrizione di Camilliani è in accordo con quella dell’Alberti e dell’Omodei: «Dopo questo un miglio si vede il fiume detto Auricella latinamente, ed oggi Roccella, qual fa due bocche, in mezzo delle quali si vede un castello, che tiene il medesimo nome. Questo fiume nasce sopra Collisano dal fonte Favara, il quale è lontano dalla sua foce undici miglia, e di state può dar rinfresco a un paro di galere. E di quivi siegue quattro miglia e mezzo di spiaggia scoperta,

73 Cfr. A. M. HARVEY, E. G. SILVA, A. E. MATHER, J. L. GOY, M. STOKES, C. ZAZO, The impact of Quaternary sea-level and climatic change on coastal alluvial fan in the Cabo de Gata ranges, southeast Spain, «Geomorphology», 28, 1999, pp. 122. 74 Cfr. L. ALBERTI, Descrittione di tutta l’Italia et Isole pertinenti ad essa. Ugolino, Venetia MDXCVI, 1250 pp., Isole appartinenti all’Italia, in particolare p. 43r. 75 Cfr. A. G. F. DEGLI OMODEI, Descrizione della Sicilia, in Opere storiche inedite sulla città di Palermo ed altre città siciliane, pubblicate su’ manoscritti della Biblioteca Comunale, Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, vol. XXIV, VI della seconda serie, Pedone Lauriel, Palermo MDCCCLXXVI, pp. 1-36, in particolare, libro I, p. 123.

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detta della Roccella, insino alla bocca del fiume Imera, secondo Tolomeo e Plinio, oggi Fiume grande» dove «nell’estate venticinque galere possono far l’acquata»76. L’analisi delle fonti archivistiche, cartografiche e delle descrizioni della costa, costituiscono uno strumento indispensabile per ricostruire l’evoluzione del paesaggio. Le cartografie storiche “fotografano” il territorio in un determinato momento storico e possono costituire un valido supporto allo studio delle modificazioni ambientali, naturali e/o antropiche di maggiore impatto77; il confronto tra cartografie spaziate nel tempo permette uno studio comparativo che mostra vari flash del corso del fiume nel suo divenire. Nello specifico possiamo affermare che nel Cinquecento, il corso del Roccella possedeva già due foci (come attestato da Alberti, Omodei e Camilliani). Spannocchi, nel 1575-78, cartografò la foce ad occidente, per cui quest’ultima doveva allora costituire lo sbocco principale del Roccella. Nel Seicento, vi furono almeno due grandi eventi alluvionali, i cui effetti dovettero influire notevolmente sulle divagazioni naturali del Roccella: nel novembre 1666 ed il 6 giugno 167178. Il primo evento colpì i bacini dell’Imera settentrionale e del Roccella, provocando allagamenti nelle campagne e danni alle opere di canalizzazione irrigue e di alimentazione degli opifici della canna da zucchero (rimaste inutilizzabili per 5 anni). Il secondo, fu catastrofico, tanto che le foci del Torto, Imera settentrionale e Roccella si unirono per qualche giorno, perché le acque non poterono drenare a causa dei depositi accumulatisi e per la barriera costituita dal sistema dunare, determinando la nascita temporanea di un grande specchio d’acqua costiero. Nel Roccella, l’alluvione danneggiò gli opifici per la produzione zuccheriera, allagò alcuni edifici, danneggiò il sistema di irrigazione ed interruppe l’acquedotto facendo crollare c. 400 m di conduttura su arcate (che furono ricostruite e protette da un argine in muratura). Nella via dei Mulini, si osserva una lunga teoria di arcate [fig. 6], con struttura portante in conci calcarei (calcari di scogliera della formazione Baucina, cavati dagli affioramenti ubicati ad E dell’abitato), che in più punti e per un lungo tratto, appare ripresa o addirittura interamente ricostruita con mattoni di terracotta. L’acquedotto, per un lungo tratto, è parzialmente interrato da depositi alluvionali generalmente fini con apporti colluviali argilloso-siltosi, che inglobano ciottoli fluviali allineati (stone-line) o dispersi a sciami e frammenti fittili indeterminabili. Le catastrofiche rotte ebbero, quindi, un notevole peso nel trasformare il corso e la foce orientale nel recapito preferenziale delle acque del fiume Roccella, a discapito del tragitto occidentale, esauritosi e rimasto escluso dalla rete attiva, essendo probabilmente ingombro di sedimenti e di acque stagnanti. Da notare che tre sondaggi geognostici inediti (per l’ubicazione cfr. fig. 3), effettuati negli anni 50’ del Novecento, relativamente a dei lavori ferroviari, hanno intercettato dei depositi palustri (spessore massimo 6,8 m), siltoso-sabbiosi, brunastri per l’abbondante sostanza organica e, localmente, con frammenti fittili (fluitati o di risulta?).

Cfr. C. CAMILLIANI, Descrizione dell’Isola di Sicilia cominciando dalla città di Palermo, seguendo il lito verso Ponente, in Opere storiche inedite sulla città di Palermo ed altre città siciliane, pubblicate su’ manoscritti della Biblioteca Comunale, Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, vol. XXV, VII della seconda serie, Pedone Lauriel, Palermo MDCCCLXXVII, pp. 141-390, in particolare, p. 382. 77 Cfr. A. DE VANNA, La rappresentazione cartografica del territorio ferrarese. Simbolismo e scientificità. da L’uomo ed il suo ambiente, interrelazioni ed identità. Quaderni di Storia sociale. Rapporto ENEA AMB MON AMCOS (92), ENEA, 1992, 110 pp. 78 Cfr. A. CONTINO, Aqua Himerae...cit. pp. 219-220. 76

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Conclusioni Lo studio geologico relativo al misconosciuto sprone calcareo della Roccella ha permesso di inquadrare geneticamente tali rocce nel contesto locale e regionale. Nel contempo, la capillare ricerca bibliografica, unita all’analisi critica delle fonti, hanno consentito di ricostruire le principali tappe della storia della fortezza della Roccella, struttura antropogenica protagonista di un passato di notevole importanza strategica e socio-economica nel contesto geografico-fisico e geopolitico. Attraverso la lettura ed interpretazione degli apparati iconografici e cartografici storici, nonché delle fonti contenenti dettagliate descrizioni del litorale, è stata, altresì, per la prima volta messa in luce, almeno dal Cinquecento, l’esistenza delle due foci del Roccella, racchiudenti l’omonimo sito fortificato. La scoperta dell’esistenza di un conoide alluvionale (e relativi depositi), sito allo sbocco del Roccella nella piana costiera, permette di spiegare gli spostamenti, avvenuti nel passato lungo il tratto terminale e di foce, dovuti a divagazioni naturali lungo differenti direttrici disposte a ventaglio. I dati provenienti da più fonti sono stati studiati applicando sinergicamente diversi metodi d’analisi ed approcci d’indagine. Si tratta, quindi, di una ricerca interdisciplinare, in chiave di geomorfologia antropogenica, ulteriore esempio di un’indagine che, a buon diritto, rientra nel campo delle “geoscienze storiche”, trait d’union tra le scienze della Terra e quelle storiche79. Ringraziamenti Siamo molto grati agli organizzatori della manifestazione in ricordo del compianto amico Nico Marino per aver voluto, con cortese disponibilità, editare i risultati dei nostri studi.

Fig. 1

Cfr. P. BOVA–A. CONTINO, L’importazione e l’uso del Nero e giallo di Portovenere o Portoro a Termini Imerese (Palermo) nel XVII sec., in: Arte e Storia delle Madonie Studi per Nico Marino, Atti della 4a e 5a ed., Cefalù (Palermo) e Castelbuono (Palermo), 18-19 ottobre 2014; Gibilmanna (Cefalù), 17 ottobre 2015, a cura di G. Marino–R. Termotto, associazione culturale “Nico Marino”, Cefalù ottobre 2016, p. 410. 79

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Le figure Fig. 1. Ubicazione del sito della Roccella (Campofelice di Roccella, Palermo). Fig. 2. Il mastio della Roccella e, in primo piano, i ruderi del borgo. Foto: A. Contino. Fig. 3. Carta geologica e geomorfologica semplificata dell’area circostante il sito della Roccella. L’inserto indica l’area della Roccella rappresentata nella cartografia di dettaglio (a destra). Legenda: 1. Strutture e depositi antropici. Fortificazioni medievali della Roccella sulla litologia siglata con il n. 8 (1a); area del borgo medievale e dell’età moderna (1b); edificato urbano e suburbano di Campofelice di Roccella (XVII-XXI sec., 1c). 2. Depositi litoranei sabbioso-ghiaiosi (Olocene); 3. Depositi alluvionali di fondovalle (3a), terrazzati (3b) e di conoide poligenetico (3c) legati al fiume Roccella (Olocene); 4. Depositi prevalentemente colluviali, localmente associati ad alluvionali e palustri (Olocene); 5. Prodotti eluviali, depositi detritici di falda e di versante (Olocene); 6. Depositi marini sabbioso-ghiaiosi e conglomeratici ricoprenti piattaforme di abrasione (Pleistocene medio); 7. Depositi marini marnoso-calcarei biancastri (Trubi, Pliocene inferiore); 8. Depositi marini calcarei biocostruiti ed assimilabili a biocostruzioni (fm. Baucina, Messiniano). 9. scarpata di faglia/linea di faglia; 10. orlo di scarpata di terrazzo; 11. andamento del corso fluviale abbandonato del Roccella (fide Spannocchi, 1575-78); 12. sondaggi geognostici; ac. strutture superstiti del complesso acquedottistico (doc. 1583-84, con rifacimenti del Seicento) di alimentazione dei mulini a forza idraulica (rovine). Fig. 4. Calcari della Roccella, assimilabili a biocostruiti, caratterizzati dalla presenza di lamine algali, e resti fossili in situ di molluschi, echinidi, coralli etc. (Fm. Baucina, Messiniano). Foto: A. Contino. Fig. 5. L’estrema propaggine settentrionale dei ruderi del castello di Roccella edificati sulla ripa costiera sub-verticale/verticale (falesia). Alla base dei calcari messiniani il moto ondoso marino ha intagliato un caratteristico solco di battente, disposto longitudinalmente. Foto: P. Bova. Fig. 6. Una delle arcate dell’acquedotto (doc. 1583-84, con rifacimenti del Seicento) che esibisce una struttura portante in conci calcarei (Fm. Baucina, Messiniano). Foto: A. Contino.

Fig. 3

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Fig. 2

Fig. 4

Fig. 5

Fig. 6

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Patrizia Bova (1968-2021) ANTONIO CONTINO Profilo biografico Patrizia Bova, nacque a Termini Imerese (PA) il 28 agosto 1968 da Giuseppe e da Cosima Graziano, seconda di tre figli (Antonella ed Ivan, anch’essi prematuramente scomparsi). Compì gli studi magistrali presso il locale Istituto Magistrale “Ludovico Ariosto”, dove conseguì il diploma nel 1987 (non a caso l’esame orale verteva sul latino e sulla geografia astronomica, quasi a sottolineare la duplice passione letteraria e scientifica). Ad Agrigento, conseguì poi diversi diplomi sulle principali metodologie di insegnamento della scuola primaria (Montessori, Pestalozzi, Freinet, Agassi) e sulla didattica musicale, con il massimo dei voti (50/50). Sin dal 2009 ha svolto importanti ricerche, con contributi particolarmente originali, relativamente al Termitano ed alle Madonie. Socia dell’Accademia Mediterranea Euracea di Scienze, Lettere e Arti di Termini Imerese (A.M.E.S.L.A.), ha ricoperto la carica di segretaria (201618; 2018-20). Inoltre, è stata socia dell’Associazione Culturale “Nico Marino” di Cefalù (2018-19). Dal giugno 2018, assieme allo scrivente, ha collaborato attivamente alla testata giornalistica on-line “Esperonews: Giornale del Comprensorio Termini Cefalù Madonie” (https://www.esperonews.it). Il giorno 11 febbraio 2021, del tutto improvvisamente e prematuramente, è venuta a mancare, lasciando attoniti tutti, non solo quelli che, come me le volevano bene e l’amavano, ma anche quelli che conoscendola, non potevano fare a meno di apprezzarne la grande sensibilità d’animo e l’acume vivace, dotato di un inesauribile desiderio di conoscenza. Pubblicazioni 1. BOVA P. & CONTINO A. (2009) – Un pittore siciliano misconosciuto: Giovanni Bova da Termini Imerese. - “Le Madonie” anno 89, n. 5, 1-15 maggio 2009, p. 3 e 6. 2. BOVA P. (2009) – Le Madonie nell’esperienza pittorica di Salvatore Contino in arte Tinosa. - “Le Madonie” anno 89, n. 10, 1-15 ottobre 2009, p. 3 e 6. 3. CONTINO A., CUSIMANO G., BOVA P. & GATTO A. (2010) – La valle dell’Oreto. Aspetti geologico-geomorfologici, idrogeologici e vegetazionali di un bacino della Sicilia nord-occidentale. Regione Siciliana - Azienda Regionale Foreste Demaniali, Università degli Studi di Palermo - Dipartimento di Geologia e Geodesia, Accademia Mediterranea Euracea di Scienze, Lettere e Arti, Termini Imerese, Collana Sicilia Foreste n. 46, 216 pp., 26 figg., 9 tabb., Industria grafica Sarcuto, Agrigento. 4. BOVA P. (2011) – Il surrealismo onirico di Salvatore Contino in arte Tinosa. - “Le Madonie” anno 91, n. 11, 1-15 novembre 2011, p. 3 e n. 12, 1-15 dicembre 2011 p. 3 e p. 6. 5. BOVA P. & CONTINO A. (2014) – Apparati effimeri per la festa del Corpus Domini nella Maggior Chiesa di Termini Imerese (1594-1649). “Espero”, n. s. Anno VIII n. 93, dicembre 2014 p. 8. 6. BOVA P. & CONTINO A. (2016) – L’importazione e l’uso del Nero e giallo di Portovenere o Portoro nella Sicilia settentrionale (XVII sec.). In: Marino G. & Termotto R. (a cura di), Arte e Storia 239


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delle Madonie Studi per Nico Marino voll. IV-V Va edizione, Atti della 4a - 5a edizione Cefalù (Palermo) e Castelbuono (Palermo), 18-19 ottobre 2014; Gibilmanna (Cefalù), 17 ottobre 2015, Associazione Culturale “Nico Marino” Cefalù, Ottobre 2016, pp. 391418. CONTINO A., BOVA P., ESPOSITO G., GIUFFRÈ I. & MONTELEONE S. (2017) – Historical analysis of rainfall-triggered rockfalls: the case study of the disaster of the ancient hydrothermal Sclafani Spa (Madonie Mts. Northern-central Sicily, Italy) in 1851. “Natural Hazards and Earth System Sciences”, 17, 2229-15. BOVA P. & CONTINO A. (2018a) – Tracce agostiniane a Termini Imerese nel Seicento: il S. Nicola da Tolentino di Silvestre Di Blasi. Esperonews, Mercoledì, 20 Giugno 2018. BOVA P. & CONTINO A. (2018b) – Uno sconosciuto libraio a Termini Imerese nel Cinquecento: Bernardino Aragona o Ragona. Esperonews, 8 Luglio 2018. BOVA P. & CONTINO A. (2018c) – La Serenissima e la Splendidissima: memorie di Venezia a Termini Imerese tra il XV ed il XVII sec. Esperonews, 4 Agosto 2018. BOVA P. & CONTINO A. (2018d) - L’importazione e l’uso dell’ardesia ligure (Pietra di Lavagna) nella Sicilia centro-settentrionale (XV-XVIII secolo). In: Marino G. & Termotto R. (a cura di), Arte e Storia delle Madonie Studi per Nico Marino, 6a edizione, Castelbuono (Palermo), 22 ottobre 2016, Associazione Culturale “Nico Marino”, Cefalù, Novembre 2018, pp. 101124. BOVA P. & CONTINO A. (2018e) – Memorie di Ragusa dalmata (attuale Dubrovnik in Croazia) a Termini Imerese (XIV-XVII sec.), “Esperonews, 5 Dicembre 2018. BOVA P. & CONTINO A. (2018f) – Termini Imerese. Scipione Sparano, uno sconosciuto viceammiraglio nel Seicento, Esperonews, 22 Dicembre 2018. BOVA P. & CONTINO A. (2018g) – Vestigia di Francia a Termini Imerese nei secoli XV-XVIII, Esperonews, 30 Dicembre 2018. BOVA P. & CONTINO A., A CURA DI (2019a) – Glossario dei termini scientifici. In: CONTINO A., Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centro-settentrionale). Giambra Editori, Terme Vigliatore (Messina), pp. 249-271. BOVA P. & CONTINO A. (2019b) – Traffici commerciali sulla rotta marittima Lipari-Termini Imerese tra l’XI ed il XVIII sec. Esperonews, 18 Febbraio 2019. BOVA P. & CONTINO A. (2019c) – L’emigrazione dalla «Lombardia» a Termini Imerese dal XIV al XVII secolo. Esperonews, 6 Marzo 2019. BOVA P. & CONTINO A. (2019d) – Polizzi Generosa, due lettere inedite datate luglio 1909 indirizzate a Giovanni Borgese, Esperonews, 23 Maggio 2019. BOVA P. & CONTINO A. (2019e) – Termini Imerese. Una inedita lista di contribuenti del 1724: pagavano tutti esclusi “miserabili” e “Giornadieri”. Esperonews, 11 Giugno 2019. BOVA P. & CONTINO A. (2019f) – Scirocco e siccità a Termini Imerese e nelle Madonie negli anni 60’ del Cinquecento. Esperonews, 28 Luglio 2019. BOVA P. & CONTINO A. (2019g) – Termini Imerese, nuovi riscontri documentali sulla famiglia Graffeo (XIV – XVI sec.): non sono gli autori degli affreschi di S. Caterina. Esperonews, 7 Agosto 2019. BOVA P. & CONTINO A. (2019h) – Termini Imerese, la città medievale e gli amalfitani tra il XIII ed il XVI secolo. Esperonews, 19 Ottobre 2019.

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23. BOVA P., CONTINO A. & ESPOSITO G. (2019i) – L’estrazione e l’uso delle “brecce calcaree a rudiste” (Cretaceo sommitale) in Termini Imerese (Palermo) nei sec. XVII - XX. In: Marino G. & Termotto R. (a cura di), Arte e Storia delle Madonie Studi per Nico Marino, 7a - 8a edizione, Cefalù (Palermo)— Sala delle Capriate, Palazzo del Comune, Piazza Duomo, Sabato 4 novembre 2017 e Lunedì 3 dicembre 2018, Associazione Culturale “Nico Marino”, Cefalù, Dicembre 2019, pp. 119-141. 24. BOVA P. & CONTINO A. (2020a) – Termini Imerese, dal XII al XVI secolo: il promontorio scomparso di "Muso di Lupa" e la tonnara. Esperonews, 12 Gennaio 2020. 25. BOVA P. & CONTINO A. (2020b) – Geomorfologia ed Archeologia nelle Madonie: l’esempio di Polizzi Generosa tra Antichità e Medioevo. Esperonews, 16 Gennaio 2020. 26. BOVA P. & CONTINO A. (2020c) – Cognomi di origine calabrese a Termini Imerese tra il XV ed il XVIII sec. Esperonews, 20 Maggio 2020. 27. BOVA P. & CONTINO A. (2020d) – Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950. Esperonews, 14 Settembre 2020. 28. BOVA P. & CONTINO A. (2020e) – Termini Imerese, attività militare ed evoluzione del paesaggio: l’esempio della "Rocca dell’Orologio antiquo" tra medioevo e Settecento. Esperonews, 20 Dicembre 2020. 29. BOVA P. & CONTINO A. (2021a) – Un grande ritrattista siciliano tra Ottocento e Novecento: Giovanni Bova Chiaramonte da Termini Imerese. Esperonews, 1 Gennaio 2021. 30. BOVA P. & CONTINO A. (2021b) – Nuove scoperte. Il cinquecentesco pittore Nicolò "da" Pettineo non era del paese messinese ma cittadino di Termini Imerese. Esperonews, 19 Febbraio 2021. 31. BOVA P., CONTINO A., ESPOSITO G. & GIGLIO S. (2021, in press) – Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Roccella (Campofelice di Roccella, Palermo) nei sec. XII-XVIII. In: Marino G. & Termotto R. (a cura di), Arte e Storia delle Madonie Studi per Nico Marino, 9a edizione. In press. 32. P. BOVA, A. CONTINO & G. ESPOSITO (2021, in press) – Analyse historique des variations de débit amenée des séismes dans les siècles XVe-XXe: le cas de Termini Imerese (Sicile centroseptentrionale). In: G. Polizzi, V. Ollivier, S. Bouffier (eds.), Colloque Interdisciplinaire WATERTRACES De l’hydrogéologie à l’archéologie hydraulique en Méditerranée antique. 15 mai 2019, Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, Salle Paul Albert Février, Aix en Provence (France). Archaeopress, Oxford. In press.

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Arte e storia delle Madonie Studi per Nico Marino, Vol. IX A cura di Gabriele Marino e Rosario Termotto Associazione Culturale “Nico Marino” Cefalù PA, 31 ottobre 2021 ISBN 978-1-387-92327-4 Atti della nona edizione e altre ricerche Cefalù, 23 dicembre 2019


Contributi di Santa Aloisio Amedeo Tullio Claudio Gino Li Chiavi Arturo Anzelmo Rosario Termotto Domenica Barbera Elvira D’Amico Bruno De Marco Spata Marco Failla Angelo Antonio Faraci Giovanni Fatta Giuseppe Giugno Nadia Gugliuzza Nuccio Lo Castro Giuseppe Spallino Patrizia Bova Antonio Contino Giuseppe Esposito Salvatore Giglio

20 euro


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