L'Alligatore-anno3_numero3

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Anno 3 Numero 3

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L’Alligatore torna puntuale prima della sessione estiva, affrontando una serie di questioni estremamente attuali. I fatti degli ultimi mesi ci hanno spinto a riflettere sul progetto di riforma del lavoro attualmente all’esame del Parlamento. In particolare due sono i temi affrontati: la questione dell’articolo 18 e quella del contratto a termine. Volgendo lo sguardo alle ultime novità nell’ambito del diritto internazionale, vi proponiamo due approfondimenti: il caso Ferrini, alla luce della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del febbraio 2012, e la prima pronuncia della Corte Penale Internazionale che ha condannato il dittatore congolese Lubanga per crimini di guerra. In materia penale è fervido il dibattito sulla configurabilità o meno del concorso esterno in associazione mafiosa, dopo la recente requisitoria del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione Iacoviello. Nell’articolo proposto viene ricostruita l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in merito. È presente, inoltre, una ricostruzione, anche sul piano costituzionale, della custodia cautelare in carcere, istituto, forse, oggi applicato senza tener conto delle rationes che lo giustificano. Nella parte di diritto pubblico ci si interroga sull’opportunità di mantenere, anche dopo la riforma del titolo V della Costituzione, le Regioni a statuto speciale. La sezione dedicata alle rubriche si apre con una riflessione sulla possibile applicabilità dell’articolo 3 CEDU in relazione alle tragiche vicende del G8 di Genova, partendo da un commento al nuovo film documentario di Vicari “Diaz, don’t clean up this blood”. In continuità con il numero precedente, pubblichiamo alcune considerazioni sulla figura dell’avvocato, tra scienza e coscienza. L’alligatore conclude con una guida pratica per chi sta cominciando a pensare alla tesi di laurea! Come sempre ci auguriamo che L’Alligatore aiuti gli studenti della Facoltà di giurisprudenza ad appassionarsi al diritto non solo come materia di studio ma anche come strumento per affrontare criticamente l’attualità. Con questo auspicio vi auguriamo una buona lettura e vi diamo appuntamento alle iniziative di presentazione del nuovo numero. Cercateci per partecipare: redazione@lalligatore.org La redazione allargata

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Anno 3 Numero 3



L’ALLIGATORE La rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano La redazione allargata

Hanno collaborato: Nicole Boldracchi, Francesca Campini, Camilla Capitani, Enrico Cerri, Giulia Camilla De Martini, Marco Fasola, Giuliano Gadiva, Federica Ghisleni, Maria Teresa Lo Iacono, Marco Lupoli, Paola Marta Martino, Eduardo Parisi, Sandro Parziale, Riccardo Petrella, Laura Piccolo, Francesca Prati, Daniele Rucco, Rocco Steffenoni, Giorgia Testoni

Ringraziamo i professori e i ricercatori della FacoltĂ che ci hanno sostenuto in questa iniziativa Milano, Maggio 2012


Tale progetto è finanziato con il contributo dell’UniversitĂ degli Studi di Milano derivante dai fondi previsti per le attivitĂ culturali e sociali.

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INDICE Diritto del Lavoro

Francesca Campini e Laura Piccoli Una Riforma da riformare

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Diritto Internazionale

Giuliano Gadiva e Giorgia Testoni La Corte Penale Internazionale: storia, recenti sviluppi e prospettive. Nicole Boldracchi , Giulia Camilla De Martini, Marco Lupoli Può uno Stato essere privato della propria immunità giurisdizionale? Il caso Ferrini e la decisione della Corte di Giustizia Internazionale.

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Diritto Penale

Federica Ghisleni Il concorso eventuale nel reato di associazione di tipo ma- pag. 32 fioso Riccardo Ruggiero I presupposti per la limitazione della libertĂ personale nel processo penale Diritto Pubblico

Enrico Cerri La speciale autonomia di alcune Regioni italiane ha ancora un senso?

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Rubriche

Daniele Rucco Diaz, don’t clean up this blood. Alcune riflessioni sulla violazione dell’art. 3 CEDU

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Marco Fasola Il sonno agitato dell’avvocato civilista

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Camilla Capitani Lo Zen e l’arte dello scrivere una tesi

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DIRITTO DEL LAVORO

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Una Riforma da riformare Di Francesca Campini e Laura Piccoli Si trova attualmente in esame presso la Commissione Lavoro del Senato (XI) la Riforma del Lavoro contenuta nel d.d.l. 3249/20121. Obiettivo dell’intervento è quello di favorire l’occupazione nell’ottica di una flessibilizzazione (sia in entrata che in uscita) di un mercato del lavoro che da molte parti viene accusato di essere eccessivamente stringente. Dovrebbe risiedere, dunque, in tale disegno governativo, l’impalcatura di un nuovo assetto giuridico-normativo che possa contribuire a risollevare il Paese dal forte periodo di crisi economica che sta attraversando. La nostra analisi si concentra su due dei tanti istituti che risultano innovati dalla Riforma: la disciplina dei licenziamenti individuali e quella del contratto a termine. 1. Il licenziamento individuale L’art. 18 della legge 300 del 1970, meglio conosciuta come Statuto dei lavoratori, baluardo simbolico, oltre che giuridico, di una parte significativa della realtà sindacale del nostro Paese, costituisce uno dei punti più controversi della storia delle relazioni industriali. Norma centrale, nella disciplina dei licenziamenti individuali, l’art. 18 vieta al datore di lavoro, a capo di un azienda con più di 15 dipendenti, di licenziare il lavoratore in mancanza di giusta causa o giustificato motivo; in caso di violazione, il giudice ordinerà la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannerà il datore di lavoro al risarcimento del danno patito dal dipendente, liquidando un’indennità commisurata alla retribuzione relativa al periodo nel quale egli sia rimasto inoccupato, non inferiore comunque al valore di cinque mensilità. E così, dopo gli esiti negativi dei referendum del 2000 e del 2003, rispettivamente promossi dai Radicali e da Rifondazione Comunista (il primo volto a eliminare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori; il secondo promosso con l’intento di estenderlo anche alle imprese con meno di 15 dipendenti), la tutela reale ex art. 18 viene nuovamente messa in discussione dall’attuale compagine politica che, con il recente disegno governativo in materia di riforma del lavoro, spinge nuovamente sull’acceleratore della flessibilità

1 “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero (e pertanto ridefinita “Riforma Fornero”) e comunicato alla Presidenza il 5 aprile 2012.

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nell’ottica di snellire e garantire libertà di movimento alle aziende. L’idea che guida l’attuale Esecutivo è quella di superare sistemi sanzionatori ritenuti ormai arcaici, la reintegrazione in primis, perché inadeguati alle condizioni di mercato, incentivando così le aziende ad assumere personale, con conseguenti effetti benefici sull’occupazione. Addomesticare l’art. 18 in un’ottica di incentivazione all’assunzione è la soluzione giusta? La riduzione delle tutele potrebbe avere effetti positivi sui livelli di occupazione? La novità più rilevante riguarda l’apparato sanzionatorio. A quanto pare, infatti, la reintegrazione non costituirebbe più l’unica sanzione prevista per i licenziamenti illegittimi, con la conseguente diversificazione delle conseguenze sanzionatorie. Quindi, l’obbligo di reintegra permane solo con riferimento ai licenziamenti discriminatori, i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo laddove i fatti contestati siano insussistenti o “perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni di legge, dei contratti collettivi ovvero de codici disciplinari applicabili” e per i licenziamenti intimati per motivi oggettivi ( i c.d. licenziamenti per motivi economici) manifestamente insussistenti. Mentre alcuni licenziamenti illegittimi per giustificato motivo soggettivo e per giustificato motivo oggettivo non manifestamente insussistente, saranno sanzionati con la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità a favore del lavoratore. Aumenta notevolmente la complessità del sistema, data in gran parte dalla eccessiva duttilità delle norme del disegno governativo, inesauribile fonte di fastidiosi dubbi interpretativi. Innanzitutto nelle “altre ipotesi” di licenziamento in cui la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo non sono stati accertati, il giudice è tenuto ad applicare la sanzione risarcitoria. La reintegra trova, dunque, applicazione nei casi in cui la gravità del comportamento del lavoratore non è tale da legittimarne il licenziamento. Nelle altre ipotesi il giudice è tenuto ad applicare la sanzione risarcitoria laddove, pur avendo accertato che il comportamento non legittimi il licenziamento, in virtù di un principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione, non è altresì in grado di legittimare la reintegrazione (l’esempio classico in dottrina è quello del lavoratore che rubi un oggetto di modesta identità, come un cacciavite). Nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per motivi economici, il giudice è chiamato a scegliere tra l’indennizzo e la reintegrazione, e il discrimine tra

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la scelta è fornito dalla “manifesta insussistenza dei motivi”. La situazione prospettata crea non pochi problemi. Le ipotesi che possono configurarsi sono tre: o il motivo sussiste, e dunque il licenziamento è considerato legittimo, oppure non sussiste e in questo caso è rimessa alla discrezionalità del giudice la scelta di applicare la reintegrazione o l’indennizzo a seconda che l’insussistenza del motivo sia manifesta oppure no. Orbene ci si chiede quando il motivo economico posto a fondamento del licenziamento sia palese ed evidente, dunque manifestamente sussistente e quando invece sia semplicemente insussistente apparendo necessaria un’istruttoria dibattimentale. E’ da escludersi una graduabilità della sussistenza del motivo economico. Si pensi al caso in cui il licenziamento sia dovuto ad una riorganizzazione d’impresa: o la riorganizzazione d’impresa c’è o non c’è. Quando è manifesto che non ci sia? Benché forzatamente, si potrebbe distinguere tra l’ipotesi in cui il motivo economico posto a fondamento del provvedimento espulsivo sia incapace di legittimare un recesso e l’ipotesi in cui lo stesso venga considerato un banale errore di valutazione della situazione economico-organizzativa dell’azienda. Laddove riuscissimo in tale proposito: il giudice su quali criteri fonderà la sua scelta? L’unica realtà manifesta appare dunque quella della irrazionalità della norma che, non precisando i parametri cui il giudice deve attenersi, appare fortemente fuorviante e mutevole a seconda dell’interpretazione cui si fa riferimento. Secondo l’interpretazione più favorevole all’imprenditore, il licenziamento sarà manifestamente illegittimo solo nelle rare ipotesi in cui sia evidente che il datore abbia grossolanamente artefatto il motivo di licenziamento. Una lettura pro-lavoratore porterebbe invece a considerare, quale indice di manifesta insussistenza del motivo, la mancata o incerta giustificazione del datore, di ricorrere al repechage del dipendente licenziato (ovvero l’obbligo di ricollocare il lavoratore all’interno del sistema aziendale adibendolo a mansioni anche diverse rispetto a quelle svolte precedentemente purché di natura equivalente). Altro problema cruciale che non può in alcun modo essere sottovalutato, è quello relativo all’efficacia del motivo addotto dal datore di lavoro licenziante. In altri termini, risulta fondamentale comprendere se, ai fini dell’accertamento giudiziale, rileva il motivo posto dal datore di lavoro a base del licenziamento o se invece rileva la situazione concreta. Il rischio, nella prima ipotesi, è che sia lo stesso datore di lavoro a decidere preventivamente le conseguenze sanzionatorie del licenziamento. A tale problema, di natura squisitamente interpretativa, il disegno governativo non sembra

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dare, per l’ennesima volta, alcuna risposta. La stratificazione delle conseguenze sanzionatorie, la scarsa accuratezza impiegata nella stesura del testo e l’insufficiente attenzione nell’elaborare norme sovvertibili, influisce negativamente sull’andamento e sulla durata del processo del lavoro, destinato a diventare sempre più affannoso e incontrollabile. Si preferisce guardare più all’efficacia della norma in ordine al conseguimento dell’obiettivo a breve termine piuttosto che all’inserimento meditato della norma, nel lungo termine, in un sistema armonioso e coerente. Ma queste norme, saranno realmente capaci di realizzare l’obiettivo prefissato? E’ possibile combattere la flessibilità e la precarietà con norme altrettanto flessibili e precarie?

2. Il contratto a termine La riforma Fornero è intervenuta anche in materia di contratti di lavoro a tempo determinato. In particolare, le novità più pregnanti sembrano essere quelle attinenti alla disciplina dei contratti a termine2 contenuta interamente nel d.lgs 368/20013. In relazione a questa specifica fattispecie contrattuale appare evidente lo sforzo del legislatore di cercare il punto d’equilibrio, al fine di mantenersi equidistante da due situazioni patologiche diametralmente opposte ma ugualmente negative. Da una parte, infatti, c’è l’esigenza di favorire la flessibilità del rapporto lavorativo e quindi favorire l’occupazione, sia pure con contratti meno stabili di quello a tempo indeterminato. Dall’altra, invece, il contratto a termine è la fattispecie contrattuale accusata per prima di essere il principale mezzo di diffusione del precariato, lo strumento improprio con cui le imprese soddisfano, attraverso continue reiterazioni e rinnovi, un bisogno stabile di manodopera. Il legislatore ha dovuto, quindi, disciplinare l’istituto in modo da valorizzarne le potenzialità occupazionali e, contemporaneamente, inibirne l’uso distorto. Per quanto riguarda la prima esigenza, l’intervento legislativo cerca di incentivare la diffusione del contratto a termine: si dispone che le ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che devono necessariamente giustificarlo non siano più richieste qualora il contratto duri complessivamente meno di dodici4 mesi. Si realizza quindi una sorta di libera2 Anche somministrati, ai sensi dell’art. 20 d.lgs. 276/2003. 3 Già in precedenza modificato dalla l. 247/2007. 4 Il termine in questione era, nel d.d.l. originario, di sei mesi. L’emendamento in questione (n° 3.100), presentato dai relatori on. Treu (PD) e on. Castro (PDL) il 15/05/2012, sarà verosimilmente in breve approvato.

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lizzazione di tutti quei contratti a termine la cui durata particolarmente breve non permette di ritenere che sia in atto un’elusione delle norme a tutela del lavoratore da parte del datore. In questo caso, però, a controbilanciare l’estensione delle possibilità di ricorrere al contratto a termine, la Riforma ha escluso esplicitamente che il contratto in questione possa essere prorogato: costituisce quindi un’eccezione in tema di proroga, dato che questa può essere concessa (anche se una sola volta) al contratto a termine di durata inferiore ai tre anni, in presenza di ragioni oggettive ed in esclusivo riferimento alle mansioni già svolte. L’intento di limitare l’uso del contratto a termine, d’altronde, impone ulteriori misure di tutela. Innanzitutto si dispone che anche i contratti a termine acausali, compresi quelli di lavoro somministrato che precedentemente venivano esclusi, siano computati ai fini del maturamento del termine di 36 mesi previsto dall’art. 4-bis. È questa la durata massima che, comprensiva di proroghe e rinnovi e indipendentemente dalle interruzioni, può avere il rapporto di lavoro a tempo determinato intercorrente tra due soggetti in relazione a mansioni equivalenti: dalla scadenza di questo termine, il contratto si considera a tempo indeterminato ed il giudice, contestualmente, condanna il datore al risarcimento stabilendo un’indennità di carattere omnicomprensivo5 e d’importo compreso tra le 2,5 e le 12 mensilità con riferimento all’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore. Fermo restando questo termine massimo, inoltre, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato qualora il rapporto continui oltre il 30° giorno (pre-Riforma: 20°) dalla scadenza del termine iniziale per i contratti di durata originariamente inferiore ai sei mesi, oppure oltre il 50° giorno (pre-Riforma: 30°) per i contratti ultra-semestrali. È qui evidente la volontà di permettere deroghe più cospicue e di lasciare un margine più ampio al datore di lavoro per riorganizzarsi, in nome della buona flessibilità di cui potrebbe farsi portavoce il contratto a termine. La riforma allunga considerevolmente anche i termini posti con finalità anti-elusiva, per evitare che successioni troppo ravvicinate di contratti a termine mascherino un rapporto di fatto indeterminato, e paralizza i rinnovi contrattuali per un lasso di tempo molto più significativo rispetto al sistema vigente. In particolare, il secondo contratto si intende a tempo de5 Finalizzata a ristorare l’intero pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo intercorrente tra la scadenza del termine e la pronuncia giudiziale.

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terminato se il lavoratore viene riassunto entro 60 giorni dalla scadenza del primo contratto, che abbia avuto una durata inferiore a 6 mesi (o entro 90 giorni, per contratti con maggior durata).

La modifica che in termini pratici forse interesserà di più agli imprenditori è di nuovo una misura volta a limitare l’uso del contratto a termine ed agisce non più sul piano della regolamentazione del rapporto di lavoro ma su quello fiscale: si prevede un aumento dell’aliquota contributiva a carico del datore pari all’1,4% della retribuzione imponibile a fini previdenziali, destinata a finanziare la nuova Assicurazione contro la disoccupazioni (Aspi). Sono esclusi dal computo, però, i lavoratori assunti in sostituzione di colleghi assenti, i lavoratori stagionali e gli apprendisti. A questa modifica fa da pendant, ancora in un’ottica di bilanciamento, la concessione di un “premio di stabilizzazione”, ossia la restituzione dell’aliquota aggiuntiva versata fino ad un massimo di sei mensilità, con decorrenza dalla scadenza del periodo di prova, qualora il contratto venga successivamente trasformato a tempo indeterminato. Tralasciando la considerazione che un’ulteriore aumento fiscale alle imprese potrebbe comportare un blocco delle assunzioni e un parallelo sviluppo di forme di lavoro nero, il suddetto premio sembra, in realtà, un vantaggio di cui non si usufruirà in maniera paritaria. Non si tiene conto, infatti, di quelle attività economiche che non consentono, per esigenze produttive, il ricorso a contratti a tempo indeterminato (si pensi al settore turistico oppure a tutti quei casi non riconducibili alle attività stagionali, come l’ipotesi di imprese che debbano fronteggiare un’intensificazione della propria attività produttiva con necessaria integrazione temporanea del proprio organico) e in cui, di conseguenza, i contratti a termine sono fisiologici e per nulla elusivi. Tanto più sembra ingiusto quanto più si consideri che la possibilità del contratto a termine acausale non serve a favorire queste imprese, che già in precedenza facevano legittimamente ricorso a contratti a termine per motivi che senza alcuna difficoltà né mala fede venivano fatti ricadere nella previsione, già molto ampia, delle necessarie ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive. È quindi legittimo chiedersi a chi serva concretamente la liberalizzazione del contratto a termine, e se questo potrà avere una funzione diversa da quella di testare il lavoratore all’interno dell’impresa in vista di una futura assunzione che, dato il premio di stabilizzazione, comporterebbe anche il recupero dell’aliquota addizionale versata nei sei mesi precedenti.

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In conclusione, sembra opportuno riflettere su quello che ragionevolmente accadrà nel prossimo futuro. La disciplina legislativa del d.d.l. in esame, per la prima volta, prende esplicitamente posizione sulla possibile acausalità e, nel far questo, si oppone ad una giurisprudenza consolidata sulla necessaria indicazione delle ragioni che giustificano il ricorso ad un contratto a tempo determinato. In relazione a questo è necessario prendere atto che, empiricamente, la riforma determinerà una cospicua diffusione del contratto a termine e contestualmente favorirà il fenomeno della circolazione dei lavoratori: in sostanza, per evitare che il rapporto si trasformi in lavoro subordinato a tempo indeterminato, sarà molto più facile che il datore stipuli tanti contratti a termine acausali con diverse persone, piuttosto che dover sottostare alla rischiosa disciplina dei rinnovi e delle proroghe. Ciò detto, è evidente che il tema di fondo sia, ancora una volta, quello del lavoro flessibile e quello della linea di demarcazione (talvolta molto labile ed in ogni caso difficile da rilevare) tra “buona”e “cattiva” flessibilità.

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DIRITTO INTERNAZIONALE

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La Corte Penale Internazionale: storia, recenti sviluppi e prospettive. Giuliano Gadiva e Giorgia Testoni La Corte Penale Internazionale è un’istituzione recente, maturata nel corso di molti anni. L’esigenza di un tribunale per punire le più grandi violazioni dei diritti dell’uomo era sentita dalla comunità internazionale fin dall’inizio del secolo scorso. Il primo grande passo nella giustizia penale internazionale è stato compiuto con l’istituzione dei tribunali di Norimberga e Tokio al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando per la prima volta non è valsa la causa di giustificazione della sovranità dello Stato. Dopo queste esperienze, c’è stata una situazione di stallo per più di quarant’anni data la situazione politica e la forte concezione di sovranità degli Stati che non rendevano possibile la realizzazione dell’ambizioso progetto di istituire una corte penale internazionale. Mutato il clima politico, con la caduta del muro di Berlino e scoppiati i due conflitti in ex Jugoslavia e Ruanda, la giustizia penale internazionale mosse e dovette muovere dei grandi passi avanti. Il Consiglio di Sicurezza, in base al capitolo VII1 della Carta delle Nazioni Unite, istituì due tribunali ad hoc con giurisdizione territorialmente e temporalmente limitata al conflitto in ex Jugoslavia e al genocidio in Ruanda2. Qualcuno affermò che era “solo fumo negli occhi”, furono ben poche le persone che ebbero fiducia in questo tentativo, ma le loro aspettative vennero premiate: questi tribunali posero le basi della giustizia penale internazionale. Nonostante l’istituzione ex post facto dei tribunali e il fatto che fossero espressione solo di una parte della comunità internazionale, si fecero grandi progressi. Sebbene non si fosse riusciti ad impedire il verificarsi di tali atrocità, si tentò di porvi rimedio: questi tribunali operarono come veri e propri laboratori del diritto internazionale dove vennero estrapola1 Chapter VII: action with respect to threats to the peace, breaches of the peace, and acts of aggression. In particolar modo Art. 39: The Security Council shall determine the existence of any threat to the peace, breach of the peace, or act of aggression and shall make recommendations, or decide what measures shall be taken in accordance with Articles 41 and 42, to maintain or restore international peace and security. 2 Risoluzione 827/1993

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ti importanti principi di diritto. Questo percorso è culminato nel 1998 con la conferenza di Roma, dove è stato adottato lo Statuto della Corte Penale Internazionale, entrato in vigore nel 2002. La Corte ha una giurisdizione limitata ai quattro crimini internazionali per eccellenza: crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e infine crimine di aggressione, recentemente definito nella conferenza di Kampala del 2010. La Corte ha competenza a giudicare solo nei confronti dei cittadini e nel territorio dello stato che ha aderito allo Statuto. Per attivarne la giurisdizione sussistono tre meccanismi, ossia il rinvio da parte di uno Stato che appunto ha aderito allo statuto, l’apertura delle indagini da parte del pubblico ministero motu proprio e infine il deferimento da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nell’ultimo caso, la giurisdizione opera in modo differente, prescindendo dai criteri di nazionalità e territorialità.

Lo Statuto contiene ottimi presupposti per uno sviluppo progressivo del diritto internazionale; occorre segnalare tre profili caratterizzanti l’operato della Corte. Il primo aspetto è relativo a un’esigenza globalmente avvertita: questo tipo di tribunale esprime l’esigenza istituzionale di una giustizia che sia l’unico strumento per combattere la cosiddetta “system criminality”, ossia i crimini perpetrati dallo Stato o comunque da esso legittimati che, quindi, a livello nazionale, non verrebbero mai puniti. L’unica possibilità sarebbe un cambiamento di regime, ma su questo punto bisogna distinguere tra il piano del diritto e il piano dei fatti: dal punto di vista giuridico sarebbe possibile immaginare un giusto processo, ma la storia insegna… come dimostrano la Libia, l’Iraq e la Francia dopo Vichy3. Inoltre, un altro merito di questa Corte (precostituita e permanente) è quello di rendere più chiari i principi del diritto penale internazionale, prevalentemente basato su consuetudini. La cristallizzazione di queste in fonti scritte e la prassi dei precedenti tribunali ha consentito di raggiungere un livello di certezza del diritto, che il giurista, in particolar modo di civil law, sente come necessario e da ciò deriva anche la capacità di garantire alle parti alcune imprescindibili garanzie procedurali. Un ulteriore pregio di quest’approccio è evitare l’impunità, che può sfociare nell’oblio o nella vendetta privata (come accadde in occasione dell’ecci3 Negli ultimi due casi, nonostante fossero stati istituiti dei tribunali, non vennero raggiunti risultati accettabili in termini di giustizia

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dio degli Armeni). Questo fenomeno è rilevante sotto due profili, prima di tutto come monito per il futuro, in quanto possiamo imparare dalla storia soltanto se la conosciamo e per conoscerla dobbiamo avere degli strumenti per ricordarla. Cosa meglio di un processo che renda giustizia e accerti i fatti? Citando il filosofo francese Vladimir Jankelevitch “dimenticare crimini giganteschi contro l’umanità significa commettere un nuovo crimine contro il genere umano”. Oltre ad accertare chi è innocente e chi è colpevole, il processo serve quindi anche a stigmatizzare la condotta dei colpevoli davanti all’intera comunità e questo dovrebbe comportare che a livello individuale si senta sempre meno l’esigenza di una vendetta privata. Inoltre, per la prima volta nella storia dell’umanità, le vittime possono apparire davanti ad una Corte internazionale per ottenere non solamente la riparazione del danno materiale, bensì anche giustizia tramite l’accertamento della responsabilità del colpevole e la possibilità di esprimersi in prima persona. Il 14 marzo 2012 la Corte ha pronunciato la sua prima sentenza4 : Lubanga è stato condannato come “co-prepetrator of committing the war crime of the enlistment and conscription of children under the age of 15”. Lubanga è stato il fondatore e leader del gruppo ribelle filo ugandese dell’unione dei patrioti congolesi; ha giocato un ruolo chiave nel conflitto tra due delle più importanti etnie nel distretto del Ituri in Congo. Le accuse mosse nei suoi confronti dalle organizzazioni non governative, come Human Rights Watch, furono quelle di aver violato sistematicamente i diritti umani, compiendo massacri etnici, uccisioni, torture, stupri, mutilazioni e arruolamento di minori infra quindicenni. Nel 2006 lo Stato Congolese ha rimesso la questione alla Corte che rilasciò un mandato di cattura; nel 2009 ebbe inizio il dibattimento. Ci si potrebbe domandare come mai l’iter processuale abbia avuto una durata così estesa. Fra le molteplici ragioni, una sembra particolarmente degna di nota: le garanzie processuali e le necessità procedurali che sono state poste alla base dell’operato della Corte. Trovandoci di fronte ad un tribunale internazionale, si pongono questioni peculiari, come quella del necessario bilanciamento tra l’esigenza dell’imputato ad un prompt process e il diritto delle vittime, che spesso sono molto numerose, a partecipare attivamente al processo. 4

Testo integrale: http://www.icc-cpi.int/iccdocs/doc/doc1379838.pdf

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Una costante dell’operato della Corte è sempre stata quella di offrire un minimum standard di diritti dell’imputato e questo trova conferma nel fatto che alcune prove indirette a carico di quest’ultimo non sono state ammesse (dichiarati inammissibili diverse testimonianze in quanto il procuratore aveva delegato la relativa raccolta a intermediari). Inoltre, principi già affermati dai tribunali ad hoc, cristallizzati nello statuto di Roma, hanno trovato piena attuazione come la presunzione di innocenza, il diritto alla difesa, il contradditorio, per non parlare del rispetto dell’obbligo di motivazione; questo ha sicuramente comportato un grande dispendio di tempo ed energie ai giudici, ma, essendo la prima volta che si affrontavano tutte le questioni, era necessario svolgere un ragionamento giuridico chiaro anche per colmare le lacune e per chiarire l’interpretazione delle norme dello statuto. Il risultato di fair trial potrebbe quindi dirsi soddisfacente. Tuttavia, da ciò derivano anche conseguenze negative: per assicurare tali livelli tali di garanzia, i costi sono stati molto alti, per esempio c’è stato uno stay of the proceeding di due anni per sanare dei vizi formali circa il raccoglimento delle prove. Alcuni giuristi hanno addirittura prospettato che fosse stato garantito un eccesso di tutele all’imputato. Finalmente, pochi mesi fa (14 marzo), la sentenza è stata pronunciata; nonostante la condanna ci sia stata, c’è chi l’ha fortemente sminuita fino quasi a ritenerla minimalista: children enlistment, fra tutte le atrocità commesse dal Lubanga, non è sicuramente quella più sentita dall’opinione pubblica. Ma, prima di tutto, nessun biasimo ai giudici della trial chamber: l’unico capo d’imputazione richiesto dal procuratore era stato appunto quello per cui è stato condannato. Quindi, l’attenzione passa alle scelte compiute dal procuratore che, purché questionabili, hanno una propria giustificazione: non dovrebbe essere accusato tanto di timidezza, bensì di aver compiuto un (intelligente e probabilmente necessario) calcolo politico. La linea d’intervento della Corte è stata poco giuridica e molto pragmatica: nonostante la richiesta d’intervento da parte del Congo stesso, ha sentito di non dover varcare i confini invisibili intorno ai quali si regge l’equilibrio della politica internazionale. Inoltre, a voler guardare il bicchiere mezzo pieno, possiamo osservare come prima della sentenza, il crimine di children enlistment fosse ritenuto tendenzialmente marginale, ora invece ha acquisito una propria configurazione autonoma e può costituire un crimine che da solo giustifica un processo davanti alla Corte.

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Dopo le riflessioni sullo ieri e sull’oggi, è lecito soffermarci anche sul domani. La Corte Penale sarà in grado di rispondere alle esigenze in continuo mutamento della comunità internazionale? Allo stato dei fatti, sembra molto difficile dare un risposta; quindi, forse può essere opportuno affidarci ancora una volta alla storia. 1919: dopo la prima guerra mondiale, quasi nessuno riteneva possibile processare l’imperatore di Prussia Guglielmo II per aver violato “la morale internazionale e la santità dei trattati”. Fino addirittura al 1937 autorevoli giuristi, fra cui Vittorio Emanuele Orlando, consideravano assurda anche solo l’idea che un capo di Stato straniero fosse processato. 1945: con i tribunali di Norimberga e Tokio, capi di Stato, ministri, gerarchi e capi della propaganda vengono processati condannati e assolti. Settembre 1993: l’assemblea generale approva lo statuto dell’ICTY; c’è chi parla di “fumo negli occhi” o de “la classica foglia di fico”. Madeleine Albright, ambasciatrice degli stati uniti, è l’unica dei quindici nel Consiglio di Sicurezza ad aver fiducia nella Corte. Lo stato d’animo diffuso è ben espresso da Sir Ninian Stephen5: “propongo di tornare ciascuno nel proprio paese e aspettare che l’ONU decida di fare qualcosa”. 1995: arresti, processi e condanne che posero alcune fondamenta del diritto penale internazionale e che rappresentarono una grande conquista. Tra i quali il principio per cui i crimini di guerra possono essere commessi anche in conflitti armati interni. 2006: prima dell’arresto di Lubanga, probabilmente anche chi lavorava alla corte penale internazionale si limitava ad un controllo formale dei documenti; un processo era poco prospettabile. Oggi: Lubanga è stato arrestato, processato e infine condannato. Ora le più grandi sfide che la Corte deve raccogliere sono rappresentate in particolar modo dalla primavera Araba. Questo sarà probabilmente il terreno su cui la corte si giocherà gran parte della sua credibilità, come organo autonomo non dipendente dalla politica delle Nazioni Unite; dopo essere stata accusata di double standard per il diverso peso che il Consiglio di Sicurezza ha dato nel deferire le situazioni (intervento immediato in Libia, sessant’anni di attesa in Palestina) la Corte dovrà dimostrare la sua autorità. 5 Corte

Autorevole giurista, che è stato anche candidato alla presidenza della

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Presa coscienza della storia delle attuali sfide, sebbene il futuro rimanga sempre (parzialmente) imprevedibile, pare che ci siano sicuramente buoni motivi “per aspettare una nuova generazione di procuratori e giudici perché la Corte arrivi ad esercitare appieno le sue straordinarie potenzialità”6.

6 Cassese A. “L’esperienza del male: guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra”, Il mulino, 2011

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Può uno Stato essere privato della propria immunità giurisdizionale? Il caso Ferrini e la decisione della Corte di Giustizia Internazionale. Nicole Boldracchi , Giulia Camilla De Martini, Marco Lupoli Agosto 1944, provincia di Arezzo. Luigi Ferrini, allora appena maggiorenne, viene catturato dalle forze militari tedesche nel corso di rappresaglie nei confronti della popolazione italiana e deportato in Germania, dove è condotto ai lavori forzati nel campo di concentramento di Kahla. Al termine della guerra, lo Stato tedesco ottenne una moratoria da parte degli Stati vincitori sul risarcimento dei danni materiali e morali subiti dai cittadini dei territori occupati, nell’attesa di un futuro trattato che sarebbe stato concluso una volta che la Germania si fosse riunificata. In particolare, l’Accordo italotedesco del 2 giugno 1961 dichiarò risolte tutte le rivendicazioni per danni accaduti durante la II Guerra Mondiale, pendenti a tale data. Nei decenni successivi, i ricorsi dei sopravvissuti ai campi di concentramento e di lavoro furono regolarmente respinti dai tribunali tedeschi. A partire dal 1990, la riunificazione della Germania ha reso nuovamente attuali le richieste di risarcimento per le ingiustizie individuali subite: nel 2000 lo Stato tedesco ha istituito, con il concorso delle imprese tedesche che avevano beneficiato del lavoro forzato, una Fondazione, denominata “Memoria, responsabilità e futuro”, allo scopo di assicurare alle vittime un indennizzo, subordinando l’individuazione degli aventi diritto al possesso di requisiti restrittivi, che hanno consentito l’accoglimento solo di una ridotta parte delle domande presentate. Il 23 settembre 1998 Luigi Ferrini ha convenuto in giudizio davanti ai giudici italiani lo Stato tedesco, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, da lui subiti a causa della deportazione e del lavoro forzato. Il Tribunale di Arezzo prima, e successivamente la Corte d’appello di Firenze, escludevano la giurisdizione italiana ritenendo che gli atti addebitati alla Germania fossero stati compiuti da tale Stato nell’esercizio della sua sovranità (acta jure imperii) e, pertanto, fossero coperti da immunità in base al diritto internazionale consuetudinario (immunità funzionale). L’11 marzo 2004 si sono pronunciate le Sezioni Unite delle Corte di Cassazio-

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ne, la sentenza n. 5044/041 ha stravolto quanto affermato dalle corti inferiori. La Corte, in primo luogo, ha preso in considerazione l’esistenza di una norma consuetudinaria di diritto internazionale che impone agli Stati l’obbligo di astenersi dall’esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli Stati stranieri e alla sua operatività nell’ordinamento italiano. Ha osservato quindi che la portata di tale principio - che un tempo aveva carattere assoluto di immunità totale, a prescindere dalla natura e l’oggetto della controversia – sia andata progressivamente restringendosi e possa essere riconosciuta solo limitatamente alle attività che costituiscano una “estrinsecazione immediata e diretta” della sovranità di uno Stato estero. Ha affermato inoltre che l’esistenza di tale principio non impedisce l’accertamento dei reati commessi nell’esercizio della funzione pubblica e la conseguente configurazione di una responsabilità. Nel caso di specie, i crimini perpetrati dalla Germania durante il II Conflitto Mondiale, si concretavano in violazioni di diritti fondamentali della persona umana talmente gravi per intensità e sistematicità, che la Cassazione è arrivata ad affermare la giurisdizione dell’Italia, ritenendo che il principio di immunità giurisdizionale della Germania “ceda” di fronte a violazioni di jus cogens2. La Corte ha utilizzato degli strumenti normativi internazionali3 per fondare la sua decisione e affermare che i crimini commessi dalla Germania (nel caso di specie deportazione ed assoggettamento ai lavori forzati) rientrano nella categoria dei crimini di guerra e contro l’umanità. La Cassazione ha così dichiarato la sussistenza della giurisdizione dell’Italia ed accertato il diritto al risarcimento dei danni di Luigi Ferrini. A seguito di tale decisione, la Germania è stata convenuta da circa duecentocinquanta cittadini italiani davanti a ventiquattro Tribunali e due Corti d’Appello. I ricorrenti non sono solo civili arrestati dalle Forze Armate tedesche per essere condotti ai lavori forzati, ma anche familiari delle vittime dei massacri perpetrati da unità tedesche negli ultimi mesi del conflitto (vedi ad esempio l’eccidio di Civitella, Cornia e San Pancrazio) e membri dell’esercito italiano catturati e privati del loro status di prigionieri di guerra. A quest’elenco si aggiungono i 1 vedi sentenza su http://www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaCivile/SezioniUnite/SezioniUnite.asp 2 così come sancito dall’art.40.2 del Progetto sulla Responsabilità internazionale degli Stati, adottato dalla Commissione del Diritto Internazionale delle Nazioni Unite nel 2001; 3 art. 6(b) Statuto del Tribunale Militare di Norimberga, Convenzione dell’Aja sulle leggi e gli usi della guerra terrestre, Risoluzione della Assemblea Generale delle N.U. n.95-I del 1946;

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familiari delle vittime della strage nel villaggio di Distomo, in Grecia, del 10 giugno 1944. Essi, nel 1997, si erano visti riconoscere dai giudici ellenici il diritto a un risarcimento pari a circa 27 milioni di Euro e, non riuscendo a far eseguire la sentenza in Grecia, hanno ottenuto in Italia l’iscrizione di un’ipoteca su Villa Vigoni, immobile sul lago di Como di proprietà del governo tedesco, oggi centro culturale italo-tedesco. Il 22 dicembre 2008, la Germania ha avviato un procedimento davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), ammettendo che questo fosse l’unico rimedio esperibile per far sì che i Tribunali italiani interrompessero le unlawful practices in violazione la sua sovranità. La giurisdizione della CIG è fondata sul fatto che entrambe le parti hanno ratificato la Convenzione Europea per la Risoluzione Pacifica delle controversie (1947)4. La Germania ha lamentato, sin dal principio del ricorso, che lo Stato Italiano fosse manchevole di giurisdizione in quanto gli atti di cui la Germania è stata ritenuta responsabile sono jure imperii, perpetrati dalle autorità del Terzo Reich. In secondo luogo, ha dichiarato che lo Stato tedesco non agisce in giudizio nell’esercizio del suo diritto di protezione diplomatica dei cittadini tedeschi al di fuori del territorio, ma in “prima persona” come parte attrice. Questo il motivo per cui lo stato tedesco non è stato tenuto ad esperire i livelli di giurisdizione interni né, secondo quanto stabilito dall’art. 33 della Carta delle Nazioni Unite, ad avvalersi delle negoziazioni diplomatiche. La Germania ha richiesto alla CIG l’accertamento delle violazioni del diritto internazionale compiute dalla Corte di Cassazione italiana, per aver interpretato restrittivamente il principio dell’immunità giurisdizionale e aver violato il principio dell’uguaglianza sovrana tra gli Stati. Non solo, ha domandato l’accertamento di un’ulteriore violazione dell’immunità a carico dell’Italia in merito alla dichiarazione di esecutività delle sentenze greche e la conseguente ipoteca giudiziale su Villa Vigoni. È stata infine richie4 Art. 1. Le Alte Parti Contraenti sottoporranno per il giudizio alla Corte internazionale di Giustizia tutte le controversie di diritto internazionale che sorgessero tra loro, specialmente quelle concernenti: l’interpretazione d’un trattato; ogni punto di diritto internazionale; la realtà d’un fatto che, se accertato, costituirebbe la violazione d’un obbligo internazionale; la natura o l’ampiezza della riparazione dovuta per la rottura d’un obbligo internazionale.

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sta l’adozione di tutte le misure necessarie per privare di effetto le decisioni delle corti italiane e per far sì che queste si astengano in futuro dal conoscere e giudicare. La prima reazione del nostro Paese, è stata quella di interrompere l’efficacia dei titoli esecutivi e sospendere i procedimenti di esecuzione pendenti nei confronti degli Stati esteri5. In seguito è stata presenta alla CIG una domanda riconvenzionale ribadendo quanto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione e adducendo due nuovi punti. In primo luogo, la difesa ha fatto valere il Territorial tort principle, dichiarando cioè che le corti italiane hanno giurisdizione in quanto la fattispecie criminosa (ad esempio la deportazione) ha avuto inizio sul territorio italiano: ne consegue dunque che il locus commissi delicti corrisponde al locus fori. In ultima istanza, l’Italia convenuta ha posto l’accento sul fatto che il ricorso ai Tribunali italiani fosse per le vittime e le loro famiglie l’unico rimedio per ottenere un risarcimento dei danni. Il 3 febbraio 2012, la CIG, dopo aver confermato la sua giurisdizione ha emesso la decisione. La Corte analizza il principio d’immunità giurisdizionale degli Stati, lo riconosce come regola generale di diritto internazionale consuetudinario, afferma poi che sia la prassi degli Stati6 che l’opinio juris consolidata hanno sempre confermato il diritto all’immunità giurisdizionale, sia facendo valere l’immunità per “se stessi” che riconoscendola agli altri Stati sovrani. La Corte rigetta l’istanza della riconvenzionale italiana, affermando che il territorial tort principle non può operare nel caso di specie: l’Italia non può avere giurisdizione. Gli atti commessi dalle Forze Armate tedesche sono da considerarsi acta jure imperii e quindi protetti dall’immunità giurisdizionale, poiché il diritto internazionale consuetudinario afferma la “resistenza” dell’immunità anche per gravi illeciti commessi sul territorio di un altro Stato in tempo di guerra. La CIG aggiunge che l’immunità funzionale ricomprende dunque anche la violazione di norme di jus cogens e rigetta così tutte le richieste dell’Italia. Si evidenzia l’impegno della Germania nel fornire comunque un risarcimento alle vittime e incita le parti a procedere con future negoziazioni miranti alla risoluzione della questione. 5 L.n.98/2010 6 vedi ad esempio il caso CEDU Al Adsani v. U.K.

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Il nostro Paese esce soccombente dalla spinosa questione, tuttavia era prevedibile che la Germania avrebbe vinto la controversia: in base alla prassi del diritto internazionale, la giurisprudenza degli Stati afferma generalmente la validità del principio d’immunità anche davanti alla violazione norme di jus cogens. Raramente i tribunali nazionali si sono pronunciati, come nel caso Ferrini, a favore della tesi contraria, secondo cui la violazione di norme di jus cogens possa limitare la possibilità di uno Stato di invocare la propria immunità. Se la Corte avesse portato un’evoluzione di questo principio consolidato dando ragione ai giudici italiani, cosa sarebbe successo? Tribunali nazionali che accordano risarcimenti ai propri cittadini, casse degli Stati che si svuotano a seguito dell’accertamento di responsabilità per illeciti compiuti al tempo delle Guerre Puniche… C’è da chiedersi, in effetti, se non si sarebbe scatenato un vespaio? Senza lanciarci in previsioni semplicistiche, questa decisione della CIG apre alcune questioni da non sottovalutare. In primo luogo, come osservato dal giudice della CIG Yusuf nella sua dissenting opinion, non consentire che le vittime di gravi violazioni siano risarcite, non costituisce di per sé una violazione di norme di jus cogens? Posto che la CIG stessa afferma che il principio di immunità sia una norma secondaria consuetudinaria di tipo processuale, dato che una norma di jus cogens può rendere illegittima una norma primaria di diritto sostanziale, allora perché non può limitare una secondaria come quelle processuali? Infine, riprendendo la tesi del grande internazionalista Antonio Cassese come spunto di riflessione, occorre considerare che, come abbiamo visto nel caso analizzato, gli individui che hanno compiuto gravi violazioni dei diritti umani non possono invocare, per sottrarsi alle loro responsabilità, la circostanza di aver agito in qualità di organi dello Stato e di invocare la c.d. immunità funzionale. Se ciò è vero, allora si dovrebbe coerentemente riconoscere che anche lo Stato per cui l’individuo ha agito non possa sottrarsi alla giurisdizione di uno Stato estero7.

7 vedi Cassese A. “Limiti di esercizio della sovranità personale” in “diritto internazionale”, a cura di: Gaeta P., Il mulino, 2006

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DIRITTO PENALE

l’alligatore 29


Il concorso eventuale nel reato di associazione di tipo mafioso Federica Ghisleni Il concorso eventuale nel reato associativo continua ad essere uno degli istituti più controversi e tormentati nell’ambito della lotta alla mafia; la requisitoria1 del p.g. Francesco Iacoviello all’udienza del 9 marzo 2012 avanti la V sezione penale della Suprema Corte nell’ambito del processo Dell’Utri2 non ha fatto altro che riportare sotto la luce dei riflettori il mai sopito dibattito della dottrina in relazione alla sua natura e configurabilità. Applicato dalla giurisprudenza per contrastare i risalenti fenomeni di scambio corrotto e di contiguità tra criminalità organizzata ed esponenti della politica e del mondo imprenditoriale, il concorso eventuale ha consentito di colpire la “zona grigia” costituita da quei soggetti che, pur non essendo organici al sodalizio, contribuiscono tramite le loro condotte a rafforzarlo. A solo titolo esemplificativo si riportano i contributi di tipo economico, quali l’assegnazione di denaro pubblico nel settore degli appalti, l’immissione nel mercato finanziario di proventi derivanti da attività illecite; politico, tramite offerte o patti di rappresentanza politica; giudiziario, mediante il cd. aggiustamento di processi e la rivelazione di informazioni segrete riguardanti procedimenti penali in corso. Mentre appare pacifica la configurazione del concorso morale nel reato di cui all’art. 416-bis, ben rappresentato dal comportamento del padre fuoriuscito dall’associazione che sprona il figlio ad entrare a farvi parte, non altrettanto può dirsi del concorso materiale: il problema nasce dalla difficoltà di individuare la condotta di partecipazione al sodalizio tipizzata nello schema normativo dell’art. 416-bis e dalla ulteriore difficoltà di inquadrare i diversi comportamenti di soggetti estranei, che non fanno parte integrante dell’organizzazione criminosa in qualità di partecipi interni ma forniscono comunque degli apporti in grado di contribuire alla conservazione e al rafforzamento del sodalizio mafioso. Se, infatti, secondo i consolidati indirizzi ermeneutici, la condotta di un soggetto può as1 Il testo della requisitoria è disponibile al seguente sito: http://www.penalecontemporaneo.it/materia/-/-/-/1334-processo_dell_utri__la_requisitoria_del_sostituto_procuratore_generale_iacoviello/ 2 Per una scheda riassuntiva delle decisioni del Tribunale e della Corte d’Appello di Palermo si veda http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/1-/-/-/267-il_caso_dell___ utri_nei_giudizi_di_primo_e_secondo_grado__aspettando_la_cassazione/.

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sumere rilevanza penale ai sensi dell’art. 416-bis c.p. solo nel momento in cui costui assuma il ruolo formale e precostituito di associato, possono aprirsi dei vuoti di tutela ogni qualvolta un soggetto, pur non assumendo la qualità di partecipe, fornisca degli aiuti vantaggiosi per l’associazione, ponendo in essere delle condotte che richiedono attenzione da un punto di vista politico-criminale. Per colmare queste lacune la giurisprudenza ha fatto riferimento all’istituto del concorso eventuale, combinando gli artt. 110 e 416-bis del codice penale. 1. La partecipazione e il concorso eventuale Il punto di partenza per poter delimitare il confine tra partecipazione e concorso eventuale non può che essere la definizione di “partecipazione”, dal momento che è solo nell’area non coperta dalla tipicità designata dall’art. 416-bis comma 1 c.p. che si pone la questione della possibile applicabilità della norma estensiva della punibilità di cui all’art. 110 c.p.3. La prassi in tema di associazione di tipo mafioso si è ormai assestata sul paradigma che la dottrina definisce “organizzatorio”: partecipe è colui che è organicamente inserito nel sodalizio, non basta che egli si attivi a favore dell’associazione, deve farne parte a tutti gli effetti4. Il partecipe, per poter essere considerato tale, deve dunque rivestire un particolare status all’interno dell’associazione, caratterizzato dall’attribuzione di compiti tendenzialmente stabili e dall’accettazione di regole di obbedienza o eventualmente dal potere di dare ordini ad altri membri dell’associazione a lui subordinati. Una siffatta ricostruzione della figura del partecipe ha inevitabili riflessi sul piano della prova: per provare la partecipazione, afferma la Suprema Corte, è sufficiente dimostrare che il soggetto sia stato stabilmente incardinato nel tessuto organizzativo dell’associazione, assumendo in essa un determinato ruolo e ponendosi a sua disposizione. In quest’ottica viene attribuito un rilievo centrale alla prova della rituale affiliazione secondo le regole interne del sodalizio: prova che, pur non essendo necessaria ben potendo essere sostituita da una prova per facta concludentia, è tuttavia ritenuta sufficiente a fondare gli estremi della partecipazione all’associazione5. Non è ritenuta necessaria nemmeno la prova di un contributo ulteriore rispetto all’affiliazione formale o all’organico inserimento nel sodalizio, 3 A. CORVI, Partecipazione e concorso esterno: un’indagine sul diritto vivente, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, I, p. 245. 4 Cass. pen. sez. I, 13 giugno 1987, in Cass. pen. 1988, p. 1812 ss. 5 A. CORVI, Partecipazione, cit., p. 247.

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di un contributo, cioè, che integri un nesso eziologico rispetto all’esistenza o al mantenimento in vita dell’associazione mafiosa. Anche laddove le pronunce appaiano orientate verso il modello causale, una loro più attenta lettura svela che il rispetto di tale modello si mantiene solo su un piano meramente formale: subito si precisa, infatti, che l’affiliazione duratura ed impegnativa costituisce ex se contributo eziologicamente rilevante nei confronti dell’associazione, ampliando il numero dei militanti e, di conseguenza, la potenzialità lesiva dell’ente6. Una volta delineato il concetto di partecipazione, il concorso eventuale finisce per occupare uno spazio residuale, sulla base di un paradigma di natura causale: concorre nel reato associativo, ai sensi dell’art. 110 c.p., il soggetto che, pur non essendo parte dell’associazione e in difetto dell’affectio societatis, pone tuttavia in essere una concreta attività che si riveli essere causalmente rilevante rispetto alla vita del sodalizio mafioso7. In altre parole, la sua condotta deve costituire contributo causale rispetto all’evento del delitto descritto dall’art. 416-bis, ossia l’esistenza, il rafforzamento, il mantenimento in vita dell’associazione di tipo mafioso. Sul piano probatorio questa nozione comporta la necessità di provare i singoli contributi forniti dall’extraneus, nonché la loro rilevanza causale: occorre cioè dimostrare l’esistenza di specifici e concreti atti che abbiano effettivamente inciso sull’associazione, consentendone il rafforzamento e il mantenimento in vita. L’onere probatorio dell’accusa sarà conseguentemente più gravoso di quanto non accada per l’ipotesi della partecipazione: non basta, per lo meno dal punto di vista teorico, che sia manifestata una disponibilità ad agire in favore del sodalizio e non basta nemmeno che l’associazione accetti questa disponibilità; occorre invece la prova di puntuali e specifiche condotte di rilievo causale rispetto alla vita dell’associazione8. La figura del concorso eventuale diviene pertanto uno strumento prezioso a disposizione della magistratura per assicurare la repressione di numerose condotte di contiguità alla mafia provenienti da importanti settori della società civile. 2. L’evoluzione della giurisprudenza in tema di concorso eventuale

2.1. La sentenza Demitry La prima sentenza nella quale vengono tratteggiate le linee guida del con6 7 8

Corte ass. Palermo, 16 dicembre 1987. Cass. SS. UU. penali, 5 ottobre 1994, Demitry. A. CORVI, Partecipazione, cit., p. 248.

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corso eventuale è la sentenza Demitry 9. Dopo aver effettuato un’attenta ricostruzione del contrasto sorto in seno alle sezioni semplici, relativo all’ammissibilità del concorso eventuale nel reato associativo, la Suprema Corte respinge anzitutto l’argomento secondo cui condotta ed elemento soggettivo di partecipe e concorrente eventuale sarebbero perfettamente sovrapponibili, con la conseguente superfluità del ricorso alla figura del concorso esterno. Secondo questa impostazione, manifestata dalla Cassazione nella sentenza Clementi10, la partecipazione “esterna” non è distinguibile dalla condotta di partecipazione ai sensi dell’art. 416-bis, primo comma, poiché il concorrente eventuale nel reato in questione non soltanto deve realizzare una condotta identica a quella del partecipe ma deve agire anche con la volontaria consapevolezza che la sua azione contribuisca all’ulteriore realizzazione degli scopi della societas sceleris: «il che, in tutta evidenza, non differisce dagli elementi – soggettivo ed oggettivo – caratterizzanti la partecipazione (…) attesa la natura di reato plurisoggettivo qualificante la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. (…), con la giuridica conseguenza che, per il detto reato, non è possibile, alla luce della vigente normativa, ipotizzare la figura del concorso eventuale, che, estraneo all’organismo criminoso, pur tuttavia concorre, con la sua condotta, alla realizzazione della fattispecie penale in esame». Secondo le Sezioni Unite, invece, le due situazioni sono “sostanzialmente diverse”. In particolare, per partecipazione si deve intendere il “far parte” di un’associazione, con conseguente necessaria “stabile permanenza del vincolo”: la partecipazione presuppone quindi un certo grado di compenetrazione del soggetto con il sodalizio criminale; requisito, quest’ultimo, che non sussiste invece per il concorrente eventuale e che comporta la “non sovrapponibilità” dei due piani già sul profilo oggettivo11. Per quanto riguarda il profilo soggettivo, sicuramente uno degli elementi più discussi in giurisprudenza, le Sezioni Unite osservano che il concorrente esterno, in quanto “autore di una condotta atipica”, che mette a disposizione dell’associazione “non il suo voler far parte, il suo incardinarsi stabilmente nell’associazione, sibbene il suo apporto staccato, avulso, indipendente dalla stabilità dell’organizzazione”, non ha il dolo di “ far parte 9 Cass. SS. UU. penali, 5 ottobre 1994, Demitry. . 2348, in Foro it., 1994, II, 560, nota di C. VISCONTI.

10 Cass. pen. sez. I, 18 maggio 1994, Clementi. 11 FAVA, Partecipazione necessaria e concorso eventuale nell’associazione di tipo mafioso: tre decisioni della Cassazione dal 1994 al 2002, in L. PICOTTI, G. FORNASARI, F. VIGANÒ, A. MELCHIONDA (a cura di), I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, 2005, Padova, p. 27.

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dell’associazione”. Il concorrente eventuale, dunque, si caratterizza per la mancanza di quella parte di dolo consistente nella coscienza e volontà di far parte del sodalizio, potendo poi concorrere nel reato indifferentemente sia con il dolo generico, cioè con la consapevolezza e volontà di agevolare l’associazione, tramite il rapporto con i soggetti qualificati, del cui dolo tipico è al corrente, sia con il dolo specifico, ossia allo scopo di realizzare le particolari finalità del sodalizio criminoso. Egli si distingue dall’associato, quindi, anche sotto il punto di vista dell’elemento soggettivo, essendo quest’ultimo modellato sulla sua condotta atipica e non sul paradigma delineato dall’art. 416-bis. Uno dei passaggi fondamentali della sentenza è quello con cui viene istituita l’antinomia tra fisiologia e patologia della vita associativa; secondo le Sezioni Unite l’intervento dell’extraneus non sarebbe stabile ma occasionale e circoscritto nel tempo: lo spazio proprio del concorso eventuale sarebbe quello dell’emergenza della vita dell’associazione, ossia quando la fisiologia dell’ente entra in fibrillazione. La Corte ha infatti stabilito che: «il concorrente eventuale è (…) colui che non vuole fare parte della associazione e che l’associazione non chiama a «far parte», ma al quale si rivolge sia, ad esempio, per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto (…) nel momento in cui la «fisiologia» dell’associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase patologica, che, per essere superata, esige il contributo temporaneo, limitato, di un esterno»12. L’applicazione pratica ha tuttavia dimostrato come il paradigma in questione, largamente criticato dalla dottrina13 e smentito successivamente anche dalla giurisprudenza, sia inadeguato, adattandosi soltanto a talune delle ipotesi immaginabili di contiguità alla mafia, quali, ad esempio, il caso del giudice corrotto che si adoperi per “aggiustare” occasionalmente uno o più processi, oppure il caso dell’imprenditore o del rappresentante delle istituzioni che svolga occasionalmente attività di intermediazione a favore della mafia; tale paradigma, in conclusione, non rispecchia una normale modalità di agire propria della mafia, la quale, generalmente, per raggiungere i suoi scopi, tende ad allacciare rapporti stabili con politici ed imprenditori, ai quali si rivolgerà in caso di bisogno; in questo senso si può parlare, più che di un contributo occasionale, di un legame stabile nel 12 Cass. SS. UU. penali, 5 ottobre 1994, Demitry, cit. 13 C. VISCONTI, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, G. Giappichelli editore, Torino 2003: «A tacer d’altro, basti osservare che il criterio escogitato, seppur magari suggestivo sul piano comunicativo, è fondamentalmente arbitrario e incapace di orientare in termini razionali gli interpreti giudiziari: ma, soprattutto, esso si pone in contraddizione proprio con gli scenari criminologici delineati dalle scienze sociali e dalla stessa attività investigativa degli ultimi anni».

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tempo che si estrinseca però in singoli interventi agevolativi.

2.2. La sentenza Carnevale Con la sentenza Carnevale14, le Sezioni Unite intervengono con l’intento di risolvere e superare le perplessità suscitate dal precedente del 199415. Secondo la Corte il concorrente eventuale deve essere esterno all’associazione e deve fornire un contributo concreto e specifico con effettiva rilevanza causale rispetto alla conservazione o al rafforzamento della societas. Si legge: «assume la qualità di concorrente esterno nel reato di associazione di tipo mafioso la persona che, priva dell’affectio societatis e non essendo inserita nella struttura organizzativa dell’associazione, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, purché questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima». La Corte afferma che non possono ritenersi penalmente irrilevanti comportamenti causalmente significativi e consapevoli di soggetti non facenti parte dell’associazione, e ciò proprio in quanto l’art. 110 c.p. consente di assegnare rilevanza penale a condotte “(...) diverse da quella tipica e ciò nondimeno necessarie o almeno utili, strumentali alla consumazione del reato”. Viene riconosciuto, invero, da parte della Corte, che esiste un problema di carenza sotto il profilo del principio costituzionale di precisione dello strumento offerto dall’art. 110 c.p., ma tenta di risolverlo con l’affermazione di principio per cui l’apporto causale ex art. 110 c.p. è per definizione atipico, con la conseguenza «che non è possibile pretendere di tipizzare solo per il concorso esterno in associazione ciò che non è tipizzabile in nessun altro caso di concorso». Le Sezioni Unite affrontano, successivamente, il nodo dell’elemento soggettivo: esse affermano che il dolo del partecipe e il dolo del concorrente non sono sovrapponibili e quindi sottolineano che “ciò (…) consente anche per l’aspetto in esame la piena configurabilità del concorso esterno”. Si tratta di una posizione in linea con il precedente Demitry e in aperta polemica con le altre sentenze che, al contrario, affermano la piena corri14 Cass. SS.UU. penali, 30 ottobre 2002, Carnevale. 15 FIANDACA, nota a Cass, SS. UU. penali, 30 ottobre 2002, in Foro it., 2003, II, p. 454: “Sgombrato il campo dai possibili equivoci provocati da una (ritenuta) falsa interpretazione della sentenza Demitry, la Corte si accosta a quello che ritiene, non a torto, il “vero problema”: cioè la fissazione della soglia, a partire dalla quale la prestazione dell’estraneo assume effettiva rilevanza causale in termini di conservazione o rafforzamento del sodalizio”.

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spondenza anche dal punto di vista soggettivo fra partecipe e concorrente eventuale16. La Corte osserva, in particolare, che il principio espresso dalla sentenza Demitry, secondo la quale il dolo del partecipe e il dolo del concorrente differiscono in quanto quest’ultimo non contiene l’elemento dell’affectio societatis, deve essere senz’altro condiviso. Il Supremo Collegio, tuttavia, non condivide l’affermazione contenuta in Demitry secondo cui il concorrente eventuale, pur nella consapevolezza di accedere a condotte animate da dolo specifico di realizzare i fini criminosi dell’associazione, possa anche “disinteressarsi alla strategia complessiva di quest’ultima”: poiché, argomenta la Corte sulla base dei principi generali in tema di concorso di persone, «perché si possa affermare che i concorrenti hanno commesso il medesimo reato (…) è necessario che le loro condotte risultino tutte finalisticamente orientate verso l’evento tipico di ciascuna figura criminosa». Applicando tale principio alla fattispecie criminosa di cui all’art. 416-bis c.p., la Corte arriva alla conclusione per cui non è possibile postulare la figura di un concorrente eventuale nella cui condotta sia presente soltanto la consapevolezza del dolo specifico degli associati, dovendo al contrario «ritenersi che il concorrente esterno è tale quando, pur esterno all’associazione, della quale non intende fare parte, apporti con un contributo che “sa” e “vuole” sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio»17. La Cassazione, dando questa particolare definizione dell’elemento psicologico del concorrente eventuale, sembra voler sgomberare il campo dagli equivoci e pare volta a superare le critiche e le obiezioni sollevate contro Demitry, conseguendo però l’opposto risultato di aprire un ulteriore dibattito sul reale significato di questa nuova nozione di “dolo diretto”. Risulta, infatti, difficile inquadrare tale nozione nelle categorie elaborate dalla dottrina per descrivere l’intensità del momento volitivo del dolo. L’aspetto più innovativo e più rilevante dal punto di vista pratico della sentenza Carnevale è rappresentato dal superamento delle linee guida contenute in Demitry. Le Sezioni Unite criticano il riferimento al contributo del concorrente eventuale come “pertinente alla patologia della vita associativa”, affermando da una parte che la figura del concorso esterno poggia su basi ben più solide, e dall’altro osservando come il riferimento alla patologia e alla fi16 Cfr.: Cass. pen. sez. I, 18 maggio 1994, Clementi, in Cass. pen., 1994, p. 2680, con nota di CERASE e Cass. pen. sez. VI, 21 settembre 2000, Villecco, in Foro it., 2001, II, p. 405. 17 F. FAVA, Partecipazione necessaria, cit., p. 31.

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brillazione del sodalizio avrebbe dovuto rivestire “più che altro carattere esemplificativo”, mentre “ha finito per attirare l’attenzione oltre la sua reale importanza nell’economia del ragionamento seguito dalle Sezioni Unite”. In altri termini, secondo il giudizio delle Sezioni Unite, la dottrina maggioritaria e parte della giurisprudenza successiva hanno sopravvalutato la portata di tale riferimento, mentre la fattispecie di concorso eventuale può verificarsi anche a prescindere dalla situazione di anomalia invocata nella sentenza del 1994. I giudici cercano di enucleare il “livello di intensità o di qualità idoneo a considerare il concorso dell’agente come concorso nel reato di associazione per delinquere”, evidenziando come non ogni contributo portato all’associazione possa rientrare tout court nello schema concorsuale eventuale. Il contributo posto in essere dall’extraneus deve poter essere apprezzato come idoneo, invece, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento della societas sceleris18. L’attività del concorrente potrà non essere continuativa, potendo consistere anche in una sola condotta; ciò che conta sarà la sua rilevanza causale. E a chi obietta che la dimostrazione di tale rilevanza comporta una sorta di probatio diabolica, la Corte ribatte, da un lato, che nel diritto penale esistono molti altri istituti controversi, come ad esempio la prova dell’idoneità e dell’univocità degli atti in un delitto tentato, e, d’altro canto, che nel nostro ordinamento sono pacificamente riconosciuti margini di indeterminatezza ed elasticità agli istituti giuridico-penali. A questo punto la Cassazione, con l’evidente intento di “salvare” il concorso esterno dalle probabili censure sotto il profilo di un eventuale deficit di precisione, si premura di escludere dall’alveo della punibilità la semplice “contiguità compiacente”, ribadendo la necessità imprescindibile di una “positiva attività”, suscettibile di produrre un “oggettivo apporto di rafforzamento o di consolidamento sull’associazione”. 2.3. La sentenza Mannino Con la sentenza n. 33748, depositata il 20 settembre 2005, le Sezioni Unite penali sono nuovamente intervenute sull’istituto del concorso eventuale, affrontando l’ipotesi del patto di scambio politico-mafioso19. 18 Si legge: “il contributo richiesto al concorrente esterno deve poter essere apprezzato come idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento dell’associazione”. La Corte aderisce al criterio dell’idoneità che verrà aspramente criticato dalla successiva sentenza Mannino. 19 Cfr. G. FIANDACA, C. VISCONTI, Il patto di scambio politico-mafioso al vaglio delle Sezioni Unite, in Foro it., 2006, II, c.. 86 ss.

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Rispetto alle precedenti decisioni, la Corte non apporta nessuna innovazione ai principi già consolidati; tuttavia, nella motivazione, accoglie pienamente il modello causale quale criterio di tipizzazione della condotta atipica, rigettando il criterio dell’idoneità che, invece, era stato accolto nella sentenza Carnevale. Tre sono gli aspetti di interesse affrontati dalla Corte: la differenza tra partecipe e concorrente eventuale, l’individuazione della condotta atipica penalmente rilevante, specie con riguardo al caso di scambio politicomafioso e la tematica del dolo del concorrente eventuale. Nel solco della propria giurisprudenza, le Sezioni Unite hanno in primo luogo ribadito l’ammissibilità del concorso eventuale nel delitto di associazione di tipo mafioso e, più in generale, della disciplina del concorso di persone nel reato. La Corte è quindi tornata sulla distinzione tra la figura del partecipe e quella del concorrente eventuale, cercando di rimediare ad una certa ambiguità frutto di formule definitorie di tipo sincretistico20, contenenti sia riferimenti al modello cd. «causale», nel quale l’accento è posto sul contributo causale apportato dal soggetto al rafforzamento o conservazione del sodalizio, sia a quello cd. «organizzatorio», nel quale prevale invece il ruolo assunto nell’organico associativo21. Vengono ripresi alcuni passaggi argomentativi già sviluppati nella sentenza Carnevale; in particolare, secondo la Corte, partecipe è «colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “ fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate dalla medesima». Concorrente esterno, invece, è «il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa e privo dell’affectio societatis (che quindi non ne “ fa parte”), fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle ca20 Cfr. Cass. 15 ottobre 2004, Andreotti, in Foro it., 2006, II, p. 114, dove si afferma, da un lato, che “la partecipazione all’associazione criminosa si sostanzia nella volontà dei suoi vertici di includervi il soggetto e nell’impegno assunto da costui di contribuirne alla vita” e, dall’altro, che la condotta in ogni caso “deve costituire un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all’esistenza e al rafforzamento del sodalizio”. 21 Cass. SS.UU. penali., (ud. 12 luglio 2005) 20 settembre 2005, n. 33748, Mannino, cit., nota di G. FIANDACA E C. VISCONTI, c. 80 ss.

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pacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come “Cosa nostra”, di un suo particolare settore e ramo d’attività o articolazione territoriale) e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima». Le Sezioni Unite hanno trattato con particolare puntiglio la questione inerente i contorni della condotta punibile a titolo di concorso esterno e, come emerge dalla motivazione, hanno optato senza esitazione per il modello condizionalistico, correggendo il tiro rispetto alla sentenza Carnevale, la quale aveva tuttavia fatto riferimento in maniera equivoca, in alcuni snodi della motivazione, al criterio dell’idoneità. Secondo la sentenza Carnevale, infatti, se l’attività del concorrente esterno ha carattere continuativo, non rileva se essa, ex post, non abbia causalmente inciso sul conseguimento delle finalità illecite dell’associazione, dovendo invece valutarsi l’idoneità ex ante di quella condotta al rafforzamento della struttura associativa. Tale passaggio motivazionale è in contrasto con il principio condizionalistico, il quale postula, invece, la verifica non ex ante ma ex post dell’effettiva incidenza del contributo sul mantenimento in vita dell’associazione criminale, mediante la formulazione di un giudizio controfattuale di eliminazione mentale della condotta posta in essere dal concorrente eventuale. L’equivoco in cui è incorsa la sentenza Carnevale si è perpetrato nella giurisprudenza successiva; emblematica, in tal senso, una decisione in cui la Cassazione ha ravvisato il concorso eventuale di un politico, candidato alle elezioni comunali, che, in cambio dell’appoggio elettorale garantitogli, si era impegnato, una volta eletto, a sostenere le sorti di una certa organizzazione mafiosa22. Lo strappo dai principi di offensività e legalità è evidente: la sostituzione del modello causale con il criterio dell’idoneità trasforma il concorso esterno in un tentativo di partecipazione, e ciò urta con il dettato normativo dell’art. 110 c.p. Per fugare le incertezze interpretative generate dalla sentenza Carnevale, le Sezioni Unite sono ritornate sulla delicata questione, dedicando ampio spazio ai caratteri della condotta atipica penalmente rilevante. La Corte ha sottolineato che «il contributo atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni» in tanto rileva a norma dell’art. 110 c.p. in quanto «abbia avuto una reale efficienza causale, sia stato condizione “necessaria” – secondo un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine qua non proprio delle fattispecie a forma libera e causalmente orientate – 22

Cass. sez. I, 25 novembre 2003, n. 284, Cito, in C.E.D. Cass., n. 229992.

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per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, che nella specie è costituito dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso». La Corte non nasconde gli ostacoli che, sul terreno della prova, comporta l’accoglimento dello schema causale: «sono ben note le difficoltà di accertamento (mediante la cruciale operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica del concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura o generalizzazioni e massime d’esperienza dotate di affidabile plausibilità empirica) dell’effettivo nesso condizionalistico tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato, come storicamente verificatosi, hic et nunc, con tutte le sue caratteristiche essenziali, soprattutto laddove questo rivesta dimensione plurisoggettiva e natura associativa». Nondimeno, a differenza della sentenza Carnevale, nella Mannino la Corte mantiene fermo lo schema causale, senza alcuno scivolamento verso il criterio dell’idoneità: «ritiene il Collegio che non sia affatto sufficiente che il contributo atipico, con prognosi di mera pericolosità ex ante, sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo», ciò che anticiperebbe «la soglia di punibilità in contrasto con il principio di tipicità e con l’affermata inammissibilità del mero tentativo di concorso». Da ultimo, un cenno all’elemento soggettivo del concorrente esterno. Sul punto la sentenza Mannino riprende pedissequamente i principi e i passaggi motivazionali espressi dalla sentenza Carnevale. Secondo le Sezioni Unite, il dolo del concorrente eventuale deve investire «sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del “medesimo reato”»; in particolare, il concorrente eventuale deve essere «consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno)», e deve rendersi «compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione: egli “sa” e “vuole” che il suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio».

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Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, pertanto, il concorrente eventuale deve agire almeno parzialmente per il perseguimento del programma associativo, e, quindi, con dolo specifico23. 3. Considerazioni conclusive L’aspetto fondamentale che emerge dalla disamina delle pronunce giurisprudenziali è il seguente: le varie soluzioni avanzate per cercare di risolvere le problematiche connesse all’applicazione dell’istituto concorsuale, al fine di giustificare a livello normativo la partecipazione “esterna” e, contestualmente, distinguere la figura di chi fa parte di una struttura criminale da chi, invece, si limita ad un’attività contributiva posta dall’esterno in favore della stessa, si sono dimostrate incapaci di disciplinare in maniera adeguata le situazioni che fuoriescono dalla fattispecie partecipativa descritta nel primo comma dell’art. 416-bis c.p., ma, soprattutto, va sottolineato come la povertà del dato normativo abbia di fatto rimesso alla giurisprudenza il potere di determinare i contenuti precettivi e i limiti dell’istituto del concorso eventuale. Certamente, sul piano dei contenuti, le Sezioni Unite hanno generato delle apprezzabili soluzioni orientate alla tutela dei principi garantistici presenti nel nostro ordinamento, come dimostrano numerose sentenze di condanna e assoluzione pronunciate sulla scorta di contestazioni precise e ben motivate in punto di diritto24; tuttavia tali soluzioni sono state troppo spesso disattese anche dalle stesse sezioni semplici della Cassazione25, e hanno portato all’evidente stortura per cui, per il medesimo fatto di reato, vengono avanzate soluzioni diverse. Di fronte a tali difficoltà, la dottrina è unanime nel sostenere che la soluzione delle problematiche sottese alla figura del concorrente eventuale consista nell’introduzione di una nuova fattispecie, che sia in grado non solo di colmare l’attuale vuoto legislativo, ma, sopratutto, di garantire 23 Questa posizione è stata criticata da parte di S. CORBETTA, giudice penale presso il Tribunale di Milano, il quale afferma: “si tratta di una conclusione che non convince: la corretta applicazione della disciplina prevista dall’art. 110 c.p. esige la (sola) consapevolezza (e non anche il perseguimento), da parte del concorrente, del programma che caratterizza l’associazione mafiosa; diversamente, si giunge ad una sostanziale parificazione tra il dolo del partecipe e il dolo del concorrente eventuale”, dal sito www.forensia.it. 24 Cass. 19 novembre 2010, Miceli e Cass. 13 novembre 2002, Gorgone pronunciate a carico di esponenti politici; Cass. 29 ottobre 2008, Bini e Cass. 11 giugno 2008, Lo Scicco, entrambe a carico di imprenditori. 25 Cfr. Cass. pen. sez. V, 15 maggio 2006, Prinzivalle, in Dir. pen. proc., p. 1112 ss., con nota di A. CORVI; Cass. pen. sez. V, 1 giugno 2007, Tursi Prato, in Resp. civ. prev., 2007, n. 10, p. 2194 ss.; Cass. pen. sez. VI, 13 giugno 2007, Patriarca, nelle quali il dictum fondamentale della Mannino è stato riconvertito in una più agevole valutazione di idoneità.

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la punizione delle sole condotte di contiguità ab esterno, il cui disvalore penale poggi su espressioni capaci di tipizzare adeguatamente la norma incriminatrice, escludendo, così, il rischio di sottoporre a pena condotte prive di rilevanza penale26. In conclusione si rileva come, nonostante le prese di posizione della dottrina più illustre, il legislatore italiano non abbia mai ritenuto prioritario l’intervento normativo sull’istituto in esame; neppure l’attuale esecutivo ha purtroppo inserito tra le sue priorità quella di porre un rimedio alle segnalate incertezze applicative del concorso eventuale.

26 Per le diverse possibili soluzioni de jure condendo, si veda: C. VISCONTI, Sulla requisitoria del p.g. nel processo Dell’Utri: un vero e proprio atto di fede nel concorso esterno, in http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/17-/-/1335 sulla_requisitoria_del_p_g__nel_ processo_dell_utri__un_vero_e_proprio_atto_di_fede_nel_concorso_esterno/; G. FIANDACA, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, in http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/17-/-/1355il_concorso_esterno_tra_guerre_di_religione_e_laicit___giuridica/; D. PULITANÒ, La requisitoria di Iacoviello: problemi da prendere sul serio, in http:// www.penalecontemporaneo.it/area/3-/17-/-/1365-la_requisitoria_di_iacoviello__problemi_da_prendere_sul_serio/; P. MOROSINI, Il “concorso esterno” oltre le aule di giustizia, in http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/17-/-/1367-il__concorso_esterno__oltre_le_ aule_di_giustizia/; V. MAIELLO, Luci ed ombre nella cultura giudiziaria del concorso esterno, in http://www.penalecontemporaneo.it/materia/-/-/-/1382-luci_ed_ombre_nella_cultura_giudiziaria_del_concorso_esterno/; C. VISCONTI, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, G. Giappichelli editore, Torino 2003 p. 483 ss.; A. DELL’AIRA, Il concorso esterno in associazione mafiosa, tra percorsi giurisprudenziali, pareri dottrinali e auspici di codificazione, 2002, www.penale.it; G. DE VERO, Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, in Dir. pen. proc., 2003, III, p. 1325; U. LIGUORI, La possibilità di configurare la cd. partecipazione esterna in associazione a delinquere di stampo mafioso, tra incertezze dogmatiche e oscillazioni giurisprudenziali: spunti per una riforma, in Ind. pen., 2004, I, p. 163; G. DENORA, Sulla qualità di concorrente “esterno” nel reato di associazione di tipo mafioso, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, I, p. 322; F. DE LEO, Aspettando un legislatore che non si chiama Godot. Il concorso esterno dopo la sentenza Mannino, in Cass. pen., 2006, V, p. 1994; V. MAIELLO, Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge, in Cass. pen., 2009, n. 3, p. 239 ss.; G. FIANDACA, Il concorso esterno tra sociologia e diritto penale, in Foro it., 2010, V, col. 176.

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I presupposti per la limitazione della libertà personale nel processo penale Riccardo Ruggiero Quale ruolo ricopre la libertà personale nel nostro ordinamento? Come può essere limitata, o addirittura esclusa, la libertà personale senza una sentenza di condanna? Per meglio capire il problema proponiamo di analizzare la disciplina delle misure cautelari personali, prevista dal nostro Codice di procedura penale, facendo particolare attenzione ai criteri che portano alla scelta della misura da applicare in concreto1. Un buon punto di partenza per comprendere la normativa e analizzare la relativa problematica ci viene fornito dall’art. 13 Cost., a norma del quale la libertà personale è inviolabile, non essendo ammessa forma alcuna di limitazione, né qualsiasi forma di restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Il legislatore ordinario, con l’art. 272 c.p.p. (limitazioni alla libertà della persona), ha tradotto il dettato costituzionale a livello di legge ordinaria, stabilendo che le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni previste dal codice di rito penale2. Valore dominante della disciplina relativa alle misure cautelari è dunque la libertà personale, ritenuta inviolabile ex art. 13 Cost.; nonostante ciò l’art. 272 c.p.p. tratta con pari dignità anche le “altre libertà” costituzionalmente garantite e la loro tutela in via ordinaria ne risulta rafforzata rispetto al minimo richiesto dalla disciplina costituzionale (da notare la disciplina della libertà di circolazione e soggiorno, prevista dall’art. 16 Cost., la quale non prevede alcuna riserva di giurisdizione, garantita invece ex art. 272 c.p.p.). Con riferimento, innanzitutto, ai presupposti di applicazione delle misure cautelari il primo elemento fondamentale, stabilito dall’art. 273 c.p.p., 1 Verrà affrontata in questa sede la sola disciplina delle misure cautelari personali coercitive. Si tenga conto che, oltre alle condizioni generali di applicabilità di cui all’art. 273 c.p.p., va aggiunta un’ulteriore condizione, comune alle misure cautelari coercitive (art. 280, comma 1, c.p.p.) e interdittive (art. 287 c.p.p.): l’applicabilità della misura solo quando si proceda per delitti per i quali sia prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni. 2 O.Dominioni, P.Corso, A. Gaito, G. Spangher, G. Dean, G. Garuti, O. Mazza, Procedura Penale. Torino, G. Giappichelli Editore, Torino, 2010, p. 337

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consiste nel fatto che nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza (si parla, infatti, di fumus commissi delicti). Dal contenuto normativo di tale articolo è facile dedurre che gli indizi devono essere gravi: il giudice, quindi, deve valorizzare tanto l’esistenza quanto il peso degli indizi a carico. Inoltre, al fine di guidare (o arginare) la discrezionalità del giudice è stato introdotto da parte del legislatore del 2001 un comma 1 bis, il quale fa rimando ad alcune regole dettate in materia probatoria. Viepiù, la Corte Costituzionale, già nel ’95 con la sent. n. 432, ha considerato la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza equivalente ad un giudizio di responsabilità dell’imputato, e quindi il giudice dovrà porre in essere un giudizio penetrante circa la sussistenza di questi indizi. Sia chiaro che gli indizi di cui all’art. 273 c.p.p. e la c.d. prova indiziaria non sono la stessa cosa; per l’emissione di una misura cautelare non si richiede - e sarebbe anche irragionevole richiederlo - quanto necessario per una pronuncia di condanna. Non è infatti un caso che gli indizi dotati di efficacia probatoria, di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p., non siano stati richiamati dal novellato comma secondo dell’art. 273 c.p.p. Risulta grave, quindi, l’indizio fornito di capacità di resistenza a possibili letture alternative, postulando un giudizio prognostico allo stato degli atti. Si ricordi che, perché sia possibile l’adozione di una misura cautelare, l’insieme di indizi devono essere orientati verso la condanna del soggetto destinatario della misura cautelare. Non è un caso allora che l’art. 273, comma 2, c.p.p. richieda, per l’adozione di una misura cautelare, che la condanna “sopravviva”. Non sopravvivrà nei casi in cui il fatto sia stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, o di non punibilità, o se sussiste una causa di estinzione del reato ovvero una causa di estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata. É infine escluso che possa essere stabilita una misura cautelare custodiale qualora la futura - e verosimile - sentenza di condanna possa essere oggetto di sospensione condizionale a norma dell’art. 275, comma 2 bis, c.p.p. I requisiti appena esposti sono condizioni necessarie, ma non ancora sufficienti, affinché l’autorità giudiziaria possa disporre una misura cautelare: è necessario altresì che la misura sia idonea a garantire esigenze cautelari. Bisogna sottolineare che le esigenze cautelari, quali riempimento dell’art. 13 Cost., costituiscono le finalità che legittimano la restrizione delle libertà della persona; non possono consistere in una anticipazione della pena perché, se così fosse, vi sarebbe un palese contrasto con la presunzione di non colpevolezza. Le esigenze cautelari, identificate nei tre pericula liber-

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tatis previsti dall’art. 274 c.p.p. (lett. a) pericolo d’inquinamento probatorio; lett. b) pericolo di fuga; lett. c) pericolosità sociale), dovranno garantire il compiuto accertamento dei fatti e delle responsabilità penali e null’altro. Per quanto riguarda i criteri di scelta delle misure cautelari il giudice, innanzitutto, nel disporre una delle misure cautelari previste tassativamente dal codice di rito, dovrà tenere conto tanto della specifica idoneità di ogni misura a soddisfare le esigenze cautelari nel caso concreto, quanto della possibilità di controllo delle prescrizioni imposte all’imputato non in vinculis (quindi passivo di una misura cautelare non custodiale) da parte degli organi di polizia. In questo modo, il raccordo con le specifiche esigenze cautelari viene ad essere determinante non solo per decidere se fare uso del potere di scelta “in senso generico”, ma anche per decidere quale strumento cautelare usare in concreto3 . Questo principio viene identificato quale criterio di adeguatezza: logica implicazione di un sistema che presenta una pluralità di misure applicabili. Un altro criterio guida, nella scelta della misura cautelare più idonea, è rappresentato dalla proporzionalità: il criterio tende ad evitare che misure particolarmente afflittive vengano applicate al soggetto indiziato di fatti obbiettivamente non gravi, e quindi futuro destinatario di sanzioni miti. La misura da applicare al singolo soggetto, in altre parole, deve essere correlata all’entità del fatto per il quale si procede e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata4. In questo senso, una funzione fondamentale è svolta dal comma terzo (primo periodo) dell’art. 275 c.p.p., a norma del quale la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata. Si comprende come nel nostro sistema processuale penale la custodia cautelare in carcere assume il ruolo di extrema ratio, riaffermando il principio contenuto nell’art. 13 Cost. e pretendendo un vero e proprio impegno giudiziale nel motivare il provvedimento d’adozione in ossequio al dettato costituzionale. Va però ricordato che il principio della custodia cautelare come extrema ratio ha subito nel tempo una notevole erosione. A seguito di vari interventi legislativi5, la custodia cautelare in carcere è diventata obbligatoria – il terzo comma dell’art. 275 c.p.p. pur continuando a sancire, nel primo 3 A. Giarda – G. Spangher, Codice di Procedura Penale commentato, IV ed., Ipsoa, Milano, 2010, pag. 2911. 4 A. Giarda – G. Spangher, op. cit., p. 2912. 5 D.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009, n. 38.

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periodo, il principio della custodia cautelare in carcere come “l’ultima delle misure da disporre”, nei successivi due, invece, ribalta totalmente la regola! - quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, nonché in ordine ai delitti di cui agli artt. 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, e 600-quinquies c.p.6, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti previsti dagli artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p., salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate7. Quindi: la norma in esame introduce, per alcune fattispecie tassativamente elencate una presunzione relativa di sussistenza del periculum libertatis, in presenza di gravi indizi di colpevolezza e, in ragione della gravità 6 Parole inserite dall’art. 2, comma 1, lett. a) del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni, nella L. 23 aprile 2009, n. 38. 7 Periodo inserito dall’art. 2, comma 1, lett. a) del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni, nella L. 23 aprile 2009, n. 38. Successivamente, la Corte Costituzionale, con sentenza 7-21 luglio 2010, n. 265 (G. U n. 30 del 28 luglio 2010 - Prima serie speciale), ha dichiarato l’illegittimità del secondo e terzo periodo del presente comma, così come modificato nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La stessa Corte, con sentenza 9-12 maggio 2011, n. 164 (G. U. n. 21 del 18 maggio 2011 – Prima serie speciale), ha dichiarato l’illegittimità del secondo e terzo periodo dello stesso comma, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Infine la Corte Costituzionale, con sentenza 22 luglio 2011, n. 231, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’articolo 74 del DPR 9 ottobre 1990, n. 309, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

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delle ipotesi criminose considerate, una presunzione assoluta, di adeguatezza e proporzionalità della custodia cautelare in carcere. In altri termini, in presenza di gravi indizi di colpevolezza per una delle fattispecie specificamente indicate, il giudice deve applicare la misura della custodia cautelare in carcere senza necessità di accertare le esigenze cautelari che sono presunte dalla legge. Per superare tale presunzione e non applicare alcuna misura cautelare è necessario che siano acquisti elementi (concreti e non congetturali) dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, ciò comportando un’inversione della motivazione. Conseguentemente a ciò, in presenza di esigenze cautelari – peraltro presunte – dovrà essere disposta la misura della custodia cautelare in carcere; in assenza dei pericula – che deve essere dimostrata dalla difesa – l’imputato sarà libero8. Questo si traduce in una sorta di automatismo a favore della misura carceraria, non essendo pensabile che il pubblico ministero, nella richiesta di ordinanza di custodia cautelare, si impegni a valorizzare anche elementi di contrasto con la stessa – pur dovendo, ex art. 291, comma 1, c.p.p., presentare al giudice anche ‹‹tutti gli elementi a favore dell’imputato››; inoltre, nel rispetto del ruolo ricoperto nel nostro sistema, come delineato nel r.d. 12/1941, il pubblico ministero dovrebbe vegliare alla osservanza delle leggi e alla pronta e regolare amministrazione della giustizia - né essendo consentiti poteri di acquisizione autonoma di elementi da parte del giudice per le indagini preliminari9. Il sistema della presunzione legislativa assoluta delle esigenze cautelari non pare affatto rispettoso del dettato costituzionale, questo ha portato a vari interventi “manipolativi” da parte della Corte Costituzionale10, la quale ha ritenuto fondate diverse questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 275 c.p.p. per violazione degli artt. 3, 13, comma 1, 27, comma 2 Cost. In quelle pronunce la Corte ha sostenuto che i principi costituzionali di riferimento implicano che la disciplina della materia debba essere ispirata al principio del minore sacrificio necessario (sent. 295/2005): la compressione della libertà personale va contenuta, cioè, entro limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Questo impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da un differente grado di afflittività; dall’al8 A. Giarda – G. Spangher, op. cit., p. 2917, 2918. 9 O.Dominioni, P.Corso, A. Gaito, G. Spangher, G. Dean, G. Garuti, O. Mazza, op. cit., p. 345. 10 Ex plurimis. Corte Cost., 19 luglio 2011, n. 231; Corte Cost., 21 novembre 2011 n. 311.

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tra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, coerenti e adeguate alle esigenze configurabili nei singoli casi concreti. Da questo modello si discosta la disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo, del comma 3, dell’art. 275 c.p.p., la quale stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, la presunzione assoluta di adeguatezza della misura cautelare in carcere. Ciò posto, la Corte ha sottolineato che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa . La Corte Costituzionale, concludendo le pronunce in materia, ha sempre affermato che, al fine di ricondurre il sistema in sintonia con i valori costituzionali, non fosse necessario rimuovere integralmente la presunzione prevista all’art. 275 c.p.p., ma solo il suo carattere assoluto, che implicava una totale negazione del principio del “minore sacrificio necessario”. La previsione di una presunzione – soltanto - relativa di adeguatezza della custodia carceraria non pare eccedere, quindi, i limiti segnati dal dettato costituzionale. In definitiva, possiamo affermare che il principio d’inviolabilità della libertà personale sancito all’art. 13 Cost., che permea in tutto il sistema cautelare, può essere derogato, ma non potrà mai essere accantonato per andare incontro ad una sommaria necessità di giustizia. I delitti per i quali era previsto l’automatismo assoluto della custodia cautelare in carcere sono tutt’oggi fattispecie di reato di particolare allarme sociale, che necessitano una pronta risposta dal nostro ordinamento, ma che non dovranno mai portare all’assottigliamento o alla negazione dei principi fondamentali della nostra civiltà giuridica.

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DIRITTO PUBBLICO

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La speciale autonomia di alcune Regioni italiane ha ancora un senso? Enrico Cerri Rispetto al precedente Stato centralista, la Costituente scelse di adottare per la nuova Italia un modello di Stato che riconoscesse e valorizzasse le autonomie locali e le minoranze linguistiche, istituendo enti territoriali capaci di raccogliere le istanze provenienti dalle comunità da loro rappresentate e di darne concreta attuazione. Oltre ad istituire quindi tre forme di autonomia territoriale, Comuni, Provincie e Regioni, la Costituente selezionò un gruppo di Regioni a suo avviso meritevoli del riconoscimento di una particolare autonomia: le Regioni a statuto speciale. Esse sono: il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, la Valle D’Aosta e il Trentino-Alto Adige, a sua volta diviso nelle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le motivazioni che spinsero la Costituente ad operare questa scelta sono complesse e frutto di un articolato dibattito all’interno dell’Assemblea, basato su discussioni di carattere storico e politico. E’ possibile tuttavia individuare in tale discussione tre ragioni fondamentali che portarono all’attribuzione di una particolare autonomia alle Regioni a statuto speciale. Innanzitutto la necessità immediata di tutelare la particolare posizione geografica di alcune Regioni, come Sardegna e Sicilia, che proprio in virtù della loro natura isolana hanno avuto storicamente uno sviluppo parzialmente difforme da quello peninsulare. Necessariamente i contatti con la penisola, soprattutto per quanto riguarda la situazione della Sardegna, sono più difficoltosi rispetto alle altre zone del Paese, e ciò ha spinto i costituenti a dotare queste Regioni di particolare autonomia organizzativa e amministrativa, sopratutto in un momento delicato come l’immediato dopoguerra, dove riconquistare la coesione sociale e territoriale gravemente minacciata dal conflitto mondiale era un obbiettivo primario. In secondo luogo l’attenzione ai movimenti indipendentisti e alle spinte autonomiste di alcune Regioni, che assunsero i caratteri di tumulti e agitazioni nell’immediato dopoguerra, indusse la Costituente a dotarle di particolari forme di autonomia sul piano delle rappresentanze politiche territoriali, pur restando in un’ottica di subordinazione all’ordinamento costituzionale.

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Indicativa sotto questo aspetto è la particolare denominazione riservata all’Assemblea Regionale Siciliana, unica in tutta Italia ad avere la qualifica di Parlamento, e ai suoi membri, chiamati deputati. Infine vi è una ragione espressamente specificata nella carta costituzionale, ossia la tutela delle minoranze linguistiche e precisamente: quella francofona in Valle D’Aosta , quella di lingua Tedesca presente in TrentinoAlto Adige e quella di matrice slava presente in Friuli-Venezia Giulia. Per questo motivo tutt’oggi le Regioni a statuto speciale godono di tutele di notevole rilevanza, prevedendo lo studio della lingua della minoranza negli istituti scolastici, la riserva di posti negli organi amministrativi fino alla creazione di concorsi per cariche pubbliche paralleli a quelli aperti a tutti i cittadini, accessibili solamente ai cittadini della comunità tutelata. Durante i lavori della Costituente per la redazione dell’art. 117 sulle Regioni a statuto speciale fu da subito chiara a tutti la necessità di riconoscere le differenze intercorrenti tra le diverse Regioni d’Italia e adeguare gli statuti regionali alle esigenze specifiche di ciascuna realtà, con particolare attenzione alle situazioni di Sardegna, Sicilia, Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Piuttosto, le diverse posizioni dei costituenti emersero in merito al problema di riconduzione delle diverse autonomie nel quadro costituzionale complessivo, in quanto, con l’introduzione degli statuti speciali, si percepiva il timore di creare una sorta di dualismo di ordinamenti in un paese già profondamente diviso. Secondo Zuccardi “...gli statuti di queste Regioni non debbono costituire una cosa a sé, giacché così si dividerebbe davvero l’Italia in due, anzi in più sistemi costituzionali. Il dare a certe Regioni quello che poi si negherà ad altre non rappresenta certamente un contributo alla unità ed alla solidità dell’ordinamento politico. Sarà invece un indebolimento. Significherà introdurre nell’interno dello Stato un seme di disgregazione e di contrasti avvenire.” Ambrosini d’altra parte sostenne che “...la specialità dello Statuto di queste Regioni, dettato allo scopo di tenere conto delle loro speciali condizioni, non turberà affatto l’organicità, né diminuirà l’armonia del principio dell’autonomia adottato dalla Costituzione; perché è appunto in funzione delle diverse esigenze e delle peculiari condizioni di ogni Regione, cioè dello spirito animatore, che questo principio del sistema deve essere attuato. Fa presente che è appunto in omaggio a tale principio che vengono concesse alla Regione le potestà legislative.”1 Vi fu anche perplessità sulla natura giuridica dello statuto di cui si sarebbero dovute dotare le Regioni speciali. Secondo Tosato “Quando si prevedono forme particolari di autonomie con 1 http://www.nascitacostituzione.it/03p2/05t5/117/index.htm

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«Statuti speciali» adottati con leggi di valore costituzionale si va al di là di quello che il concetto dello Stato unitario può ammettere. Se queste forme di autonomia si concretano in «Statuti speciali», sia pure adottati con leggi costituzionali, ciò può essere interpretato nel senso che lo Stato non ha più un potere di iniziativa in questa materia, e che gli Statuti stessi non possono essere più modificati se non col consenso delle Regioni interessate. Le quali sarebbero così legate allo Stato da un vincolo non più costituzionale, ma contrattuale.”2 Gli rispose in modo efficace Mannironi, secondo il quale “...è lo Stato che approva e adotta gli statuti ed anche se essi saranno proposti da organi regionali, lo Stato non si priva del diritto di intervenire per modificarli. Lo Stato quindi non rinuncia ad un potere che tutti gli riconoscono.” 3 Nonostante queste diversità di concezioni i lavori porteranno, verso la fine di Febbraio del 1947, alla stesura di un primo progetto dell’articolo 117, nel quale tutta l’Assemblea in modo unanime riconobbe che “...per ragioni sostanziali e per impegni già presi, debbano essere date condizioni particolari d’autonomia alle due grandi isole ed alle zone mistilingue di frontiera. Tuttavia anche i relativi statuti — come è di quello già approvato dalla Consulta Nazionale per la Sicilia — dovranno essere coordinati e non contrastanti con i principî fondamentali della Costituzione.” 4 La situazione socio-politica odierna è però notevolmente mutata rispetto a quella dell’immediato dopoguerra, sia sul piano sociale e demografico, sia dal punto di vista dei diritti soggettivi dei cittadini, la cui sfera di tutela si è notevolmente ampliata anche grazie al contributo della giurisprudenza costituzionale. Invero, sembrano essere venute meno alcune ragioni che hanno giustificato l’attribuzione dello statuto speciale, con la conseguente concessione di forte autonomia amministrativa e fiscale che ne è derivata, certamente onerosa per lo Stato. Entrando nel merito della questione, la situazione geo-politica italiana e internazionale appare ormai mutata. Per citare un esempio, la questione dalmata, che giustificò l’adozione dello statuto speciale da parte del Friuli, è stata risolta. Nell’immediato dopoguerra, infatti, erano ancora in corso trattative con la Jugoslavia per la spartizione di Trieste e del territorio adiacente, abitato in parte da slavi ed italiani. Lo statuto speciale, con la sua garanzia di stabilità dovuta alla 2

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ibid. ibid ibid

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possibilità di modifica solo con legge costituzionale, concesse alla Regione gli strumenti necessari per la tutela della minoranza slava in attesa di una stabilizzazione, avvenuta nel 1975 con la firma del Trattato di Osimo. Esso chiuse definitivamente la questione dalmata, non senza polemiche, stabilendo che Trieste, con il territorio circostante, dovesse entrare a far parte del territorio italiano, mentre gli altri territori contesi dovessero andare alla Jugoslavia. Oggi meno del 5% della popolazione parla lo sloveno , così che non si comprende la ratio dell’autonomia amministrativa e tributaria della Regione (la regione trattiene il 60% delle imposte riscosse), né il motivo dell’attribuzione alla stessa di ingenti fondi statali. Per di più, il destinatario di tali fondi è l’intera Regione, non solamente la provincia di Trieste, ricomprendendo quindi anche territori da sempre di matrice italiana, non certo differenti da qualsiasi altra comunità dialettale dislocata in una Regione a statuto ordinario, che di questi vantaggi non può certo usufruire. La Sicilia è forse la Regione a statuto speciale che gode della più ampia autonomia, soprattutto in materia fiscale, ove la soglia delle tasse pagate all’erario ritorna per circa il 90%. Impressionante è anche il numero di dipendenti pubblici regionali, che si aggira intorno alle 16.000 unità, per i quali sono anche previste agevolazioni in materia previdenziale. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una situazione socio-politica molto diversa da quella dell’immediato dopoguerra, che vedeva una Sicilia ad un passo dalla secessione (vi erano voci perfino su una possibile annessione agli Stati Uniti), agitata da movimenti indipendentisti e bande terroriste, i quali giustificarono l’adozione di provvedimenti urgenti per placare rivolte e riportare la situazione gradatamente alla normalità. La Sicilia odierna non è certo esente da problemi: diffusione della mafia a livello capillare con ingerenza nelle pubbliche amministrazioni (6 Consigli Comunali siciliani sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose nel 2011 e due nei primi mesi del 2012), altissimo tasso di disoccupazione, evasione fiscale e corruzione nelle amministrazioni per citarne alcuni. A mio parere, la concessione di forti autonomie fiscali e di ampia potestà legislativa, che permette alla Regione Sicilia di non recepire le leggi ordinarie statali su certi argomenti, non è un modo adatto per risolvere i suddetti problemi. Guardando il dato empirico, in quasi settant’anni di “autonomia” la situazione, se non è peggiorata, di certo non ha ottenuto miglioramenti significativi.

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Se da un lato quindi si registra il venir meno delle motivazioni più strettamente politiche e contingenti che hanno determinato l’attribuzione dello statuto speciale a determinate Regioni, dall’altro alcune di queste diventano sempre più attuali e degne di tutela. È il caso delle minoranze linguistiche, ancora oggi entità in cerca di riconoscimento e di una propria autonomia, non senza contrasti con l’autorità centrale. Il caso più importante è sicuramente quello della comunità tedesca in Trentino-Alto Adige, concentrata soprattutto nelle provincie autonome di Trento e Bolzano. Ad esempio l’aspirante docente nella scuola pubblica per insegnare deve conseguire uno speciale patentino che attesti il suo bilinguismo; sono inoltre indetti concorsi pubblici separati a seconda dell’appartenenza etnica. Stesso discorso per la Valle D’Aosta, dove però la lingua di minoranza è il francese. L’opportunità delle Regioni a statuto speciale rileva anche sotto un piano più strettamente giuridico, in quanto la riforma del Titolo V della Costituzione ha rivoluzionato, ampliandolo, il grado di autonomia concesso alle Regioni ordinarie, a discapito di quelle a statuto speciale. La volontà del legislatore è stata quella di produrre un livellamento delle differenze intercorrenti tra i due diversi regimi giuridici e di sostituire il vecchio regionalismo differenziato realizzato unilateralmente dal legislatore costituzionale con un regionalismo a “specialità diffusa”, in cui la singola Regione, grazie ad un’intesa con lo Stato, accorda la propria sfera di autonomia e le proprie competenze in armonia con la Costituzione. Il legislatore , per permettere alle Regioni a statuto speciale di usufruire delle novità introdotte dalla riforma del Titolo V della Costituzione, ha inserito una clausola di “adeguamento automatico”, nell’art. 10 della legge costituzionale 3/20015, la quale consente alle Regioni a statuto speciale di adeguare i propri statuti alla riforma nelle parti in cui essa prevede forme di autonomia più ampie di quelle già attribuite loro. Nel nuovo testo dell’art. 117 è inoltre espressamente indicata la partecipazione delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome alle decisioni dirette alla formazione di atti normativi comunitari in materie di loro competenza e la capacità di provvedere all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti 5 Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, articolo 10: “Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.

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dell’Unione Europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato. In questo caso sussiste ancora una netta differenza con le Regioni a statuto ordinario, le quali, come recita lo stesso art. 117, nelle materie di loro competenza possono solo concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme previste da leggi dello Stato. Alla luce di questa riforma, ha ancora senso la sopravvivenza degli statuti speciali oppure sarebbe sufficiente attuare l’autonomia prevista dalla riforma stessa modifcando i singoli statuti? Il rischio della sopravvivenza degli odierni statuti sarebbe il perpetuarsi di privilegi retaggio delle surclassate motivazioni. Volendo trarre le conclusioni, se lo statuto speciale fu in principio un rimedio del legislatore per permettere alle Regioni di risolvere i gravi problemi contingenti in cui esse versavano nell’immediato dopoguerra, nonché un efficace strumento di tutela per le minoranze etniche presenti sul territorio italiano, alla lunga esso ha permesso alle Regioni autonome di consolidare alcuni benefici, primo fra tutti l’esenzione fiscale. Oggi, anche alla luce degli ultimi avvenimenti che impongono un radicale intervento sulla spesa pubblica, l’intero impianto costituzionale delle autonomie regionali, andrebbe rivisto completamente.

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RUBRICHE

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Diaz, don’t clean up this blood. Alcune riflessioni sulla violazione dell’art. 3 CEDU Daniele Rucco “Dobbiamo sgomberare un manufatto occupato da pericolosi anarco-insurrezionalisti o black block che dir si voglia.” “Con quali uomini? Metà stanno a letto, e l’altra metà non so dove stanno.” “Con quelli che riesci a trovare, più siamo meglio è. Alle 22 e 45 tutti pronti sotto la questura, anzi, 22 e 44.” Il dialogo fra due poliziotti qui riportato è preso dal film documentario di Daniele Vicari: Diaz, don’t clean up this blood. Il regista fa rivivere la violenza avvenuta per mano della Polizia nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001 Questi sono i fatti raccontati dalle immagini: nella notte del 21 luglio, la polizia fa irruzione nella scuola convinta di trovare i cosiddetti black block1, protagonisti degli scontri in città durante le manifestazioni, e, alle prime opposizioni degli occupanti2, reagisce picchiandoli violentemente con manganellate, calci e pugni. L’orrore si protrae per diverse ore e, nonostante la quasi immediata resa di quanti si trovano all’interno della Diaz3, il numero dei feriti supera il novanta, molti dei quali, poi, vengono condotti alla Caserma di Bolzaneto per l’identificazione. Ma non finisce qui. Vicari, infatti, racconta anche le vicende che seguono presso la caserma: qui i fermati subiscono soprusi di ogni genere. Dopo essere stati segnati con una X sul volto, sono costretti a rimanere immobili per diverse ore nella stessa posizione, viene loro impedito di andare in bagno, di mangiare o bere, nonostante il caldo estivo. E ancora, c’è chi è costretto a imitare un cane a suon di manganellate e chi viene umiliato, come una ragazza che, prima viene picchiata da una poliziotta per aver chiesto un assorbente, poi, durante la visita medica, è obbligata a spogliarsi e a girare su se stessa. Le scene del film colpiscono certamente il lato umano dello spettatore, 1 L’operazione è giustificata dall’art. 41 tulps, il quale autorizza le forze dell’ordine ad agire senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria in casi di urgenza e necessità. 2 Il termine “occupanti” è inteso qui in senso non tecnico. Non si trattava, infatti, di occupazione in quanto il pernottamento era stato autorizzato e organizzato dal Genova social forum. 3 All’interno nella scuola si trovavano, non solo i manifestanti del Genova Social Forum, ma anche persone estranee al movimento, che, respinti dagli alberghi per via dei disordini, avevano trovato lì un posto per passare la notte.

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ma la vicenda si presta anche a una riflessione giuridica, in particolare viene in mente l’articolo 3 CEDU che recita così: “No one shall be subjected to torture or to inhuman or degrading treatment or punishment”. La natura di questa norma convenzionale è assoluta: il diritto del singolo protetto dall’art. 3 CEDU, letto in combinato disposto con l’art. 15 II co. CEDU4, non può subire alcuna deroga, nemmeno in caso di guerra o di pubblico pericolo per la vita della Nazione. I tragici eventi di Genova, ripresi nel film, possono essere considerati una violazione della norma CEDU? In questa rubrica cerco di sostenere due ragioni per le quali l’Italia potrebbe essere chiamata a rispondere a Strasburgo dei fatti avvenuti . Dalla norma CEDU, coordinata con l’obbligo di riconoscere a ogni persona i diritti presenti nel titolo I della Convenzione, discende, per lo Stato, da un lato una obbligazione negativa consistente nel divieto compiere torture e maltrattamenti inumani e degradanti; dall’altro, nel caso in cui si verifichino i fatti vietati, l’obbligazione positiva di individuare e punire i responsabili5. Per quanto concerne il primo profilo, perché si possa parlare di tortura o maltrattamento del tipo suddetto, è importante che la sofferenza fisica e l’umiliazione causate dalla violenza siano tali da ledere e calpestare la dignità dell’essere umano: con il linguaggio del cinema, Vicari, sembra dire che proprio questo sia avvenuto tanto alla Diaz, quanto a Bolzaneto. Inoltre, la sequenza delle immagini mostra come la violenza usata dai poliziotti travalichi la necessità di sicurezza del momento, per sfociare in uno sfogo irrazionale: i manganelli, i calci e i pugni sono chiaramente immotivati, dato il comportamento degli occupanti, i quali si trovano in una situazione di manifesta debolezza. Si può, dunque, considerare superato il minimum level of severity6, ritenuto dal giudice di Strasburgo il discrimine 4 Art. 15, II co: “No derogation from Article 2, except in respect of deaths resulting from lawful acts of war, or from Article 3, 4 (paragraph 1) and 7 shall be made under this provision”. 5 Ci sono però altri importanti profili di violazione dell’obbligazione positiva (omessi per brevità) dell’art. 3 CEDU, ovvero: il non aver predisposto un servizio di ordine pubblico idoneo a impedire queste violenze, la mancata accuratezza delle indagini e l’aver vanificato le condanne applicando ai responsabili la sospensione condizionale della pena e il provvide mento di indulto. Per un approfondimento di questi si rimanda a A.Colella, C’è un giudice a Strasburgo?, in Riv. It. dir. e proc. pen 2009, 04, 1801. 6 Lett. “Soglia minima di gravità”. Tale criterio tiene conto, nel caso concreto, sia delle caratteristiche oggettive del fatto (durata- portata della violenza, ecc…) sia delle qualità soggettive delle vittime ( età- sesso- eventuali disturbi

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fra la violenza che costituisce violazione dell’art. 3 CEDU e quella che, in specifici casi eccezionali, può essere considerata legittima. In riferimento al secondo profilo, e in particolare all’obbligo in capo allo Stato di individuare e punire i responsabili dei maltrattamenti, il film, in conclusione, riferisce gli esiti processuali sui fatti compiuti dai poliziotti a Genova. Emerge come la stragrande maggioranza dei responsabili non abbia ricevuto una condanna proporzionata ai principi di certezza della pena imposti dalla Convenzione. La domanda sorge spontanea: perché è avvenuto ciò? La risposta risiede nel fatto che, a tutt’oggi, è assente nel nostro ordinamento penale una norma ad hoc, che punisca i maltrattamenti disumani e degradanti e la tortura7. Questa lacuna, nel sistema penale interno, è colmata facendo riferimento al delitto di percosse e a quello di lesioni, inadeguati in situazioni come quella di cui si sta trattando, sia per l’esiguità della pena, sia per la mancata protezione di un diritto umano fondamentale qual è la dignità. Per concludere, mi piacerebbe evidenziare due significative trovate cinematografiche del regista. La cinepresa, per mettere in risalto in un momento chiave l’aspetto collettivo delle violenze, non indugia sul volto del singolo poliziotto, ma sull’ammasso dei caschi blu che, come un torrente, irrompe nella scuola, e, ancora, inquadra spesso il tricolore, cucito sulle uniformi dei poliziotti. Sembra quasi suggerire allo spettatore di non soffermarsi tanto sulla responsabilità del singolo, quanto su quella di un sistema che, nei suoi apparati, amministrativo- giudiziario- politico, non solo ha permesso che questa interruzione dei diritti umani considerati inviolabili accadesse, ma non ha neanche saputo poi porvi rimedio.

psichici). 7 Lett. “Soglia minima di gravità”. Tale criterio tiene conto, nel caso concreto, sia delle caratteristiche oggettive del fatto (durata- portata della violenza, ecc…) sia delle qualità soggettive delle vittime ( età- sesso- eventuali disturbi psichici).

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Il sonno agitato dell’avvocato civilista Marco Fasola Gli avvocati civilisti, a differenza dei loro colleghi che si occupano di diritto penale, non indossano mai la toga. I penalisti recitano nel teatro delle aule d’udienza; hanno il pubblico dei giudici popolari della Corte d’Assise da stupire; e soprattutto hanno un dramma da interpretare, l’innocenza dell’imputato accusato di gravissimi delitti. I civilisti, invece, non sono grandi oratori, ma dedicano il tempo alla stesura degli atti nel chiuso dei propri studi: lavorano infatti con un processo scritto, che non richiede quasi mai la loro presenza in tribunale. Non si confrontano con il delitto e con la colpa, ma con il diritto dei contratti e delle società, le liti ereditarie, il contenzioso fiscale. Non indossano mai la toga perché lavorano dietro le quinte: non hanno bisogno del costume di scena. Le grandi questioni della professione forense, però, non sono di esclusivo dominio degli specialisti del diritto penale. Non è necessario difendere un serial killer per interrogarsi sulla moralità dell’avvocatura, chiamata a difendere in giudizio una causa indipendentemente dalla bontà delle sue ragioni. Assistere chi ha un debito e non lo vuol pagare significa comunque assistere chi sta dalla parte del torto. Certo, nei processi civili non ci sono di mezzo né il sangue, né la violenza; d’altra parte, però, la figura dell’avvocato è solo sfiorata da quell’aria di nobiltà che essa invece riveste nei processi penali, dove la difesa dell’imputato è sentita da tutti come un’altissima conquista della civiltà giuridica. La ragione di questa differenza risale a tempi antichi. I Longobardi celebravano processi penali basati su ordalie e duelli: la ricerca della verità era affidata a prove divine o all’esito di un combattimento. Nell’Europa di Ancien Régime la repressione del crimine era affidata all’inquisizione e alla tortura: in quegli ordinamenti la colpevolezza dell’imputato era provata sulla base di confessioni estorte con ruote, seghe e corde. Oggi, dopo secoli di evoluzione, i sistemi penali sono improntati al rispetto della dignità dell’imputato. Il penalista può sentirsi orgogliosamente garante dell’inviolabilità del diritto di difesa, anche quando conosce la colpevolezza del suo cliente. Non è sicuramente facile, dal punto di vista etico, assistere chi si è macchiato di un delitto. Una visione d’insieme del sistema, però, può fornire un appiglio per risolvere questo dilemma morale: senza una difesa realmente effettiva, infatti, ricadremmo nella barbarie. Il civilista cui è richiesto di assumere il ministero di una causa ingiusta

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è in una posizione diversa: le sue decisioni portano con sé una responsabilità minore dal punto di vista morale, ma l’esercizio della difesa non è connotato dalla stessa sacralità che riveste nei processi criminali. Anche nel giudizio civile, l’avvocato tutela certamente il diritto di difesa sancito dalla Costituzione. Più che baluardo della dignità del suo cliente, però, spesso potrebbe sentirsi ridotto a pedina nello scacchiere del processo. La difesa non ha, nel processo civile, lo stesso fascino che si è guadagnata nei giudizi penali. Spesso si assistono enti e non singoli individui; si discute della validità di contratti e non della vita delle persone; non c’è, infine, quel triste passato di sopraffazioni da cui il sistema dev’essere protetto. Questa diversità di prospettive si coglie nella storia del diritto e nel pensiero giuridico. Accettare una causa ingiusta era ritenuto immorale per gli avvocati civilisti, più che per i penalisti. Nel Corpus Iuris Civilis, ad esempio, spiccano alcune norme secondo cui gli avvocati devono giurare sui Vangeli di abbandonare la causa, se ne scoprono l’ingiustizia prima ignorata. È una regola che si perpetua nei secoli: una legge della Repubblica di Ginevra del 1836 conferma che gli avvocati non devono consigliare o sostenere cause ingiuste, salvo si tratti della difesa di un accusato. Giuseppe Zanardelli, l’autore del primo codice penale dell’Italia unita, scrive nei suoi Discorsi sull’avvocatura del 1879 che «l’avvocato che scientemente sostiene l’iniquità, si fa complice di essa; e complice moralmente ancor più colpevole, perché non ha, come il cliente, l’attenuante delle passioni che ve lo trascinano». Il grande avvocato non si spinge però fino a estendere l’efficacia di questo precetto ai processi penali, dove «anche coloro che l’avvocato sappia essere colpevoli non solo possono, ma devono da lui essere difesi». In ogni caso, qualunque sia il suo campo, se il legale è persona sensibile dovrebbe ripugnargli di accettare quattro capponi ed esclamare, come il dottor Azzecca-garbugli: «All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle». L’avvocato, penalista o civilista che sia, sa perché è necessario difendere chi sta dalla parte del torto: è la Costituzione a stabilirlo. Potrebbe riuscirgli difficile, però, accettare che sia proprio lui a doverlo fare. Il sistema ha le sue esigenze, ma noi rispondiamo delle nostre azioni alla nostra coscienza, non al sistema. Qualcuno sceglierebbe di rifiutare il mandato per una causa ingiusta. Ne avrebbe tutto il diritto, perché l’avvocatura è una libera professione e chi la esercita lo fa in piena autonomia, potendo sempre rifiutare o rimettere gli incarichi ricevuti, per qualsiasi causa. Tuttavia, questa non è una soluzione all’eterno dilemma sollevato dalla difesa delle cause ingiuste: è solo un modo poco coraggioso

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di eludere il problema, lasciando che se lo pongano i colleghi. Non accettare un mandato perché non ci si sente in grado di affrontare il conflitto etico che esso può generare, significa lasciare inesplorato il senso profondo della professione. Ancora peggio che rimettere il mandato è pensare di esercitare la difesa a metà. Il compito di un avvocato non è far sì che il suo cliente ottenga una giusta punizione; è tirarlo fuori di galera, qualsiasi reato abbia commesso. Non è impedire che la controparte ottenga un risarcimento troppo alto per la violazione di una clausola contrattuale; è evitare che il proprio assistito debba sborsare anche un solo euro di risarcimento. La bussola dell’avvocato, insomma, è l’interesse del cliente: e se questo interesse è trasformare il torto in ragione, sarà ad esso che dovrà attenersi. Il codice deontologico forense contiene una trappola. Esso impone ai professionisti un dovere di comportarsi con lealtà e correttezza, ovvero di non impedire il regolare svolgersi del processo. La previsione corrisponde ad un analogo dovere imposto alle parti dal codice di procedura civile. Si tratta del rispetto delle regole del gioco: i contendenti non devono barare. Ma la normativa deontologica non si ferma qui: essa impone ai professionisti un dovere di verità, che è invece sconosciuto alla legge processuale, sia penale che civile. Nel processo le parti – a differenza dei testimoni – possono mentire: se mentono, infatti, non sono in alcun modo sanzionate. Il fatto che l’avvocato sia vincolato da un dovere professionale di verità, non deve trarre in inganno. Si tratta di un obbligo limitato a casi specifici, ovvero alle dichiarazioni in giudizio relative all’esistenza di fatti obiettivi, che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato e di cui l’avvocato abbia diretta conoscenza. È scorretto, ad esempio, mentire sulla minore età del proprio cliente se questa circostanza rileva direttamente per la sua scarcerazione. Per tutto il resto, sarà compito dell’avvocato difendere l’interesse del suo cliente, anche a discapito della verità. L’avvocatura, insomma, non è un mestiere facile. Essa si fonda su una contraddizione intrinseca, che non riguarda solo i casi più appariscenti in cui si è chiamati a difendere assassini e stupratori, ma percorre sottilmente tutti i campi della professione, non da ultimo il diritto civile. Essere avvocati, rispettare la legge, conservare la propria onestà e trasformare il torto in ragione è quasi impossibile. Per farlo, serve una motivazione forte, che non può che essere qualcosa di estremamente personale. Ognuno deve trovare la propria, o dedicarsi ad un altro mestiere.

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Lo Zen e l’arte dello scrivere una tesi Camilla Capitani Dopo cinque anni di impegno sui banchi universitari ogni studente si trova a scegliere la materia che sarà oggetto della tesi di laurea, che rappresenta il momento conclusivo del percorso di studi. Nelle righe che seguono vorrei condividere il mio punto di vista sullo scopo della tesi di laurea e dare alcuni piccoli consigli pratici sulla stesura della stessa. La scelta della materia rappresenta il punto di partenza fondamentale dal quale iniziare. Nel mio caso, per esempio, non è stato difficile scegliere; ho optato per la materia che più mi aveva appassionato, nelle sue tante declinazioni, nei cinque anni: il diritto penale. Il passo successivo è la richiesta della tesi al professore di riferimento. Se siete indecisi tra più docenti e materie, potete tranquillamente fare più domande di tesi e decidere in un secondo momento, successivamente ad un colloquio, quale settore o argomento vi interessa maggiormente. È bene tener presente che il primo docente a cui ci si rivolge potrebbe non avere la possibilità di seguire più di un certo numero di tesisti: quindi è bene avere un’ alternativa che non sia un ripiego , ma che possa diventare a pieno titolo la vostra prima scelta. Se c’è un particolare argomento che vi appassiona potete proporlo al professore e discuterne con lui, altrimenti sarà lui a suggerirvi varie ipotesi tra le quali potrete decidere. Non preoccupatevi se non vi viene un’idea specifica, l’importante è che individuiate l’ambito del vostro interesse, poi troverete sicuramente un tema adatto a voi; tenete presente che non sempre è facile avere un’idea in merito ad una tematica adatta ad essere sviluppata in una tesi di laurea, soprattutto se la materia è molto vasta e complessa. Una volta decisi la materia e l’argomento specifico, ci si trova davanti a un punto di domanda. L’ interrogativo che sorge spontaneo è: “Come si fa?”; dopo cinque anni di esami orali non è immediato approcciarsi al foglio bianco di word. Ma nonostante all’inizio l’impresa sembri impossibile, vi assicuro che non lo è! Durante uno dei primi incontri, il vostro relatore o correlatore può fornirvi una bibliografia di base da cui partire per reperire le vostre fonti; nel mio caso la bibliografia di partenza è stata quella riferita all’articolo 643

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del codice penale commentato. A questo punto inizia la fase di ricerca del materiale, che è fondamentale al fine di ottenere un buon lavoro finale; tanto più la vostra bibliografia sarà ricca, quanto più il lavoro sarà valido, dal momento che le vostre considerazioni poggeranno su un sostrato dottrinale e giurisprudenziale ben consolidato. Infatti le considerazioni personali, successive all’analisi dell’argomento, non possono che partire da una conoscenza approfondita della dottrina e della giurisprudenza. Le biblioteche dell’ università vi permetteranno di svolgere le ricerche necessarie attraverso la consultazione di manuali, periodici, monografie, riviste e, attraverso l’autenticazione con nome utente e password dell’università, potrete consultare numerose banche dati on-line. Dopo aver raccolto la vostra bibliografia di base, quella che vi permette di avere una panoramica consistente sull’argomento, e dopo averla studiata, individuerete i punti focali che, a vostro avviso, sono da trattare nella tesi. Una volta fatto ciò il relatore vi chiederà di redigere un indice quanto più dettagliato della vostra tesi. Io ho cominciato con lo scrivere un indice cercando di individuare i possibili capitoli e solo successivamente ho riempito di contenuto gli stessi articolandoli in paragrafi. Ritengo che l’indice sia sempre in evoluzione durante la tesi, quindi imporsi all’inizio di indicare precisamente tutti i sottoparagrafi è uno sforzo vano; durante la stesura effettuerete sicuramente delle modifiche e vi verrà spontaneo aggiungere dei paragrafi a cui inizialmente non avevate pensato. Una volta che il professore approva l’indice, il vostro lavoro può davvero cominciare e si svilupperà diversamente a seconda del tipo di tesi. Durante il periodo di scrittura vera e propria possono sorgere dubbi e talvolta sconforto perché, soprattutto all’inizio, non è semplice trasporre in un testo scritto le proprie riflessioni e ragionamenti; in questo caso non vi preoccupate perché è assolutamente fisiologico e non vi sforzate di rimanere davanti al computer se quel giorno siete totalmente improduttivi! Con il passare dei giorni e dei capitoli scritti vi accorgerete che tutto diventerà molto più semplice e spontaneo. L’ultima cosa che vorrei dire, rivolgendomi a coloro i quali si rendono conto ad un certo punto di aver scelto una tesi che non li soddisfa in pieno e non risponde alle aspettative iniziali: non importa quale sia il vostro argomento, o quanto sia oggettivamente interessante, la cosa fondamentale è

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metterci tutta la vostra passione; ogni cosa fatta con passione, impegno e determinazione porta sempre ad un ottimo risultato.

Consigli grafici Ecco condensati in pillole alcuni suggerimenti pratici sulla stesura della tesi; il consiglio spassionato è impostare fin da subito il vostro foglio word in modo tale da non avere sorprese all’ultimo. • Prima di iniziare a scrivere impostare la spaziatura laterale (destra e sinistra) e quella verticale (parte superiore e parte inferiore). Lo spazio può essere 3.5 cm a sinistra, 3 cm a destra, 3 cm nella parte superiore e inferiore. • Impostate la “giustificazione del testo” , ovvero l’allineamento laterale dello stesso, tramite l’apposito tasto. • Generalmente il carattere di scrittura è times new roman 12. • L’interlinea, ovvero la spaziatura tra una riga e l’altra del testo si può impostare a 1.5. • È importante che durante la scrittura attiviate sempre il tasto; troverete nel testo questi simboli, ognuno individua uno spazio che avete lasciato nel testo e vi permetterà di controllare meglio se gli spazi sono uniformi, infatti il foglio bianco spesso inganna. Quando avete finito basta cliccare il tasto ed i simboli spariranno. • Salvate il file tesi in un unico file del computer, al termine del lavoro sarà più semplice convertirlo in formato Pdf e impostare la numerazione di pagina. • Se utilizzate word, vi accorgerete che il carattere delle note è impostato automaticamente da quello del corpo del testo: per una maggiore precisione grafica ricordatevi di modificare il carattere. • All’inizio di ogni capitolo potete prevedere un sommario all’interno del quale riportare i paragrafi e sottoparagrafi per una più rapida panoramica di ciò che verrà trattato nel capitolo stesso. • Se vi capita di non riuscire ad eliminare gli spazi tra una riga e l’altra del vostro scritto potete risolvere il problema andando sul tasto “layout di pagina” e modificando la spaziatura. Come si scrivono le note bibliografiche Vi faccio un esempio per rendere la spiegazione più semplice: • Se dovete citare un manuale: G. MARINUCCI- E. DOLCINI, “Manuale di diritto penale parte generale”, Milano, 2006, pag. 23 ss. • Se dovete citare un articolo contenuto in una rivista: E. DOLCINI, “Princi-

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pi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio”, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, pag. 19 ss. • Se dovete citare la giurisprudenza: Corte cost. 22 ottobre 2006, n° 563. • Se dovete citare la giurisprudenza reperita all’interno di una rivista: Cass. Civ., Sez. III, 3 dicembre 1992, n° 56, in Cass. Civ., 1993, pag. 1450. • Se dovete fare riferimento in nota ad argomentazioni contenute in un capitolo o paragrafo che precedono: Cfr. supra, cap. II. • Se dovete fare riferimento in nota ad argomentazioni contenute in un capitolo o paragrafo successivi: Cfr. infra, cap. VI.

Questi consigli e suggerimenti sono il frutto del mio lavoro di conseguenza non rappresentano un imperativo da seguire; sarà il vostro relatore o correlatore a indicarvi impostazioni diverse se lo riterrà opportuno. Buon lavoro a tutti!

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