L'Alligatore-anno6_numero3

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Anno 6 Numero 3

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Cari lettori, Ancora una volta L’Alligatore s’insinua nei corridoi e nei cortili dell’Università offrendo approfondimenti e spunti di riflessione. Questo numero si apre con tre argomenti di rilevanza attuale, tutti correlati con il patrimonio giuridico dell’Unione Europea: dall’idea sempre più lontana e utopistica dell’Europa dei diritti ai profili giuridici legati al dramma Lufthansa-Germanwings, passando per l’evoluzione giurisprudenziale di un tema classico ma dall’attualità scottante, quello relativo alla libera circolazione delle persone. I profili sovranazionali permangono nelle analisi sull'obbligatorietà dell'indicazione d’origine nel mercato europeo e nella riproposizione dell’annosa questione relativa al brevetto europeo con effetto unitario, tornata in luce dopo i recenti interventi della Corte di Giustizia. Così anche nello studio dei profili critici del piano europeo contro il traffico di esseri umani che, secondo le parole del Presidente della Repubblica Mattarella, “Costituisce un’urgenza epocale per le dimensioni del fenomeno e la sua drammaticità”. Infine, dopo le indagini nel campo penale sulla recente legislazione in materia di eco-reati e in quello civile sui metodi di risoluzione alternativa delle controversie per una risoluzione più efficace delle liti, concludiamo con un’inedito viaggio all’interno dell’istituto penitenziario di Bollate, dove abbiamo assistito ai percorsi di recupero predisposti per i “sex offenders” e ne abbiamo parlato con Paolo Giulini, criminologo e docente. Come sempre, buona lettura. Se vuoi collaborare con noi scrivi a: redazione@lalligatore.com


A Giulia e Francesco teste, gambe e braccia della rivista. Grazie per esserci sempre stati.

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Trimestrale - Anno VI - Numero 3 - Milano, Giugno 2015 Direttore responsabile Niccolò Scremin Vicedirettore Francesco Bertolino Caporedattori Giulia Pirola Giacomo Dalla Valentina Redazione Erik Brouwer Paolo Petralia Camassa Adriana Spina Valentina Todeschini Ferdinando Vella Graphic designer Fulvio Volpi

Hanno collaborato a questo numero Luca Dal Pubel Michele Loconsole Giulia Re Ferrè Camilla Rosi Silvia Rossi Dario Valoncini Roberta Zappalà

Si ringrazia per le revisioni Dr.ssa Ilaria Anrò Dr.ssa Alessia Di Pascale Avv. Maria Lina Guarino Prof.ssa Silvia Giudici Prof. Paolo Giulini Prof. Arturo Maniaci Prof. Francesco Rossi dal Pozzo Dr. Stefano Zirulia

Direzione, Redazione e Sede Via Luigi Anelli, 12 - 20122 Milano redazione@alligatore.com www.lalligatore.com Proprietari Rocco Steffenoni, Eduardo Parisi, Sandro Parziale, Daniele Rucco, Niccolò Scremin. Tipografia gidesign s.r.l. - Via Bracciano, 10 - 20098 San Giuliano M.se (MI) Registrazione Tribunale di Milano n.34 del 07.02.2014

Tale pubblicazione è stata realizzata con il contributo dell’ Università derivante dai fondi per le attività culturali e sociali.


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INDICE Diritto dell’Unione Europea Giacomo Dalla Valentina La riflessione sui diritti fondamentali nell’Unione europea e il parere negativo della Corte di giustizia sul progetto di adesione alla CEDU: traguardo o punto morto?

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Giulia Re Ferrè Il disastro Germanwings – Ineliminabilità del fattore umano e necessità di una normativa più adeguata

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Giulia Pirola Il recente intervento della Corte di Strasburgo in materia di libertà di circolazione delle persone

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Diritto Industriale Camilla Rosi Pacchetto sicurezza dei prodotti e “Made in” obbligatorio Michele Loconsole Il brevetto europeo con effetto unitario dopo gli ultimi interventi della Corte di Giustizia

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Diritto Internazionale Francesco Bertolino Il piano europeo per un’operazione militare in Libia contro i trafficanti di esseri umani e i “danni collaterali” al diritto d’asilo

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Diritto Penale Dario Valoncini La tutela penale dell’ambiente, la normativa “Eco-reati”: una breve analisi

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Diritto Privato Paolo Petralia Camassa I metodi di risoluzione alternativa delle controversie: un approccio efficace per una nuova cultura del conflitto

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Rubrica Silvia Rossi e Roberta Zappalà Nel settimo reparto

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A La riflessione sui diritti fondamentali nell’Unione europea e il parere negativo della Corte di giustizia sul progetto di adesione alla CEDU: traguardo o punto morto? Giacomo Dalla Valentina Parlare di protezione dei diritti fondamentali all’interno dell’Unione europea non è mai semplice: l’evoluzione della relativa disciplina nell’ambito comunitario si è mossa su un percorso tortuoso e accidentato, segnato dalle tensioni tra la Corte di giustizia dell’Unione e i giudici nazionali che, sin dal finire degli anni sessanta, avevano avuto ad oggetto proprio l’attenzione prestata dalle istituzioni comunitarie a quelle libertà la cui natura “fondamentale” era parsa ancora più evidente dopo le vicende belliche del primo Novecento. E se non è certamente privo di una certa suggestione pensare che la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali risale solo a poco più di sessant’anni fa, ancora più interessante è il progressivo rilievo che tali diritti hanno avuto nel contesto dell’Unione europea, dove il primo testo ad essi interamente dedicato è così recente da far comprendere come questa materia possa ancora oggi suscitare dibattiti e dare luogo a siffatte incomprensioni. In tema di tutela dei diritti fondamentali nell’Unione europea e di rapporti con la CEDU è recentemente intervenuto il parere 2/13 della Corte di giustizia, con cui la Corte di giustizia ha dato quello che pare essere un definitivo arresto all’ormai quinquennale percorso di negoziazione e dibattito giuridico circa l’adesione dell’Unione Europea alla sopracitata Convenzione EDU. Nonostante alcune prevedibili difficoltà, la Corte ha sorpreso non pochi analisti con un parere che si è posto in maniera estremamente netta contro il progetto di adesione, evidenziandone la (quasi?) insuperabile incompatibilità con la struttura e l’essenza stessa dell’acquis communautaire. Sarebbe però pretestuoso sostenere la completa estraneità del linguaggio della Corte di Lussemburgo alla questione dei diritti fondamentali, che invece sono da diversi decenni un tema certamente presente, per quanto controverso, nella sua giurisprudenza. A partire da quel “rivolgimento concettuale” che si è avuto sul piano

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internazionale con la Convenzione EDU “quando si sono tratte le conseguenze politiche e giuridiche della loro natura pre-statuale e la comunità internazionale ha assunto l’onere di esserne garante”1, anche l’Unione europea e il suo Tribunale si sono espressi più volte con pronunce storiche che ne hanno segnato la posizione in materia di protezione dei diritti fondamentali. Se in una prima fase che può essere definita “inibitoria”2 la Corte ha limitato rigorosamente la propria competenza all’interpretazione del diritto comunitario (che al tempo non contemplava i diritti fondamentali, nei confronti dei quali essa dichiarava quindi la propria estraneità3, se non si considera un pugno di libertà strumentali all’integrazione economica) in seno alla giurisprudenza comunitaria quella rivoluzione culturale che l’Europa aveva visto due decenni prima giunge infine negli anni ’70. Grazie anche allo stimolo offerto dalle sentenze “Frontini” e “Solange I”4, la Corte di Giustizia dà vita a una folta giurisprudenza dalla portata innovativa5, incentrata sull’idea per cui i diritti fondamentali della persona sono parte integrante dei principi generali dell’ordinamento comunitario, il cui rispetto deve essere quindi assicurato dalla Corte con i propri strumenti. Assumendo tali diritti come autonomo parametro di validità del sistema comunitario, la Corte sottolinea dunque la superfluità delle teoria statuali dei controlimiti e crea un sistema autonomo di tutela delle libertà fondamentali.

1 V. ZAGREBELSKY, L’UE e il controllo esterno della protezione dei diritti e delle libertà fondamentali in Europa. La barriera elevata dalla Corte di Giustizia, intervento in “Diritti Umani e Diritto Internazionale”, vol. 9, 2015, n. 1, in corso di pubblicazione. 2 G. ROBLES MORCHÓN, La protezione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, traduzione di Sergio Gerottoro, in Rivista di Ermeneutica Giuridica “Ars Interpretandi”, 2001. 3 A titolo di esempio la sentenza STORK del 4 febbraio 1959, Causa 1-58, ai sensi della quale “la Corte Di Giustizia garantisce […] l’applicazione del Trattato ma non può di regola pronunciarsi in merito alle norme dei diritti nazionali. Ne consegue che una censura relativa al fatto che l’Alta Autorità avrebbe violato principi fondamentali […] non può essere presa in considerazione”. 4 Rispettivamente C. Cost. Sentenza n.183 del 1973 e BVerfGE 37, 271 2 BvL 52/71 Solange I-Beschluß. Con queste sentenze le corti italiana e tedesca innalzavano come barriera alla primauté del diritto comunitario la “dottrina dei controlimiti”, riservandosi la possibilità di valutare la conformità del diritto comunitario ai diritti fondamentali dei rispettivi ordinamenti e, in caso negativo, di dichiararne l’incostituzionalità. 5 Tra cui spiccano la sentenza STAUDER del 1969 (per cui “i diritti fondamentali della persona fanno parte dei principi generali del diritti comunitario”), la sent. INTERNATIONALE HANDELSGESELLSCHAFT del 1970 (dove sia afferma che “la tutela dei diritti fondamentali costituisce parte integrante dei principi generali di cui la Corte di Giustizia garantisce l’osservanza”) e la sent. NOLD v. COMMISSIONE del 1973.

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Dal parere del 1994 al Trattato di Lisbona: un percorso di avvicinamento È il 1994 quando alla Corte di giustizia viene richiesto per la prima volta di elaborare un parere sull’adesione dell’Unione europea alla CEDU: in quella sede la Corte aveva archiviato la questione con facilità, bollandola come “prematura” a causa della mancanza di una base giuridica all’interno del Trattato che consentisse un adeguamento del sistema dell’Unione in questa direzione. Le obiezioni sollevate dalla plenaria nel ’94 vengono ascoltate. Il Trattato di Lisbona –firmato tredici anni dopo ed entrato ufficialmente in vigore il primo dicembre del 2009– dà nuova linfa al processo di avvicinamento dei due sistemi con la modifica di uno delle sue norme più rappresentative: l’articolo 6, oltre a “costituzionalizzare” la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea elaborata a Nizza nel 2000, dà luogo a un sistema nuovo e articolato di riconoscimento dei diritti fondamentali. Oltre all’attribuzione di rango primario alla Carta di Nizza (par.1) e al riconoscimento, non così scontato, dei “diritti garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” in quanto principi generali dell’Unione (par.3), i costituenti di Lisbona prevedono, al paragrafo 2, che “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

Con il secondo ed evocativo paragrafo dell’art.6, pur rimarcando la propria competenza nell’ambito dei diritti fondamentali, il costituente comunitario dimostra dunque di aver tentato di elaborare una razionalizzazione di un contesto giuridico fortemente eterogeneo, i cui due sviluppi fondamentali, che “per molto tempo sono parsi concorrenti e alternativi, ora trovano contestuale accoglienza nel Trattato di Lisbona, che ha impresso un impulso deciso ad uno degli aspetti più vitali dell’integrazione europea, quello che riguarda l’Europa dei diritti”6. Ma se così l’Unione ha da una parte potenziato il ruolo della propria Corte di giustizia come human rights adjudicator7, dall’altra non ha fatto altro che enfatizzare quella natura 6 M. CARTABIA, La tutela multilivello dei diritti fondamentali - il cammino della giurisprudenza costituzionale italiana dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona in “Incontro trilaterale tra le Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola”, Santiago del Compostela, 16-18 ottobre 2014. 7 G. DE BÚRCA, After the EU Charter of Fundamental Rights: The Court of Justice as a human

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“multilivello” che la tutela dei diritti fondamentali ha nel contesto europeo, con la conseguenza di introdurre, o almeno aggravare, annosi problemi di coordinamento tra i vali livelli –costituzionale interno, convenzionale internazionale e comunitario– entro cui i diritti fondamentali godono di una protezione giurisdizionale. Problemi di coordinamento si pongono anche all’interno della stessa architettura del Trattato di Lisbona, posto che l’adesione alla CEDU prevista all’art.6, par.2 si vede contrapposto già ab origine il limite, previsto dal secondo periodo dello stesso paragrafo e quanto mai vago, dell’impossibilità di operare con l’adesione una “modifica delle competenze dell’Unione definite nei trattati” e, nello specifico, di quel Protocollo n.8 con il quale il legislatore di Lisbona aveva inteso delimitare i futuri negoziati con la CEDU, ponendo le premesse per un’interpretazione particolarmente rigida della nozione di “competenze definite nei trattati”. Secondo quanto previsto dal Protocollo, infatti, l’accordo avrebbe dovuto garantire che fossero “preservate le caratteristiche specifiche dell’Unione e del diritto dell’Unione” e che non si incidesse “sulle competenze dell’Unione, né sulle attribuzioni delle sue istituzioni, né sulla situazione particolare degli Stati membri nei confronti della Convenzione europea, e neppure sull’articolo 344 TFUE”. In questo senso, nell’amletico dubbio tra adempiere alla previsione ex art.6, par.2 (e rischiare di incidere sulle competenze dell’Unione) e lasciare tale norma inattuata, è molto evocativa l’immagine in questo senso sollevata da chi ha affermato che “vi è ancora da chiedersi se la mano che ha scritto l’art. 6 par. 2 sapeva cosa stesse scrivendo quella che ha redatto le disposizioni che l’accompagnano”8: il Protocollo, invece di agevolare il processo di adesione, sembra invece mettere implicitamente in discussione la strutturale compatibilità tra i due sistemi: il grande ponte così innalzato tra Lussemburgo e Strasburgo sembra dunque essere costituito da fondamenta più fragili di quanto, in un primo momento di entusiastica miopia, ci si era potuto aspettare; e la sua costruzione un lavoro arduo e fatto da nodi che forse nemmeno i prolungati negoziati sarebbero stati in grado di sciogliere.

rights adjudicator? in Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2013. 8 ZAGREBELSKY, v.supra.

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Le censure evidenziate dalla Corte di giustizia

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La scelta delle istituzioni è ovviamente quella di adempiere alla previsione del Trattato e avviare i negoziati: nel 2010 diversi pool di nazioni (sostanzialmente, i paesi dell’Unione, quelli dell’Europa orientale e quello dei paesi terzi all’Unione) si fronteggiano nella determinazione dei dettagli dell’adesione, in particolare sul ruolo che avrebbe avuto l’Unione nell’ambito della CEDU: il frutto di questi dibattiti viene presentato alla Corte nel 2013, nella forma di progetto di accordo. A sorprendere ulteriormente chi attendeva il parere della Corte vi è anche il fatto che tutti coloro che erano intervenuti nell’udienza del 5 e 6 maggio si erano pronunciati in senso favorevole all’adesione: non solo tutti gli Stati membri ma anche le istituzioni presenti (Commissione, Consiglio e Parlamento Europeo) che, pur esprimendo un certo numero di dubbi volti a condizionare il prosieguo del negoziato, sembravano aver dato per scontata una risposta affermativa, per quanto condizionata, del giudice europeo. A distanza di poco più di un mese, poi, Juliane Kokott, Avvocato Generale della Corte, depositava la propria presa di posizione: una riflessione più meditata e approfondita sulle problematiche inerenti il progetto di accordo ma che si concludeva anch’essa con un parere favorevole, per quanto condizionato da una serie di condizioni che avrebbero dovuto essere riproposte nei negoziati. Tra queste, l’eliminazione di qualsiasi giudizio di plausibilità circa le domande proposte dall’UE per intervenire come convenuti aggiunti, la tempestiva informazione alle istituzioni comunitarie su tutti i ricorsi pendenti dinnanzi alla Corte EDU e l’estensione dell’ambito del previo coinvolgimento della Corte di Giustizia. Un numero non certo trascurabile di nodi da risolvere, ma certamente non tale da bloccare qualsiasi prospettiva di negoziato. Quello che la Corte manifesta sei mesi dopo è, come sottolineato più volte, una visione radicale, lontana dallo spirito che aveva animato i costituenti di Lisbona: quell’afflato, forse ingenuo, volto a confermare “il proprio attaccamento ai principi della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché dello Stato di diritto”9 sembra aver lasciato spazio a un approccio formalistico, diffidente, quello stesso atteggiamento che vent’anni prima aveva già portato la Corte lussemburghese a rigettare aprioristicamente la prospettiva dell’adesione alla CEDU. Il punto di partenza del ragionamento della Corte, all’interno del parere, è lo 9 Preambolo del Trattato sull’Unione Europea, GUUE n.C306 del 17 dicembre 2007.

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stesso che aveva animato le sentenze Van Gend & Loos e Costa c. Enel: quello dell’Unione è un ordinamento peculiare10, e pertanto la sua adesione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – concepita per l’adesione di Stati e non di ordinamenti sovrastatali – implica il necessario adattamento di questa alle sue caratteristiche specifiche. Ma la Corte afferma, con un ribaltamento per certi versi paradossale, che questo adattamento sembra dover necessariamente passare attraverso un progetto di adesione che non può tutelare in maniera sufficiente le predette peculiarità dell’Unione. Il mancato coordinamento dell’art.53 della CEDU e dell’art.53 della Carta di Nizza Entrambe strutturate secondo uno schema tipico del diritto internazionale, queste norme regolano per i propri rispettivi ambiti la possibilità per gli Stati di introdurre standard di tutela più elevati rispetto a quelli contenuti nelle proprie carte: l’art.53 della Carta di Nizza, secondo la Corte, andrebbe però inteso nel senso datogli dalla giurisprudenza Melloni11, secondo la quale “l’applicazione di standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali non debba compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta”12: e se in tal senso l’adesione potrebbe comportare un problema nel caso la CEDU innalzasse il proprio livello di tutela con riferimento a un diritto sancito anche dalla Carta di Nizza, è anche vero che tale situazione è già presa in considerazione dall’art.52 della Carta (inspiegabilmente non citato nel parere), secondo il quale “laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione EDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa.” La violazione del principio di fiducia reciproca Secondo il giudizio della Corte, la possibilità in seno alla Corte EDU di effettuare ricorsi intestatali finirebbe per ledere il c.d. principio di fiducia 10 A titolo esemplificativo, l’assunto su cui si fonda la dottrina del primato e della diretta applicabilità del diritto comunitario: “i Trattati fondativi hanno dato vita […] ad un ordinamento giuridico nuovo, dotato di proprie istituzioni, a favore del quale gli Stati che ne sono membri hanno limitato, in settori sempre più ampi, i propri poteri sovrani” 11 Causa C-399/11, Stefano Melloni contro Ministerio Fiscal, 26/02/2013. 12 punto 188, parere 2/13.

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reciproca, ossia il fatto che ciascuno degli stati membri deve ritenere, fatte salve circostanze eccezionali, che tutti gli altri stati rispettano il diritto dell’Unione. Anche in questo caso però sembra trattarsi di un “falso problema”, posto che già nel contesto comunitario esiste la possibilità di esperire ricorsi interstatali nell’ambito delle procedure di infrazione, che ben possono ad aver oggetto i diritti fondamentali. Il rischio di forum shopping e la violazione dell’art.344 TFUE Con riferimento alle questioni di competenza e giurisdizione delle due corti, il giudice lussemburghese rileva una lacuna nel coordinamento tra il Protocollo n.16 della CEDU (che prevede la possibilità di “presentare alla CEDU richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione”) che potrebbe sfociare in un’odiosa pratica di forum shopping a scapito del meccanismo del rinvio pregiudiziale e in una contestuale violazione dell’art.334 TFUE. In questo senso già l’avvocato generale Kokott aveva ammesso la possibilità di risolvere tale problema mediante la richiesta dell’Unione agli stati membri, in in virtù del principio di leale collaborazione, “di non ratificare detto protocollo”13. Il meccanismo del convenuto aggiunto l’art. 3.5 del Progetto prevede che, qualora sia oggetto di un processo di fronte alla CEDU un atto comunitario e non sia chiaro se responsabile della violazione del diritto fondamentale sia lo Stato o l’Unione, quest’ultima interverrà in qualità di convenuto aggiunto. Il meccanismo in questione è stato censurato dalla Corte per la possibilità che la Corte EDU, nel momento di verifica della plausibilità della partecipazione, sia indotta a valutare le norme del diritto dell’Unione che disciplinano le competenze dell’Unione e degli stati membri, con un’interferenza sulla relativa ripartizione ritenuta inammissibile.

13 I. ANRÒ, Il Parere 2/13 della Corte di Giustizia sul progetto di accordo di adesione dell’Unione Europea alla CEDU: una bocciatura senza appello?, in eurojus.it 22 dicembre 2014.

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Il meccanismo del previo coinvolgimento La Corte pone quindi l’attenzione su un istituto sul quale già il presidente Skouris, nella Dichiarazione Comune con il presidente CEDU14 aveva insistito: qualora la Corte EDU si trovi a decidere su casi attinenti la compatibilità del diritto comunitario con i diritti CEDU sui quali però la Corte di giustizia non si sia già pronunciata, dev’essere concesso un tempo sufficiente alla Corte per effettuare tale valutazione, nonché alle parti in causa dinanzi alla Corte EDU per presentare le proprie osservazioni. Anche in questo caso la Corte non ha lesinato critiche, ritenendo in primis inammissibile la rimessione alla Corte EDU del potere di decidere se la Corte si sia pronunciata su identiche questioni di diritto ed evidenziando poi il rischio che la Corte EDU possa trovarsi nella situazione di operare essa stessa un’interpretazione del diritto dell’Unione. Una soluzione potrebbe essere in questo senso un recupero di quella giurisprudenza CEDU15 che, nel periodo tra l’approvazione della Carta di Nizza e l’avvio dei negoziati, aveva trovato una soluzione nella dichiarazione, da parte della CEDU, dell’irricevibilità di quei ricorsi proposti nello stesso momento anche al giudice comunitario, in modo da evitare sovrapposizioni e contrasti giurisprudenziali. La competenza in materia di politica estera e sicurezza comune L’ultimo punto sollevato dalla Plenaria a dicembre riguarda la circostanza per cui la Corte europea dei diritti dell’uomo si troverebbe ad avere una competenza sugli atti adottati nell’ambito della Politica estera e di sicurezza comune dell’Unione (PESC), settore decisionale tradizionalmente sottratto al controllo giurisdizionale della Corte di Giustizia dell’Unione. Anche qui dalla motivazione della Corte sembra trasparire una testarda ritrosia nei confronti di una perdita solo nominale di competenze a vantaggio della CEDU, posto soprattutto che questa ha già la possibilità di controllare l’operato dell’Unione in taluni settori riferibili all’ambito della PESC. Conclusione In questa situazione di stallo paralizzante, dove l’imbarazzo politico per un così granitico “no” impedisce, per ora, di far riprendere i negoziati, è 14 Joint communication from Presidents Costa and Skouris, 17/01/2011 15 Su tutte, sentenza Senator Lines GmbH c. Austria, GC,10.3.2004.

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legittimo rivolgersi almeno due interrogativi. Il primo quesito, riprendendo quanto affermato poco più in alto, riguarda la reale necessità di tale adesione. Ora che la Carta di Nizza è uscita dalla nebbia del soft law ed è diventata diritto primario, l’Unione ha davvero bisogno di aderire a una Convenzione che è persino più vecchia? Un’affermazione che però suona come quella della volpe esopica che disdegna l’uva che non è stata in grado di raggiungere: ottenere l’adesione alla CEDU non costituisce un mero orpello nel sistema di tutela giurisdizionale comunitario ma, anzi, l’assoggettamento dell’Unione a un controllo esterno e l’accettazione di questo rappresenterebbe una “maturazione costituzionale, un segno di forza e non di debolezza”16. Il secondo interrogativo riguarda le strade che ora le istituzioni europee possono imboccare, posto che ignorare completamente il parere e le sue conseguenze non è un’opzione praticabile, nell’evoluzione continua della materia della protezione dei diritti fondamentali. Da una parte si ha quindi la continuazione dei negoziati, o meglio “la via politica di far finta di negoziare un nuovo accordo, che non vedrebbe mai la fine, per procrastinare sine die (ed abbandonare di fatto) l’accennata adesione”17: una scelta che sembrerebbe in partenza fallimentare, visti i troppi ostacoli da superare e la considerazione che si arriverebbe a dar luogo a una Convenzione così depotenziata “da chiedersi quale beneficio gli individui potrebbero trarne”18. Dall’altra parte, come prospettiva vertiginosa ma altrettanto improbabile, le istituzione e gli Stati potrebbero raccogliere il coraggio e la chiarezza giuridica da modificare il Trattato di Lisbona per enunciarvi una volta per tutte la prevalenza della giurisdizione della Corte EDU in materia di diritti dell’uomo e libertà fondamentali. Si darebbe così luogo ad un unico sistema giurisdizionale di protezione dei diritti fondamentali in cui il giudice comunitario opererebbe semplicemente come uno dei ricorsi da esaurire prima di rivolgersi al tribunale di Strasburgo per una decisione definitiva e universalmente riconosciuta. Un’utopia, forse. Ma certamente un passo di dimensione ciclopica nella direzione tanto auspicata della creazione di un’unica, vera ed effettiva Europa dei diritti.

16 L.S.ROSSI, Il Parere 2/13 della CGUE sull’adesione dell’UE alla CEDU: scontro tra Corti? in www.sidi-isil.org, 22 dicembre 2014. 17 C. ZANGHÌ, La mancata adesione dell’Unione Europea alla CEDU nel parere negativo della Corte di Giustizia UE, in “Ordine Internazionale e Diritti Umani”, pp. 129-157, 2015. 18 L.S.ROSSI, v. supra.

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A Il disastro Germanwings – Ineliminabilità del fattore umano e necessità di una normativa più adeguata. Giulia Re Ferrè Il 24 marzo 2015 alle ore 9 e 41 minuti il volo Airbus Germanwings A320211 si schianta sulle Alpi francesi. Nessun sopravvissuto. Muoiono 144 passeggeri e 6 membri dell’equipaggio. Il seguente articolo è basato principalmente su quanto reso noto dal BEA1 nel Preliminary Report pubblicato nel mese di maggio. Esso non ha altra pretesa se non quella di far chiarezza su quali sono i (pochi) dati certi in merito all’accaduto. La chiave di volta per ricostruire le dinamiche dell’incidente è ovviamente l’analisi delle c.d scatole nere e delle comunicazioni radio. A bordo dell’aeromobile, come previsto dalla normativa, erano presenti due registratori di dati; uno detto FDR (Flight Data Recorder) registra i parametri di volo, quali velocità, quota, accelerazioni delle ultime 25 ore, così come previsto dall’annesso 6 ICAO2. Solitamente è posto nella parte finale della fusoliera, essendo questa la parte più protetta in caso di impatto con il suolo. Il secondo registratore è il CVR (Cockpit Voice Recorder) e viene utilizzato per registrare i suoni in cabina di pilotaggio come le comunicazioni tra i piloti o con il personale e i rumori ambientali. Il CVR è stato ritrovato il 24 maggio pomeriggio e già da una prima lettura dei dati appariva verosimile che causa del disastro fosse stata un’interferenza illecita. Le autorità competenti, ovvero il BEA per la Francia in collaborazione con il BFU3 per la Germania e CIAIAC4 per la Spagna hanno ovviamente iniziato le investigazioni il giorno stesso. Il BEA ha inoltre chiesto la collaborazione dell’Agenzia europea per la sicurezza aerea (EASA). Come stabilito dall’an1 BEA, Bureau d’Enquetes et d’Analyses pour la sècurité de l’aviation civile, è l’autorità competente per tutti gli incidenti aerei che si verificano in territorio francese. 2 CAO, International Civil Aviation Organisation. 3 BFU, Bundestelle für Flugunfalluntersuchung è l’agenzia federale tedesca per l’investigazione sugli incidenti aerei. 4 CIAIAC, Comisiòn de Investigaciòn de Accidentes e Incidentes de Aviacion Civil

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nesso 13 ICAO vista la nazionalità di alcune vittime anche altri paesi quali l’Australia, Israele e il Giappone hanno nominato degli esperti per seguire le indagini. E’ essenziale a questo punto ricostruire, per punti fondamentali la storia dell’ultimo volo del Airbus A320-211, cercando di ridurre al minimo i pur sempre necessari tecnicismi. Il 24 marzo oltre ai 144 passeggeri, a bordo ci sono sei membri dell’equipaggio di cui due flight crew e quattro cabin crew; lo stesso equipaggio ha effettuato la tratta Düsseldorf-Barcellona alle ore 6 del medesimo giorno. L’aeromobile decolla da Barcellona alle ore 9, con 25 minuti di ritardo rispetto al piano di volo originale, e Pilot Flying5 è il primo ufficiale Andreas Lubitz. Un quarto d’ora più tardi il CVR registra una discussione tra quest’ultimo e il comandante su come gestire il ritardo maturato. Quando alle 9 e 27 minuti l’Airbus si trova ad un’altitudine di crociera di 38.000 ft, i piloti sono in contatto con il Marseille en-route control centre e quella sarà l’ultima comunicazione con il centro di controllo del traffico aereo. Alle ore 9, 30 minuti e 24 secondi il CVR registra il rumore di apertura della porta della cabina di pilotaggio e dopo 3 secondi quello della chiusura. Il comandante, Patrick Sondenheimer, esce dalla cabina lasciando il primo ufficiale ai comandi dell’aeromobile e iniziano gli ultimi undici, interminabili minuti del volo Germanwings 9525, che si concluderà tragicamente con la morte di tutti gli occupanti. L’altitudine selezionata sulla FCU6 viene cambiata e passa in un secondo da 38 mila piedi a 100, il valore minimo selezionabile per un A320. Subito dopo le impostazioni del cd. “pilota automatico” vengono modificate selezionando la modalità “OPEN DESCENT” ovvero la modalità di discesa con cui è normalmente equipaggiato questo tipo di aeromobile. Il sistema di gestione della velocità cambia da “managed” a “selected”: la velocità non è più impostata automaticamente dal sistema ma, al contrario, essa è selezionata direttamente dal pilota. La velocità selezionata passa quindi da 273 nodi a 308. Poco dopo il servizio di controllo del traffico aereo cerca di mettersi in comunicazione con l’aeromobile chiedendo a quale quota di crociera fossero stati autorizzati. Non ricevendo alcuna risposta il controllore tenta poi di mettersi in contatto per altre due volte senza successo. Alle 9 e 34 viene registrato il suono che emette il buzzer ogni volta che qualcuno richiede di poter entrare nella cabina di pilotaggio. Sembra verosimile 5 Prima dell’inizio di ogni volo il comandante decide quale pilota avrà la responsabilità dell’aeromobile per l’intera tratta ovvero per una sua parte, ad es. decollo o atterraggio. 6 Flight Control Unit, ovvero l’unità del sistema di pilotaggio assistito deputata al mantenimento di una determinata quota di volo

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supporre che fosse il capitano a chiedere di poter accedere alla cabina. Nei sei minuti successivi è possibile sentire un rumore che possiamo ricollegare a quello di una persona che bussa alla porta e voci che chiedono di aprire, oltre a rumori simili a violenti colpi. Negli ultimi minuti di volo sia il Marseille Control Centre, sia il Sistema di Difesa Aerea Francese, nonché il pilota di un altro aeromobile tentano invano di mettersi in collegamento con il volo Germanwings. La registrazione del CVR si interrompe alle ore 9, 41 minuti e 6 secondi; il momento della collisione con il suolo. Dopo questa breve ricostruzione fattuale sugli avvenimenti dello scorso 24 marzo, sembra necessario cercare di capire come funziona il sistema di apertura della cabina di pilotaggio che ha impedito al comandante di rientrare. Subito dopo gli attentati terroristici del 11 settembre 2001 la Federal Aviation Administration7 pubblicò nuovi standard di sicurezza atti a prevenire intrusioni illecite nella cabina di pilotaggio. Si richiese innanzi tutto un rafforzamento delle porte di accesso alla cabina così da poter resistere a tentativi di incursione mediante forza fisica, e l’adozione di un sistema progettato in modo tale da impedire ai passeggeri di aprire la porta senza il consenso del pilota. Gli operatori avrebbero inoltre dovuto sviluppare delle procedure di approvazione e identificazione più stringenti per accedere alla cabina di pilotaggio. È dunque ovvio che si cercarono di stabilire delle misure e degli standard per prevenire atti terroristici o più in generale atti illeciti provenienti da soggetti terzi rispetto all’equipaggio. Dunque i sistemi, progettati per interdire dall’accesso alla cabina i soggetti indesiderati non consideravano il caso in cui il problema fosse già all’interno dell’abitacolo. La porta della cabina di pilotaggio del Airbus è dotata di tre serrature a comando elettronico che bloccano la porta appena si chiude e di una maniglia posta sulla parte rivolta verso l’abitacolo che permette di aprirla manualmente. Sul pannello superiore dell’abitacolo è collocata la centralina di controllo del sistema. Per richiedere l’accesso alla cabina è necessario digitare il codice di accesso a una cifra, dopodiché un segnale acustico avvisa l’equipaggio che qualcuno chiede di entrare. A questo punto il personale di volo ha tre possibilità per rispondere alla richiesta di ingresso; se l’interruttore viene spostato su “UNLOCK” la porta si sblocca, sulla tastiera si illumina un led verde ed è 7 La FAA è l’Agenzia del Dipartimento dei Trasporti statunitense che si occupa di sorvegliare e regolare tutti gli aspetti dell’aviazione civile americana.

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sufficiente spingere per aprire. Al contrario se l’interruttore è impostato su “LOCK” la porta rimane bloccata e la luce rossa sulla tastiera indica che il blocco è volontario. In assenza di qualsiasi risposta dall’interno dell’abitacolo, l’interruttore è posizionato su “NORM” e la porta rimane chiusa. Il sistema prevede anche una procedura in caso di emergenza. Dopo aver digitato il codice a tre cifre un segnale acustico suona in cabina per 15 secondi. Se in questi 15 secondi non c’è risposta da parte della flight crew, la porta si apre per solo 5 secondi. Analizzati così i sistemi di sicurezza a bordo di un Airbus 320, che sono paradossalmente stati una concausa del disastro aereo, rimangono comunque più dubbi che certezze. Impossibile non chiedersi se tutto questo fosse evitabile e soprattutto cosa può essere fatto per impedire che succeda di nuovo. A parere di chi scrive difficilmente si potrebbe dire che l’incidente era certamente evitabile e questo per la semplice ragione che il coefficiente umano, incluse le sue intrinseche fragilità, è – allo stato - ineliminabile. Premesso questo, senz’altro non sono state adottate tutte le misure necessarie a minimizzare i rischi, anche alla luce di un considerevole numero di precedenti, più o meno conosciuti, che fanno del disastro Germanwings un caso purtroppo non isolato. Dal 1980 si sono verificati sei episodi in cui l’incidente aereo è stato causato da manovre intenzionali o in cui comunque non è possibile escludere questa ipotesi. Nel 1999 un aereo della EgyptAir con a bordo 217 persone si schianta nell’Oceano Atlantico vicino all’isola di Nantucket. Secondo le ricostruzioni fatte dal FAA e dal National Transportation Safety Board, il copilota lasciato solo nella cabina di pilotaggio disinserisce il pilota automatico e la telemetria di bordo rileva un beccheggio anomalo ma controllato. Il capitano una volta rientrato in cabina tenta invano di riprendere il controllo dell’aeromobile. Nel 2013 un incidente simile in Namibia costa la vita alle 33 persone presenti a bordo del volo della LAM, la compagnia di bandiera del Mozambico. Perchè non si sono adottate misure per evitare che al comando potesse trovarsi una persona sola? Nel caso della compagnia tedesca inoltre c’erano altri indicatori di rischio che dovevano essere meglio considerati. A suffragare l’ipotesi principale del suicidio del copilota Andreas Lubitz è la sua storia clinica. Ventisettenne di nazionalità tedesca, Lubitz ha alle spalle 919 ore di volo. Il primo settembre 2008 inizia il corso di formazione base come pilota alla “Lufthansa

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Flight Training Pilot School” a Brema ma dopo soli due mesi è costretto a sospendere per un anno a causa di problemi medici. Nel giugno 2014 supera il test e viene nominato copilota. Il suo livello professionale è sempre stato considerato al di sopra degli standard richiesti. Nell’aprile 2009 il suo certificato medico non viene riconvalidato a causa della patologia depressiva di cui soffre e dei farmaci che è costretto ad assumere. Il 14 luglio 2009 la richiesta di rinnovo del certificato viene rifiutata ma solo due settimane dopo ottiene nuovamente un certificato medico di prima classe con restrizioni dovute alle sue particolari condizioni di salute. Tali restrizioni includono l’obbligo di sottoporsi a specifici e regolari esami medici. L’ultimo certificato valido gli viene rilasciato il 28 luglio 2014 con scadenza 14 agosto 2015. E’ evidente che le procedure mediche di controllo, che nella teoria dovrebbero essere in grado di selezionare dei piloti idonei non solo a livello fisico ma anche psicologico, non si sono rivelate efficaci e sarà compito delle autorità competenti tentare di ridurre il margine di errore al minimo pur sapendo che è impossibile eliminarlo. Il 27 marzo l’EASA ha reso nota una raccomandazione provvisoria per assicurare la presenza di almeno due membri dell’equipaggio all’interno dell’abitacolo. E’ evidente che il provvedimento pubblicato a pochi giorni dall’incidente tenta di minimizzare i rischi legati alla ripetizione di un episodio simile, ma difficilmente si può ritenere sufficiente se non accompagnato anche da altre specifiche misure volte ad accertare l’idoneità psico-fisica di coloro che andranno a formare l’equipaggio di volo. Recentemente il quotidiano tedesco “Die Welt” ha pubblicato un articolo secondo il quale la Commissione starebbe valutando la possibilità di intraprendere una procedura di infrazione nei confronti della Germania, a causa di controlli medici non adeguati. L’Unione Europea aveva già legiferato in materia di Medicina Aeronautica e in particolare con il regolamento U.E. n.1178/2011 della Commissione, che stabilisce i requisiti tecnici e le procedure amministrative relativamente agli equipaggi dell’aviazione civile ai sensi del regolamento CE n. 216/2008. Nello specifico è di grande importanza l’Allegato IV, dove sotto la rubrica “Psichiatria” si sottolinea come i richiedenti affetti da disturbi psichiatrici, quali disturbi dell’umore, disordini nevrotici e della personalità, debbano essere sottoposti a una valutazione soddisfacente prima di valutare il soggetto come idoneo. Cosa si intenda per “valutazione soddisfacente” non è però meglio definito. Qualche riga più avanti, trattando dei requisiti psicologici necessari, la

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Commissione indica come invalidanti “carenze psicologiche accertate che possano interferire con l’esercizio sicuro dei privilegi della licenza”. Non sembra azzardato dire, quindi, che il problema dei controlli medici non si pone tanto a livello di normativa europea, quanto di implementazione nazionale. La questione è cosa può fare di più l’Unione e cosa devono fare gli Stati membri. E’ opportuno continuare a lasciare discrezionalità ai singoli Paesi su come svolgere i controlli e valutare le storie cliniche oppure è necessario stabilire dei rigidi parametri identici per tutti i membri dell’Unione? Una normativa uniforme più rigida è una risposta adeguata e sufficiente per controllare il rischio legato al fattore umano?

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A Il recente intervento della Corte di Strasburgo in materia di libertà di circolazione delle persone. Giulia Pirola

Come noto, l’Italia è uno di quei ventotto paesi che hanno scelto di fare parte dell’Unione Europea. Il diritto dell’Unione Europea garantisce la libera circolazione la libertà di circolazione (non solo di capitali, servizi e merci, ma anche) delle persone: si tratta di un diritto fondamentale riconosciuto ai cittadini dell’Unione. La libertà di circolazione delle persone si realizza all’interno di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne o, in altre parole, nel territorio dell’Unione Europea. Nel 1985, con la firma degli accordi di Schengen1 e con la successiva Convenzione2, introducendo il concetto di “cittadinanza europea”, viene superata la precedente libertà di circolazione, riconosciuta solo agli operatori economici che prestano servizio come lavoratori subordinati all’interno degli Stati membri. Pertanto, con la Convenzione di Schengen si è attribuito un valore ben più pregnante a tale libertà, comprendendo così anche il diritto di soggiorno e di circolazione per i cittadini europei in tutto il territorio dell’Unione. La normativa si è ulteriormente arricchita nel corso degli ultimi anni: si pensi alla Direttiva europea 2004/383, con cui sono state dettate disposizioni relative al diritto dei cittadini dell’Unione Europea e dei loro familiari 1Con gli accordi di Schengen del 14 giugno 1985, intercorsi tra Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi, si volevano eliminare i controlli interni tra le diverse frontiere e introdurre un regime di libera circolazione per i cittadini appartenenti agli Stati firmatari, agli Stati membri o a paesi terzi. 2 La Convenzione di Schengen viene firmata il 19 giugno 1990 ed entra in vigore nel 1995. Accordi e Convenzione costituiscono il c.d. Acquis di Schengen, che deve essere accettato integralmente dai paesi candidati al momento della loro adesione all’Unione Europea. 3 Il cui recepimento ha dato àdito ad una serie di problemi e lacune, che sono in alcuni casi sfociati in procedure d’infrazione promosse dalla Commissione europea. L’Italia ha emanato la normativa di attuazione con D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30.

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di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. In particolare, tale Direttiva mira a ridurre al minimo le formalità amministrative, a fornire una più precisa definizione dello status di “familiare” e a limitare la possibilità di rifiuto dell’ingresso o estinzione del diritto di soggiorno. Nemmeno il Parlamento europeo, d’altra parte, è rimasto inattivo: basti pensare alla Risoluzione4 dello scorso anno, con la quale gli Stati membri sono stati invitati a rispettare le disposizioni in materia di libera circolazione e a garantire il rispetto del principio di uguaglianza. Oggi, l’art. 3, par. 2, del Trattato UE5 stabilisce il principio di libertà di circolazione delle persone, imponendo “misure appropriate”; disposizione che va letta congiuntamente all’art. 21 del Trattato FUE6, la quale contempla il diritto di circolare e soggiornare liberamento nel territorio dell’Unione Europea. Non va, poi, trascurata la Convenzione dei Diritti dell’Uomo, che, all’art. 2, riconosce il diritto di circolare liberamente e fissare la propria residenza sul territorio di uno Stato membro. Un caso concreto, che ha di recente sollecitato l’intervento della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, è stato il caso Battista c. Italia7. Nella specie, la decisione che è stata chiamata a pronunciare la Corte di Strasburgo riguarda un provvedimento di restrizione di tale libertà di circolazione, emanato, a più riprese, dal Tribunale di Napoli. In sintesi, il sig. Battista, cittadino italiano, a partire dal 2007 richiedeva il rilascio di un passaporto con l’iscrizione nello stesso del figlio. Era in corso un procedimento di separazione coniugale: la moglie si era opposta a tale rilascio, dal momento che l’interessato era venuto meno all’obbligo di versare per intero l’assegno alimentare. Il timore era, dunque, quello che, 4 Consultabile in http://www.europarl.europa.eu/RegistreWeb/search/simplehtm?reference=P7_ TA(2014)0037. 5 “L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima”. 6 “1. Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi”. 7 Sentenza Corte EDU 2 dicembre 2014, ricorso n. 43978/09, Battista c. Italia.

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in caso di trasferimento all’estero, egli si sottraesse completamente a tale obbligo. Così, nel 2007 il Tribunale aveva ordinato al sig. Battista di depositare il proprio passaporto al commissariato e aveva reso invalida la carta d’identità ai fini dell’espatrio. Dopo una serie di pronunce in tal senso del giudice tutelare di Napoli e del Tribunale, il sig. Battista adiva la Corte EDU per violazione della CEDU (in particolare, artt. 2 e 8). Il ricorrente lamentava non solo di aver subito una violazione della sua vita privata e della sua libertà di circolazione8, ma sosteneva anche che nessuna norma vietava ad un genitore che non pagasse l’assegno alimentare di avere un passaporto e di farvi iscrivere il nome dei propri figli. Aggiungeva, altresì, che nessun procedimento o condanna penale giustificava l’applicazione di quella che, sostanzialmente, rappresentava una misura cautelare personale; infatti, non era mai stato condannato penalmente, ex art. 570 c.p., per violazione degli obblighi di assistenza familiare. Il Governo italiano controbatteva che la Costituzione prevede (art. 16) che la libertà del cittadino di uscire dal territorio della Repubblica è subordinata all’osservanza degli obblighi previsti dalla legge; perciò, asseriva che una tale ingerenza nel diritto del ricorrente era autorizzata e prevista dall’art. 3 a) e b) della legge 21 novembre 1967, n. 1185 (si badi: precedente alla legge italiana sul c.d. divorzio), volto ad assicurare che il ricorrente pagasse l’assegno alimentare, così prevenendo la commissione di un delitto. Una siffatta questione pare non fosse stata mai stata affrontata dalla Corte di Strasburgo: infatti, se è vero che vi erano numerose pronunce9 relative 8 Oltre alle fonti normative sopra citate, in tema di libertà di circolazione, si faccia riferimento anche all’art. 2 della Convenzione CEDU: “ 1. Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza”. 9 Fra le altre, in materia di procedimento penale in corso (Miażdżyk c. Polonia, n. 23592/07, 24 gennaio 2012); in materia di esecuzione di una pena (M. c. Germania, n. 10307/83, decisione della Commissione del 6 marzo 1984, DR 37); in materia di condanna dell’interessato per un reato, fintanto che non fosse stato riabilitato (Nalbantski c. Bulgaria, n. 30943/04, 10 febbraio 2011); in materia di mancato rimborso a un creditore privato di un debito stabilito con decisione giudiziaria (Ignatov c. Bulgaria, n. 50/02, 2 luglio 2009, e Gochev c. Bulgaria, n. 34383/03, 26 novembre 2009; Khlyustov c. Russia, n. 28975/05, 11 luglio 2013); in materia di una decisione giudiziaria che vieta di condurre all’estero un figlio minorenne (Roldan Texeira e altri c. Italia, n. 40655/98, 26 ottobre 2000, e Diamante e Pelliccioni c. San Marino, n. 32250/08, 27 settembre 2011).

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all’art. 2 della Convenzione, è anche vero che mai si era posto il problema di esaminare misure che limitassero “la libertà di lasciare un paese in ragione dell’esistenza di debiti nei confronti di terzi aventi una particolare importanza, quali le obbligazioni alimentari”. Ad ogni modo, la Corte EDU ha ritenuto di dover applicare i medesimi principi elaborati nelle precedenti pronunce; in particolare, viene sancito che il rifiuto di rilasciare il passaporto e annullare la della carta d’identità ai fini dell’espatrio costituisce violazione dell’art. 2 della CEDU, a meno che non sia previsto dalla legge e risulti “necessaria in una società democratica” per la realizzazione dei suoi scopi. Dunque, tale misura risulterebbe “prevista dalla legge” qualora rinvenga un fondamento non solo nel diritto interno, ma anche nel momento in cui la previsione risulti “accessibile al cittadino e prevedibile per quanto riguarda i suoi effetti”10, enunciando con precisione le condizioni di applicabilità della stessa. Inoltre, la misura restrittiva deve essere proporzionale, nel senso che deve pur sempre tendere all’obiettivo di garantire il recupero dei debiti in questione. “Peraltro, anche se giustificata all’inizio, una misura che limiti la libertà di circolazione di una persona può diventare sproporzionata e violare i diritti di tale persona nel caso in cui venga mantenuta automaticamente per molto tempo”; motivo per cui le autorità interne hanno l’obbligo di controllare “dall’inizio e per tutta la sua durata” che si tratti di restrizione giustificata e proporzionata. Nel caso di specie, secondo la Corte CEDU, “i giudici interni non hanno ritenuto necessario esaminare la situazione personale dell’interessato, né la sua capacità di pagare le somme dovute e hanno applicato la misura contestata automaticamente”, senza contare, comunque, che la restrizione non era neppure idonea ad assicurare il pagamento dell’assegno alimentare. La Corte ha ritenuto, pertanto, che “l’interessato sia stato sottoposto ad una misura automaticamente, senza alcuna limitazione per quanto riguarda la portata e la durata della stessa” e che, in aggiunta, “dal 2008, i giudici nazionali non hanno eseguito alcun riesame in merito alla giustificazione e alla proporzionalità della misura rispetto alle circostanze del caso di specie”. 10 Sent. 2 dicembre 2014, ricorso n. 43978/09, Battista c. Italia; cfr. anche sent. Rotaru c. Romania [GC], n. 28341/95, § 52, 2000-V.

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In effetti, volendo analizzare concretamente il contenuto del provvedimento restrittivo, volto a vietare l’espatrio, si può asserire che si tratta, nella sostanza, di misura cautelare (per di più, caratterizzata dall’assenza di limitazioni temporali). Come noto, l’applicazione di una tale misura è subordinata all’esistenza di specifiche e tassative condizioni previste dalla legge; nella fattispecie in questione, si era fatto riferimento al solo pericolo di fuga del padre-debitore, al fine di eludere i suoi obblighi alimentari. Ciononostante, la Corte stessa ricorda che esistono strumenti alternativi11, finalizzati al recupero del credito al di fuori dei confini nazionali, i quali, però, non sono stati presi in considerazione dalle autorità interne al momento dell’applicazione della misura. In tal caso, allora, anche il presupposto del “pericolo di fuga” sarebbe venuto meno, rendendo così il provvedimento restrittivo in questione ingiustificato e sproporzionato. Infine, la Corte ha ritenuto violato anche l’art. 8 della CEDU12. Da ultimo, sembra opportuno interrogarsi allora su quale sia il ruolo effettivamente ricoperto dalla Corte di Strasburgo e dalla Convenzione CEDU nel sistema italiano. Secondo la Corte Costituzionale13, infatti, le norme CEDU costituiscono norme internazionali pattizie richiamate dall’art. 117 Cost., e, dunque, norme c.d. interposte ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. Ecco, allora, il duplice ruolo che viene in tal modo attribuito alla CEDU: da un lato, quello di parametro interposto per il vaglio della legittimità costituzionale delle norme interne e, dall’altro, quello di criterio interpretativo delle disposizioni interne (costituzionalmente orientato). Emerge sempre più chiaramente come l’appartenenza all’Unione Europea 11 Si fa riferimento al Regolamento europeo n. 4/2009, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obblighi alimentari. O, ancora, si pensi alla Convenzione dell’Aja del 23 novembre 2007 sul recupero internazionale di alimenti nei confronti dei figli minori e di altri membri della famiglia e la Convenzione di New York sul recupero degli alimenti all’estero. 12 “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.” 13 A partire dalle sentenze 22 ottobre 2007, nn. 348 e n. 349.

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sia una fonte imprescindibile di obblighi per l’Italia. Non solo. Se è vero che spesso gli Stati membri sono fortemente condizionati e, spesso, sanzionati dall’ordinamento europeo, è anche vero che da questo derivano tutele aggiuntive per il cittadino rispetto all’azione delle autorità interne. Nel caso visto sopra, la Corte EDU non soltanto ha salvaguardato (da limitazioni irragionevoli, come il divieto di espatrio) un diritto fondamentale dell’uomo (la libertà di circolazione), ma ha anche dato concretezza alla nozione di “cittadinanza europea” (tant’è che all’interno dello spazio giuridico, e in assenza di reato, non ha neppure più senso parlare di “espatrio”).

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A Pacchetto sicurezza dei prodotti e “Made in” obbligatorio Camilla Rosi

La normativa europea in tema d’indicazione d’origine è ormai da tempo oggetto di accese discussioni. Con la recente entrata in vigore del Reg. 1169/2012 è stato introdotto un nuovo sistema obbligatorio di etichettatura d’origine per prodotti alimentari, ma, per quanto riguarda i prodotti industriali, non vi è ancora una disciplina unificata a livello europeo, che resta quindi adottata solo su base nazionale e volontaria. Il primo tentativo di regolamentazione della materia risale alla Proposta di Regolamento del Consiglio del 20051, che proponeva l’introduzione di un sistema obbligatorio di marchio di origine europeo per i prodotti importati da paesi terzi e facenti parte di un numero limitato di settori2 ritenuti “sensibili”3. La ragione principale che fondava, e che tuttora fonda, la proposta, si rinviene nel fatto che i nostri maggiori partner commerciali (come USA, Canada e Cina) dispongono già di un sistema di etichettatura di origine dei prodotti importati, il che relega gli Stati Membri in una posizione di svantaggio. La proposta aveva la finalità di garantire alla Comunità europea una posizione di parità, mettendo in atto una normativa equivalente. Nel 2010 il Parlamento europeo, tramite Risoluzione legislativa4, sostenne la proposta della Commissione con un’ampia maggioranza5, non solo per gli indubbi vantaggi che avrebbe garantito ai consumatori in termini 1 COM(2005)0661, Proposta di Regolamento del Consiglio relativo all’indicazione del paese di origine di taluni prodotti importati da paesi terzi, 16 dicembre 2005. 2 Tali settori sono elencati nell’Allegato A della proposta e comprendono, tra gli altri, prodotti tessili, calzature, prodotti ceramici, pelletteria, gioielleria, etc. 3 Nel 2004 è stata lanciata dalla Commissione Europea una consultazione su questo argomento cui hanno partecipato i principali attori interessati. 4 EP-PE_TC1-COD(2005)0254, Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 21 ottobre 2010 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sull’indicazione del paese di origine di taluni prodotti importati da paesi terzi. 5 525 voti a favore, 49 contrari e 44 astenuti.

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di trasparenza ed informazione, ma “in particolare per le piccole e medie imprese, che spesso profondono sforzi reali nella qualità dei loro prodotti e che garantiscono oltretutto la sopravvivenza di posti di lavoro e metodi di produzione tradizionali e artigianali, ma che sono anche fortemente esposte alla concorrenza mondiale, la quale non dispone di regole per operare una distinzione tra i metodi di produzione.”6 Nonostante questa prima vittoria la proposta si bloccò in Consiglio, a causa dell’opposizione di numerosi Stati Membri, tra i quali il Regno Unito, la Germania e la Danimarca, che sostenevano che tale disciplina avrebbe costituito una forma di tassazione sulle importazioni. Nel 2012 la Commissione si vide costretta a ritirare la proposta, non solo a causa della recente sentenza dell’Organo di conciliazione WTO, US - COOL7, che fece sorgere dubbi di conformità della proposta con la normativa WTO8, ma , soprattutto, perché dopo 7 anni di stallo, non potevano più esservi concrete prospettive di approvazione9.

Nel febbraio del 2013 la Commissione ha proposto l’approvazione di un Pacchetto sicurezza dei prodotti e vigilanza del mercato, che comprende una bozza di Regolamento10; che, all’articolo 7, prevede l’indicazione di origine obbligatoria di tutti i prodotti industriali11, escludendo così l’incompatibilità con gli obblighi derivanti dall’adesione alla WTO. 6 Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 21 ottobre 2010, paragrafo 17. 7 DS384, United States — Certain Country of Origin Labelling (COOL) Requirements, 29 giugno 2012. 8 In particolare in relazione alla normativa prevista dall’accordo TBT. Infatti, la misura avrebbe potuto essere considerata come una forma di protezionismo, che avrebbe favorito i prodotti europei rispetto a quelli d’importazione. 9 Vedi l’intervento del Commissario UE per il commercio Karel De Gucht alla Plenaria del Parlamento europeo, Strasburgo, 17 gennaio 2013. 10 Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla sicurezza dei prodotti di consumo e che abroga la direttiva 87/357/CEE del Consiglio e la direttiva 2001/95/CE, 13 febbraio 2013 (“Pacchetto sicurezza dei prodotti e vigilanza del mercato”). 11 L’articolo 2 comma 2 prevede: “Il presente regolamento si applica ai prodotti ottenuti mediante un processo di fabbricazione, immessi o messi a disposizione sul mercato, nuovi, usati o ricondizionati e che rispondano a uno dei seguenti criteri: a) prodotti destinati ai consumatori; b) prodotti suscettibili, in condizioni ragionevolmente prevedibili, di essere utilizzati dai consumatori anche se non loro destinati; c) prodotti ai quali i consumatori sono esposti nel contesto di una prestazione di servizi.”

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L’articolo 7, nello specifico, prevede che: “1. I fabbricanti e gli importatori appongono sui prodotti un’indicazione del paese d’origine del prodotto o, se le dimensioni o la natura del prodotto non lo consentono, tale indicazione è apposta sull’imballaggio o su un documento di accompagnamento del prodotto. 2. Al fine di determinare il paese d’origine di cui al paragrafo 1, si applicano le regole d’origine non preferenziali di cui agli articoli da 23 a 25 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario. 3. Se il paese d’origine di cui al paragrafo 2 è uno Stato membro dell’Unione i fabbricanti e gli importatori possono far riferimento all’Unione o a un determinato Stato membro.”

In base alla proposta, l’origine del prodotto è individuata secondo le regole di individuazione dell’origine non preferenziale sancite dal codice doganale comunitario12. Nonostante i cambiamenti, la tradizionale divisione tra paesi del sud, manifatturieri, e paesi del nord, importatori e assemblatori, continua ad essere insormontabile. Questi ultimi, infatti, sostengono che la misura in esame costituirebbe un vantaggio esclusivamente per i paesi manifatturieri, allo stesso tempo non garantendo maggiore trasparenza o informazione ai consumatori, poiché spesso un prodotto è il frutto di operazioni avvenute in diversi paesi, tra i quali solo uno sarebbe indicato in etichetta. Inoltre, sempre secondo i paesi del nord, l’indicazione di origine obbligatoria non contribuirebbe ad accrescere la competitività delle imprese europee ma, al contrario, apporrebbe nuove barriere tecniche al commercio. La proposta è stata accolta a larga maggioranza dal Parlamento europeo nel 2014, ma poi, nuovamente, è stata bloccata in Consiglio dei ministri Ue, in particolare da “tedeschi, inglesi, olandesi, baltici e scandinavi, convinti che

12 Artt. da 23 a 25, Regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, GU L 302del 19.10.1992, pagg. 1–50.

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il “made in” li danneggerebbe” .13

Durante il suo semestre di presidenza, l’Italia, sotto la pressione dei paesi del nord, ha richiesto e ottenuto il lancio di uno studio sull’impatto su costi-benefici dei provvedimenti; quest’ultimo è stato concluso ed analizzato nell’ultimo consiglio di competitività svoltosi il 28 maggio 2015. È stata l’Italia a chiedere un rinvio della discussione, che originariamente avrebbe dovuto tenersi il 6 e maggio, per prendere tempo ed evitare che il quadro confuso evidenziato dallo studio potesse nuovamente bloccare la proposta. Al fine di trovare un compromesso che favorisse il passaggio in Consiglio di competitività, la Commissione, ha deciso di presentare una proposta di “made in” in versione “selettiva”14, “limitato ai settori delle calzature, della ceramica e dell’abbigliamento, nonostante l’Italia premesse anche per l’inclusione dei settori arredo e oreficeria. Il Consiglio di competitività ha, però, “cristallizzato lo stallo tra favorevoli e contrari alla disciplina della tracciabilità dei prodotti non alimentari in circolazione nella Ue”15, infatti, nonostante gli sforzi e i compromessi, non si è nuovamente riusciti a trovare un accordo. Questo risultato rappresenta una nuova sconfitta non solo i per paesi, come l’Italia, che basano la loro economia sulla qualità e la tradizione, ma per l’Europa in generale, che, ancora una volta, “non riesce a prendere una decisione di buon senso e a dare un messaggio limpido e coerente al proprio tessuto industriale, proprio nel momento in cui ha l’ambizione di negoziare accordi di libero scambio internazionali come il Ttip con gli Usa”.16

13 Vedi http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-04-30/l-europa-nonfaccia-pasticci-made-in-075048.shtml?uuid=AB9DFKYD 14 L. Cavestri, “Made in” in versione selettiva, Il Sole 24 ore, 7 maggio 2015. 15 Vedi http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2015-05-29/schiaffo-parlamento-europeo-063700.shtml?uuid=ABC8UhoD 16 ibidem.

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A Il brevetto europeo con effetto unitario dopo gli ultimi interventi della Corte di Giustizia Michele Loconsole L’annoso tema della integrazione europea, già messo in crisi da forze esterne al complesso apparato giuridico-burocratico dell’Unione europea, si ripropone con forza anche nel campo del diritto della Proprietà Industriale, settore vitale per l’economia degli Stati membri. Si ripropone in particolare la questione del cd. Brevetto europeo con effetto unitario, un istituto che, nato nel 2011 a seguito di un processo tutt’ora contestato e giù finito davanti alla Corte di giustizia (1), sembra essere particolarmente difficile da digerire per alcuni Stati e sicuramente arduo da comprendere per giuristi e tecnici del settore. La vicenda giudiziaria partita subito dopo l’emanazione dei Regolamenti UE 1257/2012 e 1260/2012, adottati con la procedura di cooperazione rafforzata (2), sembra aver vissuto il suo secondo e ultimo capitolo davanti la Corte proprio nei primi giorni di Maggio 2015. Prima di capire la portata e l’oggetto di queste due decisioni, soffermiamoci un attimo sulla storia dell’integrazione brevettuale europea e sul contenuto dei due regolamenti oggetto di sindacato giudiziale. Capiamo insomma se si tratti veramente di una rivoluzione copernicana nel campo brevettuale o se più modestamente si sia semplicemente fatto un lifting, peraltro non particolarmente riuscito, alla normativa precedente. Il brevetto europeo: dalla Convenzione di Monaco ai contestati regolamenti UE 1257/2012 e 1260/2012 Sin dalla sottoscrizione della convenzione di Unione di Parigi del 20 marzo 1883, i Paesi aderenti avevano convenuto la possibilità di stipulare “accordi particolari” ai sensi dell’art. 19 della stessa, a fini di maggior integrazione 1 Decisioni del 16 aprile 2014 della CGUE nelle cause C-274/11 e C-295/11 Regno di Spagna contro Consiglio e Repubblica Italiana contro Consiglio 2 Si vedano gli artt. 20 TUE e 326, 327 e 328 TFUE. In particolare è una procedura che si adotta quando non vi è consenso unanime su atti da adottare in materie di competenza concorrente che vincola solo gli Stati membri aderenti alla stessa.

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tra i loro sistemi di protezione. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la nascita di spinte unioniste, nella comunità economica europea si era avviato un intenso dibattito riguardo la necessità di adottare una disciplina uniforme per la tutela delle creazioni oggetto di diritti di proprietà industriale. Il netto ripudio dei modelli allora vigenti nei paesi del blocco socialista (3) aveva portato all’adozione della Convezione Europea sul Brevetto, sottoscritta a Monaco il 5 ottobre del 1973. La convenzione non si era limitata ad uniformare la procedura di concessione dei titoli brevettuali, ma aveva anche introdotto una normativa sostanziale di elevato valore qualitativo che gli stati membri avevano deciso di inserire nei propri diritti nazionali (4). Dopo vari tentativi di armonizzazione, sia con il ricorso a Convenzioni internazionali (5), sia a proposte di Regolamenti comunitari (6), tutti naufragati per il mancato accordo tra gli stati membri sui regimi linguistici e sulla giurisdizione unitaria, il processo di integrazione si è quindi cristallizzato alla Convenzione di Monaco e alla sua successiva rivisitazione dell’anno 2000 – detta appunto EPC 2000 – che ha introdotto alcune modifiche relative alle definizioni di stato della tecnica, novità estrinseca nonché alcune novelle procedimentali in ottica di deregulation dell’intero apparato del brevetto europeo (7). Gli studiosi hanno dunque parlato, riferendosi al sistema del brevetto europeo, attualmente in vigore, di brevetto europeo come “fascio di 3 Che ripudiavano l’istituto brevettuale in favore di un contributo statale da corrispondersi all’inventore in cambio della collettivizzazione dell’invenzione. Sull’insostenibilità e non convenenza economica della disciplina vedi GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale II edizione, Giuffrè, Milano 2008 – pag. 59 4 In particolare le norme sostanziali di cui agli artt. 52 ss., benchè largamente ricalcate dalle legislazioni nazionali, non sono intervenute in materia di preuso, invenzioni dei dipendenti, licenze obbligatorie ecc. lasciando ai diritti nazionali il compito di dettare le relative discipline, con il risultato di ampie divergenze tra gli stati europei nelle citate materie. Su tutti vedi 5 In particolare la convenzione di Lussemburgo, sottoscritta nel 1975 e mai entrata in vigore per la mancanza del raggiungimento del numero minimo di ratifiche, aveva tentato di creare un brevetto comunitario su modello di quello che è oggi l’attuale regime normativo dei marchi di cui al reg. UE 207/2009. La Commissione aveva anche proposto, nel giugno 1997, un Libro Verde sul quale avviare le riviviscenti e mai sopite discussioni sulla necessità di un brevetto comunitario. Per approfondire vedi: http://europa.eu/documents/comm/ green_papers/pdf/com97_314_it.pdf 6 Non ultima la proposta di regolamento del Consiglio del 7 aprile 2009, seguita all’illuminante e, a posteriori, inascoltata Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52007DC0165. 7 Sul punto vedi FRASSI, GIUDICI, EPC2000, Una prima lettura, in Riv. dir. ind., fasc. VI,2007 - pag. 205

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brevetti” o “a formula intermedia” (8), in quanto unifica sì la procedura di brevettazione, centralizzandola presso l’Ufficio Europeo dei Brevetti con sede a Monaco di Baviera, ma lascia ai singoli Stati la facoltà di prevedere ulteriori adempimenti per perfezionare l’efficacia della tutela brevettuale nei loro territori nazionali (9). In particolare in Italia, ai sensi dell’art. 56 comma III c.p.i., occorre depositare una traduzione italiana dell’intero testo del brevetto – rilasciato invece da Monaco solo in inglese, francese o tedesco – per ottenere la tutela. Senza contare ovviamente che il diritto applicabile ai brevetti rimane quello nazionale dei singoli Stati, che hanno altresì la potestà giurisdizionale in materia di sindacato sulla legittimità dei titoli, in materia di tasse di mantenimento e in materia linguistica. In Europa quindi abbiamo tanti singoli brevetti quanti sono gli stati contraenti l’EPC, con contestuale moltiplicazione dei costi e dell’alea sulle decisioni giurisprudenziali. Per eliminare questo problema i soggetti comunitari sono intervenuti a più riprese nel corso degli ultimi quarant’anni. Naufragati gli accordi di Lussemburgo e il progetto EPLA, l’Unione europea si è fatta carico di mediare tra le varie posizioni per raggiungere un accordo su un brevetto con effetto unitario sottoposto ad un’unica giurisdizione. I risultati però non sono stati particolarmente soddisfacenti10. La netta opposizione di Spagna ed Italia all’emanazione di un regolamento con la procedura legislativa ordinaria, motivata dall’eccessivo orientamento anglo-tedesco della normativa proposta11, ha portato il Consiglio e il Parlamento all’adozione della procedura di cooperazione rafforzata per l’adozione dei regolamenti 1257 e 1260/2012 non vincolanti dunque per Italia e Spagna12. 8 SENA, I diritti sulle invenzioni e i modelli di utilità, quarta edizione, Giuffrè, Milano, 2011 pag. 43 ss. 9 Art. 75 Convenzione sul Brevetto Europeo 10 La dottrina internazionale ha parlato a proposito di una “Missione Impossibile” o, con riguardo al complesso sistema del brevetto europeo con effetto unitario, di “Amleto senza il Principe”. Cfr. TRONCOSO, European Union Patents: A Mission Impossible? An Assessment of the Historical and Current Approaches, 17 Marquette Intellectual Property Law Review, University of New Hampshire, 2013; WADLOW, “Hamlet without the Prince”: Can the Unitary Patent Regulation Strut its Stuff without Articles 6-8?, Journal of Intellectual Property Law and Practice, Oxford, 2013. 11 Vedi la decisione 2011/167/UE con la quale 25 Stati membri sono stati autorizzati ad adottare la procedura di cooperazione rafforzata 12 Che già non avevano aderito al modello, quasi del tutto analogo, previsto dagli accordi di Londra del 2008, nel quale “ogni Stato con una lingua ufficiale uguale a una delle lingue ufficiali dell’UEB rinuncia alle esigenze in materia di traduzione previste all’articolo 65 paragrafo 1 della CBE”; altresì “ogni Stato con una lingua ufficiale diversa dalle lingue ufficiali dell’UEB rinuncia alle esigenze in materia di traduzione previste all’articolo 65

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Nei nuovi regolamenti, aridi di normativa sostanziale, si dettano nuove discipline in materia di brevetto europeo “con effetto” unitario e di traduzioni. L’art. 3 del reg. UE 1257/2012 stabilisce che un brevetto europeo, concesso con la procedura di cui all’EPC e al relativo regolamento di esecuzione, può, su richiesta del titolare, essere iscritto in apposito registro e godere di effetto unitario. Effetto che si declina nella possibilità di ottenere una protezione uniforme su tutto il territorio degli Stati membri della cooperazione e di essere contestualmente limitato, revocato, trasferito o estinto solo su tutto il territorio (a differenza di come avviene oggi – nda). La scelta di garantire una tutela uniforme è però raggiunta utilizzando una tecnica legislativa contorta, figlia di una scelta politica forse non particolarmente felice. Si legge infatti all’art. 7 reg. cit. che “il brevetto europeo con effetto unitario è considerato come un brevetto nazionale dello stato membro partecipante in cui abbia effetto unitario e nel quale il richiedente abbia la sede principale di attività o la residenza al momento della domanda […] se non ha residenza, sede di attività principale e non, in uno Stato membro della cooperazione, si applica il diritto nazionale dello stato in cui ha sede l’Ufficio Europeo dei Brevetti”. Col regolamento passerebbero inoltre all’Ufficio europeo dei brevetti le facoltà di gestione del gettito tributario derivante dalle procedure e domande di brevettazione, oggi invece di competenza dei rispettivi uffici nazionali. Il regolamento “gemello” 1260/2012, anche esso adottato con la procedura di cooperazione rafforzata, va a delineare un nuovo sistema di traduzioni. Nel dettaglio si prevede che, dopo un periodo transitorio di dodici anni derogabili13 i richiedenti debbano depositare le richieste di brevetto europeo con effetto unitario solo in una delle tre lingue ufficiali dell’EPO14; la pubblicazione della concessione del brevetto verrà fatta allo stesso modo e non potranno essere richiesti dagli Stati membri della cooperazione ulteriori adempimenti, come invece avviene oggi nel caso italiano. La traduzione nella lingua dello Stato avverrà solo nel caso di controversie e sarà a carico del presunto contraffattore, salvo che esso sia un soggetto esente ai sensi dell’art. 4 par. 4 del regolamento citato. Si passerebbe paragrafo 1 della CBE, se il brevetto europeo è stato concesso nella lingua ufficiale dell’UEB scelta dallo Stato in questione oppure tradotto in tale lingua e depositato nel rispetto delle condizioni previste all’articolo 65 paragrafo 1 della CBE. Questi ultimi mantengono il diritto di esigere il deposito di una traduzione delle rivendicazioni in una delle loro lingue ufficiali.” 13 Art. 6 Reg. UE 1260/2012 14 Che sono inglese, francese e tedesco ex art. 14 Convenzione sul Brevetto Europeo.

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dunque da un regime linguistico, di accesso alle informazioni del brevetto, libero a un regime linguistico ad accesso meramente eventuale, con gli ovvi riflessi anti concorrenziali. Parallelamente a questi regolamenti, gli Stati aderenti alla cooperazione più l’Italia, hanno sottoscritto un accordo internazionale su un Tribunale unificato dei brevetti al quale devolvere tutte le controversie in materia brevettuale e non solo sul nuovo brevetto europeo con effetto unitario. Questa necessità si è fatta via via più urgente per evitare di avere La giurisdizione esclusiva di cui all’art. 32 dell’accordo prevede l’applicazione delle fonti normative indicate all’art. 24, tra cui vi sono i due regolamenti “gemelli” e le norme di diritto sostanziale contenute nello stesso accordo sul Tribunale unificato, in parte confliggenti con i dettati regolamentari. Questa evidente antinomia causa non pochi problemi di interpretazione e applicazione, aggravati anche dal regime transitorio previsto nella parte IV dell’accordo, che consente da qui a sette anni la possibilità di proporre azioni davanti ai tribunali nazionali. Terminato questo periodo, il Tribunale unificato avrà competenza esclusiva anche su brevetti europei privi di effetto unitario15. Gli interventi della Corte di Giustizia dell’Unione europea sui ricorsi italo-spagnoli (2014) e spagnoli (2015) La spaccatura in seno alle istituzioni dell’Unione europea, culminate nelle pronunce della CGUE del 16 aprile 2014 nelle cause C-274/11 e C-295/11 si è avvertita parecchio. Regno di Spagna e Repubblica Italiana avevano chiesto alla Corte, con cinque motivi di ricorso, di censurare le scelte del Consiglio di ricorrere alla cooperazione rafforzata, che escludeva paesi Ue non in linea con l’opinione della maggioranza dei 28 dal processo decisionale, in quanto strumento inappropriato. Si accusava il Consiglio, tra i tanti motivi, di aver adottato una procedura viziata da sviamento di potere, in quanto la decisione presa a maggioranza sulle norme di cui al Reg. 1260/12, sarebbe stata da adottare all’unanimità, essendo così prescritto dai trattati ove si fosse andati a lambire il settore dei regimi linguistici. La Corte, premesso che la materia brevettuale è di competenza concorrente e non esclusiva come invece sostenevano i ricorrenti, aveva affermato che: l’esigenza di adottare in tempi ragionevoli una disciplina uniforme in materia brevettuale, alla luce del lungo e sterile 15 Sui rischi ad esso connessi vedi, tra gli altri: DI CATALDO, Concorrenza (o confusione?) di modelli e concorrenza di discipline di fonte diversa nel brevetto europeo ad effetto unitario. esiste un’alternativa ragionevole? in Riv. dir. ind., fasc. 6, 2013, pag. 301

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dibattito partito già dai primi anni Duemila e dell’impossibilità di trovare soluzioni condivise, aveva reso ragionevole la scelta della cooperazione rafforzata16. Il rigetto dei ricorsi aveva fatto propendere l’Italia per la desistenza nella battaglia giudiziale contro il Consiglio, che invece lo stato iberico ha preferito continuare. La Spagna ha infatti presentato, questa volta da sola, due nuovi ricorsi, iscritti a ruolo nel 2013 e decisi il 5 maggio di quest’anno17. Nella prima sentenza, sulla causa C-146/13, la Corte di Giustizia afferma alcuni principi salvifici dell’intero impianto del regolamento 1257/2012 che potrebbero ora dare una decisa accelerazione all’intero iter di realizzazione del brevetto europeo con effetto unitario18. Anzitutto viene rigettata la censura relativa alla base giuridica sulla quale è sono stati adottati i due regolamenti oggetto di controversia. La ricorrente afferma che essendo le norme del regolamento un mero rimando ai diritti nazionali e all’Accordo sul Tribunale unificato esse non implementano direttamente il regime di tutela uniforme di cui all’art. 118 TFUE, per cui la citazione di tale norma come base giuridica è errata. La Corte statuisce nel suo giudizio che “lo scopo dell’atto oggetto di sindacato è proprio quello di garantire una tutela uniforme”, risultante “dall’applicazione degli artt. 5 par. 3, e 7 del regolamento impugnato, i quali garantiscono che il diritto nazionale prescelto (caso per caso si intende – nda) sarà applicato nel territorio di tutti gli Stati membri partecipanti nei quali tale brevetto ha un effetto unitario”. Per cui l’obiettivo di armonizzazione della tutela è comunque raggiunto, anche se non con una fonte di diritto sostanziale sovraordinata come avviene già per il marchio comunitario col Reg. UE 207/2009. Con altro motivo di ricorso la Spagna censura i regolamenti 1257 e 1260 del 2012 in quanto viziati da sviamento di potere: “essi sono un guscio vuoto”, si legge nel ricorso, “che non introduce nessun sistema giuridico di idoneo a garantire una tutela uniforme dei diritti di proprietà industriale”. I giudici invece, accogliendo le conclusioni dell’Avvocato generale, rigettano 16 Decisioni del 16 aprile 2014 della CGUE nelle cause C-274/11 e C-295/11 Regno di Spagna contro Consiglio e Repubblica Italiana contro Consiglio 17 Decisioni del 5 maggio 2015 nelle cause C-146/13 e C-147/13 Regno di Spagna contro Consiglio. 18 Il Ministero dello sviluppo economico, con una nota del 13 maggio 2015 ha spiegato, durante la Riunione del Comitato interministeriale per gli affari europei per bocca del Sottosegretario allo Simona Vicari che dopo che Corte ha salvato l’impianto normativo, aderirvi diviene una priorità. Il comunicato è reperibile a questo link http://www. sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/per-i-media/comunicati-stampa/2032701-vicariadesione-a-brevetto-unitario-e-una-priorita-con-sede-in-italia-del-tribunale-unificatomaggiori-opportunita-e-facilitazioni

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il motivo di ricorso in quanto carente di materiale probatorio. La Spagna non fornisce “la dimostrazione che tale regolamento impugnato sia stato adottato allo scopo esclusivo o determinante di conseguire obiettivi diversi da quelli per cui il potere è stato conferito”. Si ribadisce inoltre che non vengono violati i principi giurisprudenziali comunitari di cui alla sentenza Meroni/Alta Autorità19, essendo il potere discrezionale dato all’UEB per la concessione dell’effetto unitario dato dagli Stati membri in quanto tali, non essendo l’UE parte della suddetta Convenzione. Interessante infine anche l’ultimo motivo di ricorso presentato dalla Spagna. Essa afferma che l’accordo sul Tribunale Unificato dei brevetti, che è un accordo internazionale ai sensi della convenzione di Vienna del 1969 e del Reg. Ue 1215/2012, sarebbe stato adottato dai Paesi membri in violazione del principio di autonomia del diritto dell’Unione e la subordinazione dell’efficacia dei regolamento alla ratifica di tale accordo sia illegittima ai sensi dell’art. 288 TFUE. La Corte, salomonicamente, afferma che “non si può decidere in sede di ricorso ex art. 263 TFUE della legittimità di un accordo internazionale stipulato da Stati membri”, lasciando dunque aperta la questione, ma “è legittimo subordinare l’entrata in vigore del regolamento alla ratifica della convenzione in quanto deroga parziale e temporanea di alcune norme del regolamento stesso, deroga necessaria per garantire uniformità di tutela e certezza del diritto.” Nella decisone “gemella” sulla causa C-147/13, nella quale la Spagna accusa il Consiglio di illecita discriminazione fondata sulla lingua con riguardo alla previsione di cui all’art. 3 reg. 1260/2012, la Corte afferma invece che la scelta di privilegiare il regime trilinguista è funzionale all’abbattimento dei costi di brevettazione e dunque ad una effettività della tutela brevettuale, minacciata oggi dalle ingenti somme necessarie a predisporre le traduzioni delle rivendicazioni o dei fascicoli da depositare nei singoli Stati per ottenere tutela. Si prevede inoltre che, da qui a 12 anni, la tecnologia consentirà di superare questo problema mettendo a disposizione traduzioni di qualità a basso costo20. L’Italia verso la tardiva adesione alla cooperazione rafforzata: cui prodest? Il quadro che emerge dopo l’intervento della Corte è dunque in chiaroscuro. 19 Secondo cui “la delega da parte di una istituzione dell’Unione a un’entità privata di un potere discrezionale comportante un’ampia libertà di valutazione e atto ad esprimere, con l’uso che ne viene fatto, una politica economica vera e propria è incompatibile con quanto il Trattato FUE prescrive”. (Vedi EU:C:1958:7). 20 Vedi nota 14

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Se da un lato pare ormai immune da sindacati di legittimità il sistema tripartito regolamenti-accordo sul tribunale unificato-diritti nazionali, eccetto quanto visto precedentemente21, dall’altro il disegno complessivo è parecchio confuso. Usando una felice metafora di Vincenzo di Cataldo22, siamo di fronte a un “patchwork” di tutele brevettuali non indifferente. Rimangono infatti sia il brevetto nazionale classico che il brevetto europeo tradizionale, affiancati dalla possibilità di accedere all’effetto unitario (che se richiesto da soggetto residente in stato non membro sarà disciplinato dal diritto tedesco in quanto diritto dello Stato in cui si trova l’UEB). Altresì confusa appare la cognizione del Tribunale unificato, il quale dovrà applicare le norme sostanziali dei regolamenti 1257/2012 e 1260/2012 solo agli stati partecipanti alla cooperazione rafforzata, mentre agli altri, tra cui ad oggi figura l’Italia, le norme sostanziali dell’accordo fondativo del Tribunale stesso di cui al capo V dell’Accordo23. Affermazione questa tutt’altro che condivisa e oggetto di ampia discussione. Sebbene viga il principio di prevalenza del diritto dell’Unione, non sarebbe corretto anche alla luce di quanto affermato dalla Corte sulla scelta della cooperazione rafforzata, applicare ad uno stato contraente dell’accordo sul TUB le norme di diritto sostanziale contenute nei regolamenti, che sono sì fonti UE, ma di una specie diversa dai classici regolamenti auto-applicativi in quanto, per sua stessa definizione “accordo particolare ai sensi dell’art. 142 CBE”. Accordo particolare rimesso alle norme di diritto internazionale privato e non a quelle dell’unione europea. La convenienza economica dell’adesione a questo sistema è per le imprese del nostro paese quantomai discussa. Da un lato verrebbero sicuramente abbattuti tanto i costi di traduzione dalle lingue del procedimento nelle lingue dei vari paesi aderenti al sistema del brevetto unitario, quanto i costi di disputa giudiziale (sia negli effetti che nelle giurisdizioni, avendosi dunque un Tribunale unificato. La dichiarazione di nullità del brevetto, come già visto, avrebbe efficacia su tutto il territorio di competenza del tribunale, eliminando costi di accesso alle informazioni sulle decisioni giudiziali prese di volta in volta nei vari Stati (es. brevetto nullo in Italia, parzialmente nullo in Francia, valido in UK ecc.). Questo converrebbe sicuramente alle grandi imprese che operano sul mercato europeo, 21 Punto 101 della decisione della CGUE nella causa C-146/13 22 Vedi nota 12 23 Vedi gli artt. dal 24 al 30 dell’Accordo Sul Tribunale Unificato Dei Brevetti (2013/C 175/01) e dell’annesso Statuto (all. I).

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mentre qualche riserva la si esprime riguardo le PMI italiane. Esse infatti si vedrebbero aggredite da imprese straniere attirate dalla possibilità di entrare nel mercato italiano senza particolari costi aggiuntivi che invece ad oggi fanno da barriera “protezionista” al nostro mercato. Si prende atto come tuttavia il “potere contrattuale” delle grandi confederazioni di imprese sia sicuramente più forte e spinga verso l’adesione ad un sistema brevettuale “ad arlecchino”24 nato tra grandi difficoltà ma che sembra ad oggi la soluzione, lungi dall’essere ottimale, per il sistema europeo25.

24 “Questo Pacchetto UP, questa costruzione talmente composita da somigliare all’abito di Arlecchino, non era affatto necessario. Esisteva, ed esiste, una via alternativa facile da tracciare, che non richiede capacità progettuali eccezionali o sovrumane [...].Il problema “speciale” del diritto dei brevetti è, chiaramente, il problema delle lingue. Nel descrivere l’oggetto (o il contenuto) del diritto di brevetto il testo scritto svolge un ruolo essenziale, in termini nettamente più pregnanti di quanto non accada per i marchi, i disegni e modelli, e le stesse novità vegetali [...]” Per risolvere questo problema, Di Cataldo suggerisce l’adozione del sistema monolingua inglese, ripudiando l’ormai vetusto ricorso al francese e al tedesco. Di più, l’autore, come larga parte della dottrina, spinge per l’emanazione di un regolamento dell’Unione che riscriva le norme della CBE e faccia rientrare nell’alveo del diritto comunitario la materia della proprietà industriale, come avvenuto con i marchi. Cfr. DI CATALDO, op. cit. 25Numerosi sono state le riflessioni dottrinali relative all’efficienza e all’effettiva convenienza delle scelte in tal senso orientate, tra cui: FLORIDIA, Il brevetto unitario: cui prodest?, Il Diritto industriale, Ipsoa, Milano, 2013; SCUFFI, Il brevetto europeo con effetto unitario e l’Unified Patent Court, Il Diritto industriale, Ipsoa, Milano 2013; CERULLIIRELLI, Il Tribunale unificato dei brevetti: rischi e compatibilità con il nostro ordinamento, Il Diritto industriale, Milano, 2013

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A Il piano europeo per un’operazione militare in Libia contro i trafficanti di esseri umani e i “danni collaterali” al diritto d’asilo Francesco Bertolino In un recente discorso, il Presidente della Repubblica Mattarella ha definito le migrazioni che stanno interessando le frontiere dell’Unione Europea «un’urgenza epocale per le dimensioni del fenomeno e per la sua drammaticità»1. Nonostante le migrazioni siano ormai da considerarsi un fenomeno strutturale, la situazione di instabilità politica e le guerre civili, che hanno interessato Asia ed Africa2, ne hanno indubbiamente accresciuto le proporzioni3. A ragione, perciò, si è parlato di un’emergenza, la cui gestione dovrebbe necessariamente essere affidata ad un livello superiore a quello dei singoli Stati membri. I paesi europei più interessati dai flussi migratori, tra cui l’Italia, invocano un’azione più incisiva dell’Unione europea, alla quale con il Trattato di Amsterdam è stata conferita una competenza nei settori dell’immigrazione e dell’asilo, seppure in via ripartita con gli Stati membri. L’azione dell’Unione europea non può, peraltro, prescindere dal pieno rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona umana, come stabilisce la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, alla quale spetta lo stesso valore giuridico dei Trattati. Fra i diritti che gli Stati membri si impegnano a riconoscere e garantire rientra il diritto d’asilo, sancito dall’articolo 18 della Carta stessa che esplicitamente richiama la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status di rifugiato4. Alla 1 Discorso tenuto presso la London School of Economics, il 28 Maggio 2015. 2 A mero titolo esemplificativo, si pensi alla guerra civile in corso in Siria e in Iraq e ai rivolgimenti politici seguiti alla cosiddetta Primavera Araba che hanno destabilizzato molti Paesi nordafricani, fra i quali la Libia. 3 Stando ai dati del Ministero dell’Interno, nel 2014 sono sbarcate sulle coste italiane 170˙100 persone a fronte delle 42˙259 del 2013, con un incremento pari a circa il 300%. Comparando, poi, i dati dei primi due mesi del 2014 con quelli dello stesso periodo del 2015 si registra un ulteriore aumento del 43%; il trend non sembra essersi invertito nei mesi successivi né si ha ragione di credere che si invertirà nei prossimi (è del 30 e 31 Maggio la notizia di altri duemila migranti sbarcati nei porti della Sicilia). www.interno.gov.it/it/sala-stampa/dati-e-statistiche/presenze-dei-migranti-nellestrutture-accoglienza-italia 4 L’articolo 18 CDFUE, rubricato “Diritto d’Asilo”, dispone «il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal

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stessa Convenzione deve, d’altra parte, ispirarsi anche la politica comune dell’Unione europea in materia di asilo, come stabilito all’art. 78, par. 1, TFUE. Obiettivo di questo scritto è proprio interrogarsi sulla compatibilità con il diritto d’asilo – riconosciuto non solo dal diritto UE ,ma anche dal diritto internazionale consuetudinario – del progetto presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu dall’ Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione, Federica Mogherini; progetto che, fra l’altro, contempla anche un’operazione militare volta a distruggere i “barconi” ormeggiati nei porti della Libia e utilizzati dai cosiddetti scafisti per trasportare i migranti da una sponda all’altra del Mediterraneo. Per approfondire la legislazione e i dati sul diritto d’asilo in Italia (oggetto anche di un articolo costituzionale) v. www.lalligatore.com/diritto-dasilo

Il “sistema Dublino”: un criterio superato, retaggio di un’Europa che non esiste più I criteri di riparto dei richiedenti protezione internazionale nell’Unione europea sono attualmente contenuti nel regolamento UE 604/2013, detto Dublino III, in vigore dal 1 gennaio 2014. Questo regolamento sostituisce il precedente Dublino II che a sua volta era subentrato alla Convenzione di Dublino del 15 Giugno 19905. All’inizio degli anni ’90, l’esigenza di stabilire una disciplina comune in merito alla competenza ad esaminare le richieste di protezione internazionale nacque dalla volontà di contrastare due fenomeni registratisi in precedenza: l’asylum shopping e i cosiddetti rifugiati in orbita. Il primo consisteva nella concentrazione delle domande di asilo presso quegli Stati membri che offrivano condizioni più lasche per la concessione della protezione internazionale; il secondo, invece, consisteva nel rimpallo della competenza ad esaminare la domanda da uno Stato membro all’altro. Entrambi i fenomeni producevano conseguenze indesiderabili: l’asylum shopping portava al sovraffollamento delle strutture d’accoglienza del Paese più disponibile a riconoscere la protezione internazionale, con aggravi di finanza pubblica; i rifugiati in orbita, invece, vedevano, nella sostanza, negato il loro diritto. Furono, perciò, fissati a livello pattizio, poi comunitario ed ora di Unione protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato che istituisce la Comunità europea». 5 La portata territoriale del “sistema Dublino” supera in realtà i confini dell’Unione europea, essendo associati anche Norvegia, Islanda, Svizzera e Liechtenstein.

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Europea una serie di criteri di riparto per stabilire con certezza quale fosse lo Stato membro competente ad esaminare, ed eventualmente accogliere, la richiesta di protezione internazionale. Attualmente, l’articolo 13 del regolamento Dublino III stabilisce: «quando è accertato, sulla base degli elementi di prova e delle circostanze indiziarie (…) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale». Nonostante nel regolamento siano presenti altri criteri, il criterio dell’ingresso irregolare è senza dubbio quello di maggior applicazione. Questo comporta, all’evidenza, uno squilibrio nella distribuzione fra gli Stati membri dei richiedenti protezione internazionale, in quanto gli Stati di frontiera (Italia, Grecia, Spagna…) sono ovviamente sottoposti ad una pressione migratoria ben maggiore rispetto, ad esempio, agli Stati del Nord Europa. Per comprendere la ratio della competenza del Paese di prima immigrazione (legale e non) bisogna, però, risalire alla Convenzione di Dublino del 1990, dove per la prima volta venne affermato tale criterio di riparto6. All’epoca gli Stati membri dell’Unione erano soltanto 12 (contro i 28 attuali) ed alcuni di essi – che oggi confinano solo con altri Stati membri – erano al tempo territori di frontiera, interessati anch’essi dall’afflusso massiccio di migranti dalle Nazioni limitrofe e non. Per citare solo un esempio, in Germania nel triennio 1990-1992 giunsero tre milioni di persone provenienti dalle repubbliche (ex) sovietiche, dagli altri paesi dell’ex blocco socialista (soprattutto Romania e Polonia) e dalla (ex) Jugoslavia, nonché numerosi profughi dall’Asia: con il risultato che allo Stato tedesco furono presentate, solo nel 1992, 438˙000 domande di asilo7. Il criterio del Paese di prima immigrazione, in quel contesto geopolitico, apparve perciò a tutti i firmatari della Convenzione di Dublino efficiente ed equilibrato. Da allora, però, molte cose sono cambiate: l’Unione Europea si è notevolmente ampliata con l’ingresso di molti Paesi dell’Est Europa e le incessanti ondate migratorie dal Nord Africa hanno concentrato le richieste di protezione internazionale sugli Stati di sbarco, ossia su quelli meridionali dell’Unione Europea, fra i quali l’Italia. 6 In particolare, l’articolo 6 della Convenzione recitava: «Se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro». 7 Dati tratti da Migrationsbericht der Ausländerbeauftragten im Auftrag der Bundesregierung, Berlino-Bonn 2001.

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Il gran numero di sbarchi di immigrati sulle coste italiane (in particolare in Sicilia) ha messo negli ultimi anni a dura prova il nostro sistema di accoglienza, ponendo i richiedenti protezione internazionale in condizioni davvero critiche; la situazione si è ulteriormente aggravata dopo la fine della dittatura di Gheddafi e l’inizio della guerra civile in Libia8: infatti, non esistendo più alcuna autorità deputata al controllo delle frontiere libiche, i trafficanti di esseri umani hanno moltiplicato i loro affari criminali. Solo nei mesi di gennaio e febbraio del 2015, le richieste di asilo in Italia sono state più di 10˙0009. Alle persone in cerca di protezione internazionale si aggiungono, poi, gli immigrati clandestini sbarcati a decine di migliaia con il paventato (ma, probabilmente, non troppo reale) rischio di infiltrazioni terroristiche, che esulano tuttavia dal campo di applicazione del regolamento Dublino. Questo quadro drammatico, brevemente delineato, ha provocato reazioni sia da parte dell’opinione pubblica sia da parte dei rappresentanti politici e governativi italiani che hanno sollecitato le istituzioni europee a rivedere i criteri di competenza per l’esame delle richieste di protezione internazionale in modo da assicurarne un riparto più equo ed equilibrato fra gli Stati membri10. A queste sollecitazioni la Commissione Europea ha risposto adottando, il 13 Maggio 2015, l’Agenda Europea sull’Immigrazione, contenente diverse proposte per far fronte all’emergenza migratoria; in particolare, il progetto della Commissione prevede una redistribuzione fra gli Stati membri, secondo percentuali variabili, di quarantamila richiedenti asilo, la competenza a vagliar le domande dei quali spetterebbe, altrimenti, alla Grecia e all’Italia11. La proposta in sostanza, comporta una deroga una tantum al Regolamento Dublino III; ad essa dovrebbe poi seguire la presentazione di una proposta legislativa entro il 2015 che preveda un 8 V. supra p. 2 nt. 3, nonché, a proposito dell’accordo fra Italia e Libia per il controllo delle frontiere, infra p. 8. 9 V. http://www.interno.gov.it/sites/default/files/febbraio_-_gennaio_2015.pdf; la maggioranza relativa delle richieste di asilo è avanzata da persone provenienti dal Gambia; colpisce, poi, l’aumento esponenziale di richieste di protezione internazionale da parte di individui di nazionalità ucraina. 10 Come ha ricordato l’europarlamentare svedese Cecilia Wikström, infatti, nel 2013 il 70% dei richiedenti asilo si è concentrato in 5 dei 28 paesi dell’UE: Germania, Svezia, Italia, Francia e Regno Unito. 11 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda Europea Sulla Migrazione, COM(2015) 240 def., del 13 maggio 2015. Su questa base è stata presentata la proposta di Decisione del Consiglio che stabilisce misure provvisorie nel settore della protezione internazionale a favore dell’Italia e della Grecia, COM(2015) 286 def., del 27 maggio 2015.

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sistema di ricollocazione obbligatorio di attivazione automatica che, in caso di afflusso massiccio, distribuisca all’interno dell’UE le persone con evidente bisogno di protezione internazionale. La proposta contenente misure provvisorie prima di poter divenire operativa, deve passare per l’approvazione del Parlamento e del Consiglio; tuttavia, a distanza di pochi giorni dalla presentazione della comunicazione sull’Agenda europea molti leader europei si sono già dichiarati contrari a qualunque ipotesi di redistribuzione dei richiedenti asilo, sicché la strada per la sua implementazione appare davvero in salita. Per esigenze di spazio non si potrà approfondire, in questa sede, l’intero contenuto dell’Agenda Europea sull’Immigrazione; si desidera, qui, soffermarsi sull’analisi del piano concepito dalla Commissione per contrastare il traffico di esseri umani, limitando così il più possibile il numero di sbarchi irregolari alle frontiere dell’Unione Europea. La distruzione dei barconi dei trafficanti è compatibile con il diritto d’asilo? Il Piano d’azione dell’Unione Europea contro il Traffico dei Migranti (2015 -2020) prevede, fra le altre misure, che «after securing the safety of people, boats used or intended to be used by smugglers should be systematically towed to land or disposed of at sea. The Commission and the relevant EU Agencies, in particular Frontex, will provide to the Member States financial and technical support to tow boats to the shores and scrap them»12. Il piano, attualmente in attesa di autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, prevede, dunque, la possibilità di identificare e mettere fuori uso – trainandole a terra o affondandole – le imbarcazioni utilizzate dagli scafisti per il traffico dei migranti, ovviamente garantendo la sicurezza delle persone13. Si può considerare questa operazione militare legittima alla stregua del diritto internazionale d’asilo?14 12 Il testo completo dell’ “EU Action Plan against migrant smuggling (2015 -2020)” è consultabile all’indirizzo: http://ec.europa.eu/dgs/home-affairs/e-library/documents/policies/asylum/general/ docs/eu_action_plan_against_migrant_smuggling_en.pdf. 13 Peraltro, come svelato dal quotidiano inglese The Guardian (www.theguardian.com/ world/2015/may/13/migrant-crisis-eu-plan-to-strike-libya-networks-could-includeground-forces), il piano include anche la valutazione di possibili “danni collaterali”: «Boarding operations against smugglers in the presence of migrants has a high risk of collateral damage including the loss of life». 14 Non è oggetto del presente scritto la valutazione circa la legittimità dell’operazione stessa alla luce del divieto d’aggressione vigente nel diritto internazionale consuetudinario;

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La questione è subordinata anche alla migliore definizione delle modalità di attuazione del suddetto piano. Se oggetto di eventuale distruzione fossero anche le barche intercettate in mare, con il loro carico di migranti, cosa ne sarebbe di questi ultimi? Sarebbero immediatamente rinviati verso i porti di partenza ovvero sarebbero accolti sulle navi dei paesi partecipanti all’operazione, mettendoli nelle condizioni di presentare un’eventuale domanda di protezione internazionale? Se oggetto di distruzione fossero tutte le imbarcazioni ormeggiate nelle acque territoriali libiche, quali possibilità avrebbero i richiedenti di presentare una domanda di protezione? Prima di rispondere a tali domande occorre fare una premessa concernente il contenuto del diritto d’asilo nell’ordinamento internazionale: in esso, infatti, vige il principio consuetudinario del non-refoulement (non respingimento) che «si connota quale nucleo essenziale e caratterizzante del diritto d’asilo (…), fornendo alla persona richiedente la protezione necessaria e sufficiente per prevenire il rischio di che essa possa essere soggetta a persecuzioni»15. Tale principio, nella sua formulazione classica e generalmente accettata, impone agli Stati il divieto di «espellere o respingere, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche»16. Il divieto di refoulement è contenuto in numerosi strumenti di diritto internazionale pattizio17; inoltre, l’ampia prassi ed opinio iuris conforme degli Stati hanno fatto unanimemente concludere in dottrina e in giurisprudenza18 per la sua cristallizzazione nell’ambito del diritto internazionale generale, vincolante per tutti i membri della comunità internazionale. a chi scrive, comunque, pare che si tratti a tutti gli effetti di un atto di aggressione, non giustificabile da alcuna delle eccezioni ammesse nell’ordinamento internazionale. 15 Lenzerini, Il principio del non-refoulement dopo la sentenza Hirsi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 3, 2012, p. 721. 16 Articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951. 17 Ad esempio, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dispone all’articolo 19, comma 2: «Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti». Egualmente, la Corte EDU, a partire dal caso Soering c. Regno Unito (ricorso n. 14038/88, sentenza del 7 Luglio 1989), ha ricondotto il principio del non-refoulement all’articolo 3 della Convenzione che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. 18 Per un’ampia rassegna della dottrina e della giurisprudenza conformi v. Lenzerini, op. cit., p. 725, nt. 34.

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Pacifico risulta che il divieto in questione si applichi sia all’interno dei confini nazionali sia alle frontiere di uno Stato ed entro il mare territoriale: perciò, ad esempio, l’Italia non potrebbe respingere verso Paesi non sicuri i rifugiati approdati sulle sue coste o recuperati entro le dodici miglia marine. Più controversa, invece, è la questione se il principio del nonrefoulement debba trovare applicazione anche in acque internazionali. A tale proposito viene in rilievo proprio una controversia riguardante l’Italia e risolta dalla Corte EDU nella sentenza Hirsi19; nella circostanza, il ricorrente accusava l’Italia di aver violato il divieto di refoulement previsto dall’articolo 3 della Convenzione attraverso la stipula fra il 2007 e il 2009 di alcuni trattati con la Libia per combattere l’immigrazione clandestina. Questi trattati, in sostanza, prevedevano l’intercettazione da parte della marina italiana delle imbarcazioni dei migranti e il loro sommario respingimento verso le coste libiche; ciò comportava, come è evidente, l’assenza di qualsiasi discriminazione fra i “semplici” immigrati irregolari e i richiedenti protezione internazionale. Il respingimento sommario e la circostanza che la Libia non avesse (e non abbia tuttora) ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato e che in territorio libico i migranti corressero il rischio di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti portano la Corte a concludere che l’Italia abbia violato il divieto di refoulement, respingendo i migranti verso un Paese terzo «non sicuro» senza verificare se fra di essi vi fossero richiedenti protezione internazionale. Ciò che preme rilevare in questa sede è che la Corte ha ribadito che gli obblighi scaturenti dalla Convenzione estendono la loro efficacia anche al di fuori del territorio dello Stato propriamente detto, in tutte le zone in cui lo stesso Stato abbia un controllo effettivo – de iure o de facto – e sia in grado di esercitare la propria autorità20: secondo i giudici di Strasburgo, è indiscutibile che tale situazione si sia verificata dal momento in cui i migranti sono stati fatti salire a bordo delle navi italiane. L’affermazione è importante in quanto estende ratione loci l’ambito di applicazione del principio di non-refoulement a qualsiasi luogo, anche extraterritoriale, in cui lo Stato sia in grado di esercitare de iure o de facto la propria giurisdizione. Si può, inoltre, propendere, con la migliore dottrina, che tale estensione dell’ambito applicativo del divieto di refoulement si sia affermata come diritto internazionale consuetudinario21. Ma non basta: la Corte sembra spingersi anche oltre quando afferma che «the 19 Hirsi Jamaa c. Italia [GC], ricorso n. 27765/09, sentenza del 23 Febbraio 2012. 20 Hirsi Jamaa c. Italia, cit. ,Par. 73 e ss. 21 Lenzerini, op. cit., p. 737.

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special nature of the maritime environment cannot justify an area outside the law where individuals are covered by no legal system capable of affording the enjoyment of the rights and guarantees protected by the Convention»22. Ciò significa, ad esempio, che dovrebbe considerarsi egualmente illegittima l’eventualità di un blocco navale in acque internazionali da parte di una flotta militare europea, volto ad impedire l’ingresso nelle acque territoriali ad un’imbarcazione, sulla quale potrebbero viaggiare (anche) richiedenti protezione internazionale23. Peraltro, operazioni simili si porrebbero in contrasto con un altro, ben stabilito, principio del diritto internazionale, corollario del nonrefoulement, ossia il divieto di espulsioni collettive; tale divieto, contenuto anche nell’articolo 19 della Carta di Nizza e nell’articolo 4 del Protocollo addizionale alla CEDU n. 424, intende evitare che vengano adottati provvedimenti di respingimento ed espulsione sommari, senza esaminare la situazione individuale del migrante, il quale potrebbe essere titolare del diritto a una forma di protezione internazionale. Pertanto, come è evidente, un blocco navale25 nel Mediterraneo equivarrebbe proprio a un respingimento collettivo e sommario con grave pregiudizio dei diritti di quanti abbiano titolo per ottenere asilo in Italia o in Europa. Identiche considerazioni possono ripetersi anche per l’operazione militare di “distruzione dei barconi” presentato dalla Commissione Europea ed attualmente in discussione all’ONU? Si tratta certamente di un caso inedito e che presenta numerosi profili di incertezza; tuttavia, sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU e del diritto internazionale generale sembra possibile avanzare seri dubbi sulla legittimità di un simile piano d’azione. Nella sentenza del 2004 sul caso Issa e a. c. Turchia, infatti, la Corte ha affermato: «Accountability in such situations stems from the fact that Article 1 of the Convention cannot be interpreted so as to allow a State party to 22 Ivi, Par. 178. 23 Simile proposta è stata pure avanzata da alcuni esponenti politici e, in particolare, dal Segretario federale della Lega Nord; alla luce della precedente condanna dell’Italia da parte della Corte EDU per gli accordi con il dittatore libico Gheddafi (peraltro, continuamente citati ad esempio di “buona politica migratoria” dal leader stesso), non pare che quella del blocco navale sia un’alternativa legittimamente percorribile. Conformemente v. Liguori, La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per i respingimenti verso la Libia del 2009: il caso Hirsi, in Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 2, 2012, p. 434. 24 L’articolo 4, rubricato “Divieto di espulsioni collettive di stranieri” recita: «Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate». 25 Stesse valutazioni si impongono riguardo all’altra simile operazione militare che prevede l’intercettazione e il riaccompagnamento coattivo delle imbarcazioni dei migranti al porto di partenza.

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perpetrate violations of the Convention on the territory of another State, which it could not perpetrate on its own territory»26. Nel più recente caso Al-Skeini c. Regno Unito, poi, i giudici di Strasburgo hanno sostenuto che «whenever the State, through its agents, exercises control and authority over an individual, and thus jurisdiction, the State is under an obligation under Article 1 to secure to that individual the rights and freedoms under Section I of the Convention that are relevant to the situation of that individual»27. Dalla combinata lettura di questi precedenti può, quindi, desumersi che la Corte ritiene sussistente la giurisdizione dello Stato membro – e, di conseguenza, la necessità di rispettare le norme della Convenzione – ogniqualvolta questi sia in grado di esercitare un controllo effettivo de iure o de facto su un territorio, benché appartenente ad altro Stato terzo (o non appartenente a nessuno Stato, come nel caso delle acque internazionali). Si può ragionevolmente concludere, pertanto, che gli Stati europei, se si risolvessero effettivamente a compiere un’operazione militare in Libia del tipo descritto, sarebbero comunque tenuti al rispetto delle norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (nonché della Carta di Nizza) e, per quel che qui interessa, del principio di non-refoulement. L’affondamento delle imbarcazioni dei migranti, però, si porrebbe in palese contrasto con gli obblighi di protezione internazionale e con il divieto di respingimenti sommari e collettivi, nel momento in cui impedisse, come è dato presumere, la partenza tanto ai migranti economici quanto alle persone bisognose di protezione internazionale, non consentendo a queste ultime di poter presentare domanda in alcun modo. Ponendosi, poi, dal punto di vista del diritto internazionale, egualmente violati dovrebbero considerarsi l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 e il principio di diritto consuetudinario che da esso deriva e che proibisce il refoulement dei rifugiati. Tale consuetudine internazionale vieta agli Stati di espellere o respingere, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche: la distruzione dei mezzi di trasporto dei migranti, senza prevedere alternative legittime per presentare agli stati membri dell’Unione Europea richieste d’asilo, costituirebbe precisamente uno dei modi per respingere un rifugiato in un Paese terzo non sicuro, quale è indubbiamente la Libia. Preme sottolineare che la conclusione in ordine all’illegittimità di questa 26 Issa and others v. Turkey, ricorso n. 31821/96, sentenza del 16 novembre 2004, par. 71. 27 Al-Skeini v. United Kingdom, ricorso n. 55721/07, sentenza del 7 Luglio 2011, par. 137.

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operazione internazionale – alla luce, si badi, del diritto internazionale d’asilo28 - è suscettibile, forse, di essere rivista, nel caso in cui venissero offerti ai richiedenti protezione internazionale presenti in Libia canali alternativi, leciti e prontamente disponibili, per avanzare domanda d’asilo in Europa e vederla esaminata in breve tempo e con tutte le garanzie del caso. Se si considera che il numero complessivo di beneficiari del diritto d’asilo in Europa nel 2014 è stato di 185˙000 persone29, non pare che simili quantità, se equamente ripartite fra i 28 Stati membri30, possano costituire un aggravio insostenibile per le capacità d’accoglienza di una delle aree geografiche più ricche del mondo.

28 Più difficile, infatti, risulta concludere per la legittimità dell’operazione in questione alla luce del divieto di aggressione, anch’esso principio del diritto internazionale consuetudinario. 29 V. Eurostat, Asylum decisions in the EU, 12 Maggio 2015, consultabile all’indirizzo: http://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/6827382/3-12052015-AP-EN. pdf/6733f080-c072-4bf5-91fc-f591abf28176 30 Basti pensare che nel 2014 Germania e Svezia hanno rispettivamente accolto 47˙555 e 33˙025 beneficiari di protezione internazionale, a fronte dei 40 del Portogallo, i 25 della Croazia e i 20 dell’Estonia.

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A La tutela penale dell’ambiente, la normativa “Eco-reati”: una breve analisi Dario Valoncini

La seduta 19 Maggio 2015 del Senato della Repubblica Italiana ha portato ad un risultato storico per la tutela dell’Ambiente. Con 170 voti favorevoli, 20 contrari e 21 astenuti viene approvato il Ddl n.1345-B recante l’introduzione di nuove disposizioni all’interno del Codice Penale. La normativa introduce all’interno del C.P. un nuovo titolo, il Titolo VI-Bis “Dei delitti contro l’ambiente”. Posizionato subito dopo il titolo VI “Delitti contro l’incolumità pubblica”, questo nuovo titolo introduce un pacchetto di nuovi reati in materia ambientale. Questa riforma in favore dei cosiddetti Eco-reati viene accolta, dopo essere stata lungamente attesa, anche dal mondo delle associazioni ambientaliste, Legambiente e WWF in primis. Prima dell’approvazione di questa modifica, infatti, il nostro ordinamento puniva con mere contravvenzioni queste condotte lesive della salute pubblica e dell’ambiente. L’intento perseguito con l’introduzione di questo pacchetto di reati è certamente il tentativo di colmare delle lacune normative che purtroppo hanno spesso visto i cittadini come vittime predestinate. Il pacchetto di nuovi reati comprende cinque nuove fattispecie: Inquinamento ambientale, Disastro ambientale, Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, Impedimento del controllo e Omessa bonifica. L’art. 452-bis rubricato Inquinamento ambientale punisce con la reclusione da due a sei anni e con una multa che può variare tra i 10.000 e i 100.000 euro chiunque cagioni abusivamente una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile di acque, aria, suolo, sottosuolo o di un ecosistema. Inoltre viene prevista anche la possibilità che il danno venga causato nei confronti di un’area naturale protetta, sottoposta a vincolo paesaggistico (o di altra natura) o di specie animali o vegetali protette. In questo caso la pena viene aumentata. L’articolo successivo, il 452-ter, prevede conseguenze rilevanti anche per morte o lesioni che derivino direttamente dal delitto di inquinamento ambientale. La conseguenza naturale dell’applicazione di questa norma è dunque di tutelare e di dare rilevanza a quelle che sono le vittime di disastri ambientali. La pena prevista, infatti, varia dai 2 anni e sei mesi fino ad un massimo di dieci anni a seconda della gravità del-

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le lesioni o la possibilità che ne derivi la morte. Un’altra fattispecie è il Disastro Ambientale, previsto all’art. 452-quater. Questa fattispecie punisce chiunque causi un disastro ambientale fuori dai casi previsti dall’art. 434 (Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi) con la reclusione da cinque a quindici anni. Da un’unica nozione di Disastro ambientale si possono trarre diverse ipotesi tra le quali: l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e l’offesa alla pubblica incolumità in ragione alla rilevanza del fatto. Anche in questo articolo ritroviamo l’aumento di pena in caso di area naturale protetta, vincolo paesaggistico o specie animali o vegetali protette. Il titolo VI-Bis con l’art. 452-sexies vuole punire comportamenti lesivi che vedano il coinvolgimento di materiale radioattivo. L’applicazione di questa norma, “Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività” è vincolata al fatto che non vi sia la possibilità di imputare un reato più grave alla condotta lesiva di traffico, acquisto, trasporto, detenzione o abbandono di materiale ad alta radioattività. La pena prevista prevede la reclusione da due a sei anni e la multa da 10.000 a 50.000 euro. Questa pena può essere aumentata se dal fatto derivano la compromissione o il deterioramento dell’ecosistema. La pena può inoltre essere aumentata fino alla metà se ne deriva pericolo per la saluta o l’incolumità della persona. Condotte impeditive del controllo o l’accesso ai luoghi dove è previsto il controllo ambientale, di sicurezza ed igiene del lavoro sono considerate lesive e punibili dall’art. 452-septies. La pena prevede la reclusione dai sei mesi a tre anni. Infine l’art. 452-terdecies prevede il carcere da uno a 4 anni o una multa da 20.000 a 80.000 euro per l’Omessa bonifica. La previsione in cui, quindi, chiunque sia giuridicamente obbligato non provveda alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi. Un’ulteriore fattispecie di reato era prevista in un precedente disegno di legge, poi soppressa. Si tratta dell’Ispezione di fondali marini attraverso l’utilizzo di tecniche esplosive o dell’air gun1. La soppressione di questa fattispecie ha fatto storcere il naso a diverse associazioni ambientaliste, tra cui Legambiente e Libera, le quali hanno presentato diversi studi secondo i quali l’utilizzo di simili tecniche provochi un impatto devastante non solo sull’ambiente ma soprattutto sull’ecosistema marino. Per i delitti di inquinamento ambientale e disastro ambientale viene prevista anche la forma colposa. All’articolo 452-quinquies viene disposto infatti quanto segue: “Se taluno dei fatti di cui agli articoli 452-bis e 452-quater è commesso per colpa, le pene previste dai medesimi articoli sono diminuite da un terzo a due terzi. Se dalla commis1 Si tratta di una tecnica che utilizza lo sfruttamento dell’aria compressa per la ricerca di gas e petrolio in mare.

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sione dei fatti di cui al comma precedente deriva il pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo.” Di preminente importanza sono sicuramente le previsioni in tema di prescrizione. L’intervento sulla prescrizione viene infatti annoverato nell’art. 318-ter all’interno della Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale. Il problema della prescrizione è stato a lungo dibattuto, in particolar modo in seguito alle vicende legate al caso Eternit2, in ambito di disastro ambientale. I termini di prescrizione vengono infatti allungati con l’aggravarsi delle pene ma non solo, viene inoltre previsto il raddoppiamento dei tempi di prescrizione. Inoltre viene impartito un controllo tecnico da parte dell’ente specializzato competente alla materia trattata, in modo da poter avere un termine di prescrizione compatibile con quelle che sono le esigenze e le conseguenze dettate da un reato di natura ambientale. Per quanto concerne la tematica delle aggravanti, queste vengono inserite all’art.452-novies. All’interno del pacchetto di modifiche apportate al Codice Penale in materia di delitti contro l’ambiente vengono anche predisposte degli sconti di pena a determinate condotte favorevoli alla tutela dell’ambiente in seguito alla commissione del reato. Uno sconto di pena (dalla metà a due terzi) viene infatti previsto per chi si adopera ad evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori o che provveda al ripristino dello stato dei luoghi, la messa in sicurezza o la bonifica. Questo articolo, il 452-decies, rubricato Ravvedimento operoso, disciplina anche la possibilità di disporre di aggravanti qualora ci si trovi di fronte ad un caso di associazione per delinquere di cui all’art. 416. Tra le misure applicabili in conseguenza ai delitti presenti nella nuova legge, troviamo la confisca disciplinata all’art.452-undecies. Nel caso di condanna, a norma dell’art. 444 del Codice di Procedura Penale, è ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato. La misura può essere applicata anche per equivalente, i beni confiscati sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione. Alla pubblica amministrazione viene imposto il vincolo di utilizzare questi beni per la bonifica dei luoghi in questione. Vi è tuttavia la possibilità che venga esclusa la misura in questione qualora l’imputato abbia provveduto in modo efficiente alla messa in sicurezza, al ripristino o alla bonifica dei luoghi oggetto dei danni ambientali. Per quanto concerne la possibilità di disporre pene accessorie vengono 2 Zirulia, S., Eternit, il disastro è prescritto. Le motivazioni della Cassazione in Diritto Penale Contemporaneo, Milano, 2015.

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inseriti all’interno dell’art. 32-quater anche le nuove fattispecie della legge sugli Eco-reati. L’articolo in questione richiama quelli che sono i casi nei quali alla condanna segue l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, una pena che, per molte imprese, viene considerata forse più pericolosa di molte multe. Per quanto concerne la persone giuridiche è bene menzionare che viene modificato anche il decreto 231/01 sulla responsabilità delle persone giuridiche per i reati dei dipendenti. Vengono infatti stabilite delle sanzioni pecuniarie, stabilite in termini di quote il cui valore varia da 258 a 1.549 euro. Conclusioni La riforma risponde a diverse esigenze presenti all’interno del nostro ordinamento. Le recenti vicende giuridiche di ILVA e Eternit sono un esempio di come previsioni normative in tema di tutela ambientale fossero ritenute necessarie. Possiamo solo immaginare come vicende come quelle sopracitate, ma anche molti altri episodi di eco-reati, si sarebbero concluse se questo pacchetto di riforme fosse stato inserito precedentemente. Tuttavia un principio ben noto del Diritto Penale è proprio il principio dell’irretroattività il quale vieta l’applicazione di una norma penale a quelle condotte messe in atto prima della sua entrata in vigore. La novella risponde anche ad esigenze comunitarie, in particolar modo alla Direttiva 2008/99/CE sulla Tutela penale dell’ambiente. Il risultato è quindi soddisfacente sotto molti punti di vista, ma non è certo scevro da critiche o difetti. Un dettaglio in particolare ha richiamato l’attenzione di associazioni ambientaliste e esperti in materia, l’utilizzo del termine “abusivamente”. All’interno degli articoli sopra analizzati troviamo l’utilizzo di questo termine che, secondo le associazioni ambientaliste, restringerebbe l’applicazione di queste norme alle sole fattispecie abusive. Queste associazioni si sono infatti opposte all’inserimento della clausola, per dare, a loro avviso, un effetto più ampio a queste norme. lo scopo,in particolare, è l’applicazione indistinta del cosiddetto Polluter’s Pay Principle3, il principio del “chi inquina paga” che sta alla base della responsabilità ambientale. Secondo questa interpretazione del termine, infatti, si teme che la condotta debba essere necessariamente abusiva, escludendo quindi tutte quelle condotte inquinanti che sono tuttavia frutto di operazioni dotate delle necessarie autorizzazioni di settore. Tuttavia la dottrina sostiene che il termine “abusivamente” debba essere ristretto ai soli casi in cui si operi senza un’autorizzazione, dando vita quindi ad una vera e propria condotta abusiva in senso 3 What is the ‘polluter pays’ principle?, The Guardian, 2 Luglio 2012, Londra

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stretto. Una relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione4 rassicura quindi quale sia l’utilizzo del termine in questione andando a includere casistiche che potrebbero altrimenti essere estromesse dall’applicazione di queste norme. Il Ministro Galletti in un’intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore5 facendo il punto della situazione tranquillizza i cittadini rispondendo alle critiche mosse nei confronti della misura di ravvedimento operoso e della lentezza della macchina burocratica per la realizzazione della bonifica. Le problematiche, sostiene il Ministro, sono note ma “[...] siamo di fronte ad una riforma di sistema e, come per altre portate avanti da questo governo, c’è l’intenzione di effettuare un rodaggio e un successivo tagliando. In altre parole nulla esclude un ulteriore intervento su questo tema [...]”. Nell’ambito di quelli che possono essere considerati i difetti o perlomeno le mancanze di questa legge possiamo menzionare la presenza di alcuni elementi discrezionali. Il disastro ambientale viene infatti definito come alterazione abusiva dell’ambiente. Tuttavia non viene data nessuna definizione di quest’ultima struttura lessicale. L’onere di andare a definire queste caratteristiche discrezionali passa dunque alle procure. Solo il lavoro combinato dei magistrati e dei periti potrà dunque contribuire a creare una giurisprudenza in merito ed arrivare a chiarire tutte le definizioni non precisate dal legislatore. Questa legge viene tuttavia accolta con grande soddisfazione, non solo del Governo, poiché è sinonimo non solo di una transizione verso una tutela maggiore dell’ambiente, patrimonio nazionale per eccellenza, ma anche un colpo deciso ad un mercato criminale che viene stimato sui 15 miliardi di euro l’anno6 rimasto, fino ad oggi, quasi del tutto impunito.

4 Rel. n. III/04/2015, Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Settore penale. 5 Intervista a Gian Luca Galletti, Il Sole 24 Ore, pag.8, 20 Maggio 2015, Milano 6 Approvati gli ecoreati nel codice penale, WWF, Maggio 2015

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A I metodi di risoluzione alternativa delle controversie: un approccio efficace per una nuova cultura del conflitto Paolo Petralia Camassa e Luca Dal Pubel

La nostra società considera il conflitto come un evento patologico, un problema da risolvere, ma sottovaluta l’ elemento dell’ opportunita’ del contenzioso dal quale puo’ derivare anche un miglioramento dei rapporti tra consociati. Nell’ immaginario comune, anche per derivazione storica del nostro ordinamento giuridico, atti a osservare, valutare e giudicare le controversie sono i giudici, soggetti terzi ed imparziali a cui sono riconosciute l’autorità e la competenza di emettere giudizi o decisioni definitive. Tuttavia, in seguito al processo di globalizzazione che ha investito la società in tutti i suoi aspetti, ci troviamo di fronte ad una trasformazione del diritto e della giustizia sia a livello nazionale che internazionale, che concerne tanto la produzione delle norme e la loro applicazione quanto la risoluzione dei conflitti e delle controversie. In questo contesto, in Europa si stanno affermando i metodi alternativi di risoluzione delle controversie (ADR)1 per limitare il ricorso alle forme tradizionali di tutela giurisdizionale e consentire un notevole risparmio di tempo e di costi per le parti. Non è solo la globalizzazione sul piano economico e giuridico a giustificare la diffusione delle ADR. Già da anni la Commissione Europea ha evidenziato la necessità di istituire metodi alternativi di risoluzione delle controversie quale possibile mezzo per alleggerire il carico di lavoro delle aule giudiziarie2. L’ ICE (Istituto internazionale per il Commercio Estero), l’ente 1 Detti anche ADR dall’ acronimo inglese di Alternative Dispute Resolution. 2 Raccomandazione 98/257/CE della Commissione riguardante i principi applicabili agli organismi responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo, raccomandazione 2001/310/CE della Commissione sui principi applicabili agli organi extragiudiziali che partecipano alla risoluzione consensuale delle controversie in materia di consumo, e la proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori recante modifica del regolamento (CE) n. 2006/2004 e della direttiva 2009/22/CE.

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pubblico che ha il compito di sviluppare, agevolare e promuovere i rapporti economici e commerciali italiani con l’estero, sostiene che il mondo imprenditoriale abbia bisogno di strumenti efficienti per risolvere problemi controversi senza adire le vie legali3.

Anche la Commissione Europea ha sottolineato come la risoluzione alternativa delle controversie (ADR) possa aiutare i consumatori, soprattutto nel caso di controversie transfrontaliere, a risolvere i conflitti con gli operatori commerciali quando insorgano problemi con un prodotto o un servizio acquistato; ad esempio nel caso in cui il venditore rifiuti di riparare un prodotto o di effettuare un rimborso a cui il consumatore ha diritto4. Con la Direttiva 52/2008 in materia di ADR, in particolare riguardante la mediazione, e la Direttiva 11/2013 sulla risoluzione alternativa delle controversie che riguardano i consumatori, l’ Unione Europea ha stabilito una disciplina generale di indirizzo diretta agli stati membri, i quali hanno l’ obbligo di intervenire sui propri ordinamenti conformandoli ai precetti contenuti nei provvedimenti dell’ Unione. In particolare, le autorità che si occupano delle controversie sono organismi extragiudiziali, segnatamente una parte neutrale (ad esempio un conciliatore, un mediatore, un arbitro, ecc.) che propone o impone una soluzione o organizza un incontro tra le parti per aiutarle a trovare una soluzione. Alcuni di questi organismi operano esclusivamente online e sono perciò denominati organismi di risoluzione online delle controversie (ODR)5. Può così risultare più agevole risolvere le controversie relative ad acquisti online quando il consumatore e l’operatore commerciale sono geograficamente distanti. 3 ICE (http://www.ice.gov.it/ ) : “Le procedure alternative al contenzioso comprendono l’arbitrato, la mediazione, l’istruttoria e/o la valutazione di un terzo neutrale, o procedure dibattimentali abbreviate. A differenza del tradizionale procedimento giudiziale, queste forme consentono maggiore flessibilità, permettendo alle parti di adattare i tempi della procedura alle proprie esigenze”. 4 DIRETTIVA 2013/11/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 21 maggio 2013 sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, che modifica il regolamento (CE) n. 2006/2004 e la direttiva 2009/22/CE (Direttiva sull’ADR per i consumatori) “È opportuno che i consumatori traggano vantaggio dall’accesso a mezzi facili, efficaci, rapidi e a basso costo per risolvere le controversie nazionali e transfrontaliere derivanti da contratti di vendita o di servizi, in modo da rafforzare la loro fiducia nel mercato. Tale accesso dovrebbe valere sia per le operazioni online che per quelle offline, soprattutto se i consumatori acquistano oltre confine”. 5 Detti anche ODR dall’ acronimo inglese Online Dispute Resolution. Alcuni esempi di sistemi ODR: http://www.risolvionline.com; http://www.conciliacamera.it/; http://www.squaretrade.com/.

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ADR e ODR sono generalmente procedure a basso costo, semplici e rapide, e rappresentano dunque un vantaggio sia per i consumatori che per gli operatori commerciali, che possono evitare spese e procedimenti giudiziari. Tuttavia, il ruolo delle ADR non deve essere inteso esclusivamente in termini di opportunità giuridico-commerciale; è necessario formare il cittadino e gli operatori del diritto, questi’ ultimi a partire dallo studio universitario, ad una nuova cultura delle controversie. Già molte università italiane, rispondendo alla necessità di diffondere la conoscenza dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie, prevedono dei corsi specifici sulle ADR6. Anche l’ UE ha posto questo aspetto come prioritario7. In un articolo pubblicato sulla “Revista de internet, derecho y politica” 2009, l’ autrice Aura Esther Vilalta-Nicuesa, professoressa di diritto civile presso l’ Universitat Oberta de Catalunya, parla di una cultura del dialogo e di una giustizia relazionale come “tercera via”8, dando notevoli proposte e vie di approccio rispetto all’ introduzione in Europa dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie. Infatti, una delle caratteristiche peculiari dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie concerne la possibilità per le parti di instaurare un dialogo, altrimenti impossibile, e di valutare esse stesse l’ opportunità di fare ricorso al giudice. In questo senso, come sostenuto dalla Prof.ssa Vilalta-Nicuesa, le ADR costituiscono la risposta più adatta al dinamismo e alla complessità della realtà giuridica attuale e, come dimostrato dagli straordinari risultati raggiunti nei paesi anglosassoni ( 70-80 % di soluzioni raggiunte in tempi molto brevi)9 potrebbero rappresentare per il nostro sistema nazionale, sempre più inserito in un contesto commerciale internazionale, un proficuo strumento di pace so6 Alcuni esempi: “Negotiation and alternative dispute resolution” dell’ Università degli studi di Milano, “Risoluzione alternativa delle controversie civili e penali” dell’ Università degli studi di Trento. 7 “Mediating between the Bar and the Government? Italy’s Attorneys Strike Over a New ADR Law “ By Giuseppe De Palo: “Mediation and in particular mediation training of lawyers is a priority for the European Union. It has funded contracts valued at $1.1 million that have been awarded to the ADR Center for the mediating training of lawyers troughout the Member States”. 8 “La cultura del dialogo y la justicia relacional como tercera via- Revista de internet, derecho y politica” 2009, di Aura Esther Vilalta-Nicuesa, professoressa di diritto civile presso l’ Universitat Oberta de Catalunya. 9 Cfr. “Mediation and ADR statistics”, International Chambers of Commerce 2015 http:// www.iccwbo.org/Products-and-Services/Arbitration-and-ADR/Mediation/Introduction/ Mediation-and-ADR-statistics/ ; “EEOC Mediation Statics FY 1999 trough FY 2014”, U.S. Equal Employment Opportunity Commission. http:/www.eeoc.gov/eeoc/mediation/mediation_stats.cfm .

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ciale.

Nel panorama italiano, con il D.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, il legislatore ha inteso avvicinare il sistema di risoluzione alternativa delle controversie agli standard internazionali10. Si ritiene opportuno ricordare brevemente le maggiori innovazioni apportate dal decreto all’ordinamento giuridico del Paese. In via preliminare deve evidenziarsi come il provvedimento delinei la mediazione non solo come via alternativa di risoluzione delle controversie, ma come strumento complementare e integrativo della gestione della giustizia civile. Al fine di favorire una maggiore diffusione della cultura della mediazione è stato introdotto in capo agli avvocati l’obbligo di informare per iscritto i propri clienti, all’atto del conferimento dell’incarico, della possibilità di avvalersi della procedura di mediazione, pena l’annullabilità del contratto stesso. Nello stesso, per far percepire alle parti, a chi le assiste e a chi le rappresenta, la concreta opportunità di evitare l’azione in sede giudiziale, si inserisce la previsione che individua le fattispecie ove il ricorso alla mediazione risulti obbligatorio . Nella prospettiva di incentivare, invece, il raggiungimento di un accordo durante lo svolgimento sono stati previsti meccanismi quali l’obbligatorietà del preventivo ricorso alla mediazione come condizione di procedibilità, la facoltà attribuita al giudice di desumere argomenti di prova dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo , nonché diversi benefici di natura fiscale ed economica per le spese processuali. Inoltre, notevole risalto deve essere dato alla previsione che attribuisce valore di titolo esecutivo al verbale di accordo omologato dal tribunale della sede dell’organismo di mediazione. Nonostante l’ importanza del nuovo istituto e l’ autentica rivoluzione delle prassi che esso ha comportato, il D.lgs. 28/2010 venne dichiarato parzialmente incostituzionale dalla Sent. 272/2012 dalla Corte Costituzionale per eccesso di delega11. Il Decreto Legge 69/2013, meglio conosciuto come Decreto del Fare non realizza una mera restaurazione delle normative cadute sotto le scure del10 Sito Internet “Diritto, Mercato e Tecnologia” , “l’ introduzione di ADR e ODR in Italia” di Michele Gorga e Davide Mula http://www.dimt.it/2011/03/31/introduzione-di-adr-e-odrin-italia/. 11 Sent. 272/2012 Corte Costituzionale: “ La Corte Costituzionale dichiara inammissibili gli interventi spiegati dai soggetti di cui in motivazione nei giudizi di legittimità costituzionale R. O. n. 268 del 2011 e n. 108 del 2012”.

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la Consulta bensì contiene diverse novità12. La principale di queste consiste nella reintroduzione della mediazione obbligatoria nelle materie per le quali già era prevista sotto la vigenza dell’originaria versione del D.lgs n. 28/2010. Pertanto, oggi, l’obbligatorietà riguarda le controversie in materia di condominio , diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari13. Lo stesso legislatore che ha ristretto l’ambito di obbligatorietà del tentativo di mediazione preventivo ha, nel contempo, rinforzato l’istituto della mediazione delegata. A seguito della riforma del 2013, il giudice non formula più un invito alle parti, come avveniva secondo il testo previgente, ma dispone il tentativo di mediazione, che diviene condizione di procedibilità della domanda. In questo modo, il legislatore del 2013 dimostra un chiaro favore per la mediazione delegata che permette un’individuazione più elastica delle controversie da sottoporre al procedimento. Il rapporto tra mediazione obbligatoria e classe forense non è dei più felici. Gli avvocati hanno spesso messo in dubbio l’utilità dell’istituto, sia per le parti che per l’amministrazione della giustizia nel suo complesso e si sono sentiti, in generale, poco valorizzati, se non velatamente avversati dal D.lgs n. 28/2010, non essendo necessaria la loro assistenza tecnica nel procedimento di mediazione14. Per cercare di comporre, almeno parzialmente, il dissidio con l’avvocatura, il legislatore del 2013 è intervenuto in una duplice direzione, con norme, a dire il vero, non del tutto chiare nella loro portata e nei loro effetti. In 12 “La nuova procedura civile” Rivista scientifica bimestrale di diritto processuale civile-“ la mediazione delle controversie civili e commerciali dopo il decreto del fare” di Guido Fabbri (avvocato e mediatore in Ravenna). 13 Art. 5 comma 1 D.Lgs. 28/2010. 14 “Mediating between the Bar and the Government? Italy’s Attorneys Strike Over a New ADR Law “ 2010, by Giuseppe De Palo: “While mediation is the cause of the strike, it is important to note that these lawyers are not against mediation. They are against mandatory mediation, and mediation without lawyers- the law outlines a simple procedure by which litigants can try to settle their dispute without t the use of lawyers, although litigants are also not prevented from using counsel. Mediation is being viewed as a serious threat by some lawyers, who fear a drop in revenue due to the possibility of “lawyer-less” mediation”.

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primo luogo, modificando l’art. 16, comma 4 bis del D.lgs n. 28/2010, si è stabilito che tutti gli avvocati iscritti all’albo professionale siano di diritto mediatori. Si pongono, peraltro, alcuni problemi interpretativi perché il medesimo comma prevede anche che gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione debbano essere “adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense”15. Si deve, quindi, escludere che possano semplicemente iscriversi ad un organismo accreditato ed iniziare a svolgere la funzione di mediatore senza aver prima conseguito una adeguata preparazione professionale perché, così facendo, violerebbero il dettato della norma in esame e lo stesso art 55 bis del codice deontologico forense, il quale stabilisce che l’avvocato non possa assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata competenza.

Illustrato il quadro generale della normativa italiana , si ritiene opportuno sostenere che la diffusione di questi sistemi nel nostro ordinamento rappresenterebbe, quindi, non solo un ottimo strumento per la riduzione del carico di lavoro delle aule giudiziarie, ma anche un cambiamento culturale nella visione del conflitto. In quest’ ottica la risoluzione del contenzioso non esige necessariamente una valutazione della causa e una decisione vincolante di un soggetto terzo, e la lite viene considerata come risorsa, valorizzando positivamente il ruolo delle parti e avviando un percorso di incontro consensuale diretto anche al rispetto reciproco dei consociati.

15 Art. 16 comma 4 del D.lgs n. 28/2010.

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A Nel settimo reparto Silvia Rossi e Roberta Zappalà

Introduzione Il titolo nasce dal primo programma di trattamento in Italia per gli autori di reati sessuali, all’interno del settimo reparto nell’istituto penitenziario di Bollate e nel Presidio Criminologico territoriale del Comune di Milano, realizzato dal C.I.P.M., cioè Centro Italiano per la Promozione della Mediazione1. Il progetto ha creato una Unità di trattamento che, avvalendosi del lavoro di professionisti appartenenti a diverse categorie interdisciplinari, si rivolge specificatamente ai c.d. sex offenders nell’ottica di un percorso di recupero. La sola pena detentiva, in risposta agli autori di reati sessuali, presenta infatti, una tutela insufficiente e inadeguata, sia verso la vittima, sia verso l’intera società. E’ necessario, quindi, utilizzare strumenti di intervento e di prevenzione, che permettano al reo un reinserimento nella comunità. Il progetto presentato all’interno della Casa di Reclusione Milano-Bollate prevede un intervento riabilitativo, in cui pena e trattamento si completano, al fine di ridurre i rischi di recidiva, sia come forma di tutela nei confronti della società, sia nell’ottica di tutelare il reo dalle sofferenze individuali. Il progetto si prende carico dell’individualità di ogni detenuto, sulla base dell’analisi di tratti di personalità, dinamiche comportamentali e del percorso di vita individuale di ognuno di loro. Gli interventi psicologici destinati ad ottenere cambiamenti evolutivi della personalità e delle condotte si riscontrano in due diversi livelli: da una parte i trattamenti di tipo comportamentale al fine di contenere eventuali problematiche compulsive, dall’altra si individuano nel trattamento delle dinamiche psicologiche profonde di quei soggetti in cui vi è una struttura deviante precoce della personalità, che causa il comportamento sessuale 1 Il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione è un’associazione fondata nel 1995 a Milano da un’equipe composta da criminologi, sociologi, psicologi, operatori sociali e magistrati. E’ la prima fonte a livello nazionale avente finalità di promozione e diffusione delle pratiche di mediazione, con l’obbiettivo di supportare i cittadini coinvolti in controversie o in situazioni di conflittualità (www.cipm.it)

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deviante.

Abbiamo ritenuto interessante intervistare il Presidente del C.I.P.M. Paolo Giulini, criminologo clinico e docente presso la facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, al fine di comprendere al meglio le dinamiche nascoste nelle condotte violente degli autori di reati sessuali e le peculiarità del trattamento rieducativo.

Tra Legislazione e Prassi Nel ‘98 con la legge n. 269 e in particolare all’art. 17 il legislatore inserisce per la prima volta nell’ordinamento italiano il concetto di recupero dei responsabili sessuali prevedendo l’istituzione di un Fondo, ottenuto dai proventi delle attività delittuose sanzionate, riservato in prima battuta alla cura delle vittime e in via residua al trattamento dei rei “che ne facciano apposita richiesta”. Il legislatore italiano si è richiamato in maniera chiara ad una sensibilità già operativa negli altri Paesi come la Francia, dove nel ‘98 è stata introdotta una figura autonoma di reato: la violazione dell’obbligo da parte del condannato per abusi sessuali su minori, di seguire un periodo predeterminato di cura chiamato suivi socio-judiciaire 2 successivamente all’espiazione della pena. «La normativa francese è rivolta solo al reo sessuale su minori, ma riteniamo che la riflessione possa estendersi a tutti i reati sessuali. Esigere la cura come un obbligo nel quadro di una pena può rappresentare una preziosa risorsa per sostenere il reo nel suo lavoro di cura e prevenzione della recidiva». Ecco che in linea con queste evoluzioni di politica criminale nel 2000 con il d.P.R. 230 (nuovo regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario) all’art. 115 si prevede: “…i detenuti con patologie rilevanti psichiche e fisiche […] possono essere assegnati ad Istituti autonomi o sezioni di istituto che assicurino un regime di Trattamento Intensificato…” «è proprio da qui che prende le mosse uno specifico progetto di trattamento, l’U.T.I. cioè l’Unità Trattamento Intensificato» come spiegato dal professore Giulini.

2 Paolo Giulini, Andrea Scotti – Il campo del trattamento del reo sessuale fra ingiunzione terapeutica e controllo benevolo, pag1864, Rivista italiana di medicina legale – Giuffrè Editore 2013

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Il Trattamento Intensificato: genesi e struttura

Realizzato dal C.I.P.M., il Progetto di Trattamento è realizzato all’interno della Casa di Reclusione di Bollate e prevede uno specifico intervento riabilitativo il cui punto di partenza è il riconoscimento delle anomalie e delle peculiarità che i sex offenders presentano «non per forza hanno alle spalle storie di abusi subiti, ma sempre hanno incontrato climi famigliari non responsivi», ci informa Giulini. «Il Progetto è rivolto non solo a coloro che volontariamente si propongono, visto che riconoscono la commissione del reato e una problematica sessuale, ma anche ai rei negatori totali, purché presentino requisiti di trattabilità sulla base di valutazioni criminologiche, cliniche e psicodiagnostiche. I criteri che non permettono l’ingresso in Unità sono individuati nella mancanza di conoscenza, almeno elementare, della lingua italiana, nella dipendenza da alcool o droghe e nella diagnosi di psicopatologie che richiedono cure specifiche». Il Progetto è realizzato presso il settimo reparto, quello destinato ai “protetti” e l’U.T.I. beneficia di un lato del secondo piano, presso cui dimorano i partecipanti, si svolgono le principali attività di trattamento e si riunisce l’equipe. Ad oggi, ora è in corso la nona annualità, sono coinvolti diciannove sex offenders, suddivisi in due gruppi, «questo numero è ottimale per assicurare una circolarità delle informazioni», dal momento che si cerca di creare un clima di confidenzialità. Il setting del trattamento è incentrato sia sul lavoro individuale, che di gruppo. È importante sottolineare come alla partecipazione ai gruppi il reo si auto-vincoli con la preventiva sottoscrizione di un contratto che sancisce un vincolo tra detenuto e operatori: «il soggetto non può essere un recettore passivo, ma deve impegnarsi attivamente ad essere disponibile al dialogo e allo scambio. Il gruppo non può che essere un moltiplicatore dei processi di maturazione, di consapevolezza e fiducia in sé» e continua Giulini spiegandoci quelli che sono gli obiettivi del dialogo con il reo; «con il soggetto si cerca di capire quale sarà il suo futuro, cercando di costruire dei piani di vita realistici e realizzabili con la consapevolezza che il trattamento può aiutarli a cambiare il loro futuro». Questo ovviamente non è altro che il primo step perché, dopo un anno di trattamento non si può pensare che il reo sia “guarito”.3 3 Paolo Giulini, Carla Maria Xella – Buttare la chiave? Raffaello Cortina Editore 2011

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Il trattamento prevede un fitto programma settimanale con diversi moduli che spaziano dalla arte-terapia, dove si favorisce l’espressione non mediata della parola, all’attività motoria, volta alla gestione degli impulsi aggressivi, inoltre vi è anche un momento di gruppo aperto anche a persone esterne al reparto, come l’assemblea del giovedì; infine il venerdì è presente il gruppo sulla “gestione dello stress ed eventi traumatici”. Importante è poi il momento di sensibilizzazione con contenuti audio-visivi, volto all’analisi e alla comprensione dei temi principali della violenza, dell’aggressione sessuale, della vittimizzazione, fondamentali come spunto di riflessione e crescita. Il programma deve essere rispettato da tutti i detenuti che partecipano al trattamento: la struttura di un programma è stata resa possibile grazie alla presenza di varie figure professionali come psicologi, psicoterapeuti educatori e criminologi. «Diciamo che comunque il trattamento funziona. Abbiamo una dispersione del 60% che ovviamente non avremmo se ci fosse una previsione legislativa che vincoli un soggetto socialmente pericoloso e soggetto a rischio di recidiva a continuare questo tipo di trattamento». Il percorso in ogni caso dura un anno finito il quale il reo può scegliere di continuare la terapia, previa la conclusione di un secondo contratto o il trasferimento nei “reparti comuni” dei rei sessuali trattati in Unità.

Dall’unita di trattamento intensivo al Centro di Mediazione «Sempre più ex-detenuti scelgono poi di proseguire il trattamento al Presidio Criminologico Territoriale (presidio esterno del C.I.P.M). Ciò è possibile dal 2009 quando è stato ufficialmente istituito dal Settore Sicurezza del Comune di Milano il Presidio Criminologico Territoriale, un polo che promette il trattamento e la gestione delle condotte violente, al quale si accede in modo libero e gratuito. Una sfida sempre più importante per questo servizio è quella di «strutturare protocolli di intervento per prevenire, dopo l’espiazione della pena, eventuali atti di vittimizzazione secondaria: questi possono generarsi in particolare negli ambiti famigliari quando la vittima incontra il proprio carnefice, eliminando definitivamente qualsiasi tentativo di risoluzione del trauma per chi ha subito la devastazione dell’abuso sessuale». Questo tipo di servizio segue il paradigma della giustizia riparativa e può intervenire per prevenire tale fenomeno. In questo senso si rivela peculiare l’esperienza, trapiantata in Italia dal C.I.P.M., delle pratiche sociali dei pastori Mennoniti canadesi, che nel 1994 hanno costituito i cd. Circoli di

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Sostegno e Responsabilità. A dirci come funziona è Giulini: «l’equipe che opera a Bollate individua i detenuti maggiormente a rischio di recidiva, magari perché sprovvisti di un sostegno sociale e famigliare, per invitarli ad aderire, finita la pena detentiva, ad un circolo composto da tre volontari adeguatamente selezionati e formati». Anche per la partecipazione al circolo è necessario che il soggetto si vincoli con la firma di un contratto che verrà firmato anche dai tre volontari. L’impegno che il reo assume è quello di incontrare i volontari una volta a settimana per circa due ore presso il C.I.P.M. Esso avrà durata di un anno e potrà essere rinnovabile.

Conclusione Da queste pagine è facile rendersi conto di quanto sia importante intervenire tramite altri strumenti che non siano quelli meramente repressivi. Il progetto di intervento sui sex offenders è un’eccezione nell’attuale situazione penitenziaria, (anche se il C.I.P.M. sta replicando tale Progetto presso la C.C. di Pesaro dal 2011 e presso la C.C. Roma-Rebibbia dal 2014), che rende l’autore di violenza sessuale, come dice Giulini, un «detenuto ibernato che viene restituito a fine pena alla società come scongelato, ancora con le proprie caratteristiche psicopatologiche intatte, e con in più una frequente dose di rancore, che lo rende più vulnerabile agli agiti aggressivi e ad un acritico isolamento». I tempi per un ulteriore passo avanti sono forse maturi?

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