Anno 4 Numero 1
Questo nuovo numero, su consiglio della vecchia redazione, è dedicato interamente ad alcune delle principali riforme del governo Monti. Potrebbe quindi definirsi un “numero tecnico sul governo tecnico”. A sostegno del suo taglio assolutamente attuale, vengono analizzati argomenti caldi quali tra gli altri l’annosa problematica delle carceri italiane, un’approfondita panoramica che riprende la riforma del lavoro e della previdenza sociale, passando per questioni legate al diritto ambientale, al quale ognuno di noi dovrebbe essere maggiormente sensibile. Auspichiamo che l’Alligatore continui ad essere come in passato un punto di riferimento per gli studenti di Giurisprudenza, dando loro modo di potersi confrontare in modo analitico su tematiche di attualità e poterle approfondire con gli strumenti messi a disposizione dallo studio giuridico. Buona lettura! La redazione Se vuoi collaborare con noi scrivi a: redazione@lalligatore.org
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Anno 4 Numero 1
Rivista fondata da: Rocco Steffenoni, Eduardo Parisi, Sandro Parziale, Daniele Rucco
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L’ALLIGATORE La rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano
Redazione: Francesco Bertolino, Erik Brouwer, Pietro Cesareo, Filippo Croci, Giulia De Martini, Laura Piccoli, Giulia Pirola, Serena Santini, Niccolò Scremin, Adriana Spina, Alberta Trombetta, Ferdinando Vella, Martina Zini Hanno collaborato: Avv. Luca Boneschi, Lorenzo Capelli, Alessandro Generali, Avv. Marilina Guarino, Fulvio Volpi La rivista è attualmente diretta da: Niccolò Scremin
Ringraziamo i professori e i ricercatori della Facoltà che ci hanno sostenuto in questa iniziativa Milano, Marzo 2013
Tale progetto è finanziato con il contributo dell’Università degli Studi di Milano derivante dai fondi previsti per le attività culturali e sociali.
INDICE Diritto Penale
Alberta Trombetta Il ministro Severino e l’ordinamento penitenziario Ordinamento Giudiziario
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Adriana Spina
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Giulia Pirola Il Quinto Conto Energia e i tagli al fotovoltaico: Una questione ancora aperta
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Riforma forense: ecco cosa cambia per noi studenti Diritto Dell’Ambiente
Economia
Erik Brouwer La crisi e lo spread: cos’è e perchè non è un “imbroglio” Diritto del Lavoro e della Previdenza sociale
Martina Zini Uno spettro si aggira per L’Italia: lo spettro dell’articolo 18 Laura Piccoli La stretta sulle partite IVA Niccolò Scremin La nuova riforma delle pensioni: art. 24 l.214/2011 Rubrica
Giulia De Martini Recensione di “La democrazia in Europa”
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Ai Fondatori ea Francesca Campini, Ugo Pecchioli, Francesca Prati, Giorgia Testoni, Camilla Capitani. Con la speranza di portare avanti al meglio il vostro progetto. La nuova redazione
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DIRITTO PENALE PENITENZIARIO
l’alligatore 9
Il ministro Severino e l’ordinamento penitenziario Tra legislazione d’emergenza e condanne internazionali Alberta Trombetta
Il nostro ultimo Guardasigilli, il Ministro Paola Severino, sta concludendo in questi giorni il suo mandato. Parliamo di un mandato brevissimo, 401 giorni. In questo lasso di tempo il Ministero della Giustizia ha dimostrato grande interesse per l’ambito penalistico. Uno dei settori in cui maggiormente tale interesse è emerso, è stato sicuramente l’ordinamento penitenziario. Come tutti ormai sappiamo, o meglio dovremmo sapere, quest’ultimo soffre di una situazione drammatica di sovraffollamento carcerario che ha assunto un carattere endemico. Il quadro generale che ha dovuto fronteggiare il Ministro è il seguente: • 319 strutture penitenziarie così suddivise: • 1 casa di cura e custodia • 2 case di lavoro e colonie agricole • 214 istituti penitenziari • 5 ospedali psichiatrici giudiziari • 16 provveditorati regionali • 82 uffici di esecuzione penale estera • Numero teorico dei detenuti ospitabili presso queste strutture: 44.000 circa • Numero reale dei detenuti presenti in queste strutture: 68.000 circa • Soggetti in sovraffollamento: 22.000 (dati Novembre 2011)
Constatati questi dati, è facile immaginare quali possano essere le disastrose condizioni di vita dei soggetti detenuti, nonché l’impossibilità di raggiungere le finalità per cui gli specifici istituti sono stati previsti. Per capire effettivamente le ragioni di questo sovraffollamento è utile considerare alcuni dati: il 7 febbraio 2013 è stato presentato a Roma il rapporto dell’Osservatorio Europeo sulla Detenzione carceraria, sostenuto dalla Ue e coordinato dall’associazione Antigone sulle condizioni dei detenuti nelle carceri di otto paesi europei. L’Italia è il paese con il più alto tasso di sovraffollamento con 139,7 carcerati ogni 100 posti. Trovatasi a fronteggiare questa realtà, il Ministro ha immediatamente in-
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dividuato due principali problematiche: 1) Il fenomeno delle cd “porte girevoli” (ovverosia il transito in carcere di soggetti per un breve lasso di tempo: 3/5 giorni): molto dispendioso, ma dalla dubbia utilità in termini special-preventivi
2) La pena detentiva, in quanto massima privazione della libertà personale, dovrebbe essere l’extrema ratio. Quindi deve essere presa in considerazione soltanto quando tutte le altre pene siano valutate inidonee a punire il condannato. Siamo sicuri che questa sia sempre la ratio che ispira il nostro ordinamento? Il primo atto legislativo approvato dal Governo in materia penitenziaria è infatti volto a ridimensionare il primo di questi due problemi:
DL Svuota Carceri (DL n. 211/2011, convertito con legge n. 9/2012). Misure Misure per contrastare il fenomeno delle cd. “porte girevoli” Aumento da 12 a 18 mesi della misura della pena detentiva che può essere eseguita presso l’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza (modifica alla l. 199 del 2010.) Chiusura degli O.P.G. (ospedali psichiatrici giudiziari) entro il 31 marzo 2013 con il conseguente transito delle persone detenute in strutture sanitarie gestite dal Servizio Sanitario Nazionale, ma sempre assoggettate alla vigilanza della polizia penitenziaria. Impatto Le misure hanno interessato circa 7.000 detenuti, di cui 4.437 non entrati in carcere e altri 2.589 trasferiti ai domiciliari. Al momento i risparmi effettivi non sono stati ancora quantificati, ma sono comunque notevoli sia sul piano economico, sia su quello delle condizioni di sovraffollamento all’interno delle strutture penitenziarie. Nel complesso poi si è registrata, per la prima volta negli ultimi anni, una progressiva riduzione della popolazione detenuta passata da 68.047 al 30 novembre 2011 a 66.888 del 31 ottobre 2012. Per fronteggiare invece la problematica dell’elevatissimo numero di soggetti che effettivamente sono destinati ad entrare continuamente nelle nostre carceri nell’attesa di una “necessaria riforma”, è stata effettuata una modifica alla L. 354/1975, contenente una Carta dei diritti e doveri
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dei detenuti. Misure Una guida, in diverse lingue, fornita al detenuto al momento del suo ingresso in carcere e alla sua famiglia che indica in forma chiara le regole generali del trattamento penitenziario, e fornisce tutte le informazioni indispensabili su servizi, strutture, orari e modalità dei colloqui, corrispondenza, doveri di comportamento. Impatto La misura è diretta a perseguire l’obiettivo di garantire al detenuto, sin dall’ingresso nella struttura penitenziaria, la conoscenza dei propri diritti e dei propri doveri. In tal modo si favorisce l’instaurarsi di un rapporto collaborativo con il personale penitenziario, anche nell’ottica di valorizzare l’esigenza di rispetto della dignità della persona nell’esecuzione della pena. Sono due atti minimi se si pensa all’entità del problema da fronteggiare, ma non si può negare che siano provvedimenti che mandano un messaggio politico: una chiara volontà di non riportare nel buio la vita delle nostre carceri. Oltre alle riforme approvate, altrettanto significative risultano le proposte contenute in un disegno di legge che comprende un insieme di misure volte al recupero dell’efficienza del processo penale:
DDL A.S. 3596 in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili. Misure SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA: l’istituto offre ai condannati per reati di minore allarme sociale (ovverosia quelli puniti con pene detentive non superiori a quattro anni) un percorso di reinserimento alternativo e, al contempo, svolge una funzione deflattiva dei procedimenti penali, in quanto è previsto che l’esito positivo della messa alla prova estingua il reato. PENE DETENTIVE NON CARCERARIE: è prevista l’introduzione di due nuove pene detentive non carcerarie, ovverosia la reclusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora per reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni. SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO NEI CONFRONTI DEGLI IRREPERI-
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BILI: si prevede la sospensione del dibattimento per gli irreperibili con conseguente sospensione della prescrizione per un periodo pari a quello previsto per la prescrizione del reato. Tuttavia l’istituto non opera nei casi in cui si può presumere che l’imputato abbia conoscenza del procedimento. Inoltre, la sospensione del procedimento non opera nei casi dei reati di mafia, di terrorismo o degli altri reati di competenza delle direzioni distrettuali.
L’impatto di queste modifiche sul nostro sistema penale avrebbe significato un cambiamento di rotta verso le pene alternative che, più che ridurre il sovraffollamento attuale, avrebbe consentito un minor ricorso al carcere in futuro. Qui si vede l’attacco strutturale, la voglia di cambiare le cose. Purtroppo questa riforma, approvata con larga maggioranza alla Camera, è stata bocciata dal Senato. Sull’argomento la Severino afferma delusa in un’intervista al quotidiano l’Avvenire del 10/01/2013: “Questo Parlamento aveva una grande chance e l’ha sprecata. Mi auguro che la prossima legislatura sappia coglierla, considerandola una priorità per il nostro Paese”. Oltre a questo DDL, sono stati altresì proposti, senza riuscita, altri tre disegni: DDL A.C. 5019 ter in materia di depenalizzazione Misure DEPENALIZZAZIONE: si prevede la trasformazione in illecito amministrativo dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, con esclusione dei reati in materia di edilizia urbanistica, ambiente, territorio e paesaggio, immigrazione, alimenti e bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica (sono inoltre esclusi i reati di vilipendio compresi tra i delitti contro la personalità dello Stato). Impatto L’intervento legislativo contiene interventi strutturali volti a realizzare una deflazione del sistema penale, completando il quadro di misure avviato con il Decreto Svuota Carceri. AC 2094 (Modifiche al codice di procedura penale per la definizione del processo penale nei casi di particolare tenuità del fatto) Misure Si tratta di un DDL di iniziativa parlamentare volto ad introdurre nel codi-
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ce di procedura penale l’istituto della particolare tenuità del fatto già esistente, seppur su presupposti e con esiti parzialmente diversi, nel giudizio minorile e nei procedimenti dinanzi al giudice di pace. Affinché possa pronunciarsi sentenza di assoluzione (o decreto di archiviazione) é richiesto che il giudice consideri il fatto di particolare tenuità «per le modalità della condotta o per l’esiguità delle conseguenze dannose o pericolose della stessa». Impatto L’intervento concorre a delineare una strategia di deflazione del sistema penale favorendo una riduzione del carico giudiziario attraverso la previsione di vie alternative alla celebrazione del processo penale rispetto a fatti di scarso contenuto offensivo. Modifica alla L. 8 novembre 1991, n. 381 e alla L. 22 giugno 2000, n. 193 Misure Si permette ai datori di lavoro che assumono detenuti ed internati ammessi al lavoro esterno ai sensi dell’art. 21 Ordinamento Penitenziario di fruire di: - sgravi contributivi; - aumento del credito d’imposta , elevandolo a 700 euro al mese; - estensione del credito d’imposta, nella misura di 350 euro mensili, anche a chi assume detenuti semiliberi; - concessione di credito d’imposta per le imprese che affidano a cooperative sociali o ad altre aziende l’esecuzione di attività all’interno del carcere quali occasioni di reinserimento per i detenuti. Impatto La modifica normativa si propone di migliorare le norme finalizzate all’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, mediante una serie di incentivi che vertono sulla defiscalizzazione dei contributi per i soggetti che intraprendono un percorso di recupero mediante l’esperienza lavorativa, sia al di fuori degli istituiti di pena sia nell’ambito degli stessi.
Prima di esporre le conclusioni in merito all’impatto del “pacchetto Severino”, è necessario menzionare la recente posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: Corte EDU) in merito alla situazione delle carceri italiane. Di recente infatti, la Corte ha pronunciato una sentenza “pilota” molto significativa, la sentenza Corte EDU Torreggiani e altri c./Italia che potreb-
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be comportare una svolta nella situazione carceraria italiana. La sentenza della Corte EDU 8 gennaio 2013. Questa Corte ha deciso di pronunciare una sentenza pilota nei confronti dell’Italia perché era stata investita da centinaia di ricorsi da parte dei detenuti italiani dopo l’emanazione della celebre sentenza Sulejmanovic vs Italia del 2009 (ricorso 22635/03). La sentenza Torreggiani accerta nel caso concreto la violazione dell’art. 3 CEDU (ai sensi del quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”) a danno di sette ricorrenti che lamentavano, nella pratica, di essere stati confinati in celle di 9 metri quadrati, ciascuno assieme ad altri due detenuti, e di avere potuto usufruire in quantità insufficiente di acqua calda ed illuminazione. Per queste indegne condizioni di vita la Corte ha condannato lo Stato italiano a corrispondere, a titolo di equa soddisfazione per il danno morale subito, somme di entità variabile da 10.600 a 23.500 euro, in relazione in particolare alla durata della rispettiva detenzione in condizioni di sovraffollamento. Dato altrettanto significativo è che nella stessa sentenza la Corte prescrive allo Stato italiano di prevedere “un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte”, entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza. Questa decisione è quindi coerente con il principio di sussidiarietà che regola i rapporti tra la Corte e gli Stati parte della Convenzione, secondo il quale spetta anzitutto alle autorità nazionali assicurare un’adeguata tutela ai diritti convenzionali. Per quanto riguarda gli attuali strumenti di tutela offerti dal nostro ordinamento, questa sentenza afferma che in Italia non esiste uno strumento di tutela effettivo nei confronti dei detenuti che abbiano subito lesione dei propri diritti a causa del sovraffollamento. Nonostante esista un rimedio nella nostra legislazione penitenziaria ai sensi degli artt. 14-ter, 35 e 69 della legge di ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354), il “reclamo giurisdizionalizzato”, esperibile avanti al magistrato di sorveglianza, è stato negato dalla Corte che esso integri le caratteristiche e le finalità del ricorso prescritto dalla sentenza. Certo, il parametro della violazione dell’articolo 3 CEDU dovrà essere col tempo analizzato dalla giurisprudenza, ma è già orientamento consolidato che la Corte consideri automaticamente integrato “un trattamento inumano e degradante”, per esempio, allorché ciascun detenuto disponga di uno spazio personale pari o inferiore a 3 metri quadrati, come nel caso dei ri-
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correnti. Indipendentemente quindi dalle singole fattispecie che possono integrare la suddetta violazione, la rivoluzione per il nostro ordinamento è che sia stato riconosciuto un diritto a ricevere “un ristoro adeguato e sufficiente” per i “maltrattamenti subiti”, e che debba altresì essere individuato uno strumento interno designato a perseguire tale obiettivo. La Corte ha tenuto a sottolineare come rispetto allo specifico problema del sovraffollamento carcerario tale rimedio debba essere idoneo non solo a riparare ex post le conseguenze della violazione - in particolare garantendo un risarcimento pecuniario -, ma anche a porre fine alla violazione e a migliorare le condizioni generali della detenzione. Rispetto allo specifico problema del sovraffollamento delle carceri italiane, la Corte sottolinea dunque il carattere sistemico delle violazioni dell’art. 3 CEDU, dimostrato non solo dalle centinaia di ricorsi pendenti avanti alla Corte, ma anche dalle stesse autorità italiane, i cui provvedimenti di emergenza, pur benvisti dalla Corte, hanno potuto attenuare in misura soltanto molto parziale il fenomeno. La Corte si mostra consapevole che soltanto sforzi a lungo termine da parte delle autorità italiane potranno risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario, e non si sottrae dal richiamare due raccomandazioni del Comitato dei Ministri (1999/22; 2006/13) che esortano gli Stati membri nel complesso a ricorrere il meno possibile alla pena detentiva, prediligendo invece le pene alternative, anche allo scopo di ridimensionare la crescita della popolazione carceraria. Il ministro Severino ha affermato l’8 gennaio 2013 (Prima Pagina News): ‘’Sono profondamente avvilita ma purtroppo l’odierna condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo non mi stupisce.” Parlando delle possibili conseguenze pratiche di questa sentenza, va evidenziato come essa potrebbe effettivamente offrire uno sprone ad intervenire per il prossimo Governo, sia per l’autorevolezza della Corte pronunciante, sia e soprattutto per il rischio di dover esborsare “equa soddisfazione” a tutti coloro che ne facciano ricorso. Teoricamente parliamo della possibilità di 22.000 ricorsi. Quindi forse, anche se siamo un paese spesso recidivo alle pressioni internazionali, di questa sentenza non si può negare un carattere, per lo meno, “disincentivante”. Concludendo, il dato certo è che esistono sia una normativa, nazionale e internazionale, tutelante e ragguardevole della figura del detenuto sia una lucida attenzione politica. Altrettanto certo è che questa normativa scritta nelle disposizioni di legge, entra molto poco nella vita del carcere.
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Ma perché questo accade? Di chi è la responsabilità? Presupponendo che le problematiche relative alla situazione dei detenuti nelle carceri non risiedano, in prima battuta, in una lacuna del legislatore, perché la legge c’è ed è esaustiva, quello che impedisce una corretta applicazione della stessa è il fatto che, in queste strutture, non ci siano le possibilità pratiche di rendere la legge una realtà. La legge non prevede le modalità con cui la legislazione attuale debba essere applicata nelle carceri in situazioni di sovraffollamento. Così ragionando, è ovvio che la responsabilità delle indegne condizioni di vita in cui versano i detenuti non sia delle amministrazioni carcerarie, ma torni, necessariamente, all’organo legislativo. Ma perché tutti questi detenuti? Commettiamo tanti reati in Italia? Probabilmente, anzi, sicuramente sì. La cosa paradossale però è che nei nostri istituti penitenziari non ci sono tanti omicidi, truffatori, stupratori, autori di frodi fiscali. Nelle nostre carceri ci sono immigrati e tossicodipendenti. I dati della analisi dell’Osservatorio Europeo sulla Detenzione carceraria parlano chiaro. I detenuti stranieri nelle carceri italiane sono il 37 per cento del totale, mentre il 30 per cento dei carcerati è composto da tossicodipendenti. “Sfortunatamente le misure alternative alla detenzione non sono sufficientemente utilizzate”, afferma l’Osservatorio. Inoltre un’altra anomalia italiana è il dato sulla popolazione detenuta in custodia cautelare che si attesta oltre il 40 per cento, mentre la media europea è intorno al 25 per cento. Non è un problema di commissione di reati. È un problema di legge. La legge prevede troppo ricorso alle carceri. La legge non prevede abbastanza ricorso alle misure alternative alla detenzione.
Probabilmente, quindi, l’ennesima condanna della Corte EDU nei confronti del nostro Paese (con la già citata sentenza Torreggiani) e la drammatica situazione carceraria che ne costituisce il presupposto, impone al nostro futuro legislatore di compiere una scelta precisa: o ridimensionare l’utilizzo delle strutture carcerarie come discarica sociale, selezionando congruamente quali siano i comportamenti effettivamente meritevoli dell’extrema ratio del carcere, oppure permettere all’ordinamento penitenziario di prendersi carico di una popolazione così elevata di detenuti, rispettando le previsioni di legge, il che implica, tra l’altro, un radicale aumento del numero di strutture carcerarie e del personale addetto.
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L’importante è che si compia una scelta di sistema che sia filo conduttore di un piano generale di riforme. FONTI UTILIZZATE:
- Manuale di Diritto penale, parte generale. Marinucci Dolcini, Giuffrè Editore 2009 - Manuale dell’Esecuzione penitenziaria. A cura di Piermria Corso, Monduzzi Editore, 2011 - Oltre a sorvegliare e punire. Esperienze e riflessioni di operatori su trattamento e cura in carcere. A cura di Daniela Pajardi. Giuffrè Editore, 2008 - www.associazioneantigone.it/index_osservatorio.htm - http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_4.wp?selectedNode=3_6 - www.giustizia.it - www.altalex.com/index.php?idnot=16598 - http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_6_9.wp?contentId=NOL801437 - www.penalecontemporaneo.it - http://www.penalecontemporaneo.it/materia/9-/-/-/2107-sullo_stato_ della_tutela_dei_diritti_fondamentali_all_interno_delle_carceri_italiane/ - http://www.penalecontemporaneo.it/materia/9-/-/-/1990-sentenza_pilota_della_corte_edu_sul_sovraffolamento_delle_carceri_italiane__il_nostro_paese_chiamato_all_adozione_di_rimedi_strutturali_entro_il_termine_di_un_anno/ - http://www.altalex.com/index.php - www.parlamento.it › Home › Leggi - http://osservatoriocedu.eu
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ORDINAMENTO GIUDIZIARIO
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Riforma forense: ecco cosa cambia per noi studenti Tirocinio, esame di stato e corsi di formazione Adriana Spina
Il 2 febbraio 2013 è entrata in vigore la legge di riforma dell’ordinamento forense (legge n. 247/2012, G.U. venerdì 18 gennaio 2013, n.15), tanto attesa dall’Avvocatura, approvata dalle Camere e rientrante fra gli ultimi atti compiuti dal governo dimissionario. Per la prima volta negli ultimi 80 anni vengono modificate le norme fondamentali che regolano l’accesso alla professione di avvocato e il suo esercizio. Questa riforma, definita da tutti come ‘necessaria’, è stata acclamata da molti e contestata da altri, ma un giudizio potrà essere dato solo dopo l’emanazione dei provvedimenti ad hoc previsti in molte materie per la piena attuazione della riforma, anche se, alcune di essere saranno valide da subito. L’art. 41 di tale legge disciplina il tirocinio professionale del praticante avvocato, definito come ‘l’addestramento, a contenuto teorico e pratico, finalizzato a fargli conseguire le capacità necessarie per l’esercizio della professione di avvocato e per la gestione di uno studio legale nonché a fargli apprendere e rispettare i princìpi etici e le regole deontologiche’. Tra le novità più importanti vi è sicuramente la riduzione della durata di quest’ultimo a diciotto mesi, con almeno 6 mesi trascorsi presso uno studio di avvocato e per non più di sei mesi, in concomitanza con il corso di studio per il conseguimento della laurea, dagli studenti regolarmente iscritti all’ultimo anno del corso di studio per il conseguimento del diploma di laurea in giurisprudenza, a condizione però che vi siano apposite convenzioni tra università e Consiglio Nazionale Forense1 . La riforma precisa che “il tirocinio professionale non determina di diritto l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato, anche occasionale”. Negli studi legali privati, al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio. Fanno eccezione quelli svolti presso gli enti pubblici e presso l’Av1 Tale norma sarà applicabile solo a partire dal terzo anno dall’entrata in vigore della legge, ad eccezione della riduzione della durata del tirocinio, già introdotta dall’art.9 del d.l. n. 1/2012.
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vocatura dello Stato. Infatti, decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni.
Viene introdotta, accanto alla pratica svolta presso uno studio professionale, la frequenza obbligatoria e con profitto di corsi di formazione di indirizzo professionale. Tali corsi saranno tenuti da ordini, associazioni forensi e da soggetti previsti dalla legge. Le modalità di svolgimento del tirocinio e dei corsi di formazione obbligatoria di cui all’art. 43 saranno oggetto di un decreto del Ministro della Giustizia da adottarsi sentito il CNF. La disposizione secondo cui il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali è valutato ai fini del compimento del tirocinio per l’accesso alla professione di avvocato per il periodo di un anno non è stata modificata. La riforma prevede che il praticante possa essere abilitato a svolgere attività in sostituzione dell’avvocato presso il quale svolge la pratica già dopo sei mesi di tirocinio2. Il praticante avvocato sarà comunque sotto il controllo e la responsabilità dello stesso anche se si tratta di affari non trattati direttamente dal medesimo.
Per ciò che riguarda l’esame di stato, l’art. 46 prevede che la prova scritta sia svolta con codici non commentati e privi di citazioni giurisprudenziali. Tale disposizione non è priva di critiche, infatti, secondo molti, tali strumenti sarebbero fondamentali per una stesura corretta dell’elaborato. I temi vengono formulati dal Ministero della Giustizia e consistono nella redazione di un parere a scelta tra due questioni in materia civile, la redazione di un parere a scelta tra due questioni in materia penale e la redazione di un atto giudiziario su un quesito proposto tra diritto civile, penale e amministrativo. 2 Il termine previsto era di un anno.
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Durante la prova orale, il candidato è tenuto ad illustrare la prova scritta e a dimostrare la conoscenza delle seguenti materie: ordinamento e deontologia forensi, diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale; nonché di altre due materie, scelte preventivamente dal candidato, tra le seguenti: diritto costituzionale, diritto amministrativo, diritto del lavoro, diritto commerciale, diritto comunitario ed internazionale privato, diritto tributario, diritto ecclesiastico, ordinamento giudiziario e penitenziario. Per il superamento della prova, è necessaria la sufficienza in ogni materia3. Per la piena effettività di tali norme si dovrà attendere l’emanazione, da parte del Governo, di nuovi provvedimenti in materia. Pertanto, la nuova disciplina inerente l’esame di Stato e i tirocini si applicherà a partire dal primo Gennaio 2015.
3 Per i primi due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge l’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato si effettua, sia per quanto riguarda le prove scritte e le prove orali, sia per quanto riguarda le modalità di esame, secondo le norme previgenti (art. 49).
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DIRITTO DELL’ AMBIENTE
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Il Quinto Conto Energia e i tagli al fotovoltaico: Una questione aperta Giulia Pirola
Con sempre maggior frequenza si sente parlare di surriscaldamento globale. Governi di tutto il mondo e organizzazioni internazionali cooperano, ormai da anni, per trovare un’adeguata soluzione al problema. Perfino l’Italia, a seguito della direttiva UE 2009/28, ha dovuto impegnarsi a raggiungere il risultato prescritto. La norma comunitaria prevede infatti che, entro il 2020, il 20% dell’energia prodotta arrivi da fonti rinnovabili: i cosiddetti “obiettivi europei 20-20-20”. Per l’Italia il tetto è fissato al 17%; il governo Monti ha così provveduto all’adeguamento mediante l’emanazione del Quinto Conto Energia, in attuazione del d.lgs 28/2011 per l’incentivazione della produzione di energia elettrica da impianti solari fotovoltaici. Nel clima generale di crisi dell’eurozona non sono certo mancate le critiche a tale provvedimento. Vediamo più da vicino di che cosa si tratta. Con il Quinto Conto Energia gli incentivi al settore vengono ridotti ai livelli europei, pur rimanendo al di sopra degli altri paesi. Nel medio-lungo periodo, si prevede la loro graduale riduzione (con un successivo annullamento, in particolare nel caso del fotovoltaico) e la completa integrazione con il mercato elettrico, raggiungendo così la famigerata grid parity1. Essa consiste essenzialmente nel fatto che l’energia elettrica, prodotta a partire da fonti di energia alternative, ad esempio energie rinnovabili e nucleare, ha lo stesso prezzo dell’energia tradizionale prodotta tramite fonti di energia altrettanto tradizionali, cioè le fonti fossili. Non è difficile, allora, comprendere l’importanza di tale obiettivo: limitare l’utilizzo dei combustibili fossili, i maggiori responsabili delle emissioni di diossido di carbonio, permette così di ridurre l’effetto serra e il conseguente e disastroso fenomeno del surriscaldamento globale. Ma facciamo un passo indietro. Quali sono le cause di quest’ultimo fenomeno? In breve il calore derivante dal Sole di cui gode il nostro pianeta è dovuto all’effetto serra che lo trattiene nell’atmosfera. Questa importante funzione è svolta dall’azione dei gas serra - principalmente diossido di car1 SEN (Strategia Energetica Nazionale): per un’energia più competitiva e sostenibile. Documento di consultazione pubblica. http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/ documenti/20121016SEN-Documento_di_consultazione.pdf
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bonio (CO2) e vapore acqueo - i quali hanno l’effetto di mitigare la temperatura dell’atmosfera terrestre, isolandola parzialmente dalle grandi escursioni termiche da cui sarebbe affetta. Tale fenomeno rientra perciò nei meccanismi di regolazione dell’equilibrio termico di un pianeta. Ora, in particolare a causa dei grandi disboscamenti - teniamo presente che gli alberi sono i maggiori consumatori di CO2 - e, soprattutto, dell’attività industriale basata sull’utilizzo dei combustibili fossili, le emissioni di diossido di carbonio o CO2 sono cresciute a dismisura, andando così ad incrementare l’effetto serra. Sembra inutile sottolineare la portata catastrofica di tale fenomeno, le cui conseguenze importano scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello dei mari e delle temperature, desertificazione e altri eventi climatici sempre più violenti. In un quadro di questo genere è, dunque, necessario adottare delle misure per rallentare tale meccanismo, per esempio, puntare sulla riduzione dell’emissione di diossido di carbonio nell’aria. Pertanto i paesi di tutto il mondo si sono impegnati a risolvere il problema attraverso l’adesione ad accordi internazionali. Il più celebre è il Protocollo di Kyoto, a cui aderiscono attualmente 200 paesi al fine di ritardare i cambiamenti climatici fino al 2020. Rileva, poi, la recente Conferenza Rio+202, tenutasi nel giugno 2012, che si è posta l’obiettivo di rinnovare l’impegno politico per lo sviluppo sostenibile, verificando lo stato di attuazione degli impegni internazionali assunti negli ultimi due decenni. Anche a livello europeo, l’Unione Europea ha adottato la suddetta direttiva 2009/28 sulla promozione dell’uso dell’energia elettrica da fonti rinnovabili. In attuazione a tale normativa l’Italia, sotto il governo Monti, ha adottato così il Quinto Conto Energia, provvedimento che comporta un taglio del 35 % agli incentivi al fotovoltaico. Ricordiamo, però, che questi risultano comunque molto generosi, ben superiori agli standard europei e, inoltre, ad oggi pesano in bolletta 9 miliardi di euro l’anno. Ma perché lo stato ha sentito l’esigenza di ridurre gli incentivi al fotovoltaico? In sintesi il fotovoltaico, negli ultimi quattro anni, ha registrato una crescita notevole che lo ha portato a coprire il 7% della produzione elettrica nazionale. Ciò ha comportato, di contro, una gestione poco oculata degli incentivi tanto che il settore è stato letteralmente “drogato”, facendo pro2 www.minambiente.it (Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare)
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liferare aziende ridicole che senza incentivi non starebbero in piedi e mettendo così a repentaglio quella che è una concorrenza sana del settore. Nondimeno in presenza di una migliore gestione degli incentivi, spalmandoli in un arco temporale più lungo, sarebbe stato più agevole l’approdo alla tanto desiderata grid parity. Per questo, quindi, si è assistito a tagli importanti attraverso il passaggio dal sistema incentivante della feed in premium a quello della feed in tariff 3 .In altre parole si passa da un sistema in cui il prezzo dell’energia rinnovabile è composto da due fattori: il valore di mercato dell’energia esposto alle oscillazioni di domanda/offerta ed un premio aggiuntivo cumulabile agli incentivi, fissato dall’autorità pubblica; ad un sistema dove si prevede un prezzo fisso dell’energia prodotta dalle fonti rinnovabili superiore a quello di mercato per una durata stabilita: 20 anni per il fotovoltaico. È pertanto possibile, in questo modo, stabilire delle priorità di accesso agli incentivi secondo una graduatoria.
A seguito di una questione così delicata e attuale sono, poi, sorte numerose le critiche. Corrado Clini, Ministro dell’Ambiente per il governo Monti, ha asserito che “Chi vuole tagliare le rinnovabili non tiene conto di tre fattori fondamentali: le direttive europee che dobbiamo rispettare pena sanzioni; l’orientamento del mercato internazionale che nel 2011 ha investito nelle rinnovabili 260 miliardi di dollari; i benefici che derivano alle casse pubbliche proprio dallo sviluppo dell’energia pulita. Non si possono sottolineare i costi delle rinnovabili e ignorare i vantaggi in termini di incremento del prodotto lordo, aumento del gettito fiscale, diminuzione del picco diurno della domanda, maggiore occupazione, miglioramento della bilancia commerciale”. Aggiunge, poi, il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini che “è in corso una campagna mediatica che punta a fermare le energie pulite, mettendo in luce solo l’impatto in bolletta di questa crescita e non gli enormi vantaggi per il Paese”. Continua: “E’ stupefacente che l’attenzione si concentri su quella piccola percentuale della bolletta elettrica legato agli incentivi alle rinnovabili, mentre nulla si dice sulla grossa fetta restante che riguarda il costo dell’acquisto di petrolio e carbone, i miliardari guadagni delle imprese, i sussidi al nucleare e ad altre voci assurde, oltre alle tasse”. Nella stessa direzione, Andrea Boraschi di Green Peace parla di una vera e propria “dipendenza dell’Italia dalle fonti fossili” come vera causa dell’aumento del3 www.ambienteterritorio.coldiretti.it/tematiche/Urbanistica-Territorio-Paesaggio/Documents/NOTA%20su%20decreto%20fer%20elettriche.pdf Decreto Ministeriale 6 Luglio 2012, in attuazione dell’art.24 del d.lgs 3 Marzo 2011 n°28, recante incentivazione della produzione di energia elettrica da impianti a fonti rinnovabili diversi dai fotovoltaici (SO n°143 della G.U n°159 del 10 Luglio 2012).
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le bollette degli italiani.4
Nello stesso modo bisogna, però, tener presente le poche esperienze internazionali in cui una simile eliminazione dei sostegni diretti è già avvenuta. In Olanda, per esempio, nel 2011 sono stati cancellati gli incentivi al fotovoltaico. È interessante il fatto che nel 2012 le installazioni, invece di contrarsi, siano aumentate del 50%. L’eliminazione dei sussidi ha, infatti, obbligato a inventare forme nuove per allargare il mercato, gli operatori hanno trasformato le loro proposte commerciali e sono nate associazioni che hanno promosso iniziative dal basso. Un altro caso è, inoltre, quello del Giappone, che nel 2006 ha tagliato drasticamente gli incentivi al fotovoltaico e l’anno successivo ha subito nel mercato una flessione solo del 36%, grazie al collaudato sistema di interazioni tra industria solare, costruttori edili, distributori elettrici ed enti locali che ha consentito di governare il mercato anche in condizioni avverse. Situazione che, però, è certamente mutata dopo il disastro di Fukushima, per cui il fotovoltaico è ora fortemente incentivato e il Giappone è destinato a diventare uno dei primi mercati mondiali. Anche in Italia, peraltro, molte imprese si stanno già attrezzando, per operare senza incentivi, attraverso impianti fotovoltaici installati su edifici e centrali a terra. D’altra parte, la notevole esperienza accumulata dalle imprese del settore, l’innalzamento delle bollette elettriche e le buone condizioni di insolazione, fanno dell’Italia un paese particolarmente adatto all’insediamento di un fotovoltaico senza incentivi. Nonostante tutto, sembra comunque destinato ad avere vita breve il decreto montiano, varato nel luglio 2012. Esso in confronto al quarto Conto energia, prevede il calo degli incentivi dal -50% per gli impianti residenziali al -75% per le grandi installazioni a terra, diminuzioni progressive di semestre in semestre. Il quinto Conto Energia, infatti, non predispone un finanziamento illimitato al solare fotovoltaico ma, al contrario, stabilisce che la spesa statale per il sostegno al settore non possa superare quota 6,7 miliardi di euro l’anno. Una volta raggiunta questa cifra scatterà il blocco del regime incentivante, ossia non saranno mai più sussidiati nuovi impianti. Si stima che già dal primo semestre del 2013 lo stato dovrebbe trovarsi senza fondi5, a meno che non decida di concedere ulteriori finanziamenti. Appare più probabile che, esaurita l’applicazione del Quinto Conto, 4 http://www.repubblica.it/ambiente/2012/04/01/news/rinnovabili_rivolta_ambientalisti-32579293/ 5 Vedi Contatore del GSE (Gestore dei Servizi Energetici) http://www.gse.it/it/Pages/default.aspx
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si studi qualche pratica di sostegno indiretto al settore. Ipoteticamente il futuro del fotovoltaico sembra, tuttavia, in salita. Ciò che risulta certo è, però, l’esigenza e l’obbligatorietà di adeguarsi agli obiettivi prefissati in tema di Green Economy se vogliamo salvare il nostro pianeta e tutto ciò che di esso amiamo. Bisogna, infatti, tenere sempre presente che “colui che rispetta l’ambiente salva la Terra e non la padroneggia né l’assoggetta”6. FONTI UTILIZZATE: - direttiva UE 2009/28 - d.lgs 3 marzo 2011 n°28 - Decreto Ministeriale 6 Luglio 2012 http://www.sviluppoeconomico.gov. it/images/stories/normativa/DM_TERMICO_2012.pdf - Il Sole 24 Ore: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/avvocatoAffari/ mercatiImpresa/2012/11/fonti-rinnovabili-le-prospettive-in-italia-allestero-e-il-contenzioso.html - http://www.ambientequotidiano.it/2012/12/27/gse-contatore-costoincentivi-rinnovabili/ - http://www.greenme.it/informarsi/green-economy/9283-quinto-conto-energia-gse-incentivi - http://www.greenme.it/informarsi/green-economy/9666-quinto-conto-energia-contatore-gse-calo
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M. Heidegger
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ECONOMIA
l’alligatore 30
La crisi e lo spread: cos’è e perchè non è un “imbroglio” Erik Brouwer Negli ultimi mesi l’attenzione dei mezzi d’informazione italiani ed europei si è focalizzata su un indice che, fino a qualche anno fa, pochi tra i non addetti ai lavori conoscevano: lo spread. Ma che cosa indica questo termine e perché è così importante per la nostra economia? Partendo dall’origine del termine, sappiamo che “spread”, in inglese, significa scarto, differenza. In economia, tale parola viene utilizzata per indicare la differenza tra il rendimento di due titoli. In particolare, lo spread di cui sentiamo parlare ogni giorno è la differenza tra il tasso di interesse offerto dai Btp (Buoni del tesoro poliennali) e dai Bund (Buoni del tesoro tedeschi), entrambi con scadenza a 10 anni. Tali buoni sono obbligazioni che gli Stati emettono per finanziare eventuali disavanzi di bilancio e che possono venire sottoscritti da diversi soggetti, tra cui famiglie, banche, fondi pensione e assicurazioni. Per “disavanzo” si intende la parte delle uscite del bilancio dello Stato che non è coperta dalle entrate. Per attrarre gli investitori a “prestare” soldi allo Stato, questo offre loro un interesse sulla somma investita. Tale tasso d’interesse è il rendimento che il buono garantisce al possessore e varia a seconda di vari fattori, tra cui la scadenza dell’obbligazione. La differenza tra il rendimento di un Btp italiano a 10 anni ed un Bund tedesco ci dà l’ampiezza dello spread, che è misurato generalmente in punti base. Un punto base è uguale a 0,01%. Ad esempio, se un Btp offre ai propri sottoscrittori un interesse pari a 4,5%, mentre un Bund ne offre uno pari a 2%, per calcolare lo spread, cioè la differenza, ci basterà sottrarre il rendimento del Bund a quello del Btp, per ottenere così 2,5%, pari a 250 punti base. Tale differenza è dovuta al fatto che uno Stato può essere ritenuto più affidabile di un altro, relativamente alla propria capacità di ripagare il proprio debito. Minore è il rischio di insolvenza, minore sarà il tasso di rendimento che tale Stato dovrà offrire per attrarre gli investitori. La Germania è considerata il paese più affidabile all’interno dell’area dell’euro, per questo si fa il paragone con i suoi Bund. Tale giudizio è dato da vari fattori, interni ed esterni. Tra quelli interni, di cui parleremo meglio più avanti, sono senz’altro rilevanti le decisioni di politica economica del governo, nonché, nel nostro caso, della politica europea e della Banca Centrale Eu-
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ropea (BCE). Tra i fattori esterni, invece, svolgono un importante ruolo le agenzie di rating, quali Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. (in merito suggerisco di andare a leggere l’articolo ad esse dedicato sull’Alligatore anno 3, numero 2). Tali agenzie si occupano di attribuire agli emittenti di titoli che vengono scambiati sui mercati un voto, che corrisponde al grado di affidabilità dell’investimento. Come detto prima, meno è affidabile il soggetto emittente, più chi chiede soldi dovrà pagare un interesse alto per attrarre gli investitori. Recentemente hanno avuto grande rilevanza i rating dati agli Stati per la loro capacità di ripagare i debiti (c.d. debiti sovrani) e questo ha influenzato l’agire degli operatori finanziari: se una delle più importanti agenzie incomincia a dubitare che l’Italia sia effettivamente in grado di ripagare il proprio debito, allora gli investitori incominceranno a vendere titoli di Stato italiani che hanno in portafoglio, causando una diminuzione significativa del prezzo ed un aumento nei tassi d’interesse. Prezzo e tasso d’interesse di un titolo, difatti, sono legati in maniera inversamente proporzionale. Con lo svilupparsi della crisi dei debiti sovrani europei, molti paesi dell’area dell’euro si sono visti ridurre il loro rating, anche di diverse posizioni. Ad esempio, la Spagna è passata, nel rating di S&P, in due anni da AA+ a BBB-. Questo a causa del suo cospicuo debito pubblico, dello scoppio della bolla immobiliare spagnola e della difficoltà a contrastare la crisi economica, causando un’innalzamento del costo del proprio debito. Ma perché si è cominciato a parlare così frequentemente di spread su tutti i media solo a partire dagli ultimi tre anni? Semplice, perché prima non era un problema rilevante. Se guardiamo i dati [fonte: Datastream], prima del 2008 lo spread era attorno ai 20 punti base, valore che non suscitava particolari preoccupazioni. Poi, all’inizio dello stesso anno, con l’inizio della crisi, subì un lieve aumento verso i 35 punti base, per poi salire, all’inizio del 2010, poco sotto i 100. Da lì in poi la situazione si è aggravata, raggiungendo un picco di 575 punti il 9 novembre 2011, giorno in cui Berlusconi si dimette dalla carica di Presidente del Consiglio, per lasciare il posto a Mario Monti. A partire dal 2010 lo spread ha seguito un andamento molto volatile, influenzato dalle vicende politiche, dalle riforme approvate e dalle dichiarazioni della BCE. Ma c’è chi se la passa peggio di noi: il Portogallo paga per i suoi titoli di stato a 10 anni quasi il 7% in più rispetto ai titoli tedeschi e lo spread dei titoli greci, dopo aver toccato un picco intorno ai 3000 punti base nel mar-
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zo 2012, ora si attesta intorno ai 10001. Avere uno spread basso, e quindi pagare bassi interessi sui nostri titoli di Stato, è, malgrado quanto detto da alcuni, molto importante ed influenza la vita di tutto il paese. Vediamo perché. Il primo e più immediato impatto si ha sulle finanze pubbliche. Se uno Stato è costretto a pagare un tasso di interesse elevato sui titoli che ha emesso, vuol dire che buona parte delle tasse dei cittadini sarà destinata a questo scopo, e risorse verranno sottratte ai servizi di pubblica utilità, come sanità ed istruzione. Per evitare questo, in passato si è ricorso a diverse soluzioni, tra cui, in primo luogo, l’emissione di nuovi titoli. Ciò, però, ha dato vita ad un circolo vizioso, conducendo ad un drastico aumento del debito pubblico (quello italiano si attesta intorno ai di 2.000 miliardi di euro)2. In altri casi abbiamo assistito all’aumento dei prelievi fiscali, ma ciò rischia di deprimere l’economia, soprattutto in un periodo di recessione come quello che stiamo vivendo. Uno spread basso sarebbe un sollievo per le finanze pubbliche del Paese. Uno studio della Banca d’Italia del 2011 afferma che se lo spread scendesse di 100 punti base nel giro di tre anni, si avrebbe un risparmio stimato di circa 9,3 miliardi di euro, cioè più del doppio delle entrate per l’IMU 2012 sulla prima casa3. La seconda questione riguarda invece le banche. A causa della crisi del 2008, la quale, ricordiamo, fu causata in parte da un’eccessiva disponibilità a concedere prestiti anche a chi non avrebbe mai potuto ripagarli, oggi le banche sono meno propense a concedere mutui o finanziamenti a famiglie o imprese, per timore che il loro credito non venga ripagato, data la grave situazione economica. Questo comportamento, però, innesca un ulteriore circolo vizioso: le banche non concedono prestiti, ma, proprio per questo motivo, le aziende non riescono a fare investimenti che aiuterebbero ad uscire dal momento di crisi. Ma cosa c’entra lo spread? Le banche italiane sono importanti creditrici nei confronti dello Stato: nel 2011 si è stimato che avessero in bilancio più del 10% dei titoli di stato in circolazione (percentuale che saliva a più del 30% se si consideravano anche le banche dell’eurozona). In questo periodo continuano ad acquistare buoni del tesoro, dato che garantiscono un buon rendimento e sono ritenuti comunque più affidabili di imprese e famiglie. In questo modo, l’unico incentivo per le banche a concedere liquidità a questi due soggetti diventa applicare un tasso più elevato di quello che viene loro garantito dai titoli di Stato, con l’aggiunta della richiesta di forti garanzie. Di conseguenza, i pochi che 1 www.countryeconomy.com 2 Il Sole 24 Ore 3 Banca d’Italia (e Sole24Ore)
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riescono ad ottenere un prestito, devono pagare tassi di interesse molto alti su di esso. Si capisce dunque la forte difficoltà in cui si trovano ora le aziende italiane, le quali sono costrette a far fronte ad un aumento dei prelievi fiscali, una contrazione del mercato ed un costo più alto, rispetto ai loro competitor tedeschi o francesi, nell’ottenere finanziamenti. Inoltre, anche se le aziende volessero ottenere finanziamenti senza passare per le banche, ma attraverso l’emissione di obbligazioni proprie, dovrebbero comunque offrire agli investitori un tasso d’interesse abbastanza alto da convincerli ad investire nell’impresa piuttosto che in titoli di Stato. Un ultimo elemento, legato alla volatilità dello spread e, quindi, dei tassi di interesse, riguarda gli investitori, intendendo con tale categoria non solo gli investitori professionisti, ma anche i piccoli risparmiatori. Conviene oggi investire i propri risparmi nei titoli di Stato? Se tenuti in portafoglio fino a scadenza probabilmente sì, dato che, in media, i nostri titoli garantiscono un rendimento soddisfacente. Le cose cambiano, però, se deteniamo i nostri titoli per un periodo più breve della scadenza. Ad esempio, se oggi compro un Btp che rende il 4,5% e tra nove mesi lo rivendo sul mercato secondario, se il tasso di interesse sarà aumentato a 5,5%, lo rivenderò ad un prezzo inferiore a quello a cui l’ho comprato. In tale modo riduco il mio capitale di risparmio o, nella migliore delle ipotesi, non guadagno e ho comunque immobilizzato il mio capitale per nove mesi senza ricavarne alcunché. Ovviamente può capitare anche l’inverso e, in tal caso, esiste la possibilità di un guadagno, ma abbiamo comunque una componente di rischio non indifferente.
Completiamo, infine, la nostra analisi sottolineando quali misure siano state attuate per contrastare il fenomeno dell’innalzamento dello spread. Abbiamo detto che questo dipende molto dal rating attribuito allo Stato considerato. Se tale rating dovesse diminuire sensibilmente, potrebbe incombere sugli Stati (e lo abbiamo visto bene per la Grecia) l’incubo del default, cioè l’impossibilità di ripagare il debito detenuto dagli investitori. Lo Stato, infatti, di solito rifinanzia i titoli in scadenza con l’emissione di nuovi titoli; se diminuisce la fiducia nella capacità dello Stato di essere solvente, nessun investitore sottoscriverà più questi titoli, causando i problemi elencati in precedenza. Facendo un’ipotesi chiarificatrice dell’entità del problema, se domani scadessero tutti i Btp in circolazione e nessuno ne sottoscrivesse di nuovi, lo Stato dovrebbe pagare ai detentori di questi titoli intorno ai 1.000 miliardi di euro, pari a più della metà del PIL. Per questo, negli ultimi anni, Stati come Italia, Spagna e Irlanda hanno attuato
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numerose riforme per risanare i conti pubblici, non essendo più possibile continuare ad avere forti deficit di bilancio, o svalutare la moneta, come troppo spesso è stato fatto dal dopoguerra ad oggi. La politica di rigore che questi Stati hanno deciso di seguire ha comportato inevitabilmente un aumento delle tasse e tagli alla spesa pubblica, al fine di raggiungere un pareggio (o, addirittura, avanzo) di bilancio che, nel lungo periodo, permetta di diminuire l’ingente debito pubblico accumulato e riguadagnare la fiducia degli investitori. Inoltre, guardando all’Italia, degno di attenzione è stato il road show che ha visto impegnato Monti nel 2012 presso molti paesi (tra cui Cina, USA, Qatar e Corea) per convincere gli investitori ad investire in Italia e sui suoi titoli. Tale strategia è stata attuata per arginare le numerose vendite di titoli italiani sui mercati secondari verso la fine del 2011, che avevano contribuito ad aumentare lo spread. Infine, l’aiuto forse più importante per combattere il divario tra i nostri titoli e quelli tedeschi, è arrivato dall’Europa. In primo luogo, la BCE si è impegnata ad acquistare i titoli di Stato dei paesi in difficoltà, in modo da stabilizzarne il mercato. In secondo luogo, il Consiglio europeo ha varato nel 2012 l’European stability mechanism (ESM), un istituto finanziario che fa capo alla Commissione europea e che si occupa di assistere i paesi in difficoltà tramite l’erogazione di prestiti o l’acquisto di titoli di Stato degli stessi. Tali scelte a livello europeo hanno dimostrato la volontà (o necessità) da parte dei paesi dell’Unione di non permettere che alcun paese dell’area dell’euro rischi di doverne uscire. Ciò ha tranquillizzato i mercati e influenzato molto l’andamento dello spread, tanto che si è parlato di manovre o “scudo” anti-spread. Al momento (febbraio 2013) il differenziale btp-bund è ancora a livelli preoccupanti e l’attuale clima di incertezza politica non aiuta, così come il fatto che le riforme improntate sul rigore, nonostante abbiano contribuito a contenere i bilanci degli Stati, abbiano appesantito la situazione di crisi che grava sull’economia reale europea. Il ruolo del prossimo governo e dell’Europa sarà quello di proseguire nel tentativo di arginare lo spread e di condurre l’Unione fuori dalla crisi che sta vivendo. Ovviamente, ognuno ha la propria ricetta.
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DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA SOCIALE
l’alligatore 37
Uno spettro si aggira per l’italia: lo spettro dell’articolo 18 Martina Zini
Sin dai primi giorni dell’insediamento del Governo tecnico è stata manifestata con fermezza la volontà di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori,perché causa di varie problematiche: in Italia non arrivano investimenti esteri perché c’è la tutela reale, i giovani per lo stesso motivo non sono assunti con contratti a tempo indeterminato … E così è stato. La riforma del lavoro Fornero, contenuta nella legge 92/2012, entra in vigore il 18 luglio. La legge 92/2012 non incide sul sistema di fondo dei licenziamenti individuali, ma fa venir meno l’unicità della tutela reintegratoria o reale contenuta nell’art 18 della legge 300/1970 o Statuto dei lavoratori. Certo non cambia il principio di giutificatezza del licenziamento, e non potrebbe essere altrimenti perché la Corte Costituzionale lo ha incluso tra i principi fondamentali dell’ordinamento italiano1; non cambiano i vincoli temporali e formali; né si modifica l’ambito di applicazione dell’articolo 18 e di conseguenza l’area di applicazione della tutela obbligatoria e del licenziamento ad nutum. Quello che cambia è la tutela reale: all’unitaria tutela reintegratoria si sostituiscono una pluralità di tutele eterogenee ( reintegratorie alcune, risarcitorie altre) che sono ricollegate a differenti presupposti applicativi. Le tutele introdotte dalla riforma sono quattro e la dottrina le ha così denominate: tutela reintegratoria piena e tutela reintegratoria attenuata, tutela risarcitoria forte e tutela risarcitoria dimidiata2. La tutela reintegratoria piena coincide con la tutela reale ante riforma e comporta non solo l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore ma anche quello di corrispondergli un’indennità pari alle mensilità che il lavoratore avrebbe percepito dal momento del licenziamento fino alla reintegrazione effettiva; in ogni caso tale indennità non può essere minore di cinque mensilità retributive e il datore è anche obbligato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. È facoltà del lavoratore 1 Corte Cost. 46/2000 2 “Il rapporto di lavoro al tempo della crisi” M .T. Carinci
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comunque chiedere che la reintegrazione sia sostituita con un’indennità pari a quindici mensilità. La tutela reintegratoria attenuata comporta si differenzia dalla prima sotto il profilo del risarcimento del danno: al posto del limite minimo è previsto un limite massimo di dodici mensilità; inoltre l’indennità risarcitoria deve esser decurtata di quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di un altro lavoro ed anche di quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione. Le tutele indennitarie invece non comportano la reintegrazione: il rapporto si risolve e il datore è condannato soltanto a pagare un’indennità onnicomprensiva che va nel caso della tutela risarcitoria forte dalle dodici alle ventiquattro mensilità e nel caso della tutela risarcitoria dimidiata dalle sei alle dodici; il datore è esonerato dal pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali perché la legge stabilisce che il giudice accerta la risoluzione del rapporto dalla data del licenziamento. È chiaro che la riforma nel complesso –ponendo tetti al risarcimento- ha reso meno oneroso il costo economico del licenziamento illegittimo per il datore di lavoro. La questione dei presupposti applicativi delle diverse tutele è la più spinosa. La tutela rientegratoria piena si applica sempre ( cioè a prescindere dai livelli occupazionali dell’azienda) al licenziamento in forma orale, al licenziamento irrogato durante i periodi di astensione a tutela della maternità e paternità e soprattutto al licenziamento discriminatorio o determinato da motivo illecito ex art. 1345 c.c. L’ampiezza applicativa della tutela dipende dal significato che s’intende attribuire alla discriminazione: si considera tale qualsiasi trattamento irragionevolmente differenziato o soltanto quello che ricada in una delle ipotesi tassativamente determinate dalla legge? La dottrina più garantista propende per la prima interpretazione e sostiene che quando il licenziamento non è giustificato,cioè non è sorretto dalle cause ammesse dalla legge e cioè giusta causa ex art. 2119 c.c. o giustificato motivo ex art. 3 della legge 604/1966, è per forza discriminatorio in quanto è inevitabile il collegamento a scelte, caratteristiche personali del lavoratore che non hanno nulla a che vedere con la sua prestazione lavorativa. Ma c’è anche chi abbraccia l’interpretazione più restrittiva ed indirettamente va a delineare una figura di licenziamento ingiustificato, cioè privo di una causa conforme all’ordinamento, ma comunque lecito. Ma quale
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ragione potrebbe mai ricorrere se non legata alla persona del lavoratore e dunque discriminatoria? Sul punto per il momento non ci sono sentenze. È pacifico invece che davanti a violazione dei requisiti di forma e procedura del licenziamento il giudice dovrà applicare la tutela indennitaria dimidiata. Al di fuori del licenziamento discriminatorio e delle violazioni procedurali e formali si collocano le altre due “tutele minori”: la tutela reintegratoria attenuata e la tutela risarcitoria forte. Il quarto comma del nuovo testo dell’articolo 18 stabilisce che “il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, perché il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle tipizzazioni di giustificato motivo soggettivo e di giusta causa previste dai contratti collettivi applicabili” applichi la tutela reintegratoria attenuata. Al di fuori di questi casi, in via sussidiaria il giudice deve applicare la tutela indennitaria forte. L’ago della bilancia cade ora a favore della tutela reintegratoria attenuata ora della indennitaria forte a seconda del significato che si dà di “insussistenza” del “fatto contestato” e dunque di “fatto contestato”, che la legge non specifica. A prima vista non dovrebbero esserci dubbi: il “fatto” non può che essere un “fatto giuridico”3 , cioè un evento qualificato da norme e che perciò assume rilevanza per l’ordinamento. E cosa potrebbe mai essere tale “fatto giuridico” se non quel inadempimento che giustifica il licenziamento? “L’insussistenza” del fatto coinciderebbe dunque con l’inesistenza di un inadempimento gravissimo o notevole, a seconda che la ragione del licenziamento, addotta dal datore di lavoro, sia rispettivamente la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo; e quindi con l’esistenza di un inadempimento meno che notevole, che nel nostro ordinamento non giustifica una sanzione risolutoria del rapporto ma la massimo sono una sanzione conservativa. Eppure c’è chi sostiene che il” fatto contestato” è un mero “fatto materiale”4, un qualsiasi accadimento, e ricollega “l’insussistenza” 3 “Il licenziamento non sorretto da giusta causa e giustificato motivo soggettivo: i presupposti applicativi delle tutele previste dall’art. 18 St.lav. alla luce dei vincoli imposti dal sistema.” M. T. Carinci “La riforma dei licenziamento individuale tra diritto ed economia” V. Speziale 4“Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all’art. 18 Statuto dei Lavoratori” A. Maresca
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al caso di totale inesistenza nel mondo fenomenologico del comportamento attribuito dal datore al lavoratore e posto alla base del licenziamento; quindi solo il licenziamento assolutamente pretestuoso meriterebbe l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata. Ma è ragionevole che l’ordinamento giuridico dia rilevanza a meri “fatti materiali” ? E se il “fatto materiale” fosse discriminatorio? Come si tutelerebbe il lavoratore? Sul punto c’è un’ ordinanza del Tribunale di Bologna5 che condivide la nozione di “fatto giuridico”; si legge infatti che una nozione di fatto puramente materiale “sarebbe palesemente in violazione dei principi generali dell’ordinamento civilistico relativi alla diligenza ed alla buona fede nella esecuzione del rapporto lavorativo, posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico o addirittura privi dell’elemento della coscienza e volontà dell’azione”. Recentemente il Tribunale di Milano6 ha confermato l’orientamento dei giudici bolognesi. Attualmente dunque la giurisprudenza sembra orientata verso la nozione di “fatto giuridico”, ma non si può escludere che altre pronunce seguano un diverso orientamento. Per quanto riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la legge stabilisce che si applica ora la tutela reintegratoria attenuata se il fatto contestato è manifestamente insussistente, ora la tutela indennitaria forte se il fatto è semplicemente insussistente. Chi sostiene che il fatto contestato è un “fatto giuridico”, non distingue tra “insussistenza semplice” e manifesta” del fatto, perchè un fatto giuridico o esiste o non esiste: è impossibile ipotizzare diverse graduazioni dell’insussistenza di un fatto giuridico. Invece chi appoggia la nozione di fatto meramente materiale, sostiene anche la distinzione tra “manifesta” e “semplice insussistenza” del fatto contestato: il fatto che è manifestamente insussistente è un fatto che è assolutamente inesistente nel fondo fenomenologico, che non è mai accaduto; mentre il fatto semplicemente insussistente è un fatto che esiste, che si è verificato nella realtà, ma tale fatto non integra la causa legislativa di giustificato motivo oggettivo, cioè il fatto contestato dal datore al lavoratore 5 Ordinanza 2631/2012. Per una lettura integrale http://www.diritto24.ilsole24ore.com/ lavoro/news/2012/10/tribunale-di-bologna---sezione-lavoro---sentenza-15-ottobre2012-n-263-testo-integrale-della-sentenza.html 6 Ordinanza 2766/2013. Per una lettura integrale http://www.giuslavoristi.it/upload/aginazionale/Fornero/milano280113.pdf
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e posto alla base del licenziamento è un fatto che è accaduto,ma che non integra quelle “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa7”, che costituiscono giustificato motivo oggettivo. In ogni caso, qualsiasi intepretazione si abbracci, più o meno garantista, più o meno estensiva, più o meno fondata, è un dato di fatto che la tutela del lavorare nel rapporto di lavoro sia diminuita rispetto a quando la tutela reale era una ed una sola. Ma in cambio di cosa? La riforma Fornero dichiara di ispirarsi al modello della flexsecurity, elaborato dalla Commissione Europea sulla falsariga del sistema danese. Si caratterizza per una flessibilità nel rapporto di lavoro a fronte di una sicurezza nel mercato del lavoro, che viene realizzata da un sistema pubblico che assiste il lavoratore dopo la cessazione del rapporto; c’è dunque uno spostamento delle tutele del lavoratore dal rapporto al mercato del lavoro. La sicurezza come contropartita della flessibilità. In Danimarca infatti il basso costo del licenziamento giustificato è controbilanciato da un intenso sistema pubblico di ricollocamento e da un forte sostegno economico del lavoratore disoccupato, che in genere ha una durata di due anni. È indubbio che la riforma italiana realizzi la flessibilità in uscita, ma si può dire lo stesso per il profilo della sicurezza? Cero la legge 92/2012 introduce Assicurazione sociale per l’Impiego (ASpI), che va a sostituire l’indennità di mobilità (entro il 2017) e l’indennità di disoccupazione (dal 1 gennaio 2013 ma in modo graduale entro il 2016);certo ha il pregio di porre le basi per un sistema di ammortizzatori sociali uniforme. Ma non è nemmeno lontanamente paragonabile alle forme di sostegno del reddito danesi. Inoltre il nostro sistema di ricollocamento, se ha fatto passi in avanti con la riforma Treu, ha ancora molta strada da fare per arrivare all’outplacement alla danese. Lo stesso Ichino, sostenitore della riforma Fornero, vede nel ricollocamento l’essenza della flexsecurity, ma il punto dalla riforma non viene trattato. Nell’ottica della flexsecurity8 allora il bilancio non può che essere negativo: la riforma sotto il profilo del welfare gioca al ribasso. È una flexsecurity monca: la flessibilità è certa e immediata ma la sicurezza è incerta e procrastinata. Un modello tutto all’italiana: flessibilità senza sicurezza. 7 Articolo 3 Legge 604/1966 8 www.pietroichino.it/?p=4563
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Nessuna contropartita. L’ alternativa di una flessibilità alla tedesca, incentrata sulla massima elasticità degli orari di lavoro, non è stata presa in considerazione. E nemmeno l’ipotesi di incidere su altri profili, forse più problematici dell’ art 18. Perchè? Non c’era nient’altro che meritasse l’attenzione di una riforma? Pane per i denti di una riforma ce n’era eccome, ad esempio le problematiche del licenziamento per scarso rendimento e dei tempi del processo del lavoro. E lavorare su questi profili avrebbe dato i suoi frutti. Il licenziamento per scarso rendimento9 oggi è per lo più inutilizzato, date le problematiche che comporta: da un lato la giurisprudenza chiede al datore una prova molto rigida dello scarso rendimento dall’altro il concetto è incerto. Cosa s’intende in concreto per scarso rendimento? Qual è il livello di rendimento dell’ordinaria prestazione? E ancora qual è il rendimento ordinario di una lavoratrice incinta o di un lavoratore affetto da certe patologie? La legge non lo dice. Il risultato è che il datore di lavoro rinuncia a licenziare per giustificato motivo soggettivo il lavoratore che ha un rendimento scarso e prova a disfarsene alla prima occasione per motivi economici, che nulla hanno a che vedere con la prestazione lavorativa. E inevitabilmente ciò impatta sull’ atteggiamento rigoroso della giurisprudenza quando vaglia l’esistenza del giustificato motivo oggettivo . Un intervento del legislatore sulla legge 604 del 1966 sarebbe stato ( e lo è tutt’ora) più che ragionevole perché avrebbe favorito l’uso equilibrato degli istituti predisposti dal sistema per sciogliere il rapporto di lavoro, eliminando quegli atteggiamenti patologici; e poi in via di principio se è giusto che il potere di licenziamento non sia libero da qualsiasi vincolo, così è sensato che il datore di lavoro abbia la possibilità di licenziare il lavoratore improduttivo, che non lavora come dovrebbe, al pari degli altri. Anche sulla durata del processo del lavoro si poteva intervenire. E’ vero che i tempi non sono così lunghi come quelli dei processi civili, ma nella prassi non si è realizzato il modello ad udienza unica previsto dalla legge 300/1973, secondo il quale la trattazione e l’istruzione della causa sarebbero dovute avvenire in una sola udienza senza rinvii. La prassi tende invece a spezzare la fase della trattazione e quella dell’istruzione, a frammentare in varie udienze le attività istruttorie. 9 Il licenziamento per scarso rendimento è una specificazione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo di origine giurisprudenziale. Il licenziamento per scarso rendimento presuppone una violazione dell’obbligo di diligenza nello svolgimento della prestazione lavorativa, e quindi un inadempimento notevole degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore.
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E di conseguenza i tempi si allungano. Ristabilire il modello ad udienza unica, oltre che esser in linea con i principi costituzionali del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale, avrebbe comportato una diminuzione del costo del licenziamento,tema tanto caro alla riforma Fornero; ed anzi lo avrebbe fatto, senza incidere sul diritto del lavoratore, in maniera più incisiva perché è la durata del processo quella che davvero determina il costo del licenziamento e non la misura del risarcimento, su cui si è fondata la riforma, introducendo dei tetti massimi all’indennità risarcitoria. Dunque si poteva partire dai problemi veri, rimanendo fedeli al sistema di fondo in modo da non creare squilibri. L’alternativa alla flessibilità c’era( e c’è ) ma non è stata presa in considerazione. Si è partiti dall’ idea che l’articolo 18 fosse il peggiore dei mali e la sua modifica la soluzione a tutti i problemi. Nelle intenzioni del legislatore la riforma dell’articolo 18 avrebbe addirittura portato ad una diminuzione della disoccupazione e ad un aumento delle assunzioni a tempo indeterminato dei giovani. Uno strumento giuridico che risolve problematiche di politica economica: fantastico! Peccato che le previsioni si siano rivelate fantascienza, infatti dall’ ultimo rapporto pubblicato dall’ Istat il 1° febbraio10 si apprende che la disoccupazione, anche giovanile è in continua crescita. Il tasso di disoccupazione rispetto ad agosto aumenta di 0,4 punti arrivando all’ 11,1% ; il tasso della disoccupazione giovanile aumenta rispetto ad ottobre di ben 0,7 punti e raggiunge il picco del 37,1%, il più alto dal 1992. Inoltre secondo quanto emerge da uno studio di Unioncamere e del Ministero del Lavoro11 nel primo trimestre del 2013 rimangono favoriti a discapito del contratto a tempo indeterminato i contratti flessibili, primo tra tutti il contratto a termine; ed ancora risulta in calo la domanda di giovani da parte delle imprese. Forse che la tutela reale non fosse il problema? Ma a questo punto, se la riforma dell’ articolo 18 si basa sul binomio “flex - security” e la sicurezza non è stata realizzata-e forse poteva giustificarsi come mezzo di politica economica, ma anche quì ha fallito- cosa rimane di questa, al di là diminuzione della tutela del lavoratore? Svuotata della parvenza della flexsecurity e delle buone intenzioni, la riforma è soltanto svilimento del diritto del lavoratore. 10 www.istat.it/it/archivio/disoccupati 11 excelsior.unioncamere.net/
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FONTI UTILIZZATE:
- “ Il rapporto di lavoro al tempo della crisi” M. T. Carinci - ” Il licenziamento non sorretto da giusta causa e giustificato motivo soggettivo: i presupposti applicativi delle tutele previste dall’art. 18 St.lav. alla luce dei vincoli imposti dal sistema.” M. T. Carinci - “Per un ragionevole, e apparentemente paradossale, compromesso sull’articolo 18: riformarlo senza cambiarlo” B. Caruso - “Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all’art. 18 Statuto dei Lavoratori” A. Maresca - “La riforma dei licenziamento individuale tra diritto ed economia” V. Speziale http://www.pietroichino.it/
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La stretta sulle partite IVA Laura Piccoli
Con la Riforma Fornero (Legge 92/2012) il legislatore si fa portatore di un’ammirevole battaglia: smascherare le cosiddette false partite IVA, ovvero il ricorso illegittimo del contratto di prestazione d’opera volto a nascondere forme di lavoro subordinato. Sacrosanto proponimento, che sembrerebbe andare nella direzione della crescita economica e sociale del Paese. Il regime della partita IVA è quello comunemente utilizzato da liberi professionisti e lavoratori autonomi che svolgono le proprie prestazioni in maniera indipendente nei confronti di più clienti; molto spesso tuttavia le imprese utilizzano tale regime fiscale al fine di nascondere un rapporto di lavoro subordinato, con conseguenti vantaggi sul piano fiscale e contributivo, e la possibilità, data dall’assenza di rigidi vincoli, di interrompere la collaborazione in qualsiasi momento. A questo punto non ci resta che comprendere se le novità introdotte con la riforma siano effettivamente in grado di scongiurare tali abusi, statisticamente molto diffusi, o se di fatto precludano l’accesso a forme occupazionali flessibili di lavoro autonomo. La Riforma interviene modificando la legge Biagi (D.lgs. n. 276/2003) introducendo l’art. 69 bis a mente del quale i contratti sottoscritti con soggetti titolari di partita IVA si presumono, salva la prova contraria a carico del committente, collaborazioni coordinate e continuative, al ricorrere di almeno due delle seguenti condizioni: 1) la collaborazione abbia una durata superiore ad 8 mesi nell’arco dell’anno solare; 2) il corrispettivo derivante da tale collaborazione costituisca più dell’80% dei corrispettivi percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare; 3) il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso gli
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uffici del committente. Una prima considerazione si pone con riferimento alla presunzione relativa alla natura coordinata e continuativa della prestazione. Non sotto-
valutabile è, infatti, il rischio che tale previsione porta con sè: l’etichetta di lavoro subordinato, affibbiata a fattispecie che di fatto presentano tutti i connotati propri del lavoro autonomo. Ciò accade dal momento che, una volta intervenuta la presunzione di cui all’art 69 bis, il rapporto, non più qualificabile come prestazione d’opera ex art 2222 c.c., si converte in collaborazione coordinata e continuativa, che a sua volta, in virtù di un ulteriore meccanismo altrettanto automatico che fa leva sull’assenza dei requisiti di legge fissati in materia di lavoro a progetto (ovvero nel caso in cui non vi sia uno specifico progetto che il collaboratore dovrebbe realizzare), verrà considerato ex lege quale rapporto di lavoro subordinato. Un circolo vizioso, imperniato su una normativa alquanto macchinosa, che chiaramente non tiene conto della lieve distanza intercorrente tra la prestazione d’opera e la collaborazione coordinata e continuativa. Si tratta, infatti, di una distinzione che appare chiara sul piano tecnico – giuridico ma non altrettanto sul piano pratico. Dunque può accadere che, una fattispecie genuinamente di lavoro autonomo, possa trasformarsi in subordinazione anche solo quando il committente abbia erroneamente (e non necessariamente con dolo) catalogato il rapporto come prestazione d’opera e non come collaborazione coordinata e continuativa, omettendo quindi la predisposizione del progetto al momento della stipulazione del contratto. Conseguenza negativa che può verificarsi, ma che costituisce il prezzo da sopportare, al fine di una fruttuosa e incisiva applicazione della norma. Il legislatore ha poi predisposto delle eccezioni al regime della presunzione. Più precisamente l’esposta presunzione non opera quando la prestazione dedotta nel contratto: • sia svolta da un soggetto titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a circa euro 18.500.
•
I professionisti che svolgono un’attività per il cui esercizio
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è richiesta l’iscrizione ad un ordine professionale, nonché ad appositi registri, ruoli o elenchi professionali qualificati.
• Coloro che svolgano prestazioni connotate da “competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività”. Disposizione quest’ultima particolarmente vaga e generica. Tale indeterminatezza scaturisce dall’inesistenza di criteri di riferimento sui quali calibrare il livello di competenza pratico e teorico richiesto dalla norma. Ne consegue dunque un’ampia discrezionalità del giudice al momento dell’erogazione della prestazione. In altri termini ci si pone il problema di capire se e in che misura, un diploma o una laurea siano titoli sufficientemente rilevanti ai fini di escludere il meccanismo della presunzione. Questa previsione, dunque, non convince. In ragione di ciò, si può concludere che il legislatore ha individuato delle ipotesi immuni alla presunzione ex art. 69 bis che, sommate al potere riconosciuto al giudice di allargare discrezionalmente la già vasta gamma delle esclusioni, di fatto ha ridotto notevolmente la portata della norma in esame. Di riflesso però, l’applicazione di norme rigide e incomplete, nell’attuale contesto socio-economico del paese, rischierebbero di essere esse stesse controproducenti, andando ad incrementare, anziché smantellare, la cosiddetta cattiva flessibilità. Ciò vale a dire che, la soluzione per combattere il precariato, non va ricercata nella direzione di un eccessivo appesantimento dei vincoli giuridici, fiscali ed economici posti a carico del datore di lavoro, già smoderatamente oberato da pesi d’ogni sorta. Invero sulla base dei primi risultati registrati, l’applicazione della norma ha portato ad una notevole riduzione del fenomeno delle false partite IVA, benchè, conseguentemente, la forte crisi economica ha incentivato il ricorso al cosiddetto lavoro nero. Ma allora, i precari hanno perso per l’ennesima volta?
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La nuova riforma delle pensioni: art. 24 l.214/2011 Niccolò Scremin
Premessa: pensioni di anzianità e pensioni di vecchiaia
Al fine di comprendere l’attuale sistema previdenziale pensionistico è opportuno volgere lo sguardo indietro alle precedenti normative sul tema, ma soprattutto mettere dei punti fermi sulla stessa terminologia, chiarendo cosa si intende per pensioni di vecchiaia e di anzianità. Le pensioni di vecchiaia sono correlate al requisito del raggiungimento di una determinata età anagrafica, con queste, il legislatore intende erogare una prestazione, quindi una tutela, al momento del compimento di siffatto requisito. Si basano sul fatto che in concomitanza della senilità potrebbe insorgere uno stato di bisogno, dovuto all’incapacità di continuare a prestare l’attività lavorativa. Diversamente, le pensioni di anzianità trovano il loro fondamento nel riconoscimento della partecipazione del lavoratore al sistema; in questo caso è evidente che la finalità è diversa, non si presume uno stato di bisogno, ma viene premiato il periodo di tempo in cui il soggetto ha partecipato all’ attività lavorativa. È importante evidenziare che, nonostante il diverso principio alla base dei due sistemi, vi è un’ influenza reciproca che gli elementi che li caratterizzano esercitano l’ uno sull’ altro, infatti, nelle pensioni di vecchiaia, rimanendo pur fondamentale il requisito dell’età, risulta però essenziale la quantità di contributi versati dal soggetto, e nelle pensioni di anzianità, essendo rilevante il requisito contributivo, risulta però essenziale il requisito anagrafico, onde evitare il riconoscimento della prestazione ad un’età ancora giovane. Il legislatore si trova a dover riformare l’apparato pensionistico nel 1990 essendosi reso conto di versare in uno stato di impossibilità tale, da non poter più sostenere il vecchio sistema retributivo1. 1 Secondo tale sistema, la pensione è rapportata alla media delle retribuzioni (o redditi per i lavoratori autonomi) degli ultimi anni lavorativi
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Si susseguono quindi una serie di leggi2 che intervengono direttamente sull’età pensionabile, differendo nel tempo il requisito anagrafico delle pensioni di anzianità e inasprendo i requisiti per l’ accesso alle medesime. La l. 335/95 segna infatti un cambiamento dal punto di vista del sistema pensionistico stesso, tant’ è che dal 1° gennaio 1996 si passa dal sistema retributivo a quello contributivo3. Le nuove pensioni
Il 27 dicembre 2011 è stata pubblicata nel supplemento ordinario alla ‘‘Gazzetta Ufficiale’’ la legge n.214 del 22 dicembre 2011 al cui interno, l’ articolo 24 introduce nuove disposizioni circa i trattamenti pensionistici. La predetta normativa è stata emanata per garantire il rispetto degli impegni assunti a livello internazionale ed europeo, sui vincoli di bilancio, sulla stabilità economico-finanziaria e sul risanamento della grave situazione che affligge il nostro Paese. Gli obiettivi primari perseguiti dalla riforma sono: l’ innalzamento del requisito anagrafico al fine di rafforzare la sostenibilità nel lungo periodo del sistema pensionistico, con la conseguente riduzione dell’ incidenza delle spese previdenziali sul PIL e il raggiungimento nel 2018 dell’ assoluta parificazione del traguardo per il percepimento della tutela pensionistica a 66 anni sia per le donne che per gli uomini indipendentemente che la loro occupazione abbia riguardato il settore pubblico o privato. La nuova riforma sancisce che, ferma l’ applicazione della previgente disciplina a favore degli assicurati che abbiano maturato, ai termini di quella, i requisiti di età e di anzianità contributiva per acquisire il diritto al pensionamento entro il 31 dicembre 2011; dal 1° gennaio 2012 per i lavoratori e le lavoratrici iscritte all’ assicurazione generale obbligatoria (AGO)4 o sostitutive della medesima che , nei regimi misto e contributivo, maturano i requisiti a decorrere dalla medesima data, le pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata e di anzianità sono sostituite dalle seguenti prestazioni: pensione di vecchiaia e pensione anticipata. a. La pensione di vecchiaia L’ art. 24 dispone che, oltre che per onorare i noti impegni, la procrasti-
2 Decreto legislativo 503/92 “Amato”; “Legge Dini” 335/95; “Legge Maroni” 243/04; “Legge Damiano” 247/07. 3 Secondo tale sistema, la base di calcolo per la pensione è data dagli stessi contributi. 4 L’Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO), il principale istituto di assistenza sociale e previdenza, è gestito in Italia dall’Ente nazionale per la Previdenza Sociale (INPS).
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nazione per l’ accesso al trattamento pensionistico è disposta in ossequio alla variazione della speranza di vita (in melius). Ciò premesso, in attesa della suddetta universale parificazione dei requisiti per il percepimento della prestazione previdenziale (nel 2018), affinchè sia possibile accedere alla pensione di vecchiaia, il legislatore ha previsto che solo per i soggetti in possesso dell’ anzianità contributiva al 31 dicembre 1995, a decorrere dal 1° gennaio 2012 i requisiti anagrafici sono ridefiniti nei termini di seguito indicati: a. 62 anni per le lavoratrici dipendenti Tale requisito anagrafico e’ fissato a 63 anni e sei mesi a decorrere dal 1° gennaio 2014, a 65 anni a decorrere dal 1° gennaio 2016 e 66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2018.
b. 63 anni e 6 mesi per le lavoratrici autonome. Tale requisito anagrafico e’ fissato a 64 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2014, a 65 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2016 e a 66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2018. c. 66 anni per i pubblici dipendenti , senza distinzione di sesso.
d. 66 anni per i lavoratori di sesso maschile operanti nel settore privato sia autonomi che dipendenti.
Quindi, nel 2018 si raggiungerà l’ assoluta parificazione dell’ età pensionabile a 66 anni, fatto salvo il principio di un aumento del requisito anagrafico, che prevede l’ accrescimento di un periodo ulteriore di tre mesi dal gennaio 2013 destinato a moltiplicarsi in futuro, per l’ adeguamento dell’ età edittale all’ aumento della speranza di vita. La maggiorazione del requisito anagrafico non è destinata ad arginarsi, infatti, la disposizione legislativa stabilisce che, a partire dal 2021 la minima età che permette l’ accesso al trattamento pensionistico non può essere inferiore a 67 anni. L’ obiettivo dell’ ultimo legislatore è di spingere l’ età pensionabile fino al limite dei 70 anni, ciò e dimostrato dal fatto che, la norma in esame opera attraverso coefficienti di trasformazione5 che verranno calcolati fino 5 Coefficienti utilizzati nel metodo di calcolo contributivo per la trasformazione del montantecontributivo (contributi accreditati e rivalutati) in rendita; essi variano in base all’età anagrafica al pensionamento e sono costruiti tenendo conto della speranza di vita media alla pensione e incorporando il tasso di crescita del Pil di lungo periodo stimato nell’1,5%.
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all’ età di 70 anni (in luogo dei precedenti 65), e che i suddetti coefficienti dal 2019 verranno rideterminati a scadenza biennale, incentivando così il proseguimento dell’ attività lavorativa e il conseguente differimento della prestazione previdenziale .
La nuova legge richiede per il godimento della pensione - in concerto col raggiungimento dell’ età edittale – un’ anzianità contributiva minima di 20 anni; con l’ aggiunta di una condizione economica: che il montante contributivo risultante, non sia d’ importo inferiore a 1,5 volte rispetto a quello dell’ assegno sociale6 (con riserva di rivalutazione annuale). E’ importante ribadire, come già sopra anticipato, che la legge in esame, per incentivare il proseguimento dell’ attività lavorativa oltre la maturazione del requisito anagrafico, prevede che a decorrere dal 2019 la determinazione del coefficiente di trasformazione avvenga ogni due anni, differendo in tal modo il godimento della pensione stessa fino alla definizione del suddetto indice. b. La pensione anticipata
La nuova disciplina sul pensionamento in base all’ anzianità lavorativa denominata pensione anticipata, prevede che: coloro che abbiano maturato i requisiti per avvalersi della pensione dal 2012 in poi potranno ‘‘anticipare’’ (con determinati presupposti) la suddetta prestazione. L’ articolo 24 dispone in primis, una distinzione per coloro i quali risulta versato il primo accredito contributivo in data antecedente al 1° gennaio 1996, (che saranno destinatari di un sistema di calcolo misto per la determinazione dei contributi) e i lavoratori per i quali risulta il requisito sopraesposto in decorrenza da una data successiva al 31 dicembre 1995 ( che risulteranno fruitori del sistema di calcolo puro). Analizzando la situazione dei primi si evince che il consenso del legislatore per accedere alla pensione anticipata, ad un età inferiore di quella prevista per la pensione di vecchiaia è dato esclusivamente ai soggetti con anzianità contributiva di almeno 42 anni e un mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne ( ciò interessa solo i soggetti che abbiano maturato i requisiti nel 2012), aumentati di un ulteriore mese per l’ anno 2013 6 E’ una prestazione di carattere assistenziale che prescinde del tutto dal pagamento dei contributi e spetta ai cittadini che si trovino in disagiate condizioni economiche. L’assegno sociale è corrisposto ai cittadini italiani, residenti in Italia, che abbiano compiuto 65 anni.
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e di un ulteriore mese a decorrere dal 2014. Tuttavia, se i soggetti che possiedono i suddetti requisiti non hanno compiuto il 62° anno di età, l’ importo della prestazione previdenziale subisce una detrazione <<sulla quota di trattamento relativa alle anzianità contributive maturate antecedentemente il 1° gennaio 2012 pari a un punto percentuale per ogni anno di anticipo nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni; tale percentuale annua è elevata a due punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni>>.7 Trapela in maniera univoca il fine del legislatore volto al disincentivo della richiesta della pensione anticipata. I fruitori del sistema di calcolo contributivo puro avranno diritto alla pensione anticipata, a condizione che sia conseguito il requisito anagrafico di 63 anni e << a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell’ assicurato almeno 20 anni di contribuzione effettiva e che l’ ammontare mensile della prima rata di pensione risulti non inferiore ad un importo mensile, annualmente rivalutato(…),pari per l’anno 2012 a 2,8 volte l’importo mensile dell’assegno sociale >>.8 Per i lavoratori che svolgono i c.d. lavori usuranti sono previste per il percepimento della pensione anticipata, disposizioni che richiamano la previgente sintesi tra requisito anagrafico e anzianità lavorativa, mantenendo anche il regime delle <<finestre>>.9 E’ da evidenziare comunque, che, l’ incremento progressivo dell’ età edittale di pensionamento per codesta categoria non subisce variazioni.
Riflessioni sulla riforma
Ciò che fra i molteplici risvolti della disciplina vigente crea non poche perplessità è appunto la penalizzazione alla quale verranno sottoposti i c.d. lavoratori precoci, ossia coloro che hanno cominciato a lavorare appena compiuta la maggiore età, risulta evidente infatti che, l’ attuazione della norma stessa sia in assoluto rapporto di contraddizione con l’ intento stes7 art. 24 l.214/2011 8 art. 24 l214/2011 9 Data di decorrenza delle prestazioni, differita rispetto alla maturazione dei requisiti. Corrisponde, in sostanza, al tempo ulteriore di attesa prima di percepire realmente la pensione.
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so della creazione di una <<flessibilità>> professato da questa. Inoltre, si sollevano dubbi anche per la tutela di coloro che saranno destinatari del calcolo pensionistico secondo il criterio del sistema contributivo puro, che chiederanno il diritto di usufruire della pensione una volta versati i contributi per almeno 20 anni e abbiano compiuto il 63° anno di età; infatti costoro saranno vincolati dall’ importo della loro prima rata pensionistica, che dovrà essere necessariamente superiore di 2,8 volte rispetto all’ assegno sociale (premettendo che il valore del suddetto assegno è calcolato in 442,30 € per l’ anno 2012) ne risultano sconfitti i lavoratori con retribuzione modesta, in quanto il loro montante contributivo non soddisfa i requisiti imposti ex lege. Ultimo ma non meno importante punto, riguarda le categorie di lavoratori impegnati nei c.d. lavori usuranti, per i quali la norma prevede come sopra già accennato, la previsione dell’ incremento progressivo dell’ età edittale: sorge spontanea una domanda, non è stato già specificato dal legislatore in precedenti occasioni che, il prolungamento del periodo di servizio, sarebbe equivalso ad un aggravio della salute del suddetto lavoratore? Fonti utilizzate: -Maurizio Cinelli, Diritto della Previdenza Sociale, Giappichelli Editore, 2008 -Il Sole 24 Ore -La Riforma delle pensioni domande e risposte pubblicazione settimanale con Il Sole 24 Ore -Guida alle Pensioni Gruppo 24 Ore, Anno 2 n.1 -Rivista italiana di Diritto del lavoro, Giuffrè Editore
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RUBRICA
lâ&#x20AC;&#x2122;alligatore 57
Recensione di La Democrazia in Europa Giulia De Martini
Autori: Mario Monti e Sylvie Goulard Titolo: La Democrazia in Europa – Guardare lontano Editore: Rizzoli (Collana Saggi) Anno di pubblicazione: 2012 Prezzo: 18 euro Pagine: 234
Intervistati da Fazio prima di Natale, la coppia Monti – Goulard mi è sembrata immediatamente interessante. Lui: lo conosciamo bene, presidente dell’Università Bocconi ed è stato commissario europeo per il Mercato interno dal 1994 al 1999 e per la Concorrenza dal 1999 al 2004, nominato nel novembre 2011 senatore a vita e poi, storia nota, presidente del Consiglio dei ministri. Lei: è deputata europea e fa parte della commissione per gli Affari economici e monetari. Ha lavorato per il ministero degli Esteri francese e con Romano Prodi, ai tempi della sua presidenza della Commissione europea. Condividendo o meno le scelte e gli orientamenti politici del governo Monti, è innegabile che gli ultimi mesi abbiano portato a ragionare su un’Italia europea anche coloro che se ne erano astenuti, la “crisi” che ci ha colpiti ci ha spinti a porci alcune domande: Si tratta di una crisi dell’Unione Europea? O invece di una crisi degli Stati che la compongono, privati dell’autorità indispensabile all’azione? Oppure l’Europa e gli Stati membri sono in balia di fenomeni che vanno oltre la loro portata? Ai cittadini disquisizioni di questo tipo interessano poco: nei Paesi in difficoltà si deve affrontare la disoccupazione di massa, l’aumento delle diseguaglianze sociali e le difficoltà dei governi di fronte ai mercati finanziari. Partendo da considerazioni sulla situazione critica attuale, il libro prosegue con un’analisi delle strutture democratiche dell’Unione, che spesso “non si fanno sentire”. Si procede poi con osservazioni sulla democrazia “ad opera del popolo europeo” soffermandosi sui difetti delle democrazie nazionali che minano una vera democrazia europea, che tarda così a realizzarsi. Infine si ipotizza quali sarebbero i benefici di un nuovo spirito
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pubblico che deve ricevere un nuovo impulso e il perfezionamento dell’ordinamento politico.
Gli autori ci spiegano che, dal momento che l’Unione economica e monetaria poggia essenzialmente sugli Stati e dipende spesso dalla loro volontà di agire, la responsabilità delle difficoltà attuali non può essere attribuita unicamente all’Europa. Pur avendo la stessa moneta, i Paesi dell’Eurozona realizzano performances talmente contrastanti che ognuno di essi è tenuto ad assumersi la propria parte di responsabilità. La crisi che stiamo vivendo è così da considerarsi multiforme: una crisi della democrazia in Europa, che rivela una debolezza congiunta degli Stati e dell’Unione, una crisi che intacca la legittimità delle decisioni e delle autorità che le prendono, ma anche una crisi legata all’evoluzione della società di cui i nostri regimi politici si sono dimostrati incapaci di comprendere la portata. Uno dei problemi analizzati è proprio il fatto che gli Stati membri e l’Unione formano “un tutto” che solo di rado viene percepito come tale: gli autori ci fanno un esempio calzante, pensiamo a un condominio che si deteriora perché tra gli inquilini c’è qualcuno che ha trascurato la manutenzione del proprio appartamento e non ha avuto cura delle parti comuni. Ecco che uno snodo fondamentale per comprendere la crisi (e per uscirne) è analizzare la struttura democratica in Europa, e per farlo Monti e Goulard sono aiutati da una guida di eccezione: Alexis de Toqueville, che nel 1835 scrive La democrazia in America. La democrazia è per il francese “passione dell’uguaglianza”, l’evento che ha distrutto la feudalità, vinto i re di certo non si potrà fermare davanti ai “borghesi e ai ricchi”. E dunque improbabile che quest’onda secolare e tenace sia prossima a finire, ma che impatto ha sulla costruzione dell’unità europea? Così come Toqueville si è applicato a perpetrare le virtù della democrazia nella classe dirigente degli appena nati Stati Uniti, secondo gli autori, noi dovremmo anteporre la democrazia all’entità politica entro la quale quest’ultima si è finora sviluppata: lo Stato nazione. Tuttavia questa democrazia europea è tutt’altro che perfetta. Come scrive il politologo austriaco Pelinka, spesso i cittadini manifestano un’esigenza europea di perfezione: l’Europa viene percepita come un’entità che dovrebbe dare di più dei governi nazionali, ma che è bloccata nel suo eccessivo tecnicismo e nella lentezza dei suoi processi decisionali. Tuttavia gli autori ci spiegano che, nonostante l’apporto dei tecnici sia or-
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mai diventato una necessità, bisogna comunque continuare a distinguere il governo eletto democraticamente da quello dei tecnocrati. Altro fattore che ci potrebbe indurre a pensare all’Unione come poco democratica, è la singolarità delle sue istituzioni, che non rispettano la tradizionale divisione dei tre poteri che da Locke in poi costituisce elemento fondante del pensiero politico moderno. La preoccupazione principale dei padri fondatori era di tenere conto dell’interdipendenza, garantendo che, in ogni circostanza, l’interesse generale europeo prevalesse sull’interesse nazionale: da qui deriva la creazione della Commissione, organo unico nel suo genere. Il suo compito è quello di un attore neutro, con la facoltà di prendere iniziative e di vigilare sull’applicazione delle regole comuni, facendo in modo che tutti gli Stati, grandi o piccoli che siano, rispettino le stesse leggi e procedano in un fronte comune, con lealtà. “Tuttavia la classe politica nazionale non ama che si sottolinei, i media non ne parlano, ma l’onestà intellettuale impone di far presenti i benefici che l’Unione, malgrado le sue lacune e i suoi difetti, ci offre. In fondo l’Europa è ciò che ne facciamo noi: rispettata quando i governi europei la rispettano e la mettano in condizione di svolgere la sua missione, screditata se sono essi stessi a screditarla.” Gli autori ci fanno un esempio di eccellenza europea: l’antitrust, uno degli strumenti che l’Europa ha disposizione per far sentire la propria voce permettendo ai consumatori di ottenere vantaggi da una corretta politica di concorrenza, come avvenuto di recente nel settore telefonico. Monti e Goulard analizzano poi quelli che sono i vizi nascosti della democrazia nazionale che si scontrano inevitabilmente con un disegno più grande di democrazia europea: • la tirannia del breve termine: proprio così, la strategia a breve termine, contrapposta a politiche a lungo termine, diventa un tiranno che agisce non solo sul mondo politico, che è incalzato dalle scadenze elettorali, ma anche sul settore privato avido di profitto. Esempio classico è la riduzione dell’inflazione, utilizzata a lungo per ridurre il debito pubblico a scapito delle classi più svantaggiate. È chiaro che mettere nero su bianco un elenco di parametri severi per la riduzione del debito è facile, ma se a un tale impegno non si accompagnano politiche economiche volte a stimolare la crescita e a creare ricchezza per il futuro, è difficile che si arrivi a pareggiare il bilancio. • L’ascesa dell’individualismo e la sua “ruggine”: riprendendo un’immagine di Toqueville che scriveva dell’egoismo individuale come
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della ruggine della società, gli autori per spiegare la portata del crescente egoismo di “chi vuole tutto ma non è disposto a dare niente agli altri”, citano una teoria di Nathan Gardels, giornalista americano, che parla della America’s Diet Coke Culture per designare un gioco democratico nel quale “la gente anela a un consumismo senza risparmio e a un potere pubblico senza tasse, il che equivale a pretendere dolci senza zucchero”. • L’ambiguità della politica: mai vizio sembrerà più attuale a noi italiani usciti dalle elezioni. In altri Paesi europei sono diffusi i governi di grandi coalizioni che hanno lo scopo di rassicurare gli investitori e i partner europei. Per gli autori i costi dell’indecisione e le divisioni sterili esacerbano l’insofferenza dei cittadini in difficoltà: il confronto delle idee è il sigillo della democrazia e i cittadini sono sempre meno disposti a mantenere con i loro contributi una classe politica il cui valore aggiunto è tutto da dimostrare e che, a forza di lotte intestine, riduce il potenziale del Paese stesso quando invece dovrebbe operare al servizio del benessere collettivo. Non è compito dell’Europa mantenere l’ordine pubblico se i governi si rivelano troppo divisi, tocca invece ai regimi democratici dotarsi delle regole che garantiscano decisioni efficaci e imparziali nell’interesse del Paese.
Considerato quindi che sparare a zero su Bruxelles è da parte delle forze politiche un esercizio del tutto sterile e che di certo le democrazie nazionali non sono scevre da difetti, gli autori proseguono con una rassegnai di quelli che sono invece i difetti della democrazia europea. Vediamone alcuni. Considerando l’articolo 9 del Trattato, l’uguaglianza si afferma come un principio imperativo. Tuttavia molti sono i casi in cui in Europa non vengono condivi alla stesso modo da tutti i momenti democratici: abbiamo un Parlamento europeo rinnovato ogni cinque anni ma lo scrutinio è compartimentato: le modalità di voto sono diverse da Stato a Stato; i deputati europei vengono eletti all’interno di circoscrizioni nazionali, quando si tratta di liste senza preferenza, i candidati provengono dai direttivi dei partiti nazionali, i quali, sempre che non siano impegnati a ricollocare qualche escluso dalla vita politica nazionale, raramente si preoccupano di fare emergere personalità orientate all’Europa. Invece è importante capire chi siede al Parlamento, ad esempio la politica agricola comune è da poco materia rientrante nelle sue competenze ed è ovvio che le leggi cambieranno a seconda di chi governerà. Altro momento in cui l’uguaglianza tra tutti i cittadini europei sembra
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tardare ad affermarsi è il referendum: riflettendo sul caso irlandese nel 2008, ci rendiamo conto di come dare delle concessioni agli Stati, faccia sì che la volontà della maggioranza sia tenuta in scacco dalle minoranze, comportando così una sorta di annullamento della democrazia con la democrazia stessa! Bisognerebbe dunque rivedere le tecniche di negoziazione prima della ratifica degli accordi e le modalità di ritiro del Paese dal Trattato per non paralizzare gli altri, tenendo anche in considerazione che i referendum separati distruggono lo spirito dell’Unione. Anche la “scelta del capo” non rispecchia dinamiche egualitarie: i cittadini europei non eleggono insieme, né direttamente né indirettamente i loro rappresentanti nell’Unione inoltre l’assenza di scrutini a livello europeo impoveriscono il dibattito politico e tolgono slancio alla vita politica stessa. Anche se l’obiettivo dell’Europa era, sin dai primi accordi tra Stati, il benessere, ci si chiede se questo sia stato mancato: 80 milioni di cittadini sotto la soglia di povertà, 25 milioni sono disoccupati. Una delle spiegazioni di questo fallimento è, secondo gli autori, l’uso e abuso dell’unanimità. Basti pensare che, per approvare il bilancio è necessaria l’unanimità del Consiglio (tutti i rappresentanti dei Governi dei 27 Paesi devono essere d’accordo), il che corrisponderebbe, su scala nazionale, al fare approvare il nostro bilancio non dal Parlamento, ma all’unanimità di tutti i presidenti delle regioni italiane! Secondo Monti e Goulard è il metodo che è sbagliato, perché non permette negoziazione e discussione. L’impressione tuttavia è che i cittadini si siano svegliati un giorno e si siano accorti di una crisi che deriva dal mercato e dalle sue speculazioni e che siano loro a pagarne le conseguenze. Due temi caldi sono il fisco e la tassazione del lavoro, secondo gli autori, tuttavia, ci sono dei nuovi strumenti europei per porre rimedio allo strapotere della finanza: al Parlamento si è lavorato sul controllo, in particolare per visualizzare i capitali necessari, lasciandosi alle spalle la self regulation. Perché il lavoro è più tassato? L’Europa ha dedicato troppo poca attenzione al coordinamento del fisco: se con mercati che si integrano non si ha il coordinamento del fisco tra i vari Stati membri, è chiaro che il mercato si svilupperà maggiormente in quei Paesi in cui la fiscalità è meno pesante,
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con la conseguente immobilizzazione del lavoro e il diverso peso delle tasse. Ecco che in queste materie la democrazia nazionale sembra avere un ruolo quasi marginale rispetto a quella dell’UE, s genera una vera e propria cessione della democrazia ed è in queste circostanze che si corre il rischio che si sviluppi quello che gli autori chiamano il virus nazionalista: in una situazione di crisi la gente cerca le cose che conosce meglio e da questo dobbiamo guardarci.
La strada è lunga e di certo non semplice, ma il sottotitolo del libro ci suggerisce di guardare lontano e di farlo in un duplice senso. Il primo prendere decisioni politiche non siano finalizzate al semplice benessere a breve termine, il secondo è comprendere che queste scelte a volte possono comportare quello che gli autori chiamano egoismo illuminato: non bisogna chiedere solidarietà per giustificare delle azioni che sembrano impopolari perché le misure drastiche che si intraprendono, nel lungo periodo, andranno a favore di tutti gli Stati membri (pensiamo agli aiuti alla Grecia). Ecco perché bisogna stare in Europa con volontà e capacità di agire, perché ci sono aspetti che vanno al cuore della società che non possono essere risolti se non a livello europeo. Giorgio Napolitano ha dichiarato nel discorso tenuto al Collège d’Europe a Bruges, nel 2011: “nessuna forza politica italiana può continuare a governare, o può candidarsi a governare senza mostrarsi consapevole delle decisioni, anche impopolari, da prendere ora nell’interesse nazionale e nell’interesse europeo”.
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