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Intervista a Gioele Anni - Nipoti di Maritain n. 07
intervista
Gioele Anni, uditore al Sinodo dei Giovani
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a cura di Piotr Zygulski
D - Gioele, tu hai partecipato all’ultimo Sinodo dei Giovani come uditore in rappresentanza di Azione Cattolica e dei giovani italiani. Quali erano le aspettative che avevi quando sei arrivato al Sinodo?
R - Inizialmente le aspettative erano molto alte, perché da quando è stato annunciato mi sembrava un’occasione per ricostruire un po’ quel ponte tra giovani e e Chiesa che – soprattutto nella realtà che vivo nel nord Italia, con ma in generale nell’Occidente – è venuto meno. Data la distanza, tra i giovani e la Chiesa, l’impostazione del Sinodo mi sembrava che potesse interessare e dire una parola a tutti. Poiché oggi tra Chiesa e giovani in tanti casi non c’è dialogo, in quanto giovane impegnato nella Chiesa e in Azione Cattolica ritengo prioritario ricostruire questo legame.
D - Ti aspettavi anche qualcosa di concreto, qualche cambiamento specifico?
R - Riguardo i cambiamenti concreti non avevo aspettative, perché non c’era un singolo tema dal quale mi aspettavo qualcosa di nuovo e sapevo che il Sinodo non è il luogo dei cambiamenti magisteriali dottrinali. Il Sinodo me lo aspettavo – e così è stato – come una grande piazza d’ascolto in cui condividere esperienze dai vari angoli della terra, affrontare problematiche e opportunità in maniera condivisa e consegnare il discernimento nelle mani del Papa. La mia era più un’aspettativa sul processo che si andava a mettere in atto.
D - Che cosa hai fatto, in quanto uditore? Qual era il tuo ruolo?
R - Come tutti i partecipanti – padri sinodali inclusi – avevo a disposizione un solo intervento programmato di 4 minuti durante le tre settimane; il mio è stato sulla terza parte dell’Instrumentum laboris, vale a dire la sezione dedicata alle scelte e alle prospettive pastorali. Sono intervenuto anche un’altra volta nei momenti di dibattito libero che si creavano a volte a fine giornata. Ho poi vissuto i gruppi di studio e le plenarie che sono stati momenti estremamente formativi. Lo dico con grande gioia: l’esperienza del Sinodo è stata molto bella, di profonda fede, di forte pensiero e di elaborazione, che mi ha messo in discussione soprattutto nel confronto con le testimonianze di chi viene da realtà lontane e di sofferenza. È stata anche un’esperienza divertente nel suo lato umano: incontrare gli altri uditori, i padri sinodali e i cardinali, scambiare con loro quale battuta, percorrere un pezzo di strada insieme, metaforicamente e fisicamente … come quando, per esempio, abbiamo fatto il pellegrinaggio alla tomba di San Pietro nell’ultima settimana. Tutto ciò è entrato nel Sinodo e le aspettative iniziali sono state progressivamente rimescolate da questa realtà.
D - Quali sono a tuo avviso i risultati più significativi di questo Sinodo?
R - Il Documento finale traccia un profilo di Chiesa che è sinodale e rispondente a quello immaginato da Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Dopo il Giubileo della Misericordia e i due sinodi sulla famiglia, mi pare che il Sinodo riesca a dare concretezza alla Chiesa in uscita di Evangelii Gaudium, con la condivisione dell’episcopato e delle rappresentanze del mondo. Le domande che stavano alla base di questo Sinodo sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale – in particolare: come trasmettere la fede ai giovani affinché possano viverla nel mondo di oggi? Come la Chiesa può accompagnare i giovani in ricerca della loro strada nel mondo in questo cambiamento d’epoca? – richiedevano di elaborare un pensiero che coinvolgesse tutta la Chiesa. Ci si è accorti giorno dopo giorno che non si potevano sviscerare singole questioni e pensare di poter dare risposte su alcuni temi stralciandone altri, ma occorreva una riflessione di insieme. È uscito un processo di Chiesa sinodale che dà sostanza e concretezza al sogno disegnato da papa Francesco.
D - Durante il Sinodo, i giovani italiani e del mondo sono stati attenti e coinvolti realmente? Qualcuno ha osservato che quei pochi giovani che seguivano erano pur sempre le solite persone attive nella pastorale giovanile diocesana e quindi l’auspicato coinvolgimento giovanile non ci sarebbe stato.
R - Per i giovani italiani un momento di particolare attenzione e sensibilizzazione è stato l’incontro di agosto, al termine dei pellegrinaggi, che rientra pienamente nel percorso del Sinodo. A livello di conoscenza mediatica, sicuramente questo Sinodo ha avuto meno attenzione del precedente in cui vi erano questioni puntuali più “notiziabili” che stimolavano l’attenzione dei giornalisti. Ma l’intenzione di coinvolgere i giovani era genuina. La Segreteria del Sinodo ha fatto passi concreti, in qualche modo “storici”, per tentare di allargare il numero di persone coinvolte interessate aprendo il processo che solitamente è riservato a chi è dentro al mondo ecclesiale; penso all’iniziativa del questionario online aperto a tutti, forse migliorabile tecnicamente, al quale hanno risposto 200.000 persone. Da un certo punto di vista può anche essere bene che un po’ di attenzione mediatica sia venuta meno se poi quello che è uscito dal Sinodo – il cambiamento di stile verso una Chiesa sinodale – viene poi attuato. I giovani che non si sono accorti del Sinodo se ne accorgeranno nei prossimi dieci anni. È un processo che si conclude rilanciando un processo; magari non prende titoli sui giornali ma può far parlare di sé prossimamente se tutta la Chiesa avrà il coraggio di prendere parte alla conversione missionaria alla quale il Sinodo invita e conforta.
D - Ma non c’è forse il rischio di parlare in modo autoreferenziale sempre a noi stessi, senza mai concludere nulla? Il Sinodo ha fatto qualcosa per scongiurare questo pericolo?
R - Non è un pericolo: quella di una Chiesa autoreferenziale è una realtà; nel Sinodo è emersa con forza, molto da parte dei giovani e anche da parte di tanti vescovi. L’ascolto non può ridursi a incontrarci tra noi che siamo già “dentro”. La bellezza del Sinodo è stata quella di coinvolgere nel lungo processo – ad esempio nella riunione presinodale – anche giovani che non sono tradizionalmente dentro ai percorsi ecclesiali: giovani del mondo dell’arte, di altre fedi, di esperienze di vita comunitaria o di fatica, che hanno portato tanta concretezza e il grido che a volte non è rappresentato. C’è stato lo sforzo di ascoltare le forme non rituali di espressione dei giovani. Nell’autoreferenzialità si ascoltano i giovani che “parlano bene”, sia per quanto riguarda le modalità di esprimersi, sia per le ritualità dei nostri spazi di incontro… ma oggi i giovani si esprimono anche con linguaggi di protesta, di disagio, di sofferenza o di indifferenza, che però nascondono una richiesta sostanziale di ascolto e di dialogo. La Chiesa nel Sinodo si è fatta interpellare da queste forme non convenzionali – mi piace chiamarle “irrituali” – di espressione dei giovani e ha fatto tanto per mettere dentro tanta vita anche nel Documento finale.
D - Ci sono altre proposte in questo campo che possano estese a tutta la Chiesa?
R - Il Documento finale delinea alcune tracce per uscire dall’autoreferenzialità e concretizzare i contenuti del Sinodo. Una è l’opzione preferenziale per i poveri quale metro di misura per le proposte pastorali a tutti i livelli: ripensare i piani pastorali avendo a cuore di mettere al centro i giovani che sono lontani dalla Chiesa e quelli emarginati dalla società. La seconda è quella non solo di convocare i giovani, ma anche coinvolgerli, sfidandoli in iniziative, progetti e attività che chiedano al giovane di mettersi in gioco. Poi da lì avere il coraggio, come Chiesa, di accompagnare i giovani che si mettono in gioco verso un cammino che per tanti giovani è di re-iniziazione cristiana, di secondo annuncio.
D - Qualcuno rimprovera alla terza parte del Documento finale un passo indietro rispetto alla prima in cui risuona l’Instrumentum laboris, che secondo alcuni commentatori sarebbe più coraggiosa rispetto agli esiti conclusivi, ritenuti troppo cauti.
R - Ho letto queste osservazioni ma non mi sembra una parte cauta. Mi piacciono molto gli ultimi tre paragrafi che si richiamano alla santità nella Chiesa e chiedono, al termine del processo sinodale, un «deciso, immediato e radicale cambio di prospettiva» (§ 166). Forse qualcuno si aspettava linee guida o qualche prassi più concrete, ma su questo piano il Sinodo ha fatto un passo “di lato” – non indietro – perché dalla discussione è emerso molto che non ci sono ricette o piani pastorali che possano valere dappertutto allo stesso modo. Questo “passo di lato” non è per mancanza di coraggio, ma è di grande fiducia, perché conferenze episcopali, diocesi, associazioni e movimenti facciano il medesimo esercizio sinodale di ascolto concreto dei giovani. E portare così la proposta del Vangelo nella realtà di oggi, per poi pensare e riprogrammare.
D - Qualcuno si aspettava che, come nell’Instrumentum laboris che preparava l’assemblea, comparisse nuovamente l’espressione «giovani LGBT». Invece così non è stato.
R - Ho avuto modo di conoscere la realtà dei cristiani omosessuali della Lombardia, in particolare giovani. È stato un dono: l’incontro con questi ragazzi mi ha fatto uscire da una riflessione puramente teorica per incontrare le esperienze di vita. Ho trovato storie personali magari segnate anche da fatica, con percorsi di accettazione di sé, per capire come vivere la propria appartenenza ecclesiale in contesti a volte rigidi sulla questione dell’omosessualità. È stato edificante: ho incontrato ragazzi che desiderano appartenere alla Chiesa e la cui storia, tra gioie e fatiche, è diventata motivo per amare maggiormente la Chiesa e il Signore. Nel Sinodo si è parlato con tanto pudore e tanta competenza di questi temi, così come anche di affettività, sessualità, convivenze, rapporti sessuali prematrimoniali; sono argomenti di cui i giovani parlano senza tabù. Sulla questione specifica della sigla LGBT, anche i giovani cristiani omosessuali hanno al loro interno delle divergenze: per alcuni è il modo di essere presenti e riconoscibili come realtà, per altri invece c’è il rischio di essere catalogati. Di qui obiezione di chi era contrario all’inserimento del termine LGBT nel Documento finale: la Chiesa non identifica le persone a partire dal proprio orientamento sessuale. Credo che sia molto bello il modo in cui il Documento finale affronta il tema, perché riflette quello che è stato il dibattito: non è partito da una questione nominale, ma dalla prassi pastorale, cioè dalla realtà in cui i giovani cristiani omosessuali vivono la loro appartenenza alla Chiesa. Ci sono già gruppi che li aiutano a crescere e a maturare personalmente e nella vita di fede. Così quel testo, richiamando puntualmente i documenti della dottrina, invita a favorire i percorsi di accompagnamento dei cristiani omosessuali.
D - Però i percorsi sono di vario tipo, con impostazioni diverse: da chi esige l’astinenza celibataria, a chi guarda con simpatia le coppie omosessuali, vedendo anche nella donazione di tutto il proprio corpo qualcosa di bello e relazionalmente fecondo. Ciascuno di loro ora sta tentando di tirare l’acqua al proprio mulino. Il Sinodo a chi pensava quando si riferiva a «cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali»?
R - Nel Sinodo non c’erano rappresentanze, ma la Segreteria ha ricevuto testi da alcuni gruppi che hanno portato alla formulazione del numero 197 dell’Instrumentum laboris, dove c’era la sigla LGBT. Si è parlato di questo tema con le differenze che vengono dai vari contesti culturali: in alcuni stati africani l’omosessualità è ancora un reato, mentre invece altre parti del mondo vi sono le unioni omosessuali. Alla fine il Documento finale riesce a far riconoscere tutte le varie realtà, perché si parla di un’attenzione che è prima di tutto quella di uno stile evangelico. Penso allo stile di Gesù, che ha incontrato anche le persone che secondo le regole del suo tempo erano escluse dalla salvezza: non ha escluso nessuno, ma ha incluso. Il Sinodo offre questa indicazione di stile non solo per la tematica dell’omosessualità: vale in generale, per il rapporto della Chiesa con tutti i giovani.