Si ringrazia “Pajareando ilustraciones” per l’immagine in copertina. fb “Pajareando ilustraciones”
L’estrattivismo è una forma di accumulazione del capitale finanziario, che domina attualmente nel pianeta, che agisce attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni per convertirli in beni di consumo. È l’accumulazione per spossessamento, per «furto». Intere popolazioni e comunità sono attaccate e costrette a lasciare spazio a una miniera, a un oleodotto, a un treno ad alta velocità in ogni angolo del pianeta. Ma esiste anche un estrattivismo urbano, che si manifesta tramite la gentrificazione e la turistificazione che sta avvenendo in tutti gli spazi metropolitani e che trasforma le piazze e i mercati dei nostri quartieri in nuovi spazi dove fare profitto, distruggendo proprio le comunità che ci vivono e se ne prendono cura. Per non parlare dell’estrazione quotidiana di plusvalore da parte del patriarcato sulle nostre vite e sul lavoro di cura, produzione e riproduzione. Se è vero, come ci ricorda Raul Zibechi, che i “territori sono i laboratori della nuova società”, possiamo leggere il corpo come un territorio? Dove stanno i nostri corpi? Dove si posizionano i corpi delle donne in tutto questo e come si organizzano? A partire da queste riflessioni e queste domande abbiamo deciso di organizzare un dibattito in uno spazio universitario con Federica Giardini e Ana Valadez. Da poco si inizia a parlare a queste latitudini di estrattivismo come paradigma di dominio globale, ma c’è ancora molto da sviscerare e analizzare per riuscire a coglierne gli aspetti che ci possano aiutare a comprendere il nemico che ci troviamo davanti per abbatterlo: condizione necessaria per costruire un mondo nuovo. L’esigenza che ha portato il Nodo Solidale e Sapienza Clandestina a organizzare l’incontro, realizzando poi questo pamphlet, è approfondire la riflessione sull’estrattivismo e sui nuovi modelli di dominio della Terra con l’analisi di come vengano irrigimentati i corpi, soprattutto quelli delle donne, trasformandoli in territorio di conquista, dove continuare a estrarre valore, non solo con l’invisibilizzazione del lavoro di riproduzione, ma con la messa a profitto delle relazioni emotive, della cura delle comunità e dei territori. Crediamo sia fondamentale analizzare la complessità di questo puzzle perchè solo così possiamo tagliare le teste dell’ “hydra” capitalista senza che abbiano la possibilità di ricrescere all’interno delle nostre comunità in lotta.
L’iniziativa si è svolta su di una traccia costruita e condivisa dalle organizzatrici e gli organizzatori, e sulla base delle seguenti domande: > A Federica Giardini: Se guardiamo all’estrattivismo come una delle attuali forme d’accumulazione del capitale, in che modo questo modello si impone/agisce, nello specifico, sui corpi delle donne? In che maniera e da parte di quali attori principali viene agita, in questa fase, la violenza e lo sfruttamento su e di questi corpi? Quali sono le esperienze in Italia di organizzazione delle donne a partire dalla difesa dei corpi-territori? E’ rintracciabile una continuità con le esperienze latinoamericane?
> Ad Ana Valadès: Come agisce l’estrattivismo nei territori in America Latina, nello specifico in Messico, e quali sono le forme di resistenza e di lotta che le donne stanno sviluppando contro il capitalismo, la distruzione dei territori e delle forme di riproduzione della vita? Cosa cambia nella produzione in un contesto in cui le donne sono organizzate? Quali potrebbero essere le differenze nell’organizzazione del lavoro?
Federica Giardini
Vorremmo che in prima istanza ci aiutassi a introdurre il tema del giorno: l’estrattivismo sui territori e sui corpi delle donne. Qui in Italia vediamo sempre più interesse da parte delle lotte territoriali per le resistenze in America latina contro il modello estrattivista che sta espropriando, saccheggiando e trasformando interi eco-sistemi culturali, sociali e di produzione locale. E attaccando, contemporaneamente, i corpi e le vite delle donne in nome dell’appropriazione delle risorse. Secondo te come mai? È cambiato anche nel nostro paese il sistema di produzione/ riproduzione o sono cambiate le forme di lotta delle donne, o entrambe le cose connesse? Cosa possiamo apprendere dai movimenti femministi nostrani (passati e presenti) attorno alla coppia corpo-territorio e com’è cambiato lo sguardo su questo tema negli ultimi anni? Se guardiamo all’estrattivismo come una delle attuali forme d’accumulazione del capitale, in che modo questo modello si impone/agisce, nello specifico, sui corpi delle donne? Parto da una formulazione semplice, breve, del problema indicato con il termine di estrattivismo. Viviamo in tempi in cui lo sfruttamento – l’appropriazione e l’accumulazione di valore a danno di chi lo produce – può avvenire saltando le precedenti mediazioni (salario, contrattazione, etc.). La radice di questo termine rimanda all’atto minerario – come anche all’espressione data mining, la messa a profitto dei dati che produciamo in rete - e al (non) rapporto che instaura con le risorse naturali. Nessuno chiede alla cava se e a quali condizioni può
prendere e appropriarsi di carbone, diamanti, rame… Ora, che cosa hanno da dire su questa forma di valorizzazione – di sfruttamento estremo – le elaborazioni femministe? Uso il plurale, perché le voci sono molte, situate in contesti diversi e anche in epoche diverse. Il filo che le accomuna è la critica e la ricerca di alternative rispetto a quello che viene indicato come patriarcato. L’ordine patriarcale non indica semplicemente un’organizzazione sociale che contempla un rapporto gerarchico tra uomini e donne, in cui i primi dominano le seconde. Il patriarcato è un insieme di regole, leggi, divisione del lavoro, valori che – per quanto specifico a seconda delle epoche e delle regioni del mondo – ha caratteristiche ricorrenti e sempre contempla una posizione di svantaggio per i soggetti diversi dal padre, maschio e dominatore. Per quanto non coincidente, il patriarcato può accompagnare e sostenere le forme capitalistiche di sfruttamento. Negli anni Settanta il sistema di regole e valori patriarcali è stato oggetto di contestazione femminista per i ruoli che assegnava ai due generi: al maschile la cultura, la produzione, il governo, al femminile la natura, la riproduzione, il domestico e il privato. La prima sfera aveva un valore sociale riconosciuto, mentre la seconda non godeva né di autonomia, né di valore, era funzionale alla prima sfera e, in quanto tale, era a disposizione per fini considerati superiori. Va sottolineato che questa specifica organizzazione culturale e sociale era quella sviluppata dalle società del nord del mondo dal Dopoguerra in poi. Tra le varie posizioni femministe che si sono rivoltate contro questo ordine, troviamo quelle che hanno denunciato il dominio e lo sfruttamento che veniva esercitato attraverso questa gerarchia di valori (femminismo marxista). Altre hanno rifiutato di essere assegnate alla parte negativa del valore – hanno dunque preso distanza da natura, domestico e riproduzione, rifiutando quello che veniva assegnato alle donne come “destino” femminile (genere e queer). Altre ancora hanno utilizzato la posizione analoga che correva tra donna, natura, cura ecc. per prefigurare un ordine in cui cessasse la svalorizzazione di queste posizioni, soggetti, attività (Merchant, Mies). Rispetto alle lotte ed elaborazioni degli anni Settanta, ci troviamo in una situazione regionale e globale diversa.
Le lotte femministe non hanno una temporalità progressiva – quello che viene conquistato, raggiunto, lo è una volta per tutte. Proprio perché toccano le coordinate del vivere comune, i femminismi affrontano problemi che trovano risposte provvisorie, esposte ai mutamenti storici e sociali e dunque anche esposte alla regressione. Rispetto agli anni Settanta, in effetti, sembrano ripresentarsi questioni rispetto a cui le lotte sembravano avere conseguito dei risultati. Libertà e autodeterminazione nella sessualità, nella riproduzione, indipendenza economica e dunque capacità di negoziazione. Che cosa sta accadendo? Questa è un’epoca in cui patriarcato e capitalismo si sostengono l’uno con l’altro. Il primo fornisce valori, forme relazionali, gerarchie all’impresa di sfruttamento del secondo. Perché un lavoratore sia massimamente produttivo è necessario che possa contare sull’erogazione di quanto gli serve a vivere e a rinnovare costantemente la propria capacità produttiva. E questo “quanto gli serve” è più funzionale che non abbia costi. Ecco che il ritorno delle donne a casa diventa parte integrante del sistema di sfruttamento. Ed ecco anche come oggi, più di ieri, faccia scandalo, possa essere oggetto di ritorsioni violente, quella che si rifiuta o si sottrae a fare da sostegno gratuito alla vita altrui. Oggetto di sfruttamento non è dunque solo il corpo di una donna. Vengono richieste le sue capacità fisiche, relazionali, affettive. Tutto ciò che permette, a ciascuno di noi di essere e continuare ad essere un soggetto vivente, capace di rinnovare il proprio vivere con altri. L’estrazione viene effettuata dunque sui soggetti e sulla sfera della riproduzione fisica, affettiva e sociale. Perché parlare di estrazione anziché di sfruttamento? Una prima risposta sta nel fatto che quanto viene richiesto non prevede né contropartita né restituzione. Questo è un segno specifico di questi tempi. Come quando si utilizza una falda acquifera per irrigare i campi, che per incrementare la produttività sono irrorati da pesticidi che poi avvelenano la falda; così la pretesa di rendere massimamente produttive le relazioni non ha nessuna elaborazione su quel che viene restituito – sfrutta le relazioni e al contempo crea delle condizioni che le distruggono. In altri termini, non si pone il problema di cosa restituire a fronte di quanto viene preso, anzi, se
restituisce è con effetti distruttivi. Si vogliono le donne a casa a fare figli e badare ai mariti e al contempo si crea un’organizzazione del (non) lavoro che mangia tutto il tempo per definizione, si tagliano i servizi, si sradica ogni forma di autoorganizzazione, si dà valore solo all’essere produttivi, si condannano quelle vite che cercano altre forme del vivere insieme… Così, l’alleanza tra patriarcato e capitale non attacca solo le donne. Configura ogni posizione per massimizzare lo sfruttamento e la coercizione autoritaria. In che maniera e da parte di quali attori principali viene agita, in questa fase, la violenza e lo sfruttamento su e di questi corpi? Per quanto detto sopra, la violenza si esercita sì sui corpi, ma intendendo questi come parte e aspetto singolare – il corpo di ciascun* – della più generale questione delle condizioni di vita. L’aspetto singolare ci aiuta nell’individuare i profili specifici di violenza che toccano le diverse posizioni previste dall’organizzazione sociale. La posizione “femminile” può prevedere coercizione simbolica e fisica – essere piacenti, oggetto di desiderio, buone mogli e madri – per garantire il soddisfacimento gratuito delle esigenze della riproduzione della società patriarcale-capitalistica. Perché pagare una domestica, quando una moglie svolge le stesse mansioni gratuitamente? Diventa vantaggioso espellere dei soggetti dal mercato del lavoro - prestano servizi senza contropartita in denaro (salario) – ma è necessario che si prestino a queste attività gratuite, ecco allora che viene prodotta anche un’ideologia funzionale – sono una buona moglie se soddisfo marito e figli e sono sanzionabile, non per legge ma individualmente, se non lo faccio. Oppure, diventa vantaggioso stabilire cosa è essere una cittadina meritevole, per legge e per immaginario: essere flessibile, risolvere individualmente la composizione dei tempi di lavoro e tempi familiari, essere sempre a posto e produttiva… Esiste anche una violenza che si esercita sulla posizione “maschile”: sono un buon cittadino se mi presto a essere produttivo senza porre condizioni… Oggi, per la maggior parte dei soggetti assegnati alla posizione maschile – anche per via della rivoluzione femminista – valgono le violenze di cui sopra: essere appetibili per il mercato dell’immagine, essere disponibili a mettere la
vita al servizio delle esigenze di mercato. Esistono poi violenze all’incrocio di queste posizioni, che riguardano la “razza”: se sono migrante, la violenza può insistere sul lavoro senza condizioni, sulla richiesta di fare o non fare figli, essere destinataria di diritti sociali o meno… I corpi sono il punto di caduta singolare sull’attacco patriarcale capitalistico alle condizioni di vita. Non solo condizioni di lavoro, ma condizioni che riguardano la salute, il cibo e la sua fiiliera produttiva, l’istruzione… Quali sono le esperienze in Italia di organizzazione delle donne a partire dalla difesa dei corpi-territori? Non Una di Meno – come risulta in modo articolato nel Piano – non considera la violenza di genere come una questione che riguarda solo un gruppo sociale circoscritto. La violenza di genere emerge oggi come effetto di una precisa organizzazione sociale ed economica. E’ una violenza sistemica, cosa però che si esercita in modo differenziato sulle diverse posizioni di genere, di classe, di razza (intersezionalità). Per capire cosa significhi violenza non su un gruppo ma di sistema e intersezionale, può essere utile tornare alle lotte delle donne nella cosiddetta Terra dei Fuochi. Le mobilitazioni sono state innescate da gruppi di donne – direttamente interessate dall’attacco alla salute create da quelle condizioni – ma le ragioni della mobilitazione e della lotta riguardavano tutti (maschi, bambini, cittadini, migranti). Inoltre, è stata l’occasione per pensare in termini di “ambientalismo dei poveri” (Armiero, Nixon), per rivelare cioè che tra gli effetti dell’egemonia capitalista c’è quello di utilizzare regioni del mondo e soggetti più vulnerabili per esercitare l’estrattivismo senza condizioni. Le lotte ambientali – incluse quelle antispeciste – non sono lotte separate: portano alla luce posizioni di classe, di genere e di razza (in questo caso le popolazioni e territori del sud del mondo). Un’avvertenza, ambiente non è sinonimo di natura. Nella prospettiva della riproduzione di una vita degna, l’ambiente è qualsiasi aspetto costituisca le condizioni di una vita degna – dall’acqua all’istruzione. Non una di Meno ha così potuto lavorare sul territorio, avendo anche presente la dimensione urbana e le sue dinamiche.
E’ rintracciabile una continuità con le esperienze latinoamericane? Sì, ma non parlerei di continuità, per non perdere una straordinaria capacità innovativa e creativa dei movimenti femministi di questo momento storico. Chiamo provvisoriamente questa capacità, pratica di traduzione. Se è pur vero che la pretesa estrattivista del capitale si esercita a livello planetario e dunque crea condizioni analoghe nelle diverse regioni del mondo, è anche vero che ogni regione, gruppo, soggetto ha storie, culture, punti di rottura specifici. Non Una di Meno lavora continuamente alla tessitura tra linguaggi, forme di lotta, immaginari e terminologie diverse, così da creare spazi in cui nessuna (nessun soggetto collettivo) tolga a nessuna l’accesso e l’uso di una parola piena, autonoma. Come riferimento del modo sostanziale e necessario di tenersi in traduzione, può essere utile il volume di Francesca Gargallo, Feminismos desde Abya Yala (traduzione italiana di un estratto Femminismo da Abya Yala, a cura di Valeria Manca, Aracne, 2017), che contiene l’esperienza dell’incontro con oltre duecento gruppi di donne indigene del continente centro-americano. Porto uno dei tanti esempi riportati nel volume: per alcuni gruppi l’attacco alla terra/natura è percepito al contempo come attacco contro le donne e come attacco coloniale. Ora, molto femminismo delle ultime generazioni – in area angolofona e dunque anche da noi, si è mossa per contestare l’equiparazione tra donne e natura. Se stessimo a una considerazione puramente esteriore, questo sembrerebbe un caso di culture e posizioni inconciliabili. Se invece ci mettiamo dal punto di vista delle lotte, delle mobilitazioni contro la violenza, ecco che le parole per dirlo diventano non un ostacolo ma parte del lavoro politico da fare. E’ quel che accade, esiste questa pratica di traduzione – che si basa sul principio che ogni donna in lotta è da ascoltare per come sceglie di dirsi – accanto a tanti altri scambi, dal riconoscimento di autorevolezza di voci che non ci sono immediatamente prossime alle contaminazioni e scambi di idee e parole.
Ana Valadèz
Grazie per avermi invitato, è un piacere immenso essere all’università, nella facoltà di lettere. Mi rallegra il fatto che esistano spazi, tanto simili tra Italia e Messico, dove si possa produrre pensiero critico e dove si possa, in maniera solidale, produrre del pensiero a partire dai saperi accademici e organizzati all’interno dell’università e il pensiero critico che si costruisce in maniera sotterranea nelle strade, sui marciapiedi, nelle case e dove la militanza va costruendo il proprio spazio di conoscenza. Oggi non posso che iniziare ricordando Samir Flores Soberanes: speaker radiofonico, parte di un comitato di lotta contro l’estrattivismo nel centro del Messico, tra gli stati di Morelos, Tlaxcala e Puebla. Samir era un uomo molto giovane, con 4 figli, che faceva parte di un fronte composto anche da molte donne, che nelle difficoltà sono capaci di lavorare senza mai chinare la testa, e insieme combattono contro un mega progetto di estrazione integrale di acqua, petrolio, gas e merci. Oggi voglio cominciare ricordandolo. È importante dare dei volti alle parole astratte a cui spesso ci risulta difficile dare concretezza. Samir stava portando avanti, dove viveva, una battaglia schierato dallo stesso lato degli zapatisti, la stessa che prosegue da oltre cento anni nelle terre molto vicine a dove nacque Zapata. Dall’altra parte troviamo invece gli attori che sostanzialmente estraggono valore dal cuore della vita stessa. Per questo credo che sia importante menzionare che c’è un impresa, molto difficile da identificare per noi perché è un impresa italiana, Bonatti, che presta servizi in subappalto a Trans Canada (una multinazionale Canadese che costruisce gasdotti), e due imprese spagnole: Abengoa e ENAGAS. Queste
tre imprese europee sono coloro che stanno spingendo per la realizzazione della mega infrastruttura per estrarre queste risorse in tutto il loro tragitto fino al golfo del Messico. Quando abbiamo iniziato a leggere il mondo secondo il concetto di estrattivismo, abbiamo intrapreso itinerari di conoscenza per i quali non eravamo preparati. Ci siamo dovuti convertire in studiosi ossessivi, analisti di qualcosa che non conosciamo e di cui non siamo esperti. È un compito in più a cui l’estrattivismo ci ha costretto, come uomini e donne. Dobbiamo studiare questioni per le quali non siamo necessariamente preparati. E per farlo abbiamo dovuto lasciare da parte le nostre altre vite, o aggiungere ulteriori giornate lavorative per questa produzione di conoscenza. Ci siamo dovuti convertire in pensatrici ed intellettuali. Samir era uno studioso della sua propria realtà, faceva studi comunitari per raccontarli in radio e si dedicava a lavorare con i bambini. E tutti noi, che subiamo l’attacco dall’estrattivismo, in America Latina e in tutto il mondo, siamo tenuti a studiare e produrre conoscenze necessarie a prendere posizione. Dobbiamo metterci nella situazione di studiare noi stessi, in un modo molto difficile perché prendere distanza dai problemi quotidiani è una questione molto complicata. Studiarli e trasformarli in mappe e bollettini è una cosa ancora più difficile. Prendere distanza dal territorio da cui proveniamo e che quotidianamente viene saccheggiato è un problema difficile, perché il bastone con cui l’estrattivismo cammina è una violenza diretta ed estrema. Per questo voglio riportare un po’ un po’ la riflessione sulla storia e sul dove il soggetto risponde e resiste all’estrattivismo. Qualcuno avrà visto gli abiti, chiamati huipil, indossati dalle donne maya. Il huipil è composto di 3 parti, che se si estendono a formare una croce perfetta. Nella parte frontale e posteriore, per molte delle donne maya è ricamato l’universo che, per loro, è sostenuto da 4 pilastri che sono 4 alberi, sono le ceibe (un albero tipico delle zone tropicali ndr). Su questo abito è raccontata la storia dell’umanità e di come si è costruito l’universo. Una delle eredità più importanti che le donne tramandano nel loro pensiero filosofico e con loro, come huipil, la loro propria storia e del loro popolo. Questo, inoltre, porta sempre come cornice l’acqua che è l’elemento da cui nasce l’universo: l’acqua primigenia. Per rappresentare questo elemento,
nel mondo Maya, viene utilizzata una rana, facendo riferimento al fatto che proveniamo tutti da lì. Questa è ciò da cui proveniamo, da dove nasciamo e dove tutto è iniziato: la rana, con il suo canto che si trasforma nel ciclo dell’acqua che poi si converte nel ciclo della vita. La rana appare nel huipil di una donna rappresentata in varie pitture murali antiche. Questa donna è dipinta in una stella mentre sta passando il bastone del comando a un giovane. Il giovane in questione è il nuovo governante che governerà per 30 anni nell’era dell’ultima signoria maya. Non si tratta di un impero, fu una signoria, ovvero un sistema di uomini che governò nel momento di declino del mondo maya. Questa è una scena importante che ci tenevo a descrivere perché millecinquecento anni dopo lo stesso huipil è indossato da una donna maya tzotzil a San Andres La Ranza, un donna indossa lo stesso ricamo in rosso e nero sul huipil; una donna che indossa un passamontagna di tre pezzi: è la comandanta Ramona. Con questo voglio dire che il soggetto che affronta l’estrattivismo è un soggetto antico e la cui continuità storica, culturale e di lotta di resistenza, è molto antica. Un soggetto che conserva tra i suoi segreti più profondi la chiave della risposta organizzata della sua lotta: le donne, che con i loro testi scritti nei huipil che tramandano questi segreti della lotta e della resistenza. Questo non succede solo nel mondo maya, sicuramente qui succederà in maniere diverse, ma in tutta l’America Latina ci sono chiavi, simboli e segni simili apparentemente cancellati dalla storia, che ha cancellato la scrittura e l’alfabeto dei popoli, e che le donne indossano e che continuano a cogliere il nucleo duro e potente della resistenza. Estrattivismo è un concetto traslato qui dall’America latina e mi sembra qualcosa di molto importante pensare come siamo arrivati fino al punto di produrre una parola che non nomina altro che un lungo ciclo di saccheggio che durerà fino all’estinzione e all’annichilimento. Forse perché l’estrattivismo ha un correlato di spossessamento, di accerchiamento e di accumulazione, di cicli, che per noi significano almeno cinquecento anni, di accumulazione originaria costante che hanno reso possibile il capitalismo attuale. La forma di fare politica dell’estrattivismo, da allora fino a oggi, è la violenza diretta, anche tradotta in leggi esercitate dagli stati nazionali, e l’estrazione di valore
che non si è mai arrestata. Esiste un soggetto che ha sempre resistito: i popoli originari e i contadini organizzati, in tutta l’America Latina, che hanno continuato a coltivare sempre la coscienza di questo processo. Senza mai smettere un momento. E credo che questo sia il punto dove si incontrano il femminismo e l’estrattivismo: il femminismo è la coltivazione costante della coscienza di genere. Per questo è una militanza, perché è un lavoro costante su questa conoscenza, i popoli indigeni e contadini, se qualcosa hanno fatto durante tutto questo tempo, è stato coltivare costantemente la coscienza del fatto che sono stati saccheggiati. Per questo è viva la resistenza in America Latina, perché questi soggetti non hanno mai smesso di organizzarsi e di opporsi a questo processo. Mai si è consolidata del tutto la normalizzazione di uno stato benefattore del liberalismo del diciannovesimo secolo, perché sempre gli indigeni e i contadini sono pronti a disturbare l’ultimo momento felice di celebrazione [nazionale]. Nell’ultimo momento di celebrazione dell’indipendenza sono arrivati i ribelli dell’indipendenza a dire: “questa indipendenza non è nostra”. Hanno reso indipendenti l’oligarchia nazionale, la Repubblica degli spagnoli, però noi, i neri e gli indigeni, siamo sulle montagne e siamo ancora ribelli, alcuni vivevano nello stato di Guerrero e lì continuano a stare, così come in molti altri posti. Possiamo dire che l’estrattivismo attuale è un programma antico. Si programmò il nostro annichilimento. Berta Caceres, indigena Lenca dell’Honduras, fu assassinata nel 2016, però l’annichilimento del popolo Lenca fu pianificato già da 500 anni e si consumò nel corpo di Berta nel 2016. Era un progetto che l’estrattivismo ha pianificato per tutto questo tempo. Per questo il soggetto che risponde è un soggetto che conosce ciò che sta accadendo da molto tempo e sa che questa fase attuale è arrivata agli ultimi campi della vita perché è dal primo momento di arrivo della colonizzazione, dallo sterminio iniziale, che sottraggono territori ai popoli originari, le migliori terre e le pianure. Tutti i i popoli originari furono costretti a fuggire sulle montagne che non erano luoghi per vivere. Erano luoghi di riposo, luoghi sacri, luoghi di cura molto importanti, per questo si costruivano le piramidi come le montagne: perché non si saliva sulle montagne per vivere, si viveva nelle pianure. Il momento di arrivo degli spagnoli diviene un momento di confinamento e accerchiamento che obbliga i popoli a salire sulle montagne. Questo fu un momento di trasformazione ambientale permanente, di perdita
di spazio e riorganizzazione territoriale e comunitaria; un momento di riorganizzazione della resistenza per fronteggiare il processo di estrazione che stava iniziando in quel momento. Si trattò di un processo estrattivo permanente e brutale. Non ci sarebbe stata nessuna costruzione europea senza il sostegno di tale processo di appropriazione. Il capitalismo inglese non avrebbe avuto nessuna possibilità di svilupparsi senza il saccheggio dell’America Latina; non avrebbe avuto possibilità di sviluppo ulteriore senza tutto il saccheggio di merci avvenuto in quel momento. Parliamo di metalli, di legnami, di un’accumulazione originaria che ha segnato il futuro della storia di questa parte del mondo. Esiste un legame tra corpo e territorio che potrebbe essere interessante sottolineare: si tratta dell’apprezzamento del nostro corpo di donne come “corpo disabitato”. L’apprezzamento coloniale del territorio è stato violento. I territori d’occupazione considerati senza abitanti, disabitati e di proprietà di nessuno sono divenuti terreno di occupazione. Berta Caceres viveva in un territorio che è stato occupato degli USA. In questi territori gli alimenti si cucinavano con olio di soia transgenica; questo faceva parte dell’occupazione che gli Stati uniti portavano avanti a partire dagli anni ’80 attraverso la loro Agenzia per gli aiuti alimentari. Questo stesso olio era l’olio con cui si cucinava all’interno dell’organizzazione che contemporaneamente lottava per difendere il territorio. Sarebbe a dire che lo strumento con cui lottiamo sono proprio i corpi; gli stessi corpi occupati in maniera militare, alimentare e agro-alimentare. Questi stessi sono i corpi con cui lottiamo. Queste siamo noi stesse. Perché bisogna partire dal fatto che noi stesse veniamo considerate/siamo disabitate. In Messico l’estrattivismo si sviluppa su di un territorio che gode di una “proprietà sociale” importantissima, infatti buona parte della terra in Messico è nelle mani di collettività, popoli originari e comunità contadine. La terra è in buona parte di proprietà collettiva perché ciò fu reso possibile dalla riforma agraria di cento anni fa. L’estrattivismo si impone proprio su questi territori e per questo la lotta è molto forte, viva, vitale e piena di energie. Tutto questo perché in Messico, le migliori terre, quelle più ricche di acqua, boschi e giungla, sono legalmente “proprietà collettiva” dei contadini e dei popoli indigeni; sono anche le terre dove vengono custodite le conoscenze e
le tecnologie per costruire la vita, insieme. In tutto esistono 106 milioni di ettari di terreni di cui il 17% è di proprietà di donne; non per dire che alla parte restante le donne non abbiano diritto d’accesso. Anche se ciò in parte risulta vero poiché lo Stato, patriarcale, e i “rivoluzionari” arrivarono al potere non riconobbero titoli di proprietà alle donne. Però il 17% custodisce una proprietà della terra che si basa su questa “proprietà sociale”. Questo è un dato molto importante per capire perché l’estrattivismo non ha avuto vita facile in questi ultimi anni. In tutte le storie rivoluzionari di occupazioni di terre per conseguirne la proprietà sociale, hanno avuto per protagonista una donna che spinse per occuparle. Una, molte donne invisibilizzate, in ogni occupazione agraria. In tutti questi processi di lotta organizzati, oggi si sta cercando di recuperare la memoria dalla lotta di queste donne. Tutte queste resistenze contro l’estrattivismo si trovano ad affrontare gasdotti, miniere, pozzi petroliferi e agroindustrie che portano con sé contaminazione transgenica e che si vendono ridipingendosi con il greenwashing o parlando di economia verde o agrobusiness. Questa agenda estrattiva, di monoculture e di conquista di territori ha come risposta lotte organizzate dove sono sempre in vista delle donne che: mettono in gioco la loro vita, il proprio corpo, che lavorano invisibilmente, che lavorano apertamente, che teorizzano, che studiano ed analizzano, armate, armate con libri e bastoni, armate con semi, armate coltivando la milpa, armate coltivando alberi e fiori e anche facendo tutti i lavori che permettono di sostenere i processi di autonomia. Tra queste donne troviamo anche le zapatiste che, anche se sono tra i processi di autonomia più avanzati, non sono l’unica lotta autonoma e di autodeterminazione del Paese. Esistono molti processi di costruzione di autonomia sia messi in rete dal Congresso Nazionale Indigeno, che fuori. Sono lotte contadine che combattono da decine di anni per il controllo delle loro stesse terre. Ci sono persone che dedicano la vita a questo, che a volte, ossequiano, come dice Silvia Federici, il proprio lavoro al capitale per alcune ore al giorno, mentre durante altre ore della giornata svolgono il proprio lavoro di lotta e di coscienza di genere. Perché la loro vita è divisa così. La violenza è così brutale da far arrivare le notizie fin qua. L’estrattivismo tutti i giorni sottrae
vite di donne, le annichilisce, e i femminicidi sono massivi nel paese. Nel nord è violenza diretta contro le donne che rimangono isolate e che cercano un modo per uscirne. Sono loro che rompono i patti della violenza segreta Le donne sono le prime che escono a cercare i propri figli, i propri compagni, a pulire lo spazio, a recuperare gli alberi. Siamo le prime a rompere il patto della violenza che ci invisibilizza e che è anche il patto che ci costringe a lavorare gratis per il capitale. Siamo quelle che stanno rompendo giorno dopo giorno questo patto che rende invisibile una quantità di lavoro, che occuperebbe una lista troppo lunga, il lavoro riproduttivo, di cura degli ecosistemi e che guarisce, concilia e cura questa frattura che l’estrattivismo crea tra la società e la natura. Siamo quelle che stanno lavorando per ricomporre le fratture di questo metabolismo e siamo sempre lì. Non perché non lo siamo state storicamente, ma adesso ci siamo rese conto che si tratta di un lavoro strategico e che bisogna renderlo visibile. E che bisogna lottare, condividerlo, lottare per trasformarlo in coscienza e renderlo esplicito.
Brevi biografie: • Ana Valadéz: psicóloga sociale chiapaneca. Militante, ricercatrice indipendente nel movimento indigeno e contadino. Presidentessa del DESMI. Attualmente collabora con il “Centro de Estudios por el Cambio en el Campo Mexicano” (CECCAM e con la campagna “Basta de Violencia hacia las mujeres del Campo” del Movimiento Internacional La Vía Campesina. • Federica Giardini: Direttrice del Master di I livello “Studi e politiche di genere”. Collabora con la comunità filosofica “Diotima” (www. diotimafilosofe.it) e con la S.I.L. (Società Italiana delle Letterate -www. societadelleletterate.it). E’ stata tra le fondatrici della rivista “Sofia. Materiali di filosofia e cultura di donne” dell’Università “La Sapienza” di Roma (19891994) e redattrice di “European Journal of Women’s Studies (2000-2011) e di “DWF.donnawomanfemme” (www.dwf.it). E’ referente per “Feminist Studies” e per “Theory Culture and Society”.