Anna Vaniglia: Essa (la c., vol. 6)

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Anna Vaniglia Essa

la c.


Questo libro è pubblicato da

la centrale edizioni un nome collettivo senza scopo di lucro, fondato in sud Europa nel 2018 no ISBN printed in Italy

cbnd f www.la-c.tk books@la-c.tk

La collana

la c. è realizzata con il supporto della Fondazione Lac o Le Mon vol. 6, agosto 2018 stampato in 70 copie




ESSA

Essa Strappo mollica dal centro della nuvola lentamente la gusto, nella sonnolenza del primo meriggio sono passati due o tre tempi, eppure nulla già è candela nell’alito dell’ultima luce mollo la presa e inizio a parlarti a caso Scruto le rughe intorno ai tuoi occhi hai pelle ammassata appari ciò che sei: anziano e vagamente

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rancoroso Poi anche anche una giovane lesbica invece tu abbassi lo sguardo sulle mie gambe che nude sono ancora fra i sottili tessuti di cotone per nulla immacolato strappo mollica dal bordo e la infilo fra i denti in un sospiro che rasenta la farsa nulla, ancora nulla cosĂŹ scolo olio orrido nel piatto su cui intingo nembi di pane candido la sansa nel naso e in gola poi definitivamente


ESSA

mi estingue con l’esiguo desiderio di donarti qualche temporanea tenerezza evapora, nell’inesistente sbuffo dell’ordinario, tutto il resto

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Endorfine dopo la morte Luca seduto non tocca terra, la poltrona è un residuo di plastica nera, non finge neanche pelle. L’intestino è preda di un rantolo, segue una ramificazione di acuti spasimi, teme che l’emorragia insozzi stoffe e pavimenti, fugge chiudendosi in una lorda strettoia, nel centro ha un vaso, nessun tempo di attesa, soltanto quello del piegarsi sorpreso dal getto. Merda e sangue dall’orifizio, come in un pensiero di Artaud, o una frase a cazzo di Nove quando giovanotto esprimeva sfigata ferocia nel varesotto. Ci manca lo sperma certo, ma lo desidera. Spinge ansimando e partorisce cupi meteoriti. Sofferenti emergono dal cratere, neanche maleodoranti: come grasse monete o lingotti da metter sotto i denti a testarne preziosità. Fiotti a seguire e ad anticipare. Fiotti.


ESSA

Guarda la pozza cupa ricolma e la residua porcellana mai veramente immacolata, infine il risultato del singhiozzo vermiglio. Strappa carta più volte, piegandola a ripulire l’ano con la delicatezza atta agli infanti. Il sangue scola per terra, eppure i grumi più densi restano in mano. Inattesa poi esplode l’urina, in piedi è, per terra il fiotto diluisce il rubino. Nel penoso tentativo di cancellare ogni traccia, incerto spinge scarpa su carta e pavimento: i grovigli bagnati si agganciano al carramato delle suole. Scompare lo nguacchio solo quando egli piegato, muove, asciuga e pressa mani, stracci, carte e ginocchia. E lo fa con coriacea veemenza. La battaglia non dura granché, eppure il tempo gli appare infinito, si scopre deluso dal consolatorio finale, una promessa mancata: lo scroscio d’urina risultava troppo vorace, neanche il tempo di goderne.

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Agognava la vita che esplode alla morte mancata, l’afflusso di sibilanti endorfine nell’orgasmo dopo la chirurgia, ora invece solo uno sbuffo, come aria dal pene, nel vuoto candore delle mattonelle. Locale post-coital tristesse in una sterile folata di biossido di titanio.


ESSA

dov’è Biagio Entro in involontario slancio, spalanco il socchiuso antro. La porta, sbattuta alle spalle della mia vista offuscata, esibisce la frase “prima di entrare bussare per favore”, proprio quando l’acido valproico decide di festeggiare l’avvenuta abbondante diffusione nel mio sistema nervoso. Lo fa con una oscena scarica diarroica giù nei militari camouflage. Credevo fosse nelle vertigini e nelle ecchimosi, o nel sanguinamento che si esprimesse al meglio il fottuto psicofarmaco, così non è in evidenza. Entro e mi liquido, quindi, con una tela appena dipinta sotto il braccio e le dita insozzate di scadenti Maimeri cinabro, di quella tonalità che a volte mischio

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col sangue. Intanto affondo esalando gas di trementina e fresco sterco quando urlo un insensato: “dove è Biagio!?” ché Biagio è il mio nome.


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Agrippino Costa Moltitudine eri nella materia disperata dei corpi mai nella luccicante unitĂ del tuo sottile Da ieri fuoco basso a schiarire gli ulivi e la notte ammalata Moltitudine nei proiettili evitati a sibilar la carne negli squarci dello stupore del sangue e del tempo sotto sequestro eppur mai arma vi era nei pugni con premura abbracciavi piuttosto, nei profumi miracolosi della tua pelle, compagni e nemici, in vita e defunti, e chiunque, nella inesistenza santissima delle tue fragili mura

morto sei stato altre volte

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altre fantasma vagavi nella solitudine assoluta di una isola di ghiaccio Ora hai o sei 10 Bengala e moltitudine felina, che comprende Lucia Ora hai o sei gemma sepolta ti si vede danzare in vita è stato un onore Agrippino


ESSA

maggiolino 2017 Guidi in apnea intorno ad edifici atoni Senza un tetto l’auto vi macchia di evanescente pioggia e vapori. Quel giorno le labbra sfioravano i suoi occhi serrati e la fronte di ghiaccio si bagnava di poche lacrime calde ti baciava bambino, al contrario nel bollore della febbre sorridevi al contatto. Rallenti è con te lĂŹ a Vostok vedi il gelo attraversare il cranio eppure sei cieco mentre cerchi le sue mani deformi

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allunghi le dita vagando sulla stoffa del sedile che lui non ha mai neanche sfiorato. Soffochi ritirandole vuote.


ESSA

I diamanti di Gould becchettano il torace che è l’alba quasi, lo tormentano voraci fino a svuotarlo e respira e attende una fine. le zampe loro stringono i bordi della voragine sul foro di carne, osservano l’abisso dal quale.

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Nuovo Afflato peto non afflato, il suo post dottoressa EmmeBBI. poetica per volontà ragioneria speziata da sigarette elettroniche ed enormi “se” temo mi procurerà sciagure: un acufene pulsante e stitichezza cronica


ESSA

BLU SQUIRT (non è notte, ma) Dense mareggiate distendono da ore notturni e violenti flutti nel sole morente Non è notte, ma addosso hai il suo scuro fiotto. Macchia indelebile sulle nude gambe ed il sesso cogli sulle dita sono gocce di pece da infilarle in gola per soffocare nell’incipiente reinizio del crepuscolo qualsiasi ottimismo

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zu-Denkende (l’isola lo sa) nichts-ich: prima che sia mattina guardi l’enigma nel transito che ogni pensiero si dona. Popolata o deserta l’isola è difforme nel tempo abitata dall’uomo dei Śākya anch’egli naufrago. ricorda David Bohm, vestito da Sélavy, morto nel suo ultimo taxi. Dieses zu-Denkende prima che sia sera cerchi espedienti inattuabili in un dissidio esigente. fumi secchi sigari, guardando al fumo,


ESSA

ma mai hai fumato è per cogliere il vento da lì viene lo sguardo che ti guarda. Sussurro fatale che soffia sui muschi dei muri sei “sempre ora giunto”, l’isola sa bene e viceversa, lo sapresti, se solo lo fossi per davvero naufrago intendo, senza partenza: alte le acque spaventarono persino gli uccelli delle Tempeste di Wilson per questo esitavi credevi fosse virtù o Zenone non sarebbe ubriaco

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pensavi lì era a disegnare mappe in sovrumano torpore su tovaglie di carta nei bar che guardavano lo Io-nio. Sbavato addensava rossetti porpora mordendosi le labbra e l’anice per finirle all’alba nei residui delle matite e in quei respiri lentissimi sul fondo stocastico delle onde evidenze di un ordine implicato, sì segreto da apparire conforme alle molteplici qualità della salvia


ESSA

Dalla foga della folla in fuga Ti annoiano i discorsi e temi le parole perdute nelle prolisse cattedrali e piĂš di tutto i toni violente differenze di saturazione sposi illibati dei primi, fingono indifferenza cosĂŹ ti scopri ultima, pestata dalla foga della folla in fuga

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Innocenzo è lì quel che guardi ora è tutta le verità quella che le parole, queste, e tutte le altre mai potranno per natura: è lì, nella canotta a fil di scozia rubato ai suoi gesti lenti nell’odore di muffa sottile dal legno svuotato della prisca stagione come fosse il ’75, nello scoppiettio della carne bruciata ai neon. e nello stagnante scirocco Ha il seno tuo padre e un cancro candido il primo esce dal cotone si piega


ESSA

a nascondere sorrisi beffardi in quella maternità acquisita, 100 zanzare di vicuña turchese lo divorano prima che allatti o ti sciolga la sua vecchia lente non svela più nulla, neanche quei suoi androgini, quelli del talento che tu non hai mai avuto sei quello che di lui mai avresti voluto non quello che avresti dovuto e potuto e voluto sei quello che di lui mai avresti dovuto 100 zanzare di vicuña turchese ti divorino

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Tensione egoica Disegna cristalli di carne e grumi minerali nel destino che determina l’imponderabile menzognero ricco di benevolenza e sarcasmo ringrazia le oscene scienze e medicine tutte grumo di carne e vetro nei polmoni dell’amato calcando nel callo ereditato dello scrittore preparati a partorire il vuoto e lo spaventoso gioioso destino di tutti


ESSA

Sivota, Sivota, Luce! Escono a vele schiuse, microbi oscenità scoreggiano da culo stretto a gasolio eppure vestono di inviolabili destini il paesaggio le anatre nell’acqua in mascherata quiete riparano al mirto starnazzando se è sera fino alle appena fiamme dei battelli. Luce le guarda riempiendo e svuotando per eternità secchi di ciottoli, ha nuvole chiare in minuscola mano le stringe ad essere nulla. Proprio dove accade vi erano spiegate scure tele del corsaro Margarito da Brindisi conte palatino delle terre qui in atto

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compagno a suo modo de lo sventurato Leone Vetrano di cui in bocca il ferroso ho (se qui son per davvero) del sangue suo disceso piano in tempi eterni da lì e sui gheppi del Pantokrator a profumare il mito in ’sti scenari in acqua così pieni di denso e aerobico eroismo eppur di mentecatto la modenese lòffia soffia. Nel nauseabondo miasma tutta la contemporaneità ci sovrasta risoluta nell’attimo del peto


ESSA

Azienda Sanitaria Locale digrigno i denti e affondo ogni pensiero penoso, anche in minima parte preda nel niente della sua inconsistenza è notte nello scroscio fonda l’acqua piega il capo al giorno nelle rughe di lenzuola misto lino, alvei sul volto effimeri neoformazioni si compiono al risveglio, gli occhi non hanno da tempo comuni facoltà e mancando gli specchi, nell’alba li porto con me nello stile caotico, inesistente aeroico, di cui sono maestro ad incontrare impiegatizie umanità e altri sudditi. Peni e vagine di servizio tutti lesti a divorare e mai digerire o defecare

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pene, amori, carni e dittonghi assieme al tuo invisibile sesso o quel che resta in quel brandello che si mostra muto nel tentativo di un parcheggio affamato ingurgita, soffoca in bulimica miseria, normative ed altre violenze carnali fingendo di comprendere come chiunque Finirà , penso da decenni finirà fin dai tempi in cui mi ricordo implume nei desideri Quelli in cui allenato trattenevo l’urina mai una goccia versata, mai


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I poeti di d’io Non so perché mai i poeti parlino D’io

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Luca tu citi Spinoza ed io penso che non ho mai mangiato Cioran L’avessi fatto, avrei avuto la forza di smettere di resistere alla miriade di voleri e volontà minime sopratutto sopratutto minime sono esse che mi agitano sono esse che ammantano di fragilità l’istituzione esattamente quella che ora qui mi costringe a scriverti. Desisto quindi, per ora senza preoccuparmi troppo mi contraddico e ti offro un caffè etiope bolle un Nano Challa colto dai Galla nella forma e la lirica della lingua oromigna sommerse dai fumi d’erba


ESSA

e incensi e grani tostati cosĂŹ siamo Luca nelle nebbie della foresta di Harenna se tu citi Spinoza, io Luca io offro l’ultima tazza sorseggia il bereka versato dalla santissima Jèbena

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Limpido l’impianto Quello che limpido appare sfugge ad ogni reale l’inizio di tutto prima di ogni possibile è sul margine del tutto-senza-confini mancando, libera di ogni volere Lì, sui limiti, ogni patetico sospiro farsi Dio fu l’iniziale visione. Tutto era nulla e nulla quel farsi Santissimo immacolato brodo, invece qui borbottio inaudibile… tu, di cui proprio non ricordo il nome, qui, che miseria mi vuoi, implori, con violentissima preghiera, pletora di muco un riassunto di tutto l’inestricabile,


ESSA

con la delibera da porsi alla firma, ebbene sappi che mai lo farò, senza offesa, per te e nessun altro o per qualche d’io Ti prego, mai lo farò per ciò che senza neanche saperlo rappresenti, ma mai, MAI davvero, ti prego Sul limite incastonare potrei, se vuoi paesaggi nel molare convesso, cariato brillerà di mille lucciole

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neg(r)otium guardi la stanza ovunque è lo stesso I muri intorno stringono ogni minima forma di vita ogni potenziale fecondità nulla più. neanche bere o respirare sia scontato o leccare il cianuro per terra come il gatto di Schrödinger irrisolto e sì falso, che appare nelle tende del proscenio di un comune realismo locale


ESSA

somma ego dio esita

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DECALOGO PER UNA INSUFFICIENTE TENSIONE “La combinatoria è l’arte o la scienza di esaurire il possibile, includendo le disgiunzioni. Ma solo l’esausto può esaurire il possibile, perché ha rinunciato a qualsiasi bisogno, preferenza, scopo o significato. Solo l’esausto è abbastanza disinteressato, abbastanza scrupoloso. Non può fare a meno di sostituire i progetti con tabelle e programmi privi di senso. Quel che conta per lui, è in che ordine fare quel che deve, e secondo quali combinazioni fare due cose contemporaneamente, quando fosse necessario, per nulla.” (Gilles Deleuze, L’esausto) ICH Essere in guerra con l’Ich, vivere il conseguente eterno tempo del conflitto con il sentimento di destino che si genera in chi ben sa che non


ESSA

potrà che esserci sconfitta. Aver cura, nel frastuono delle lame, dei sentimenti più teneri, coltivare le più ingenue fragilità, cercare la pace. Collezionare sconfitte e poi sconfitte, e sconfitte ancora. E poi ancora, fino alla fine di ogni tempo. Quel che resta sempre è stato e sempre sarà un campo di macerie nel collasso dilatato delle ere e nell’odore acre delle carni. La montagna si disfa, rovina immane deforme, nel crollo si fonde con i corpi nostri e i nostri agglomerati mentali, e le nostre infrastrutture tumorali, simili all’ode del peto urlano la propria velleità agli universi comuni. Nascondere la guerra, ma mai nascondersi alla guerra. Nulla esiste, non ora, non qui, non più. Indagare i resti con accurata attenzione, limpida finta neutralità, nel passaggio delle truppe armate,

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nella mobilità del terreno, esplorare ciò che residua dal crollo, nella polvere, alla ricerca di nuove forme e inattesi equilibri. Nelle carni squarciate e nelle nebbie sollevate attendere il barlume che abbaglia lo sguardo, sarà quella di una gemma senza valore. Isolarla, averne cura, lavarla accuratamente, archiviarla, dimenticarsene infine. Se pur nella consapevolezza d’essere qualcosa di simile a un sacrificio (dono a nessun dio), mai dichiararlo e meno che meno a se stessi. Negarlo, anzi evitarlo, nel camuffarsi, nella maschera, nella gioia del vivere persino, a cui abbandonarsi necessariamente, confondere e confondersi, sorridere come una bambina. Sfiorare l’inesistenza, ma mai raggiungerla, vivere sui margini, che non è la morte o una questione del tempo sui confini, essendo solo il


ESSA

tentativo di assentarsi a ogni dualità e biforcazione, sfiorare il vuoto perdendosi nella vista delle vette più alte. Alitare sul caos, l’irraggiungibile, ma mai compiendo nulla di tutto questo. Essere penultimi, scoprirsi alla mercé dei propri limiti, ineluttabile sospensione sugli abissi degli spazi-tempo. Essere nei propri ovunque, contraddicendosi in un solo luogo. Di nuovo camuffarsi, quindi, difendersi, mischiandosi alla folla, ai falsi e casuali compagni di pugna, alle vittime del passaggio, essere maschera: soldato, albero, generale, sentimento, rovina, fiore, cimice, arte persino. DEFILARSI, ESILIARSI, RIFUGIARSI, MASCHERARSI, ORDINARSI L’Ich ha parola, ha lingua, è possibile, è possibile dialogare con

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i suoi cupi derivati. Mai istituire accordi però, o matrimoni, o farci pace. Il dialogo deve essere inutile, come una preghiera senza santi, credo o richiesta. La lingua che useremo invece sarà la lingua delle visioni ultime senza esserlo mai. Ultimità è il luogo dove vive ciò che ci destiniamo a combattere contraddicendosi, l’enfer. Essere deboli, sconfitti, guardarsi morente, rialzarsi piano e senza speranza, o dolore, riprendere la lotta senza volontà, farlo persino per una mascherata necessità, o per abitudine, noia, fino alla fine, oltre la fine, e pure prima della fine. Eroici vigliacchi, celati a ogni forma di riconoscimento nell’istante dello stesso. Fallire nell’intento, qualunque sia. RONZINAnTE o SANCHO Essere in assenza di scopo, dimenticare ogni fine, soprattutto quelli dell’arte, di nuovo contraddirli,


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essere Ronzinante che bruca nell’attesa di essere mal montato o malmenato. Inutile dirlo, eppur bene chiarirlo: non preoccuparsi della materialità o dell’immaterialità, dell’evidenziare un processo, delle ricadute sociali o estetiche, della sua relazione ineluttabile con la potenza di volontà di uno o degli altri. Non preoccuparsi della produzione o della improduttività, essere mediocri, e farlo senza diventarlo. Essere ciò che si scarta, sparire in vita, ma senza che nessuno abbia a notarlo, diminuirsi, fino a non scomparire del tutto. Ci si preoccupi che tutto questo possa avere energia insufficiente, sì fievole da essere confuso con il resto. Lunga e complessa deve essere

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l’indagine: melanconica e sorprendente, non qualcosa come un’altra, ma confusa con una cosa a caso. Con la vita ad esempio, e con qualcosa di meno. Essere nauseati dal mondano, sfuggirne e pur parteciparvi. Evitare il “sociale”, fuggire dai “diritti” e dalle loro dicotomie, brutale colonialismo ed ereditata incurabile malattia. Frutto minore cartesiano, da evitare a costo d’essere guardiano di burocrazie e welfare. Guardati dalla democrazia e dalla minima maggioranza, dal comune diritto e dovere. Essere massa se pur minima, è prova sufficiente che è abbaglio o ipnosi. La verità accade alle singolarità, mai alle loro somme. Si attua anche, come nella creazione dei mondi, nella “relazione”; che precede ogni cosa, ogni minima energia.


ESSA

Vivere, esplorare la “penultimità”, non la fine, ma la finitudine, ma non essendo neanche penultimi. “Non si tratta di esaurire un qualche compimento, di arrivare al termine di una qualche realizzazione, in altre parole di ‘stancarsi di qualcosa’: si tratta di essere esausti della possibilità stessa (…) Ed è proprio l’immagine a esaurire la possibilità. L’immagine pura, incontaminata, singolare e indeterminata cui aspira ogni artista, ogni pittore, poeta o musicista è la ‘particella estrema’ che scatena la fine: l’immagine, di per sé effimera, è una detonazione di energia che “fa esplodere dissipandosi”. (Gilles Deleuze, cit.) ESSERE E CONTRADDIRSI Abbandonare ogni dualità, esperire fallendo nell’intento, l’esperienza fisica-non fisica e quella mentale-non mentale, sperimentare l’esperienza del

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corpo politico in assenza di pensiero. Dimenticare la Storia (e tutte le storie), abbandonarsi oltre il tempo privilegiando un contesto a caso, uno spazio a caso. Abbandonare l’umano. Le masse hanno il cancro, già in ritardo nell’istante in cui furono messo in luce: due secoli fa la carne era già putrida, muta è ora, ci appare mobile come una serpe sugli esseri vissuti (e non per una questione temporale), ci appare da morta in vita. Posseduta da se stessa e dai suoi autofalsificati desideri, in un atto velleitario di fede, in sostituzione di ogni fallito dio o ateo credo, e nei suoi contraddittori, invece si accumula nell’accumulo ai piedi dei ghiacciai, prima dell’infinito strapiombo, sotto i resti delle molteplici sconosciute esistenze. Mai più resistenza: Desistere,


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desistere, desistere. Epica limpida. Mascherata. Due citazioni funzionali: a) “Il cervello sembra che tenda a spezzare la fraternità organica, cercando una gerarchia funzionale, e ai limiti cercando di sostituirsi all’organismo stesso.” (Aldo Braibanti) b) “Quando si osserva il centro dello spazio, si cessa di vedere tutto il resto (…) Similmente, se si osserva la coscienza con la coscienza, le forme di pensiero si dissolvono. I banchi di nebbia si diradano nello spazio senza andare altrove né rimanere da qualche parte. La vera natura dello spazio non ha né colore né forma e non è condizionata né dal bianco o dal nero.” (Tilopa)

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Nel maggio 1983 Quella primavera, tormentata dalle esplosioni delle nostre mura ben presto sconosciute come un fratello lontano da troppo, era un pugno di briciole sui nostri corpi quelle in cui l’allegria delle nuditĂ del primo sole, fremente come i piedi che scavano il nido alla appena scaldata sabbia, quella primavera (dicevo) di colpo tacque. Il sangue inondò persino lo sciatto, volgare vestire della nostra provincia infinita mai del tutto emersa


ESSA

dai fumi e i vapori, dalle macchine del severo XIX secolo e dall’incipiente novecento che persino lì dov’erevamo noi miseri appariva avant-garde: Le sacre du printemps Si dissolse tutto presto davanti ai nostri occhi condensa d’alito da labbra socchiuse e sconosciute al cielo già abbagliante della primavera

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HellBlade I Credevi fosse neanche primavera fino a quando quella mattina non emergesti dal portone principale dell’Ente. Confuso entravi in auto nell’aria rovente delle 2 PM aprivi lo sportello e già quasi soffocavi nel getto d’aria bollente che ne usciva. Una sorpresa che si aggiungeva a quella prima accaduta se pur priva di consapevolezza era ancora impressa sul volto negli istanti necessari a raggiungere la tua grigia maggiolino parcheggiata alla consueta


ESSA

manciata di metri dalla scatola del badge da lontano eri molto incerto la ricordavi chiara e metallizzata, appariva invece a chiazze maculata e immersa in un generico colore vermiglio. Nelle ore perdute del tuo sterile lavorĂŹo non ti eri accorto che la pioggia e il vento e il resto avevano sommerso ogni cosa La finestra nel tuo studio rimaneva spesso chiusa, non sopportavi il sole, e men che meno il calore, per cui erano mesi che socchiudevi tapparelle, e tende nella penombra accendendo con orgoglio e largo anticipo

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un indecente apparecchio per l’aria condizionata Eppure quella mattina in auto ascoltavi una radio locale che annunciava l’imminente vento da sud-ovest, come una minaccia. Quello che spinge le nuvole dal Sahara e con loro una grassa e sozza pioggia mista alla leggendaria sabbia del deserto Erano quelle infatti le giornate del Libeccio del vento che solleva in aria, carte, plastiche e variegati frammenti e poi piega alberi e spezza rami e banalmente entusiasmi (scusategli il gioco di parole) soprattutto però spostava


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le sahariane polveri dalle dune del Fezzan attraversando i mari come fossero soglia di marmo casalinga, approdando in terra dallo Ionio nella forma spaventosa di nuvola cupa dal ventre cinabro, ovvero di quel giallo che in natura è visibile solo nell’Erg di Murzuk. Eri seduto con le mani al volante, e già ti domandavi in silenzio ciò che tutti domandano in giornate come quella nella terra dei morituri ulivi: “e se le sabbie fossero invece quelle delle cupole dell’Ilva?” Ti veniva spesso in mente uno di quei video disponibili in rete,

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compariva un ragazzino con un magnete in mano, su un cementizio balcone, raccoglieva l’arena sollevandola, per magia in un “wooooooh” urlato alla silhouette del padre che tutto riprendeva in diretta social sì immerso nell’abbacinante sole che disegnava lunghe ombre di pece sui radiosi eppur torvi vicoli di Taranto II Hai il tempo di parcheggiare, scendere e chiudere l’auto che il caldo della giornata ti mette a disagio. Entri in asilo con giacca, camicia, pantaloni scuri e un paio indicibile di scarponi di


ESSA

pelle. Quando la ragazza apre la porta, ti appare seminuda mentre tu grondi grasse gocce nel sole abbagliante riflesso sulla chiara parete dell’ingresso. Chiedi di tua figlia e solo dopo fai caso che si chiama SOLE Mentre attendi dai uno sguardo distratto su cosa ha mangiato, segui sul rigo: rigatoni ai fagioli (poco), pollo (sÏ), insalata (no), frutta (no). bofonchi sottovoce. Arriva e ti guarda con sorpresa, sorride, ti abbraccia. Nelle dinamiche post separazione non capita spesso che ti chieda di prenderla,

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ti senti onorato, poi ora un filo di aria viene dal giardino, profuma di limone bollente. Quando siete in auto, Sole ti chiede di levar la capotta, non lo fai molte volte, è piuttosto assurdo, sì, ma non lo trovi gradevole nelle giornate assolate. Hai una vecchia paglia che indossi in quel caso, non lo ami (il sole), e ti rendi conto nuovamente del potenziale umoristico legato al fatto che tua figlia si chiami così. Apri il tettuccio quindi e in una virtuosa azione, metti su anche “Goganga” di Gaber e vedi Sole immersa nel sorriso di pura gioia. Decidi di darle una notizia, malgrado sia piuttosto una speranza:


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“Lo sai che con Sandro forse metteremo una biblioteca?” “davvero”? “sì!” “ma oggi?” “ma no, come oggi… Oggi no, è che questa mattina lui mi ha chiesto di…, anche se, io in effetti faccio proprio un altro…” “ok, ok, io voglio mettere una caffetteria e stare alla cassa” sì, sì, ma non dirlo a nessuno Sole, è un segreto, sai è che lui non può…” sì sì! sì! è bello, bellissimo babbo! detto questo si volta sorridendo alla strada. Siete all’incrocio appena vicino casa quando la guardi è quello l’istante in cui decide di mettersi una paglia in testa, quella con un magnifico fiocco rosso.

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La trovi così bella. Proprio quello è anche il momento in cui accade che davanti a te, Egidio, in una anonima Hyundai si ferma frenando vi guarda sorridendo ed esclama: “È bellissima, B E L L I S S I M A !” Egidio è un amico che non vedi da anni, vi eravate però riconosciuti e salutati fortuitamente qualche settimana prima, durante l’attesa di un referto. Sole non l’aveva mai incontrato, eppure, inaspettatamente urla: “lo sai che babbo metterà su una biblioteca e che io sarò la barista e la cassiera?” io in un sorriso lesso le invio, vagamente allarmato, uno sguardo severo e un sonoro


ESSA

sommesso: “ssshhh” Egidio, ripete urlando: “È bellissima!” vedo mia figlia splendere ed Egidio proseguire: una delle auto che amo di più! e via, va via così. Il tutto dura probabilmente 40 secondi. Riparto, guardo Sole e chiudo la capotte, in un sentimento vacuo inutile e splendente, come la vita.

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Essa di Anna Vaniglia Anna Vaniglia è uno pseudonimo.


vol. 6, 2018


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