Provita Gennaio 2016

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POSTE ITALIANE S.p.A. | Spedizione in AP - D.L. 353/2003 | (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) | art. 1, comma 1, NE/PD | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00

Padova CMP Restituzione

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“nel nome di chi non può parlare” Anno IV | Rivista Mensile N. 37 - Gennaio 2016

SPECIALE UTERO IN AFFITTO

Il mercato di donne e bambini tollerato dalla “società civile”


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- Sommario Editoriale:

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“nel nome di chi non può parlare” RIVISTA MENSILE N. 37 - GENNAIO 2016

Edizione speciale: Utero in Affitto L’utero in affitto: riflessioni critiche 4 Giovanna Arminio

L’utero in affitto come problema bio-giuridico 9 Aldo Rocco Vitale

L’utero in affitto come business internazionale eugenetico 11 Aldo Rocco Vitale

Utero in affitto per altruismo?... 15 Ferdinando Costantino e Monica Boccardi

La cessione di neonato: aspetti giuridici ed etici

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Monica Boccardi

Dalla favola alla realtà 21 Maria Teresa Armanetti

Il “miracolo” della surrogazione su internet

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Ferdinando Costantino e Monica Boccardi

Educare: il cantico della differenza 28 Chiara Rastello

Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182 Redazione Antonio Brandi, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti - Tel. 329 0349089 Direttore responsabile Antonio Brandi Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi Direttore ProVita Onlus Andrea Giovanazzi Impaginazione grafica Francesca Gottardi Supervisione grafica Massimo Festini Tipografia

La vignetta del mese

di Francesca Gottardi

Distribuzione MOPAK SRL, Via Prima Strada 66 - 35129 Padova Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Maria Teresa Armanetti, Giovanna Arminio, Monica Boccardi, Ferdinando Costantino, Chiara Rastello, Aldo Rocco Vitale.

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Editoriale

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ll mercato di donne e bambini tollerato dalla “società civile”

Lo scorso autunno, abbiamo denunciato la pubblicizzazione e l’organizzazione della pratica dell’utero in affitto in Italia da parte di una clinica privata: siamo stati testimoni oculari dei consigli dati su come procedere in violazione della legge e comprare un bambino come fosse merce (da eliminare - abortire - se non corrisponde ai desideri dell’acquirente). Ci sembra quindi necessario ribadire forte e chiara la condanna di questo ignobile mercimonio. Perciò, con questo numero speciale di Notizie ProVita vogliamo spiegare meglio in cosa consiste e come funziona, sotto l’aspetto antropologico, economico, giuridico ed etico. Ringraziamo di cuore il team di professionisti che ha curato il presente dossier. Antonio Brandi

Abbiamo studiato e approfondito cosa è la pratica dell’utero in affitto, per informare, per far comprendere quello che accade ormai da anni sotto i nostri occhi, con la compiacenza indulgente dei media che mostrano storie umane e pietose di adulti desiderosi di dare tanto amore a bambini. Tant’è che li comprano attraverso cliniche di lusso, li fanno assemblare secondo i loro desiderata e li fanno partorire a donne-schiave, incubatrici di carne, che per bisogno o per avidità acconsentono a cedere ai compratori la creatura che hanno nutrito e portato in grembo per nove mesi. E nessuno analizza la questione dal punto di vista del neonato che viene strappato dalle braccia che hanno l’odore, il sapore, l’umore che hanno respirato nel grembo. Intanto, l’istituto del matrimonio, così come valorizzato e difeso dalla nostra costituzione e regolamentato dal codice civile si sta tristemente trasformando in un contratto, ancora di rilevanza pubblica, ma di fatto privatistico e assurdamente fondato sull’amore, eliminando dunque a priori la sua ratio fondamentale che è quella di garantire alla società la crescita, l’educazione e il mantenimento delle nuove generazioni. Per completare l’opera distruttiva cominciata col divorzio, si vuole anche la legalizzazione del matrimonio gay, seppur camuffato, per adesso, da “unione civile”.

Questo porterà inevitabilmente, se non grazie al legislatore, per via giudiziaria, anche alle adozioni da parte delle coppie omosessuali, in nome della parità di diritti. Ma già oggi, il disegno di legge sulle unioni civili introduce la cosiddetta stepchild adoption, che consente al convivente di adottare il figlio biologico del compagno/a. Questo, di fatto, comporta la legittimazione della pratica dell’utero in affitto in Italia, attualmente vietata dalla legge 40, nonostante i sostenitori del d.d.l. si ostinino a trovare alibi o a sminuirne la portata. Nei Paesi dove è legale, d’altra parte, l’utero in affitto genera un traffico di affari stimabile in diversi miliardi di euro l’anno. Il business sta cercando di prendere piede nel nostro paese, grazie anche a una campagna pubblicitaria, nemmeno troppo sommersa, che parandosi dietro l’alibi del rispetto verso le persone omosessuali e dell’amore che vince sopra ogni cosa, instilla nella mente della gente comune un senso di accettazione silente e crescente di questa pratica. La consapevolezza necessaria per opporsi con tutte le nostre forze, affinché la pratica venga stroncata sul nascere, passa dalla conoscenza dei suoi risvolti etici, economici e giuridici. Questo numero speciale vuole fare chiarezza e fornire le informazioni ai lettori su tutti questi aspetti in una sola volta. Aldo, Chiara, Ferdinando, Giovanna, Maria Teresa, Monica


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N. 37 - GENNAIO 2016

Giovanna Arminio

Giovanna Arminio è avvocato dal novembre 2006 ed è iscritta presso l’Ordine degli Avvocati di Bolzano. Mediatore professionista e giurista d’impresa, articolista, è anche docente presso enti di formazione.

L’utero in affitto: riflessioni critiche

Definizione, quadro giurisprudenziale, dottrinale e normativo in Italia. di Giovanna Arminio Difficile, se non impossibile, affrontare dal punto di vista giuridico il fenomeno della “maternità surrogata” o “utero in affitto” senza tecnicismi, perché, pur riducendoli al minimo, esso vede due soggetti titolari di situazioni o diritti individuali potenzialmente confliggenti: da una parte c’è chi vanta il “diritto di procreare” e dall’altra ci sono i diritti del nascituro (di conoscere le proprie origini, di essere allevato nella famiglia iure sanguinis, di avere un padre e una madre). E allora, come uno studente di giurisprudenza del primo anno dovrebbe sapere, quando all’ordinamento giuridico si chiede la tutela di una nuova situazione che corrisponde a un certo interesse diffuso a livello sociale (il nostro secolo registra il boom dei diritti individuali), è necessario preliminarmente verificare se il suo riconoscimento e la sua tutela si pongono in conflitto con diritti e gli interessi di altri individui, attraverso il contemperamento degli aspetti confliggenti. Il lettore attento, quindi, apprezzerà (spero) i tecnicismi, perché lo aiuteranno a entrare nel cuore di un fenomeno che non può ridursi al riconoscimento incondizionato di meri desideri (per quanto spesso mossi da nobili ragioni), essendo necessario scendere nel profondo, specie se, dall’altra parte, il soggetto da tutelare è il nascituro, che non ha voce propria e che si aspetta di essere difeso, in primo luogo, dai propri genitori.

Sulla base della letteratura giuridica esistente e grazie a una definizione che ha il merito di metterne in luce il carattere negoziale, la “maternità surrogata” si realizza attraverso un accordo fra due o più parti, in forza del quale una donna (definita “madre surrogante” perché si sostituisce alla donna infertile), per soddisfare esigenze di maternità e di paternità altrui, dietro corrispettivo o a titolo gratuito, contrattualmente noleggia, con il consenso del marito, se sposata, il proprio utero a una coppia (o a singoli) e si fa fecondare oppure si fa impiantare un uovo fecondato, un embrione; conduce a termine la gravidanza nel rispetto di determinate norme di comportamento e si impegna a consegnare ai committenti (genitori intenzionali) il figlio, rinunciando a ogni diritto su di esso.

Non si può riconoscere in modo incondizionato i meri desideri degli adulti (per quanto spesso mossi da nobili ragioni), e ignorare che il soggetto da tutelare è il nascituro, che non ha voce propria e che si aspetta di essere difeso, in primo luogo, dai propri genitori.


Edizione speciale: Utero in affitto

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Oggi, in Italia, la legge n. 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, vieta espressamente la surrogazione di maternità (articolo 12 commi 1 e 2) e qualsiasi realizzazione, organizzazione o pubblicizzazione di tale pratica (comma 6). Esiste, quindi, una linea di continuità giuridica tra l’attuale legislazione e l’orientamento giurisprudenziale precedentemente formatosi, continuità che trova la propria sede esattamente nell’insieme dei valori assunti a fondamento dell’ordinamento.

La pratica dell’utero in affitto vede il moltiplicarsi di coloro che partecipano al processo procreativo: la coppia committente, la madre surrogante, i due (o tre) venditori di gameti: un bambino con sei persone che a vario titolo possono definirsi genitori.

Se il nato ha un legame biologico con l’uomo committente e con la madre surrogante, si parla di maternità surrogata vera e propria; se invece l’embrione è fecondato all’esterno dell’organismo della donna surrogante – tramite ovulo fornito dalla madre committente o da un’altra donna – e successivamente trasferito nell’utero della surrogante, si parla di “locazione d’utero” o “utero in affitto” o “maternità surrogata gestazionale”. Dopo questa precisazione, appare evidente che la pratica, inizialmente concepita quale accordo fra tre soggetti per superare problematiche legate alla sterilità femminile della donna, ha visto il moltiplicarsi di coloro che partecipano al processo procreativo, in quanto nulla esclude che la fecondazione coinvolga soggetti estranei sia alla coppia committente, sia alla madre surrogante, attraverso l’intervento dei cosiddetti “donatori” di materiale procreativo (seme e ovuli), che in realtà sono venditori di gameti. L’accesso a tale pratica, inoltre, può essere consentito non solo a coppie eterosessuali, omosessuali e a singoli che non intendono intraprendere una relazione sentimentale, ma anche a chi non abbia tempo e voglia di impegnarsi fisicamente in una gravidanza per nove mesi (come hanno fatto alcune dive di Hollywood). Ecco come finisce il noto brocardo, secondo il quale mater semper certa est: entrano in gioco fino a sei figure genitoriali, con grave compromissione di alcuni diritti fondamentali del nascituro.

Il quadro giurisprudenziale. Il primo caso di maternità surrogata in Italia fu deciso dal Tribunale di Monza nel 1989: una coppia di coniugi senza figli concluse un contratto con un’immigrata algerina, in forza del quale quest’ultima s’impegnava, dietro corrispettivo, a sottoporsi a inseminazione artificiale con il seme del committente, a portare avanti la gravidanza e a consegnare allo stesso e a sua moglie il nascituro, rinunziando a qualunque diritto nei suoi confronti. Successivamente pentitasi, la madre surrogante si rifiutò di adempiere gli impegni assunti e i coniugi si rivolsero al tribunale per ottenere la richiesta di riconoscimento della minore quale «figlia naturale» del padre biologico (e committente) e l’affidamento in via definitiva a entrambi. I giudici decisero che si poteva concedere il riconoscimento del minore come figlio naturale del padre committente (che era anche il padre biologico del nascituro), il quale ne poteva chiedere, tramite provvedimento da parte del giudice, l’inserimento nella propria famiglia legittima. Il nato sarà poi figlio naturale della madre surrogante, per l’insuperabilità del disposto di cui all’articolo 269 codice civile (“La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre”). La sentenza affronta per la prima volta l’ammissibilità nel nostro ordinamento del contratto di maternità surrogata ed è di particolare interesse perché enuncia quali sono gli ostacoli, legislativi e di ordine costituzionale, che impediscono il riconoscimento del contratto di gestazione per conto terzi quale «contratto atipico» ex articolo 1322 del Codice Civile (cioè non espressamente previsto dalla legge, ma diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico).


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Ostacoli così sintetizzabili. Innanzitutto, nessuna analogia sussiste tra la maternità surrogata e l’istituto dell’adozione, in quanto sul punto già la sentenza n. 11 del 10/02/1981 della Corte Costituzionale, ha chiarito che “la riforma del 1967 ha spostato il centro di gravità dell’adozione dall’interesse dell’adottante (di sopperire alla propria incapacità procreativa e di assicurarsi una discendenza anche a fini ereditari, n.d.r.) a quello dell’adottato […], interesse del minore ad essere allevato ed educato in condizioni più vantaggiose”, questo in quanto gli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione, che riconoscono come fine preminente lo svolgimento della personalità e l’educazione del minore nel luogo a ciò più idoneo, individuano tale sede “in primissima istanza nella famiglia di origine, e, soltanto in caso di incapacità di questa, in una famiglia sostitutiva”. La maternità surrogata, quindi, non è una modalità (ulteriore rispetto all’adozione) per ottemperare al legittimo desiderio procreativo di una coppia priva di figli, per l’evidente ragione che l’adozione presuppone l’esistenza in vita del minore adottabile e il suo bisogno di tutela – e, quindi, non prioritariamente il desiderio di una coppia sterile –, mentre la maternità surrogata inverte tale ordine di interesse (cioè vede prevalere l’interesse alla procreazione della coppia su quello del minore). In secondo luogo, la Costituzione non riconosce un “vero e proprio diritto alla procreazione”, quale presupposto per l’ammissibilità di tali contratti: nel nostro ordinamento non trovano spazio i concetti di paternità o di maternità meramente negoziali, disgiunti, cioè, da un qualche fondamento biologico e governati dall’autonomia privata, tali da cancellare dal mondo giuridico i legami naturali. Inoltre, secondo una parte della dottrina (Cian-Trabucchi, “Commentario breve al Codice Civile”, 2003): “Poiché il diritto di procreare è un diritto fondamentale dell’individuo soggetto al contemperamento con altri diritti fondamentali della persona (quali sono i diritti del nascituro e del minore), nel caso della procreazione artificiale esso deve trovare contemperamento con il diritto del nascituro ad avere due genitori e ad essere istruito, mantenuto ed educato da entrambi i genitori; per tale ragione, solo le coppie eterosessuali, legalmente coniugate o stabilmente conviventi costituiscono soggetti legittimati alla procreazione medicalmente assistita”.

Oggi, in Italia, la legge n. 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, vieta espressamente la surrogazione di maternità (articolo 12 commi 1 e 2) e qualsiasi realizzazione, organizzazione o pubblicizzazione di tale pratica (comma 6).

Altro ostacolo insormontabile è costituito proprio dal riconoscimento dello status di madre esclusivamente per colei che partorisce il minore (artt. 232 e 269 c.c.), sul presupposto di un’evidenza naturale che rende superflua qualsiasi necessità di spiegazione. Un altro degli argomenti certamente a sostegno dell’inammissibilità del contratto di maternità surrogata è l’indisponibilità del bene oggetto di accordo ex articolo 5 del Codice Civile (“Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”). La contrarietà del contratto di maternità surrogata all’ordinamento giuridico si evince dal fatto che l’atto dispositivo del proprio corpo è comunque contrario alla legge (in quanto realizza una transazione prima non contemplata dalla legislazione, oggi vietata, operando in frode della stessa e aggirando anche altre leggi, come quella sull’adozione), all’ordine pubblico (con il quale mal si accorda) e, almeno in caso di onerosità, anche al buon costume, secondo il quale, infatti, un atto di maternità surrogata potrebbe eventualmente realizzarsi soltanto a titolo gratuito (in base a un movente altruistico) e non dietro un pagamento in denaro.


Edizione speciale: Utero in affitto

Quindi, non possono formare oggetto di un atto di autonomia privata, perché non sono beni in senso giuridico, le parti del corpo umano (gameti e organi della riproduzione) sulle quali il soggetto non è titolare di un diritto patrimoniale, non potendoli affittare né alienare, in quanto l’uso strumentale può diminuire la loro funzione e perché beni indisponibili. La dottrina prevalente è fondamentalmente d’accordo nell’escludere che il materiale riproduttivo possa essere equiparato a un bene economico, proprio in considerazione delle peculiarità biologiche legate alla riproduzione di altri essere viventi: il lettore comprenderà immediatamente la differenza tra donare un rene e donare (che poi di fatto è “vendere”) il seme o gli ovuli! Ultima argomentazione che ostacola la stipulazione di contratti di maternità surrogata è costituita dall’indisponibilità degli status personali, quali quello di figlio e quello di madre (chi partorisce non può spogliarsi del suo status di madre, né modificare quello del figlio), i munera, come la potestà dei genitori (oggi “responsabilità genitoriale”), e i diritti personali dei minori all’educazione e al mantenimento nella famiglia iure sanguinis.

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Poco esplorato dalla dottrina è invece il cosiddetto diritto del nascituro a conoscere le proprie origini, specie in considerazione del fatto che è aumentato il numero delle persone coinvolte nel processo procreativo. Si è infatti detto che vi sono fino a sei soggetti: due “committenti”, che diventano “genitori legali”; due “genitori biologici”, i venditori di gameti (che potrebbero essere anche tre, perché la cellula uovo potrebbe essere di una donna che fornisce il mitocondrio e di un’altra che fornisce il nucleo), e infine la madre surrogante. Può inoltre verificarsi il fenomeno del coinvolgimento di persone legate da vincolo di parentela e consanguineità (nonna che partorisce il nipote, sorelle che partoriscono fratellastri, etc.). L’argomento è stato affrontato dalla sentenza n. 278 del 2013, con cui la Corte Costituzionale ha risolto la delicata questione del bilanciamento tra il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini e il diritto della madre a rimanere anonima. Ha stabilito la Corte che “[…] il relativo bisogno di conoscenza (delle proprie origini, n.d.r.) rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale”. Per superare la rigida contrapposizione tra i due interessi (della donna che partorisce in anonimato a non essere rintracciata e del figlio a conoscere l’identità della propria madre biologica), la Corte ha introdotto la distinzione tra “genitorialità giuridica” e “genitorialità naturale” e ha osservato che “una rinuncia irreversibile alla genitorialità giuridica non può ragionevolmente implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla genitorialità naturale”. E’ ormai ampiamente sostenuto, anche da uno dei settori più avanzati della riflessione femminista, che i problemi etici connessi al tema della nascita non possono essere affrontati attraverso la contrapposizione tra gli interessi della donna e quelli (confliggenti) del nascituro. In questa nuova prospettiva, è fuorviante tentare ad esempio di mostrare che la donna è l’unico individuo che conta e che il nascituro non è un individuo degno di considerazione.

Art. 269 del Codice Civile: “La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre”.


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Se anche “il diritto di procreare” è un diritto fondamentale dell’individuo adulto, esso va limitato da altri diritti fondamentali della persona, quali sono i diritti del nascituro e del minore ad avere due genitori e a essere istruito, mantenuto ed educato da entrambi. Se il diritto di conoscere le proprie origini è ampiamente riconosciuto nell’ambito di vicende particolarmente dolorose e drammatiche, quale la scelta di partorire in anonimato pur di non optare per l’aborto, non si comprende perché il predetto diritto dovrebbe essere violato in caso di maternità surrogata. L’elenco dei diritti del nascituro inevitabilmente in conflitto con quelli degli individui che esercitano il loro, preteso, diritto di procreare non finisce qui: dal diritto del bambino alla bigenitorialità (negato quando alla maternità surrogata accedono singoli che non intendono intraprendere relazioni sentimentali), al diritto del bambino di essere allevato da un padre e da una madre (negato quando alla maternità surrogata accedono coppie omosessuali). Sul punto il dibattito è acceso. Da parte nostra ci limitiamo ad osservare che le fonti di diritto nazionale e internazionale (Dichiarazione ONU dei Diritti del Fanciullo, legge sull’adozione dei minori, tutela dei figli in caso di separazione e divorzio, norme del Codice Civile italiano) riconoscono il diritto, nella misura del possibile, a conoscere i propri genitori; il diritto di crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori; il diritto a non essere separato dalla madre se non per circostanze eccezionali; il diritto a conservare la propria identità e le relazioni familiari.

In buona sostanza, il fanciullo ha il prioritario, inalienabile e assoluto diritto di essere allevato all’interno della propria famiglia iure sanguinis, che presuppone il modello eterosessuale madre/padre, cioè coloro che lo hanno generato (salvo casi di inadeguatezza della famiglia di origine). Anticipando l’eventuale (e francamente misera dal punto di vista dialettico e intellettuale) obiezione secondo la quale esistono bambini orfani di una o di entrambe le figure genitoriali, così come figli cresciuti da uno dei due genitori separati o divorziati, si risponde mestamente che da una parte l’esistenza di situazioni drammatiche e dolorose non possono e non devono essere prese a modello di riferimento dal legislatore per creane altre e, dall’altra, che tanto il bambino orfano quanto quello che ha subito la separazione dei propri genitori sono individui già nati, o già concepiti, al momento della tragedia che li ha privati di un genitore. Appare invece lapalissiano che, nel caso di figli da maternità surrogata, si programma la nascita di esseri umani ai quali manca uno dei genitori non per incidente, fatalità, abbandono, ma solo perché da qualche parte, in qualche Stato, il materiale procreativo è una vera e propria merce di scambio e il cosiddetto diritto di procreare degli adulti è ritenuto prevalente rispetto al diritto dei minori ad avere un padre e una madre e di conoscere la propria identità (anche) biologica.

Nessuna analogia sussiste tra la maternità surrogata e l’istituto dell’adozione: si desume dalla sentenza n. 11 del 10/02/1981 della Corte Costituzionale.


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L’utero in affitto come problema bio-giuridico

Si può configurare il “diritto ad un figlio”? Esiste un diritto a conoscere le proprie origini biologiche (e non solo)? di Aldo Rocco Vitale La pratica dell’utero in affitto è il punto d’incontro del progresso tecnico con l’idea che il diritto debba legalizzare le nuove istanze individuali, con la rivendicazione del “diritto al figlio” e con l’idea che il bene e il male siano cose soggettive. In questa sede si prenderanno in considerazione le problematiche biogiuridiche del presunto diritto al figlio che si rivendica tramite la pratica dell’utero in affitto e le conseguenze che dalle suddette tecniche scaturiscono, tra le quali soprattutto la commercializzazione – o, meglio, l’industrializzazione – della procreazione umana. «Si parla di un diritto di procreare o di un diritto al figlio; del diritto di nascere e del diritto di non nascere; del diritto di nascere sano e del diritto di avere una famiglia composta da due genitori di sesso diverso, del diritto all’unicità e del diritto a un patrimonio genetico non manipolato. Andando avanti ci si imbatte nel diritto a conoscere la propria origine biologica e nel diritto

Aldo Rocco Vitale Aldo Rocco Vitale è avvocato, dottore di ricerca in storia e teoria generale del diritto europeo presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tor Vergata e cultore della materia in biogiuridica e in filosofia del diritto.

Lo Stato non ha il diritto, e non dovrebbe mai avere il potere, di precludere l’accesso alla verità non solo ai propri cittadini, ma a qualsiasi essere umano, in particolare quando questa verità ha per oggetto l’identità personale. all’integrità fisica e psichica, nel diritto di sapere e non sapere; nel diritto alla salute e alla cura, e nel diritto alla malattia o nel diritto a non essere perfetto, con i quali si vuole sottolineare l’inaccettabilità di parametri di normalità, l’illegittimità di discriminazioni o di stigmatizzazione legate alle condizioni fisiche o psichiche»: su “La Repubblica” del 26 ottobre 2004 Stefano Rodotà descriveva in questo modo l’avvento dei nuovi diritti. Quanto più preme in questa sede è comprendere almeno due di questi nuovi diritti che sono strettamente implicati con la pratica bio-medica dell’utero in affitto, cioè da un lato il cosiddetto “diritto (imponderabile) al figlio” e dall’altro il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche. Un “diritto al figlio” non è configurabile, altrimenti si introdurrebbero delle gravissime distorsioni nel tessuto del diritto per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, ritenere esistente un tale diritto dovrebbe comportare l’individuazione o l’individuabilità dei soggetti nei confronti dei quali un tale diritto possa essere fatto valere: il coniuge, la società, lo Stato?


10 N. 37 - GENNAIO 2016 Verso chi si dovrebbe reclamare un tale diritto? E con quali mezzi? Anche coercitivi? In secondo luogo, se tale diritto fosse davvero ipotizzabile, il suo contenuto, ovvero il suo oggetto, sarebbe il figlio stesso, violando però così il suo status giuridico di ‘soggetto di diritto’, in quanto persona, e non di ‘oggetto di diritti’. Proprio la rivendicazione del “diritto al figlio”, comportando la lesione della dignità del figlio medesimo, considerato quale oggetto, implicherebbe quindi l’automatica e inderogabile violazione dei diritti del figlio.

Un “diritto al figlio” non è configurabile, altrimenti si introdurrebbero delle gravissime distorsioni nel tessuto del diritto. Per quanto riguarda il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche, occorre fin da subito precisare che esso si può configurare solo in quanto le procedure di procreazione medicalmente assistita e utero in affitto implichino uno scudo in questo senso. Si pensi, del resto, alle numerose associazioni dei cosiddetti “figli della provetta”, che si stanno costituendo ovunque nel mondo per la conoscenza delle proprie “radici” come, tra le decine di esempi possibili, insegna il caso di Stephanie Raeymaekers. Sul punto è opportuno distinguere la segretezza dall’anonimato. La segretezza riguarda l’occultamento delle tecniche utilizzate per la fecondazione, mentre l’anonimato consiste nel celare l’identità di coloro che hanno preso parte al processo di generazione del nuovo nato (per esempio i venditori di gameti, la madre surrogante, etc.). Posta una tale differenza, il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche è sicuramente esperibile per superare l’anonimato, ma più problematico in riferimento alla dimensione della segretezza, date le ripercussioni che si possono registrare nell’ambito delle relazioni familiari; è tuttavia necessario ammettere che, da un punto di vista logico, scavalcare l’anonimato presuppone necessariamente abbattere anche il muro della segretezza. Su questo delicato problema ha avuto modo di esprimersi il Comitato Nazionale per la Bioetica, con un parere del 25 novembre 2011 intitolato “Conoscere le proprie origini biologiche nella procreazione medicalmente assistita eterologa”. In questa sede il CNB ha evidenziato quanto segue: «Occorre notare che eludere la richiesta di conoscere la verità implica una specifica forma di violenza: la violenza di chi, conoscendo la verità che concerne un’altra persona e potendo comunicargliela, si rifiuta di farlo, mantenendo nei suoi confronti un’indebita posizione di potere. Ulteriore rilievo ha questa argomentazione quando questo soggetto è lo Stato: si deve ricordare il tema, individuato da Kant, del principio supremo del diritto pubblico, che non può che essere quello della pubblicità, dell’abolizione degli arcana imperii in qualsiasi forma.

Lo Stato non ha il diritto e non dovrebbe mai avere il potere di precludere l’accesso alla verità non solo ai propri cittadini, ma a qualsiasi essere umano, in particolare quando questa verità ha per oggetto l’identità personale». Infine, una considerazione deve essere effettuata anche circa il problema dello status giuridico del nato, cioè della sua relazione giuridica con chi lo ha generato. Si possono scegliere in questo caso due vie: la strada del favor legis, cioè rimettere alla legge la decisione di chi debba essere considerato genitore, indipendentemente da eventuali legami affettivi, biologici, genetici con il figlio; oppure la strada del favor veritatis, cioè seguire i criteri biologici per la determinazione dei rapporti giuridici tra il generato e i genitori. La distinzione può essere più netta nel caso del venditore di sperma, ma diventa più sottile e di difficoltoso chiarimento nel caso dell’utero in affitto, visto il legame comunque biologico – sebbene non necessariamente genetico – che lega la madre surrogante e il feto per i lunghi mesi della gravidanza. Se il criterio del favor legis appare con tutta evidenza arbitrario, per il favor veritatis sembra quantomai opportuno considerare che anche questo criterio diventa arbitrario ove si considerasse soltanto la madre gestante e non anche quella genetica. Esplode insomma in tutta la sua tragicità la contraddittorietà etica e giuridica della maternità surrogata che, rendendo diffuso, duplicando e perfino moltiplicando il ruolo materno, dilacera l’identità della madre e dunque strappa il tessuto relazionale del diritto, divenendo non già fonte di giustizia, ma di ingiustizia e, come tale, palesandosi come prassi bio-medica congenitamente anti-giuridica. In conclusione, si possono accogliere le parole di Martin Rhonheimer il quale nota: «La procreazione artificiale è in questo senso una modalità d’azione ingiusta, e cioè non a motivo della sua artificiosità, bensì a causa dell’abuso dell’arte medica, abuso che possiede una componente prometeica».

Stephanie Raeymaekers


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L’utero in affitto come business internazionale eugenetico

Diceva Kant che tutto ciò che ha un prezzo, non ha dignità, è sostituibile. Ciò che ha dignità non può avere un prezzo. di Aldo Rocco Vitale Su “Il Fatto Quotidiano” del 23 gennaio 2013 è stato pubblicato un articolo sul mercato dell’utero in affitto che, nella sola India, produce un fatturato di ben 2,3 miliardi di dollari. Il suddetto servizio giornalistico non è che uno dei tanti spunti utili per focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su una pratica bio-medica, quale è quella dell’utero in affitto, che oramai ha assunto, nel suo continuo sviluppo nell’ultimo ventennio, la dimensione di una vera e propria industria a livello globale. Per comprendere le cifre e la loro evoluzione è necessario partire dall’inizio. In primo luogo, esiste un vero e proprio mercato delle cellule riproduttive, cioè dei gameti, ovvero sperma e ovuli. Sul punto gli studi sono numerosi, ma su tutti spiccano quelli di Rene Almeling e Debora Spar; la prima si è occupata del mercato di gameti, la seconda di quello dell’utero in affitto. Si scopre così che la maggior parte dei cosiddetti “donatori” di gameti si presta all’operazione in virtù del previsto compenso economico. E se nel 1986 l’industria della fertilità fatturava, soltanto negli Stati Uniti, circa 41 milioni di dollari, appena qualche anno dopo, nel 2002, si era già arrivati a circa 3 miliardi di dollari. Secondo il Wall Street Journal, nel 2000, il solo mercato mondiale di sperma valeva circa 100 milioni di dollari. Nel 2004, i contratti di surrogazione di maternità negli Stati Uniti prevedevano un compenso oscillante tra i 30.000 e i 120.000 dollari. Nel 2007, secondo le rilevazioni dell’epoca, negli Stati Uniti un migliaio di donne ogni settimana ricorreva alla fecondazione artificiale e oltre undicimila donne ogni anno partorivano bambini a seguito di forme tecnologiche di fecondazione assistita, inserendosi nell’industria riproduttiva americana, che quell’anno fatturava già circa 2 miliardi di dollari. Inoltre, è sempre presente la deriva eugenetica che rende possibile, anche con sfumature utopistiche e ben poco scientifiche, scegliere il seme di premi nobel e atleti olimpici da utilizzare per la gravidanza surrogata, come ricorda Michael Sandel nel suo volume Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica.

Mentre una madre surrogante negli USA viene pagata tra 20.000 e 25.000 dollari, in India una madre surrogante viene pagata tra 4.500 e 5.000 dollari.

Avremo tra breve anche noi, come in America, degli album tra cui scegliere le nostre incubatrici umane (Miriam Mafai). Il più completo studio sul mercato riproduttivo, legato specialmente all’utero in affitto in India, è stato compiuto dal Centre for Social Research (CSR), il quale ha ufficializzato alcune cifre. Secondo le stime effettuate, la maggior parte delle donne indiane che si prestano come madri surroganti sono giovani, sposate, tra i 26 e i 30 anni, hanno un livello basso o primario di istruzione, sono in maggioranza di religione induista, decidono di fare da madre surrogante per motivi economici e spendono il ricavato che viene loro offerto dai committenti per il mantenimento della famiglia, l’educazione dei propri figli, la costruzione o ricostruzione delle proprie case, oppure come risparmi per il futuro matrimonio delle figlie nate in precedenza. Il CSR, inoltre, rivela come un rapporto della Confederazione dell’Industria Indiana abbia stimato, per l’anno 2012, che il mercato dell’utero in affitto abbia fatturato 2,3 miliardi di dollari. Sempre il CSR, nel suo voluminoso studio ricognitivo, nota che, mentre una madre surrogante negli USA viene pagata tra 20.000 e 25.000 dollari, in India, invece, una madre surrogante viene pagata tra 4.500 e 5.000 dollari. Questo in quanto in quest’ultima il turismo riproduttivo è più sviluppato: la concorrenza determina infatti un abbassamento dei prezzi, secondo quanto rilevato anche dal prestigioso “The Economist”.


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Ricky Martin è un’altra delle star che ha comprato due “figli sintetici”, come Elton John

Lo scenario, il fatturato e le cifre legate al mercato dell’utero in affitto sono destinate ad ampliarsi per almeno due fattori principali: la crescente infertilità delle coppie occidentali dipendente da vari fattori, tra i quali l’età sempre più avanzata della prima gravidanza e l’ingresso nel mercato riproduttivo delle coppie omosessuali che, dopo il riconoscimento legale della loro unione nei Paesi dove ciò è avvenuto, stanno cominciando a rivendicare il “diritto al figlio”, il “diritto a procreare”, ricorrendo proprio alla combinazione di fecondazione artificiale e utero in affitto come, tra le migliaia di casi, insegna quello del celebre cantante Elton John. Il tutto accade in violazione di norme e principi etici e giuridici. Il suddetto sistema della compravendita riproduttiva è, infatti, chiaramente in contrasto con le Carte internazionali che vietano di trarre profitto economico dal corpo umano e dalle sue parti, come sanciscono, per esempio, l’art. 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e sulla biomedicina del 1997 e l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000. Infine, si dimentica che in una tale dimensione l’essere umano – sia chi vende i gameti (spermatozoi e ovuli), sia la madre gestante, sia soprattutto il bambino – è sostanzialmente reificato, cioè “cosificato”, ossia reso oggetto e mezzo per la soddisfazione di desideri altrui. Come ha notato una donna, laica e femminista, del calibro di Miriam Mafai: «Stiamo entrando nel grande circuito della mercificazione della gravidanza, con tutti i cambiamenti giuridici, etici e psicologici che da questo possono derivare. Avremo tra breve anche noi, come in America, degli album tra cui scegliere le nostre incubatrici umane.

Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro, equivalente; invece, ciò che non ha alcun prezzo, né quindi consente alcun equivalente, ha una dignità. Sarah Jessica Parker ha detto che voleva altri figli dopo il primogenito, ma non riusciva a restare incinta. Allora li ha comprati, al mercato dell’utero in affitto

Chi di noi non vorrà portare in grembo il suo bambino potrà, pagando, depositare il suo embrione altrove e tornare a riprenderselo dopo nove mesi. Si rompe così definitivamente un legame naturale, unico, nutrito di sangue e di sogni tra la madre e quello che una volta si chiamava “il frutto del ventre tuo” […]. Non tutto ciò che è possibile allo scienziato può essere considerato lecito». Si è dimenticata, in sostanza, l’inderogabile lezione del filosofo Immanuel Kant, per il quale quanto ha, come l’essere umano, una dignità, non può avere un prezzo: «Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può anche essere sostituito da qualcos’altro, equivalente; invece, ciò che non ha alcun prezzo, né quindi consente alcun equivalente, ha una dignità».


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Ferdinando Costantino

Ferdinando Costantino è geologo​e dottorato in chimica.​ E’ ricercatore universitario in chimica inorganica.​

La cantante femminista Fiorella Mannoia

Utero in affitto per altruismo?

In queste pagine analizziamo se sia possibile giustificare, in base alle norme vigenti, l’utero in affitto a titolo gratuito solo per “dare un figlio a chi non può averne”. di Ferdinando Costantino e Monica Boccardi La commercializzazione del corpo delle donne e dei bambini è ormai diventata un vero e proprio business. Sta montando però un movimento di protesta contro l’utero in affitto, anche da parte di militanti femministe – soprattutto nei Paesi del Nord Europa –, le quali denunciano con forza lo sfruttamento di donne povere che affittano il proprio apparato riproduttivo, sottoponendosi a forme di controllo decisamente inaccettabili sul proprio corpo e sul “prodotto” che portano in grembo. Le proteste riguardano la violazione dei diritti e della dignità delle donne, trattate alla stregua di schiave, per soddisfare il desiderio di maternità di persone ricche che pensano che col denaro si possa comprare tutto, anche le persone. In Italia, Fiorella Mannoia si è recentemente espressa con un “tweet” che ha avuto un’ampia risonanza, criticando aspramente l’utero in affitto. Tuttavia la cantante, oltre alla sacrosanta indignazione, offriva una personale apertura all’accettazione della pratica della surrogazione: la possibilità, sottoposta a rigorosi controlli delle autorità competenti, della cosiddetta “maternità surrogata altruistica”, cioè legata a un sincero desiderio di aiutare coppie – etero o gay poco importa – impossibilitate ad avere figli anche tramite tecniche di fecondazione eterologa. In tal modo la dignità della donna verrebbe, a suo dire, valorizzata tramite un atto di autodeterminazione, che ricorda, e non a caso, la stessa autodeterminazione usata in caso di aborto, visto come un diritto fondamentale e mai negato dalle femministe di tutto il mondo, Mannoia compresa. Infatti, se l’utero appartiene alla donna che può decidere legalmente di eliminare il bambino, il ragionamento per cui un figlio si può regalare è assolutamente coerente con una visione dell’essere umano, nelle prime fasi della sua vita, visto come oggetto e non come soggetto di diritti. In altre parole, evitato lo sfruttamento commerciale al fine di salvaguardare la salute psicofisica delle donne,

Sarebbe un diritto umano il poter disporre della vita dei nuovi nati come “oggetti” da regalo, seppur donati con lodevoli intenzioni, accompagnate, ovviamente, da cospicui rimborsi spese? una donazione di bambini fatta in nome dell’altruismo sarebbe assolutamente la benvenuta. Veramente sconcertante, in tutto ciò, è la completa mancanza di voci critiche che mettano in discussione il presunto diritto umano di poter disporre della vita dei nuovi nati come “oggetti” da regalo, seppur donati con lodevoli intenzioni (accompagnate, ovviamente, da cospicui rimborsi spese, sui quali ci sarebbe molto da dire…). Il “diritto” ad abortire si scontra inevitabilmente con il diritto alla vita del nascituro, diritto tutelato dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia, il considerare il non nato una “non-persona” che acquisirebbe i diritti solo dalla nascita in poi, permette l’ipocrita e tragica coesistenza, nelle società occidentali, del diritto ad abortire per le donne con il diritto alla vita dei bambini. Nel caso della maternità surrogata altruistica il bambino viene fatto nascere dalla gestante surrogata al fine di essere ceduto ai richiedenti previo accordo fra le due parti, sotto forma di “donazione”. Essendo nato, però, il bambino acquisisce i diritti riconosciuti, da molteplici dichiarazioni e trattati internazionali, a tutti gli esseri umani. Diritti che, pertanto, dovrebbero essere difesi e tutelati. Queste norme proteggono il bambino da potenziali sfruttamenti di qualunque genere, ma soprattutto riconoscono in lui la natura di soggetto di diritto. In quanto tali dovrebbero prevalere su ogni altro diritto, anche assoluto, in virtù della natura di soggetto debole degno

di maggior tutela rispetto agli adulti.


16 N. 37 - GENNAIO 2016 Impossibile, secondo le norme internazionali. Il principio sesto della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, adottata il 20 novembre 1959 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, recita: “Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre”. L’articolo 7 della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia indica invece che il fanciullo “[…] è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi”. L’articolo 8, comma 2 afferma: “Se un fanciullo è illegalmente privato degli elementi costitutivi della sua identità o di alcuni di essi, gli Stati parti devono concedergli adeguata assistenza e protezione affinché la sua identità sia ristabilita il più rapidamente possibile”. L’art. 18, 1 comma: “Gli Stati parti si devono adoperare al massimo per garantire il riconoscimento del principio secondo cui entrambi i genitori hanno comuni responsabilità in ordine all’allevamento e allo sviluppo del bambino. La responsabilità di allevare il fanciullo e di garantire il suo sviluppo incombe in primo luogo sui genitori o, all’occorrenza, sui tutori. Nell’assolvimento del loro compito essi debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo”. Ancora, l’art. 21: “Gli Stati parti che riconoscono e/o autorizzano il sistema dell’adozione devono accertarsi che l’interesse superiore del fanciullo costituisca la principale preoccupazione in materia [… e] D) adottano ogni adeguata misura per vigilare affinché, in caso di adozione all’estero, il collocamento del fanciullo non diventi fonte di profitto materiale indebito per le persone che ne sono responsabili”. Infine, il più importante di tutti, l’art. 35: “Gli Stati parti adottano ogni adeguato provvedimento a livello nazionale, bilaterale e multilaterale per impedire il rapimento, la vendita o la tratta di fanciulli per qualunque fine e sotto qualsiasi forma”.

“Gli Stati parti che riconoscono e/o autorizzano il sistema dell’adozione devono accertarsi che l’interesse superiore del fanciullo costituisca la principale preoccupazione in materia… D) adottano ogni adeguata misura per vigilare affinché, in caso di adozione all’estero, il collocamento del fanciullo non diventi fonte di profitto materiale indebito per le persone che ne sono responsabili” (Art. 21, Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia)

“Gli Stati parti adottano ogni adeguato provvedimento a livello nazionale, bilaterale e multilaterale per impedire il rapimento, la vendita o la tratta di fanciulli per qualunque fine e sotto qualsiasi forma” (Art. 35, Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia) E fondamentale, per quanto misconosciuto, appare il disposto dei Protocolli opzionali alla Convenzione dei Diritti del Fanciullo concernenti la vendita di bambini, la prostituzione e la pornografia coinvolgenti l’infanzia, nonché il loro coinvolgimento nei conflitti armati (adottati a New York, il 6 settembre 2000, ratificati in Italia con L. 11 marzo 2002, n. 46), che nei suoi primi articoli recita: “Articolo primo Gli Stati Parte vietano la vendita di bambini, la prostituzione di bambini e la pornografia con bambini, in conformità alle norme del presente Protocollo. Articolo 2 - Ai fini del presente Protocollo: a) per vendita di bambini, s’intende qualsiasi atto o transazione che comporta il trasferimento di un bambino, di qualsiasi persona o gruppo di persone ad altra persona o ad altro gruppo dietro compenso o qualsiasi altro vantaggio”. È importante notare come, a partire dalla Convenzione, la ‘vendita’ sia considerata a sé stante, e vietata, indipendentemente dalla finalità per cui avviene e dalla ‘forma’ che assume giuridicamente, anche se poi, nei Protocolli, viene auspicato che sia prevista come reato esclusivamente se compiuta con le finalità specifiche elencate più oltre all’art. 3, che contempla le ipotesi dello sfruttamento sessuale, dell’uso degli organi e del lavoro minorile, nonché l’indebito consenso all’adozione internazionale. È inoltre fondamentale evidenziare come venga considerata ‘vendita’ anche la dazione a fronte di qualunque tipo di ‘vantaggio’, che può anche non essere economico, o consistere in un mero ‘rimborso spese’. Purtroppo l’ipotesi della cessione totalmente a titolo gratuito non è contemplata e questa è una enorme falla nel sistema, anche rispetto alle successive ipotesi contenute nei Protocolli, perché finisce per indebolire le stesse tutele contro la prostituzione e la pornografia.


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L’utero in affitto è sempre una “vendita” di bambini. La prima domanda da farsi è dunque questa: l’utero in affitto è una vendita di bambini, ai sensi della Convenzione di N.Y., o può essere assimilata a essa? La risposta sta nel cuore di chi se la pone,ma anche nei fatti: se si accantona per un attimo il discutibile “diritto al figlio” (che peraltro non varrebbe a legittimare la cessione di un essere umano, esattamente come non potrebbero farlo il diritto al libero scambio di merci o il diritto di proprietà, poiché è violato il diritto del bambino, da considerarsi preminente su ogni altro) e si osservano i fatti, si può concludere che l’utero in affitto è sempre e comunque una vera e propria cessione di un neonato.

Ogni ipotesi di maternità surrogata, indipendentemente dalle modalità con cui avviene e dalla previsione di un prezzo per la stessa, o di un semplice rimborso spese, è sussumibile nell’ipotesi della vendita del bambino.

Infatti, non può in alcun modo essere considerata una cura per l’infertilità, in quanto, pur se questa derivi da una patologia (e questo non è ad esempio il caso delle coppie omosessuali, dove è naturale e non patologica), la nascita di un bambino attraverso la pratica dell’utero in affitto non avviene grazie alla terapia, perchè non provoca la guarigione del soggetto patologicamente non fertile. Esattamente come non lo è la fecondazione artificiale, seppure venga spacciata per tale. Chi sostiene la surrogazione, peraltro, si guarda bene dal parlare di cessione di bambini, e guarda caso parla sempre – grazie alla neolingua di orwelliana memoria – di ‘donazione’ di gameti, benché sia una vera e propria compravendita. Tuttavia, nel momento in cui i gameti si incontrano non sono più distinti e formano qualcosa di totalmente nuovo, che dalla cellula iniziale si trasforma – in modo autonomo e senza mai perdere la sua identità – in embrione, poi in feto e in bambino, che sarà adolescente, adulto, vecchio… Con la fecondazione, non esistono più l’ovulo e gli spermatozoi ‘di proprietà’ (dei quali, comunque, si può discutere circa la liceità di compravendita). Ciò che è oggetto di scambio, nella realtà, è una persona umana perfetta, alimentata dal grembo che la custodisce per nove mesi. La nascita di un bambino tramite maternità surrogata, dunque, altro non è che la procreazione di un essere umano allo scopo di darlo ad altri. Ergo, più che di utero in affitto, si dovrebbe parlare di “cessione di neonato”. Le legislazioni che consentono la surrogazione, e che attribuiscono ex lege la maternità alla cosiddetta ‘madre sociale’, cioè alla futura affidataria del nascituro, pongono quindi in essere una finzione giuridica che si scontra clamorosamente con la realtà dei

fatti, visti dalla parte del bambino: per il neonato la mamma è colei che lo ha portato in grembo, della quale conosce e riconosce la voce, il battito cardiaco e l’odore e dalla quale ha ricevuto protezione e nutrimento per i nove mesi precedenti, indipendentemente dal legame genetico con la stessa. Negare questo significa negare la realtà. E poiché “per vendita di bambini, s’intende qualsiasi atto […] che comporta il trasferimento di un bambino […] dietro compenso o qualsiasi altro vantaggio”, possiamo ritenere che, alla luce dei Protocolli, la surrogazione, anche quando effettuata sotto forma di donazione, ricada a pieno titolo all’interno della definizione di cui all’art. l’art. 35 della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, laddove vieta “[…] il rapimento, la vendita o la tratta di fanciulli per qualunque fine e sotto qualsiasi forma”. Si tratta infatti, senza dubbio, di una vendita mascherata da una ‘forma’ che la rende non immediatamente visibile, anche se non sia stabilito un prezzo, ma vi sia solo un rimborso spese (che costituisce comunque un ‘vantaggio’ economico). Inoltre, il divieto si estende qualunque sia il fine, come già evidenziato, perciò nemmeno il preteso diritto alla genitorialità può legalizzare una violazione dell’art. 35 appena citato.

Che differenza c’è tra la compravendita di bambini già nati, ceduti agli aspiranti genitori dietro compenso (che può addirittura essere considerata reato) e la surrogazione altruistica?


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E ci si può spingere ancora oltre: poiché il “qualsiasi altro vantaggio” previsto dai Protocolli non dev’essere di natura economica per essere giuridicamente rilevante, possiamo arrivare a sostenere che non solo l’esistenza di un rimborso spese, ma anche la semplice soddisfazione personale della gestante cedente per aver contribuito alla nascita del bambino a favore di estranei possa essere sufficiente ad integrare gli estremi della vendita. La logica conseguenza di quanto sopra affermato è che ogni ipotesi di maternità surrogata, indipendentemente dalle modalità con cui avviene e dalla previsione di un prezzo per la stessa, è sussumibile nell’ipotesi della vendita del bambino, pure se venga agita a fini pietistici e altruistici. Che i figli non possano essere oggetto di compravendita e nemmeno di ‘donazione’ altruistica dovrebbe essere dunque un principio palese, e da tutti unanimemente riconosciuto. Chi di noi ‘donerebbe’ in maniera altruistica il proprio figlio di cinque anni? Invece, stranamente, si vorrebbe che l’infante nei primissimi giorni di vita sia considerato un bene che può entrare a far parte di un accordo privato preventivo, o successivo, fra due parti.

Nel momento in cui i gameti s’incontrano, formano qualcosa di totalmente nuovo, che dalla cellula iniziale si trasforma – in modo autonomo e senza mai perdere la sua identità – in embrione, poi in feto e in bambino, che sarà adolescente, adulto, vecchio…

Dal momento della fecondazione non esistono più i gameti ‘di proprietà’: ciò che è oggetto di scambio, nella realtà, è una persona umana perfetta, alimentata dal grembo che la custodisce per nove mesi.

Tanto è vero che le legislazioni che disciplinano la maternità surrogata (come negli Stati Uniti), in generale stabiliscono che la ‘portatrice’ possa rinunciare, ancor prima del parto, ai propri diritti a favore degli aspiranti genitori. Altre nazioni, come l’Inghilterra, ancorano invece la surrogazione all’adozione, vietando i patti preventivi, attuando una fictio iuris che vìola comunque i principi precedentemente richiamati. Quello che non viene considerato in alcun modo, in tutte le legislazioni che consentono la surrogazione, è il diritto del nascituro ad essere tutelato nei confronti di una cessione che lo trasforma in un oggetto, snaturando la sua umanità e privandolo dei suoi diritti. Che differenza c’è tra la compravendita di bambini già nati, ceduti agli aspiranti genitori dietro compenso (che può addirittura essere considerata reato), e la surrogazione altruistica? Nei fatti, in entrambe le ipotesi un bambino viene trasferito a chi non lo ha concepito, né lo ha portato in grembo. In entrambe le ipotesi il bambino viene ceduto per rispondere al ‘desiderio’ o al ‘bisogno’ di divenire genitori di persone sterili, che non possono concepire naturalmente un figlio proprio e non sono disposti, o non sono adatti, ad adottare un orfano. No, non vi è alcuna differenza tra la surrogazione altruistica e la vendita di un neonato ad estranei: il bambino è privato allo stesso modo della sua umanità e dei diritti che da essa derivano.


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Alla nascita il bambino è un essere umano dotato di capacità giuridica (Art.1 c.c.) e, per la legge italiana, è figlio della donna che lo partorisce, indipendentemente dall’origine genetica dei gameti da cui è stato concepito.

La cessione di neonati: aspetti giuridici ed etici I giudici italiani stanno forzando l’interpretazione della legge, legalizzando la violazione dei diritti fondamentali dei neonati. di Monica Boccardi In Italia l’utero in affitto è una pratica illegale, anche se effettuata a titolo gratuito, ed è prevista come reato dalla L. 40/2004. Non è però punibile se effettuata all’estero, anche da italiani. Fino ad oggi, i nostri Pubblici Ministeri hanno incriminato per il reato di alterazione di stato civile (cioè per aver dichiarato all’anagrafe la nascita di un figlio proprio non partorito dalla donna stessa) le coppie che vi avevano fatto ricorso all’estero, registrando come figli propri i bambini nati a mezzo di surrogazione in Paesi dove è legalizzata e disciplinata. Di recente, però, alcuni Tribunali hanno assolto dal reato alcune di queste coppie, sostenendo (in estrema sintesi) che la legalizzazione della filiazione effettuata dallo Stato straniero secondo la propria legge impedisce il perfezionamento del reato. In questo articolo non si intende commentare tali decisioni sotto un profilo strettamente giuridico, ma fornire alcuni strumenti per comprendere che si tratta di aperture che legalizzano la violazione dei diritti fondamentali dei neonati coinvolti. Cerchiamo quindi di chiarire qualche concetto giuridico che permetta di comprendere come la cessione di un essere vivente non possa essere ammessa nemmeno a titolo gratuito.

Monica Boccardi

Monica Boccardi​è​avvocato dal 1992​ ed è iscritta all’Ordine degli Avvocati di Rimini. Conciliatore-Mediatore​ professionista presso CCIAA dal 2003​, è anche una Giurista Per la Vita.​

In primo luogo, teniamo in considerazione il fatto che, alla nascita, il bambino non è una res nullius (cosa che non appartiene a nessuno), ma un essere umano. Aggiungiamo anche che, per la legge italiana, esso è figlio della donna che lo partorisce, indipendentemente dall’origine genetica del gamete da cui è stato concepito.Lo riafferma chiaramente anche il provvedimento del Tribunale Roma 20/08/2014, che applica le norme sulla filiazione alla diatriba tra le coppie vittime dello scambio di embrioni fecondati in vitro: “La maternità naturale è ancora oggi legata al fatto storico del parto”. Quindi il bambino che nasce è, per la legge italiana, figlio di chi lo ha partorito e non, come si pone nel caso di surrogazione, di chi ha fornito parte del patrimonio genetico. All’estero non sempre è così: laddove la surrogazione è permessa, la disciplina varia, dalla fictio iuris di considerare il neonato figlio dei committenti, alla finzione di adozione da parte dei committenti stessi a seguito di rinuncia alla maternità (preventiva o successiva al parto) da parte della puerpera. In ogni caso, ciò che materialmente accade è questo: una donna partorisce un bambino, dopo averlo portato in grembo per nove mesi, nutrendolo, proteggendolo, facendolo crescere dallo stato embrionale allo stato di feto, e poi lo cede ad altri che avevano ‘ordinato’ il bebè, allo scopo di avere un figlio che la natura impediva loro di concepire. Il fatto che l’ovulo fecondato nella maggioranza dei casi non appartenga alla donna che porta avanti la gestazione non elimina lo status di madre di questa donna. Il che, evidentemente, ripropone vigorosamente la necessità di riaffermare, una volta per tutte, la validità giuridica, filosofica, antropologica, morale e logica, del concetto di naturalità nei fatti che caratterizzano la società.


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Non sarebbe neanche necessaria una legge esplicita per vietare l’utero in affitto: la cessione di un neonato, a qualsiasi titolo, è nulla in base a tutte le norme di diritto civile contrattuale vigente. Purtroppo, laddove la maternità surrogata è permessa non è così e si è proceduto alla creazione o alla modifica ad hoc della legge, al fine di consentire la finzione della filiazione sganciata dal parto. Nel nostro Paese vi sono istanze affinché la maternità surrogata venga legalizzata, correlandone la possibilità alla gratuità della stessa, trasformando la dazione dei gameti in ‘donazione’ (non lasciamoci trarre in inganno, chi mette a disposizione sperma e ovuli non lo fa gratis, ma come minimo pretende almeno un congruo ‘rimborso spese’) e l’affitto di utero in ‘comodato gratuito’, anche in questo caso a fronte di un adeguato ‘rimborso spese’. Nella realtà dei fatti, però, quanto viene ‘donato’ non sono il gamete o l’utero, bensì il bambino: la donna che partorisce il bimbo è la ‘proprietaria’ dell’utero e il neonato, anche se non avrà il suo patrimonio genetico, sarà stato cresciuto, nutrito e partorito da lei, da tutto il suo corpo, non da altri. Per quanto si possa mascherare la cosa – cambiando nomi, usando eufemismi e creando così una neolingua – quanto accade in caso di utero in affitto è dunque una vera e propria cessione di neonato dalla madre a terzi. È dunque lecito regalare un bambino? O peggio ancora farlo entrare in accordi di tipo commerciale sotto pagamento concordato? Tornando alla definizione giuridica da dare alla surrogazione gratuita, l’art 769 del Codice Civile definisce la ‘donazione’ come il “[…] contratto col quale per spirito di liberalità una parte arricchisce l’altra disponendo a favore di questa di un suo diritto”. Per la legge italiana, dunque, escluso che possa farsi rientrare la maternità surrogata nell’ambito dell’adozione, dovrebbe parlarsi di donazione di neonato. Ma se la donazione è un contratto, ad essa si applicano necessariamente le norme sui contratti. Cosicché, in ipotesi, alla cessione del neonato dovrebbero applicarsi gli artt. 771, 810, 1346, 1418 del Codice Civile. I quali prevedono che “La donazione non può comprendere che i beni presenti del donante.

Se comprende beni futuri è nulla rispetto a questi” (art. 771 c.c.); “Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti” (art. 810 c.c.); “L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile” (art. 1346 c.c.), “Producono nullità del contratto … la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346 c.c.”. Non sembra vi sia bisogno di spiegare altro: la donazione del frutto di una maternità surrogata appare del tutto contra legem, oltre che immorale. Infatti, affinché possa ritenersi valida una donazione siffatta, sarebbe necessario trasformare il neonato da soggetto di diritto, quale è in quanto essere umano, oltre che ai sensi di ogni legislazione sovranazionale, ad oggetto di diritti, privandolo in tal modo della sua natura di persona viva e, per di più, particolarmente meritevole di tutela. Invece, appare evidente che l’oggetto del contratto (che sia compravendita o donazione, poco importa), cioè la cessione di un bambino appositamente fatto nascere per darlo alla coppia che lo ha ‘ordinato’, è impossibile, in quanto il neonato, oggetto del contratto, non è, per legge, un bene in senso giuridico e non può formare l’oggetto di diritti altrui. Non sarebbe dunque nemmeno necessario vietare qualunque accordo che includa l’essere umano in quanto oggetto di scambio. Le persone che non possono – per malattia, per inclinazione sessuale, o per scelta – avere figli propri, soffriranno per questa limitazione? Indubbiamente sì, esattamente come hanno sofferto le centinaia di migliaia di persone che, nei secoli, hanno desiderato un figlio e non hanno potuto procrearlo. Ma non si può nemmeno pensare che i bambini fatti nascere con la tecnica della surrogazione, scambiati per denaro (che sia chiamato prezzo o rimborso spese, poco importa) o ‘regalati’, debbano soffrire per essere strappati dal seno della donna che li ha tenuti in grembo e per essere stati trattati come oggetti del preteso diritto di avere figli, una volta che vengano a sapere come hanno avuto la ventura di nascere, perché tale pratica è disumanizzante nei loro confronti e non c’è dichiarazione d’amore che possa lenire la ferita di chi si sente oggetto di un contratto, stipulato esclusivamente per l’egoismo di chi lo ha voluto.

Laddove la surrogazione è permessa, la legge in qualche modo opera una finzione distante dalla realtà delle cose: o finge nel considerare il neonato figlio dei committenti, o finge l’adozione da parte dei committenti stessi. Come si può pensare di separare una madre e un bambino senza procurar loro (soprattutto al piccolo) un lacerante dolore?


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Maria Teresa Armanetti

Maria Teresa Armanetti, diplomata all’Istituto Magistrale, è docente di ruolo nella scuola dell’infanzia, dove esercita la professione dal 1991.

Dalla favola alla realtà

Jennifer Lahl

“In America c’è un posto dove delle signore gentili donano i loro ovini per chi non ne ha.” (“Perchè hai due papà” di Francesca Pardi, Ed. Lo Stampatello). di Maria Teresa Armanetti Jennifer Lahl, fondatrice e presidente del “The Center for Bioethics and Culture Network” ha un passato di venticinque anni di esperienza come infermiera pediatrica in terapia intensiva, seguiti da una carriera come amministratore ospedaliero e come senior-level nursing management. Scrive su riviste di forte spessore culturale e interviene spesso, quale esperta, sulle più importanti radio ed emittenti televisive americane, accanto a giuristi e a membri della comunità scientifica. Ha anche presenziato al Parlamento europeo di Bruxelles per denunciare il commercio di ovuli umani. Nel 2010 ha debuttato come sceneggiatore e regista con il film documentario “Eggsploitation” (“Sfruttamento di ovuli”), vincitore del Premio California Independent Film Festival del 2011, presentato in più di trenta paesi tra i quali l’Italia, in occasione del Meeting di Rimini, nell’agosto del 2012. Il documentario, proiettato in moltissime università degli Stati Uniti, ha suscitato grande clamore ed eco, nonché forti reazioni dell’industria della provetta che, con voli pindarici, ha cercato inutilmente di smentire quanto emerso, per salvaguardare interessi miliardari, cercando di negare anche le pubblicazioni scientifiche riportate perché il mercato di ovociti rappresenta uno dei più grandi business nel mondo. La Gran Bretagna, dal 1990, ha legalizzato la fecondazione eterologa e, con il passare degli anni, ha apportato enormi cambiamenti alle modalità che regolamentano la materia, fino a permettere che le ‘donazioni’ di fatto possano essere retribuite e, addirittura, che i trattamenti di fecondazione artificiale possano essere vinti attraverso le lotterie.

Il mercato di ovociti rappresenta uno dei più grandi business nel mondo: l’incremento dei compensi per la “donazione” di ovuli ha incentivato lo sfruttamento di donne giovanissime economicamente disperate. La Fertilisation and Embriology ha giustificato ciò considerando “gli inconvenienti, l’impegno ed il tempo speso da una ‘donatrice’ nel processo necessario alla produzione di ovuli”. Nel 2012 la legge inglese ha triplicato il compenso per le ‘donatrici’: non più 250 sterline, bensì un ‘risarcimento’ di 750 sterline. A darne notizia il quotidiano inglese “Daily Mail” del 18 luglio 2012, che giustificava l’incremento del numero delle ‘donatrici’ con l’aumento dei compensi nel clima generale di recessione economica. Il boom di ‘donazioni’ ha azzerato le liste d’attesa per le coppie richiedenti del Bridgewater Hospital di Manchester. L’osservatorio inglese per le tecniche riproduttive umane in tale occasione aveva preso le distanze dal dato americano, che dimostrava la correlazione allarmante tra l’incremento dei compensi e lo sfruttamento di donne giovanissime economicamente disperate. Unica voce controcorrente quella di Geeta Nargund, direttrice della clinica Create Fertility di Londra, la quale aveva criticato aspramente questa decisione


22 N. 37 - GENNAIO 2016 dichiarandola inaccettabile, in considerazione dei rischi molto alti per la salute delle ‘donatrici’. Infatti migliaia di studentesse dell’Università di Cambridge erano state prese di mira da una società dello Yorkshire, la cui politica si fondava sul fatto che, se non poteva essere ammessa la compravendita, era invece lecito il risarcimento. Mentre in Occidente triplicano i compensi per le ‘donatrici’, in Oriente esplode il mercato low cost, alimentato soprattutto da coppie omosessuali. Parlano le vittime del mercato di ovuli: le ragazze che per poche centinaia di sterline hanno rischiato la vita. In Eggsploitation una voce domanda alle donne che vogliono un figlio a tutti i costi se sia giusto farlo a costo della vita di altre donne. La vita? Davvero? Annunci martellanti per la ‘donazione’ di ovociti raggiungono ovunque le giovani studentesse americane: “La pubblicità te la mandano anche sulla pagina Facebook”, affermano alcune di esse; altre dichiarano di essersi imbattute in questi annunci negli autobus, per strada, all’università. “Sono davvero un sacco di soldi”, pensa chi vede la cifra di 100mila dollari apparire su una inserzione. Un’altra inserzione recita: “Se sei alta, attraente e magra… e hai il desiderio di aiutare qualcuno, fai la differenza, dona i tuoi ovuli”. Così le ragazze non iniziano solo per denaro, ma anche per il messaggio filantropico che cela il business, autoconvincendosi che ciò sia doveroso nei confronti di donne meno fortunate. Hanno un nome quei volti segnati da un destino che ha lasciato tracce indelebili nelle loro vite. Belle, giovani, con ottima istruzione, alcune coraggiose hanno avuto la forza di denunciare quanto si cela dietro a quel commercio: loro non sono che la punta di un iceberg. Le ragazze non sono state sottoposte ad alcun esame preventivo per accertare eventuali patologie preesistenti e i rischi per la loro salute, o per la stessa vita. Viene nella maggior parte dei casi recapitato loro a domicilio un kit con istruzioni dettagliate alle quali si devono attenere scrupolosamente, per cominciare ad assumere gli ormoni che stimolano le ovaie. I contatti iniziali si tengono tramite internet o telefonicamente. Cindy Racconta di avere trovato una inserzione sul giornalino dell’università per reclutare donne con educazione eccellente e con certe caratteristiche per poter ‘donare’ ovuli. Ha cercato allora di informarsi su eventuali controindicazioni, ma senza trovarne. Dopo la stimolazione ormonale è stata sottoposta a risonanza da cui risultarono follicoli immaturi.

L’industria della fecondazione artificiale fattura almeno sei miliardi e mezzo di dollari l’anno.

Le dissero che qualcosa non aveva funzionato e che doveva continuare la cura. Finalmente arrivò l’intervento di aspirazione degli ovuli. Le venne detto di stare a riposo. Ma nonostante ciò iniziò ad avere dolori lancinanti al punto che non riusciva a stare in piedi, non riusciva nemmeno a respirare. Ritornò quindi in clinica dove, dopo una risonanza magnetica, venne dimessa: le fu detto che era tutto normale, che si trattava solo di dolori mestruali. La compagnia assicurativa dell’agenzia di ‘donazione’ di ovuli la contattava, nel frattempo, per accertarsi che la sua assicurazione medica la coprisse in caso di eventuali complicazioni. A casa il dolore continuava e Cindy fu costretta a un ricovero urgente. Questa volta le venne diagnosticata una forte emorragia interna. L’iperstimolazione le aveva assottigliato i vasi sanguigni che, in seguito al prelievo degli ovuli, si erano lesionati, provocando cosi una forte emorragia che la costrinse a diverse trasfusioni di sangue. Alexandra Voleva finire il dottorato, ma le mancavano i soldi. Le offrirono 3 mila dollari, proprio la cifra che le sarebbe servita per terminare i suoi studi. Essendo ricercatrice all’università e avendo accesso agli archivi scientifici, Alexandra cercò testi e letteratura sui rischi legati a questa pratica ma non ne trovò. Cominciò quindi il trattamento e, dopo solo nove giorni, iniziò a sentirsi male al punto che svenne dal dolore. Un amico la portò in clinica, le somministrarono antidolorifici per poi dimetterla. Dopo due settimane di dolori e una intera notte di vomito fecale ininterrotto, il medico accettò di visitarla: era la prima volta che lei vedeva personalmente il medico.


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Kella Prende contatti via internet con l’infermiera che le spedisce il kit di medicine con le quali deve autogestirsi. Il primo farmaco che deve assumere, il Lupron, blocca il ciclo mestruale. Kella non sa però di avere un piccolo tumore benigno al cervello. Il tumore sotto l’effetto del farmaco ingrossa, lei inizia a non stare bene ma le dicono che deve continuare. Aumentano i suoi malesseri fino ad un giorno in cui un ictus le paralizza la parte sinistra del corpo. Jessica A 29 anni, ha venduto per tre volte i suoi ovuli, immediatamente dopo ha sviluppato un carcinoma all’intestino e a 34 anni è morta.

L’addome era pieno di sangue, il medico impallidì e disse di conoscere il problema. Le tube si erano attorcigliate alle ovaie: non fu possibile far altro che asportarle. Solo dopo venti giorni e tre visite. L’insistenza ha salvato la vita ad Alexandra. Ma il dramma non era ancora finito: un blocco intestinale la costrinse ad un nuovo intervento, con conseguente perdita di peso di dodici chili e mesi di convalescenza. Dopo cinque anni, sebbene non ne avesse familiarità, sviluppa un tumore al seno a seguito del quale deve subire cinque interventi chirurgici e cicli di chemioterapia.

Le ragazze si offrono alle cliniche della fertilità non solo per denaro, ma anche per rispondere all’appello filantropico che cela il business, convincendosi che adempiono a un dovere di solidarietà nei confronti di donne meno fortunate.

L’industria della fecondazione artificiale, spiega il documentario, fattura sei miliardi e mezzo di dollari l’anno. Opera senza sorveglianza né regole. I casi di queste donne non vengono intenzionalmente monitorati, quindi non vi sono numeri su cui studiare. L’unico dato noto è che il 70% dei cicli di stimolazione ovarica fallisce. I rischi sono: cancro al seno, all’ovaio ed all’endometrio. Inoltre, infertilità, emorragie, ictus, infarti e paralisi. (“Assessing the medical risks of humane oocyte donation. From stem cell research”, L. Giudice, E. Santa and R. Pool eds, Washington, D.c., National Academies of Science, 2007.) Un caso analogo a questi, è quello di Jennifer Billock, narrato in un’intervista rilasciata alla nota rivista “Marie Claire”. Preoccupata per i debiti contratti all’università, e convinta che questo procedimento non debba essere così faticoso, si reca in una clinica dove consegna allo staff le sue foto da inserire nel catalogo dei ‘donatori’. Essendo pagata profumatamente e non avendo inizialmente grossi problemi Jennifer decide di rifarlo. Addirittura i medici le dicono che è sufficiente far trascorrere tra un ciclo e l’altro una sola settimana. Così inizia il suo calvario. Le iniezioni, che prima percepiva come pizzichi, ora sono dolorosissime. Il liquido ha l’effetto dell’alcool sulle ferite aperte.Il medico le dice di continuare, le dice che anche ipotizzando una reazione allergica la cosa non è poi così forte, e le fa i complimenti: gli ovuli sono davvero molti, mai visti cosi tanti. Durante la fase di estrazione i medici lasciano una ferita che rimane aperta, provocandole dolori insopportabili. Dopo essere stata più volte visitata scopre che grosse cisti si erano formate su quella che ormai era una spessa cicatrice e che il dolore insopportabile era stato causato dall’esplosione di queste cisti. La scelta, anche in questo caso, è radicale e le nega la possibilità di una futura maternità. Queste ragazze hanno costretto il loro corpo a produrre un numero elevatissimi di ovociti: si pensi che normalmente se ne producono al massimo due in un mese. Un ovaio che generalmente misura quanto una mandorla, dopo la stimolazione assume le dimensioni di un melone. Questo fa capire la violenza cui viene sottoposto l’organismo delle “signore gentili che donano i loro ovini per chi non ne ha”.


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Il “miracolo” della surrogazione su internet Un viaggio virtuale nel sogno della maternità di Ferdinando Costantino e Monica Boccardi Un mondo in cui i bambini vengono ordinati su misura (scegliendo accuratamente il sesso, la provenienza etnica, il colore della pelle e altri attributi fisici ) e vengono fatti crescere nel grembo di donne che affittano il proprio utero non era stato immaginato nemmeno dalla fervida mente di scrittori visionari come Huxley, Orwell o Asimov. Eppure tale mondo non è fantascientifico, ma tremendamente reale e, ciò che è peggio, tacitamente accettato da una fetta sempre più grande dell’opinione pubblica, tramite un lento lavorio di condizionamento mentale voluto delle grandi industrie della medicina riproduttiva e sapientemente portato avanti dai mezzi di comunicazione, che hanno reso normale, e anzi meritorio, ciò che pochi anni fa sarebbe stato considerato una pura follia di stampo eugenetico. In questo articolo si vuole introdurre il lettore nel ‘magico’ mondo delle opportunità di accedere alla maternità surrogata reperibile su internet, che fornirebbe la chiave della felicità a chi desidera avere un figlio ma ne è impossibilitato perché sterile o, più frequentemente, perché unito a una persona del medesimo sesso. Aprendo una finestra Google e digitando “Clinica utero affitto surrogata” l’elenco che appare supera i settemilacinquecento risultati:

Alcuni dei siti web per trovare un utero in affitto: www.surrogacysolutionsinc.com www.surrogacy.ca www.surrogacytogether.com www.surrogacyuk.org

Scegliendone uno, si accede facilmente a una clinica specializzata in medicina che s’impegna a “[…] prenderci cura di voi, in modo che possiate realizzare il vostro sogno di avere un bambino” (www.uteroinaffitto.com). Il sogno di avere un bambino ha un costo. C’è il costo delle normali cure per l’infertilità, delle pratiche di fecondazione artificiale omologa ed eterologa e, infine, i pacchetti di surrogazione ‘all inclusive’, che assicurano di avere un “bimbo in braccio”, nello stesso modo in cui un concessionario offre una vettura “chiavi in mano”.

Fonte: uteroinaffitto.com al 2 dicembre 2015 Fonte: google.com al 2 dicembre 2015

I pacchetti di surrogazione ‘all inclusive’ assicurano un “bimbo in braccio” nello stesso modo in cui un concessionario offre una vettura “chiavi in mano”.

Il pacchetto “’all inclusive’ di maternità surrogata si può acquistare con una somma vicina ai 30.000 euro e i dettagli si possono consultare nel comodo PDF allegato. Il lettore può reperire quanto che serve per avviare le pratiche. Il successo è assicurato, il rimborso in caso di fallimento anche, e vengono offerte le opportune garanzie all’acquirente sulla ‘bontà’ del prodotto scelto.


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Fonte: circlesurrogacy.com al 2 dicembre 2015

Ovviamente, essendo la pratica di maternità surrogata ancora vietata in Italia da quello che resta della Legge 40, la clinica ha sede in Ucraina, ma poiché si rivolge anche a utenti italiani ha almeno un ufficio in Italia, come si evince dalla presenza sul sito di due numeri di telefono italiani (anche se il prefisso di Roma è mascherato dall’aggiunta di un numero successivo, quello internazionale parla chiaro, anzi… italiano). La legge Cirinnà, se approvata, provvederà a dare lo status di genitori legali a coloro che torneranno in Italia con il prodotto acquistato presso tale clinica. Andiamo avanti con il nostro magico viaggio. Se digitiamo su Google la parola ‘surrogacy’, il motore di ricerca trova oltre un milione di siti – ovviamente non tutti relativi a cliniche – e ci indirizza a vere e proprie multinazionali che gestiscono le più importanti cliniche di surrogazione sparse nei Paesi in cui tale pratica è permessa. Ad esempio, il sito “Circle surrogacy” (www.circlesurrogacy.com) corrisponde a un’agenzia di surrogazione con sede a Boston, che gestisce cliniche di medicina riproduttiva principalmente nel sud degli Stati Uniti. Il sito è estremamente efficiente e nella Home Page si può leggere il seguente slogan: “Miracles can be expected through surrogacy”, che può essere tradotto: “Attraverso la surrogazione si possono ottenere miracoli”. È interessante notare come le parole ‘miracolo’ e ‘sogno’ risuonino in maniera ossessiva in questi siti. Il portale della “Circle surrogacy” offre inoltre le dichiarazioni e i curricula dei membri del Consiglio direttivo. Il presidente dell’agenzia, tale John Weltman, è un avvocato con un curriculum di tutto rispetto (studi a Oxford, Yale e Harvard) ed è padre di due bambini ottenuti tramite utero in affitto.

La sua mission dichiarata è quella di proteggere i diritti delle persone LGBT che desiderano soddisfare il loro desiderio di genitorialità. Arriviamo però al dunque: il servizio di surrogazione ha dei costi stimati che il sito fornisce con encomiabile

Fonte: circlesurrogacy.com al 2 dicembre 2015

trasparenza. Se si è residenti negli Stati Uniti e si desidera richiedere una gestante surrogante e una ‘donatrice’ di ovuli il sito fornisce tutti i costi stimati. Con 90.000 dollari – che includono spese legali, assistenza sanitaria per la madre gestante, prezzo degli ovuli acquistati e contributi per i dipendenti delle cliniche – si può portare a casa il bimbo.


26 N. 37 - GENNAIO 2016 Al netto delle ritenute la madre gestante riceve 30.000 dollari. Se si apre la finestra relativa al database delle cosiddette ‘donatrici di ovuli’ è possibile leggere: “Siamo qui per aiutarvi a trovare il giusto abbinamento. Alcuni aspiranti genitori scelgono i ‘donatori’ basandosi principalmente su attributi fisici, oppure in base alle loro origini etniche, religiose, o culturali. Mentre altri aspiranti genitori sperano di trovare una ‘donatrice’ di ovuli che sia sana e atletica o abbia talento musicale, o artistico. Qualunque siano gli attributi che stai cercando, è possibile trovarli nella nostra lista di centinaia di ‘donatrici’ di ovuli…. Filtra per le caratteristiche che soddisfino le tue preferenze. Se non riesci a trovare nel nostro database una ‘donatrice’ di ovuli che ti interessa, possiamo contribuire a espandere la ricerca… è il primo passo per andare avanti con il vostro viaggio”. Non è forse questa una selezione eugenetica di un prodotto scelto su misura? Chiunque sia ancora dotato di un minimo di buon senso può farsi una chiara idea al riguardo. A proposito di miracoli, poi, il sito “Miracle surrogacy” www.miraclesurrogacy.com offre servizi di maternità surrogata in Messico e Nepal. Anche in questo caso un cospicuo pacchetto è offerto ai potenziali acquirenti, come mostrato qui sotto. Il ‘baby at home’ dell’ultimo riquadro ricorda il “bimbo

Fonte: miraclesurrogacy.com al 2 dicembre 2015

Il marketing dei venditori di bambini è pieno di parole evocative come ‘sogno’ e ‘miracolo’, che si ripetono in continuazione: va alimentata molto la fantasia per illudersi che un figlio selezionato e comprato renda davvero ‘genitori’.

in braccio” della prima agenzia sopra riportata, a testimonianza che le strategie di marketing sono decise con inquietante coordinazione, e probabilmente a livello internazionale. Per 95.000 dollari si possono provare tentativi illimitati fino alla nascita del bimbo, cui sono associate altrettante ‘donazioni’ di ovuli. Anche in questo caso una cifra cospicua è prevista per il rimborso spese della madre surrogante. Il gruppo è gestito dall’associazione CEFAM (Creating families), che riporta le nascite di più di 1.500 bambini in Messico negli ultimi 20 anni.


Edizione speciale: Utero in affitto “Surrogacy India” www.surrogacyindia.com si occupa di maternità surrogata nel paese asiatico. Il team di S.I. fornisce anche trattamenti contro l’infertilità, ma si occupa principalmente di ‘ovodonazione’ e maternità surrogata (strani ‘trattamenti’: chi e cosa “curano”?). Il costo dei servizi è simile a quello dell’agenzia americana sopracitata ed è consultabile da chiunque voglia farsi una più chiara idea. Qui è interessante leggere le testimonianze di alcune madri surroganti, facilmente reperibili nel Menù a finestra.

Fonte: surrogacyindia.com al 2 dicembre 2015

Per convenienza del lettore abbiamo sottolineato alcune frasi importanti: “I have fulfilled my dream of having my own house which I would have never ever fulfilled if I would not have done this”. Tradotto: “Ho potuto realizzare il sogno di avere una mia casa propria, che non avrei mai avuto se non avessi fatto questo”, afferma Zarina riferendosi al suo utero affittato. Anju dice più o meno la stessa cosa: “I enrolled my kids in English medium school. If I would not have been a surrogate mother, I could have never ever done this”, ossia: “Ho iscritto i miei figli alla scuola inglese. Se non fossi stata una madre surrogante non lo avrei mai potuto fare”.

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Per finire, Mahesar afferma: “Sono molto felice di poter far nascere un ‘bambino surrogato’ e di poterlo dare ai suoi genitori biologici”. Non è dato sapere come mai la signora ritenga di non avere alcun legame biologico con il bambino che ha tenuto in grembo per nove mesi. E non è dato sapere nemmeno quale dei genitori biologici manchi all’appello nei vari tasselli che hanno portato alla generazione del figlio. Queste testimonianze dovrebbero far struggere di commozione le anime gentili che si sciolgono in lacrime davanti a cotanta generosità, ma in realtà una più attenta analisi rivela come queste donne siano rese oggetto di un vero e proprio ricatto, sottoponendo il proprio corpo a un ignobile sfruttamento, reso possibile dalle loro basse condizioni economiche. Ovviamente, testimonianze di ben altro tenore, sono accuratamente celate: le donne costrette a vivere segregate per nove mesi senza poter avere alcun rapporto con amici e parenti per non “rovinare il prodotto”; donne che firmano contratti capestri, che non sanno nemmeno leggere, che vengono costrette ad abortire se i committenti ci ripensano o se il ‘prodotto’ è difettoso. Ma se i difetti si scoprono alla nascita…?. Questi pochi esempi rappresentano solo una goccia nel mare di quello che si può trovare su internet oggi attorno al tema dell’utero in affitto. Un traffico di affari difficilmente stimabile (ma certamente ammontante a diversi miliardi di dollari, se solo negli Stati Uniti fattura ormai oltre due miliardi), che è permesso in barba a qualsiasi trattato di protezione dei minori e dei diritti umani, e che viene gestito da agenzie rivestite di falsi propositi umanitari, ma che in realtà sono vere e proprie società multinazionali, che hanno il solo scopo di raggiungere il maggior profitto possibile. La parola ‘miracolo’ che si trova frequentemente in tutti questi siti si riferisce al fatto che miracolosamente un bimbo possa ‘nascere’ da due uomini o due donne. Questo furbescamente sottintendendo i signori che gestiscono tutta la faccenda! No. Non è un miracolo, è pura compravendita di esseri umani al fine di ottenere enormi profitti sulla pelle di bambini, che vengono orribilmente trattati come merce e, in quanto tali, possono essere rifiutati o rispediti al mittente se non soddisfano le pretese di chi li acquista. Come siamo arrivati a tutto questo? Difficile dirlo, ma la battaglia per evitare che tale traffico aumenti e metta basi legali anche nel nostro Paese passa attraverso una campagna di sensibilizzazione e presa di coscienza che raggiunga tutto il pianeta, con ogni mezzo di comunicazione disponibile.


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Chiara Rastello

Chiara Rastello, diplomata al Liceo Magistrale, è laureata in Scienze dell’Educazione. Ha lavorato presso l’ANFFAS di Genova seguendo ragazzi con problemi familiari e socio-educativi.

Educare: il cantico della differenza

La fondamentale complementarietà educativa del padre e della madre è dimostrata da innumerevoli studi scientifici (per conoscere i quali rinviamo a www.notizieprovita.it). Qui una sintesi delle premesse basilari. di Chiara Rastello Molte delle coppie che ricorrono alla pratica della maternità surrogata sono coppie omosessuali maschili, le quali con tutta evidenza non sono in grado di generare figli e si illudono di poterlo fare con il supporto della tecnica e l’acquisto di un gamete femminile unito all’affitto di un utero. I bambini che vengono affidati a queste coppie, oltre a subire il fatto di essere stati fabbricati e venduti e di essere stati separati premeditatamente dalla madre, vengono privati scientemente della presenza materna. La stessa cosa, mutatis mutandis, avviene quando una coppia lesbica ottiene un figlio attraverso la fecondazione artificiale di una delle due componenti. Una delle giustificazioni più usate contro le critiche sollevate a questa imposizione, diffusa ormai un po’ ovunque, è l’affermazione che, per essere una famiglia e affinché un bambino possa crescere armoniosamente, basta che ci sia l’amore, indipendentemente dal fatto che la coppia genitoriale sia composta da un uomo e da una donna, oppure da individui dello stesso sesso. Invece non è così. L’amore è una componente fondamentale nei rapporti tra le persone e, ovviamente lo è per la crescita di un individuo, ma purtroppo non è sufficiente. L’utero in affitto priva il bambino, nelle primissime fasi della sua esistenza, di quel dualismo essenziale alla sua crescita derivato dalle figure paterna e materna. Perché un bambino o un adolescente possano formare la loro psiche e riuscire a interiorizzare la loro identità devono, infatti, poter ricevere quel tipo di cura e di affetto che si crea nella continuità della generazione che è da un uomo e da una donna; occorre, quindi che l’amore sia differenziato.

Questo vuol dire che l’amore in quanto tale è condizione solo marginale nella crescita armoniosa del bambino. Scriveva Lacroix in “In principio la differenza” (Op. Cit. p. 71): “Amare non consiste soltanto nel provare affetto ma piuttosto sostenere attivamente le condizioni oggettive della crescita […] che implicano spazi, funzione e differenza. La famiglia non si limita a costruire relazioni affettive, ma è una struttura. E le sue differenze primordiali, intorno a cui si articolano sempre le strutture elementari dell’essere genitori, sono ravvisabili nella differenza dei sessi e nella differenza fra generazioni”. L’importanza della differenziazione sessuale nella formazione si può dedurre dall’etimologia dello stesso termine ‘educazione’. Il lemma indica l’atto e l’effetto del verbo ‘educare’, che significa “alimentare, allevare, nutrire, curare e istruire”, a sua volta derivato dal latino ‘educere’. Educere (ex ducere) si può tradurre come “estrarre, far uscire, condurre al largo, trarre alla luce, generare, allevare, innalzare”.

Amare non consiste soltanto nel provare affetto, ma piuttosto sostenere attivamente le condizioni oggettive della crescita […], che implicano spazi, funzione e differenza.


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Per saperne di più: Etienne Roze “Verità e splendore della differenza sessuale” Ed. Cantagalli, 2014 Anna Stella Nutricati “La psicologia prenatale e il tempo” Psychofenia - Anno XII, N.21-2009

risposte motorie differenti in base a luci intense o deboli e a sapori dolci e salati. L’interazione con i genitori, quindi, avviene fin dai primi momenti della Martina Rofi gravidanza. In particolar modo, il piccolo “Lo sviluppo psicologico del bambino nel periodo prenatale” partecipa a tutte le esperienze della Relazione del convegno tenuto del Dottor Paolo Ferliga: “Educare mamma, ricevendo attraverso la placenta in due, educare insieme, educare comunque”, e l’alterazione del battito cardiaco Genova, 2013 anche informazioni di natura emotiva e psichica. In virtù di questo, la personalità del bambino inizia a formarsi già nei primi mesi dal suo concepimento. Assistiamo quindi a una La duplicità e la complementarietà di significati continuità fra le fasi di sviluppo prenatale e perinatale e del termine latino è evidente e permette di assimilare quelle successive. immediatamente queste diverse sfumature all’aspetto È importante, a questo punto, sottolineare come sia più materno e femminile dell’educare, come l’accofondamentale, per il nascituro, fin dalla vita intrauterina, glienza e il nutrimento, e a quello più paterno e maschile ricevere attenzioni e stimoli da entrambi i genitori, del far uscire, condurre al largo e innalzare: caratterii quali – parlandogli amorevolmente e coccolandolo – stiche comportamentali differenti nell’approccio ai figli, lo facciano sentire accolto, amato e desiderato ancor che sono presenti fin da subito nella storia familiare ed prima della sua nascita. educativa di un individuo. Per meglio comprenderne la compenetrazione, analizzeremo i due ruoli seguendo una naturale cronologia, partendo quindi dal rapporto madre-bambino fino dalle prime fasi di vita intrauterina. Importanti studiosi come Freud, padre della psicoanalisi, ma anche Mahler, Bowlby e Whinnicott, solo per citarne alcuni, sottolineano l’importanza dei rapporto madre-figlio nei primissimi anni di vita di quest’ultimo. Anche la scienza supporta queste teorie, dimostrando l’interazione madre-bambino già nel periodo prenatale. Dal momento stesso della fecondazione, infatti, comincia il “dialogo chimico” tra il bambino (anche se composto ancora da poche cellule) e l’organismo materno (quando la donna probabilmente non sa ancora di essere incinta). Si determinano, quindi, lo sviluppo e la crescita degli organi del bambino e dei suoi apparati sensoriali. Il primo sistema ad attivarsi è quello della sensibilità cutanea, che sarà interamente formato intorno alle trentadue settimane; poi ci sono il sistema vestibolare, quello uditivo che è funzionale già al settimo mese e in ultimo quello visivo, anche se già alla settima settimana il nervo ottico e le cellule retiniche sono presenti. Gli organi gustativi sono invece già funzionali alla quattordicesima settimana: ecco perché, quando nasce, il bambino ha già delle preferenze di gusto piuttosto nette. In base a questi dati è possibile facilmente intuire come il bimbo sia continuamente stimolato da suoni e rumori, luci, voci e odori, provenienti dal corpo della madre attraverso il liquido amniotico, oppure dall’esterno. Il piccolo, infatti, riconosce le voci della mamma e del papà, distingue anche diverse musiche e dà


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L’aspetto più materno e femminile dell’educare sono l’accoglienza e il nutrimento, quello più paterno e maschile sono il far uscire, condurre al largo e innalzare.

Purtroppo la vulgata comune rivendica il diritto alla compravendita del bambino in quanto il legame genetico è assicurato dai gameti di uno dei genitori, trascurando o ritenendo comunque trascurabile, il legame biologico ed emotivo che si crea nel ventre della madre surrogante. Dopo la nascita, e in continuità con le esperienze prenatali, il bambino arriverà ad avere una identità strutturata già nei primi tre anni di vita. La psicoanalista Margaret Mahler (1897-1985) spiega infatti come la strutturazione dell’identità avvenga attraverso un processo di individuazione/separazione che si compie nella relazione ‘simbiotica’ con la madre. La Mahler usa il termine ‘simbiosi’ mutuandolo dalla biologia, proprio per descrivere lo stretto legame iniziale di dipendenza reciproca fra madre e bambino, che per il piccolo si esprime con l’esplorazione del corpo della mamma anche attraverso il tatto e l’olfatto, mentre per la madre è un esperienza legata strettamente alle parti più interne e viscerali di sé. Fino ai tre anni di vita del bambino il padre, anche se non fa parte dell’unione simbiotica della mamma col suo bimbo, è comunque un importante ‘oggetto d’amore’. Egli essendo ‘fuori’

rispetto al corpo del figlio, ha il compito di farlo uscire da questo legame forte con la madre.

Se, quindi, nei primi mesi di vita, durante l’allattamento, il padre resta nell’ombra, nel periodo successivo diventa un nuovo punto di riferimento per il figlio e un polo di attrazione per la figlia: in questa dinamica il bambino matura il senso della differenza. Conseguentemente, se la figura paterna venisse a mancare per qualche ragione, il figlio potrebbe rimanere ‘indifferenziato’, perché non riuscirebbe a staccarsi dalla madre. Madre e padre rivestono quindi due ruoli differenti; differenza che, come precedentemente sottolineato, è fondamentale per l’educazione, in quanto essa è basata sull’identificazione dei figli con i genitori. Identificazione che è fondamentale per lo sviluppo del’’identità, infatti anche etimologicamente i due termini si rifanno alla stessa radice. Il bambino si fa ‘identico’ (si identifica) al genitore dello stesso sesso per costruire la sua identità, che non può essere completamente assimilata se non viene confermata dal genitore del sesso opposto. La mamma, dando al figlio la propria approvazione, lo aiuta a radicare la propria identità maschile; mentre le attenzioni che il padre dà alla figlia le danno autostima, fondando la sua femminilità e rivelando le sue caratteristiche.

Da tutto questo si evince come le differenze di ruolo tra padre e madre siano importantissime nella crescita psicologica dei figli. La presenza del padre e della madre non solo hanno un peso diverso e alterno nelle varie fasi di crescita, ma i due genitori hanno anche modalità e competenze differenti: mamma e papà non giocano o si prendono cura del bimbo nello stesso modo; il papà prende maggiormente su di sé, rispetto alla madre, il ruolo di stabilire regole e limiti; il sapere legato alla vita sessuale nell’età puberale è legata al sesso del genitore: il papà ne parla al figlio, la mamma alla figlia; papà e mamma si rapportano differentemente con i figli a seconda che siano bambini o bambine nel gioco e nelle varie attività quotidiane, e così via. Da quanto riportato finora si evince che questo non può avvenire con le stesse modalità quando la coppia è formata da individui dello stesso sesso, dal momento che vengono a mancare, nella relazione con i figli, quei contribuiti insostituibili e peculiari che derivano da quanto differenzia l’uomo dalla donna e che arricchisce il loro rapporto in modo unico, rendendoli capaci di tessere quel “cantico della differenza” che diventa l’ambiente ideale per la crescita armoniosa ed equilibrata di un nuovo essere umano.


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