Provita Gennaio 2016 - Anteprima

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POSTE ITALIANE S.p.A. | Spedizione in AP - D.L. 353/2003 | (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) | art. 1, comma 1, NE/PD | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00

Padova CMP Restituzione

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“nel nome di chi non può parlare” Anno IV | Rivista Mensile N. 37 - Gennaio 2016

SPECIALE UTERO IN AFFITTO

Il mercato di donne e bambini tollerato dalla “società civile”


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- Sommario Editoriale:

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“nel nome di chi non può parlare” RIVISTA MENSILE N. 37 - GENNAIO 2016

Edizione speciale: Utero in Affitto L’utero in affitto: riflessioni critiche 4 Giovanna Arminio

L’utero in affitto come problema bio-giuridico 9 Aldo Rocco Vitale

L’utero in affitto come business internazionale eugenetico 11 Aldo Rocco Vitale

Utero in affitto per altruismo?... 15 Ferdinando Costantino e Monica Boccardi

La cessione di neonato: aspetti giuridici ed etici

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Monica Boccardi

Dalla favola alla realtà 21 Maria Teresa Armanetti

Il “miracolo” della surrogazione su internet

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Ferdinando Costantino e Monica Boccardi

Educare: il cantico della differenza 28 Chiara Rastello

Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182 Redazione Antonio Brandi, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti - Tel. 329 0349089 Direttore responsabile Antonio Brandi Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi Direttore ProVita Onlus Andrea Giovanazzi Impaginazione grafica Francesca Gottardi Supervisione grafica Massimo Festini Tipografia

La vignetta del mese

di Francesca Gottardi

Distribuzione MOPAK SRL, Via Prima Strada 66 - 35129 Padova Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Maria Teresa Armanetti, Giovanna Arminio, Monica Boccardi, Ferdinando Costantino, Chiara Rastello, Aldo Rocco Vitale.

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Editoriale

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ll mercato di donne e bambini tollerato dalla “società civile”

Lo scorso autunno, abbiamo denunciato la pubblicizzazione e l’organizzazione della pratica dell’utero in affitto in Italia da parte di una clinica privata: siamo stati testimoni oculari dei consigli dati su come procedere in violazione della legge e comprare un bambino come fosse merce (da eliminare - abortire - se non corrisponde ai desideri dell’acquirente). Ci sembra quindi necessario ribadire forte e chiara la condanna di questo ignobile mercimonio. Perciò, con questo numero speciale di Notizie ProVita vogliamo spiegare meglio in cosa consiste e come funziona, sotto l’aspetto antropologico, economico, giuridico ed etico. Ringraziamo di cuore il team di professionisti che ha curato il presente dossier. Antonio Brandi

Abbiamo studiato e approfondito cosa è la pratica dell’utero in affitto, per informare, per far comprendere quello che accade ormai da anni sotto i nostri occhi, con la compiacenza indulgente dei media che mostrano storie umane e pietose di adulti desiderosi di dare tanto amore a bambini. Tant’è che li comprano attraverso cliniche di lusso, li fanno assemblare secondo i loro desiderata e li fanno partorire a donne-schiave, incubatrici di carne, che per bisogno o per avidità acconsentono a cedere ai compratori la creatura che hanno nutrito e portato in grembo per nove mesi. E nessuno analizza la questione dal punto di vista del neonato che viene strappato dalle braccia che hanno l’odore, il sapore, l’umore che hanno respirato nel grembo. Intanto, l’istituto del matrimonio, così come valorizzato e difeso dalla nostra costituzione e regolamentato dal codice civile si sta tristemente trasformando in un contratto, ancora di rilevanza pubblica, ma di fatto privatistico e assurdamente fondato sull’amore, eliminando dunque a priori la sua ratio fondamentale che è quella di garantire alla società la crescita, l’educazione e il mantenimento delle nuove generazioni. Per completare l’opera distruttiva cominciata col divorzio, si vuole anche la legalizzazione del matrimonio gay, seppur camuffato, per adesso, da “unione civile”.

Questo porterà inevitabilmente, se non grazie al legislatore, per via giudiziaria, anche alle adozioni da parte delle coppie omosessuali, in nome della parità di diritti. Ma già oggi, il disegno di legge sulle unioni civili introduce la cosiddetta stepchild adoption, che consente al convivente di adottare il figlio biologico del compagno/a. Questo, di fatto, comporta la legittimazione della pratica dell’utero in affitto in Italia, attualmente vietata dalla legge 40, nonostante i sostenitori del d.d.l. si ostinino a trovare alibi o a sminuirne la portata. Nei Paesi dove è legale, d’altra parte, l’utero in affitto genera un traffico di affari stimabile in diversi miliardi di euro l’anno. Il business sta cercando di prendere piede nel nostro paese, grazie anche a una campagna pubblicitaria, nemmeno troppo sommersa, che parandosi dietro l’alibi del rispetto verso le persone omosessuali e dell’amore che vince sopra ogni cosa, instilla nella mente della gente comune un senso di accettazione silente e crescente di questa pratica. La consapevolezza necessaria per opporsi con tutte le nostre forze, affinché la pratica venga stroncata sul nascere, passa dalla conoscenza dei suoi risvolti etici, economici e giuridici. Questo numero speciale vuole fare chiarezza e fornire le informazioni ai lettori su tutti questi aspetti in una sola volta. Aldo, Chiara, Ferdinando, Giovanna, Maria Teresa, Monica


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Giovanna Arminio

Giovanna Arminio è avvocato dal novembre 2006 ed è iscritta presso l’Ordine degli Avvocati di Bolzano. Mediatore professionista e giurista d’impresa, articolista, è anche docente presso enti di formazione.

L’utero in affitto: riflessioni critiche

Definizione, quadro giurisprudenziale, dottrinale e normativo in Italia. di Giovanna Arminio Difficile, se non impossibile, affrontare dal punto di vista giuridico il fenomeno della “maternità surrogata” o “utero in affitto” senza tecnicismi, perché, pur riducendoli al minimo, esso vede due soggetti titolari di situazioni o diritti individuali potenzialmente confliggenti: da una parte c’è chi vanta il “diritto di procreare” e dall’altra ci sono i diritti del nascituro (di conoscere le proprie origini, di essere allevato nella famiglia iure sanguinis, di avere un padre e una madre). E allora, come uno studente di giurisprudenza del primo anno dovrebbe sapere, quando all’ordinamento giuridico si chiede la tutela di una nuova situazione che corrisponde a un certo interesse diffuso a livello sociale (il nostro secolo registra il boom dei diritti individuali), è necessario preliminarmente verificare se il suo riconoscimento e la sua tutela si pongono in conflitto con diritti e gli interessi di altri individui, attraverso il contemperamento degli aspetti confliggenti. Il lettore attento, quindi, apprezzerà (spero) i tecnicismi, perché lo aiuteranno a entrare nel cuore di un fenomeno che non può ridursi al riconoscimento incondizionato di meri desideri (per quanto spesso mossi da nobili ragioni), essendo necessario scendere nel profondo, specie se, dall’altra parte, il soggetto da tutelare è il nascituro, che non ha voce propria e che si aspetta di essere difeso, in primo luogo, dai propri genitori.

Sulla base della letteratura giuridica esistente e grazie a una definizione che ha il merito di metterne in luce il carattere negoziale, la “maternità surrogata” si realizza attraverso un accordo fra due o più parti, in forza del quale una donna (definita “madre surrogante” perché si sostituisce alla donna infertile), per soddisfare esigenze di maternità e di paternità altrui, dietro corrispettivo o a titolo gratuito, contrattualmente noleggia, con il consenso del marito, se sposata, il proprio utero a una coppia (o a singoli) e si fa fecondare oppure si fa impiantare un uovo fecondato, un embrione; conduce a termine la gravidanza nel rispetto di determinate norme di comportamento e si impegna a consegnare ai committenti (genitori intenzionali) il figlio, rinunciando a ogni diritto su di esso.

Non si può riconoscere in modo incondizionato i meri desideri degli adulti (per quanto spesso mossi da nobili ragioni), e ignorare che il soggetto da tutelare è il nascituro, che non ha voce propria e che si aspetta di essere difeso, in primo luogo, dai propri genitori.


Edizione speciale: Utero in affitto

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Oggi, in Italia, la legge n. 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, vieta espressamente la surrogazione di maternità (articolo 12 commi 1 e 2) e qualsiasi realizzazione, organizzazione o pubblicizzazione di tale pratica (comma 6). Esiste, quindi, una linea di continuità giuridica tra l’attuale legislazione e l’orientamento giurisprudenziale precedentemente formatosi, continuità che trova la propria sede esattamente nell’insieme dei valori assunti a fondamento dell’ordinamento.

La pratica dell’utero in affitto vede il moltiplicarsi di coloro che partecipano al processo procreativo: la coppia committente, la madre surrogante, i due (o tre) venditori di gameti: un bambino con sei persone che a vario titolo possono definirsi genitori.

Se il nato ha un legame biologico con l’uomo committente e con la madre surrogante, si parla di maternità surrogata vera e propria; se invece l’embrione è fecondato all’esterno dell’organismo della donna surrogante – tramite ovulo fornito dalla madre committente o da un’altra donna – e successivamente trasferito nell’utero della surrogante, si parla di “locazione d’utero” o “utero in affitto” o “maternità surrogata gestazionale”. Dopo questa precisazione, appare evidente che la pratica, inizialmente concepita quale accordo fra tre soggetti per superare problematiche legate alla sterilità femminile della donna, ha visto il moltiplicarsi di coloro che partecipano al processo procreativo, in quanto nulla esclude che la fecondazione coinvolga soggetti estranei sia alla coppia committente, sia alla madre surrogante, attraverso l’intervento dei cosiddetti “donatori” di materiale procreativo (seme e ovuli), che in realtà sono venditori di gameti. L’accesso a tale pratica, inoltre, può essere consentito non solo a coppie eterosessuali, omosessuali e a singoli che non intendono intraprendere una relazione sentimentale, ma anche a chi non abbia tempo e voglia di impegnarsi fisicamente in una gravidanza per nove mesi (come hanno fatto alcune dive di Hollywood). Ecco come finisce il noto brocardo, secondo il quale mater semper certa est: entrano in gioco fino a sei figure genitoriali, con grave compromissione di alcuni diritti fondamentali del nascituro.

Il quadro giurisprudenziale. Il primo caso di maternità surrogata in Italia fu deciso dal Tribunale di Monza nel 1989: una coppia di coniugi senza figli concluse un contratto con un’immigrata algerina, in forza del quale quest’ultima s’impegnava, dietro corrispettivo, a sottoporsi a inseminazione artificiale con il seme del committente, a portare avanti la gravidanza e a consegnare allo stesso e a sua moglie il nascituro, rinunziando a qualunque diritto nei suoi confronti. Successivamente pentitasi, la madre surrogante si rifiutò di adempiere gli impegni assunti e i coniugi si rivolsero al tribunale per ottenere la richiesta di riconoscimento della minore quale «figlia naturale» del padre biologico (e committente) e l’affidamento in via definitiva a entrambi. I giudici decisero che si poteva concedere il riconoscimento del minore come figlio naturale del padre committente (che era anche il padre biologico del nascituro), il quale ne poteva chiedere, tramite provvedimento da parte del giudice, l’inserimento nella propria famiglia legittima. Il nato sarà poi figlio naturale della madre surrogante, per l’insuperabilità del disposto di cui all’articolo 269 codice civile (“La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre”). La sentenza affronta per la prima volta l’ammissibilità nel nostro ordinamento del contratto di maternità surrogata ed è di particolare interesse perché enuncia quali sono gli ostacoli, legislativi e di ordine costituzionale, che impediscono il riconoscimento del contratto di gestazione per conto terzi quale «contratto atipico» ex articolo 1322 del Codice Civile (cioè non espressamente previsto dalla legge, ma diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico).


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Ostacoli così sintetizzabili. Innanzitutto, nessuna analogia sussiste tra la maternità surrogata e l’istituto dell’adozione, in quanto sul punto già la sentenza n. 11 del 10/02/1981 della Corte Costituzionale, ha chiarito che “la riforma del 1967 ha spostato il centro di gravità dell’adozione dall’interesse dell’adottante (di sopperire alla propria incapacità procreativa e di assicurarsi una discendenza anche a fini ereditari, n.d.r.) a quello dell’adottato […], interesse del minore ad essere allevato ed educato in condizioni più vantaggiose”, questo in quanto gli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione, che riconoscono come fine preminente lo svolgimento della personalità e l’educazione del minore nel luogo a ciò più idoneo, individuano tale sede “in primissima istanza nella famiglia di origine, e, soltanto in caso di incapacità di questa, in una famiglia sostitutiva”. La maternità surrogata, quindi, non è una modalità (ulteriore rispetto all’adozione) per ottemperare al legittimo desiderio procreativo di una coppia priva di figli, per l’evidente ragione che l’adozione presuppone l’esistenza in vita del minore adottabile e il suo bisogno di tutela – e, quindi, non prioritariamente il desiderio di una coppia sterile –, mentre la maternità surrogata inverte tale ordine di interesse (cioè vede prevalere l’interesse alla procreazione della coppia su quello del minore). In secondo luogo, la Costituzione non riconosce un “vero e proprio diritto alla procreazione”, quale presupposto per l’ammissibilità di tali contratti: nel nostro ordinamento non trovano spazio i concetti di paternità o di maternità meramente negoziali, disgiunti, cioè, da un qualche fondamento biologico e governati dall’autonomia privata, tali da cancellare dal mondo giuridico i legami naturali. Inoltre, secondo una parte della dottrina (Cian-Trabucchi, “Commentario breve al Codice Civile”, 2003): “Poiché il diritto di procreare è un diritto fondamentale dell’individuo soggetto al contemperamento con altri diritti fondamentali della persona (quali sono i diritti del nascituro e del minore), nel caso della procreazione artificiale esso deve trovare contemperamento con il diritto del nascituro ad avere due genitori e ad essere istruito, mantenuto ed educato da entrambi i genitori; per tale ragione, solo le coppie eterosessuali, legalmente coniugate o stabilmente conviventi costituiscono soggetti legittimati alla procreazione medicalmente assistita”.

Oggi, in Italia, la legge n. 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, vieta espressamente la surrogazione di maternità (articolo 12 commi 1 e 2) e qualsiasi realizzazione, organizzazione o pubblicizzazione di tale pratica (comma 6).

Altro ostacolo insormontabile è costituito proprio dal riconoscimento dello status di madre esclusivamente per colei che partorisce il minore (artt. 232 e 269 c.c.), sul presupposto di un’evidenza naturale che rende superflua qualsiasi necessità di spiegazione. Un altro degli argomenti certamente a sostegno dell’inammissibilità del contratto di maternità surrogata è l’indisponibilità del bene oggetto di accordo ex articolo 5 del Codice Civile (“Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”). La contrarietà del contratto di maternità surrogata all’ordinamento giuridico si evince dal fatto che l’atto dispositivo del proprio corpo è comunque contrario alla legge (in quanto realizza una transazione prima non contemplata dalla legislazione, oggi vietata, operando in frode della stessa e aggirando anche altre leggi, come quella sull’adozione), all’ordine pubblico (con il quale mal si accorda) e, almeno in caso di onerosità, anche al buon costume, secondo il quale, infatti, un atto di maternità surrogata potrebbe eventualmente realizzarsi soltanto a titolo gratuito (in base a un movente altruistico) e non dietro un pagamento in denaro.


Edizione speciale: Utero in affitto

Quindi, non possono formare oggetto di un atto di autonomia privata, perché non sono beni in senso giuridico, le parti del corpo umano (gameti e organi della riproduzione) sulle quali il soggetto non è titolare di un diritto patrimoniale, non potendoli affittare né alienare, in quanto l’uso strumentale può diminuire la loro funzione e perché beni indisponibili. La dottrina prevalente è fondamentalmente d’accordo nell’escludere che il materiale riproduttivo possa essere equiparato a un bene economico, proprio in considerazione delle peculiarità biologiche legate alla riproduzione di altri essere viventi: il lettore comprenderà immediatamente la differenza tra donare un rene e donare (che poi di fatto è “vendere”) il seme o gli ovuli! Ultima argomentazione che ostacola la stipulazione di contratti di maternità surrogata è costituita dall’indisponibilità degli status personali, quali quello di figlio e quello di madre (chi partorisce non può spogliarsi del suo status di madre, né modificare quello del figlio), i munera, come la potestà dei genitori (oggi “responsabilità genitoriale”), e i diritti personali dei minori all’educazione e al mantenimento nella famiglia iure sanguinis.

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Poco esplorato dalla dottrina è invece il cosiddetto diritto del nascituro a conoscere le proprie origini, specie in considerazione del fatto che è aumentato il numero delle persone coinvolte nel processo procreativo. Si è infatti detto che vi sono fino a sei soggetti: due “committenti”, che diventano “genitori legali”; due “genitori biologici”, i venditori di gameti (che potrebbero essere anche tre, perché la cellula uovo potrebbe essere di una donna che fornisce il mitocondrio e di un’altra che fornisce il nucleo), e infine la madre surrogante. Può inoltre verificarsi il fenomeno del coinvolgimento di persone legate da vincolo di parentela e consanguineità (nonna che partorisce il nipote, sorelle che partoriscono fratellastri, etc.). L’argomento è stato affrontato dalla sentenza n. 278 del 2013, con cui la Corte Costituzionale ha risolto la delicata questione del bilanciamento tra il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini e il diritto della madre a rimanere anonima. Ha stabilito la Corte che “[…] il relativo bisogno di conoscenza (delle proprie origini, n.d.r.) rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale”. Per superare la rigida contrapposizione tra i due interessi (della donna che partorisce in anonimato a non essere rintracciata e del figlio a conoscere l’identità della propria madre biologica), la Corte ha introdotto la distinzione tra “genitorialità giuridica” e “genitorialità naturale” e ha osservato che “una rinuncia irreversibile alla genitorialità giuridica non può ragionevolmente implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla genitorialità naturale”. E’ ormai ampiamente sostenuto, anche da uno dei settori più avanzati della riflessione femminista, che i problemi etici connessi al tema della nascita non possono essere affrontati attraverso la contrapposizione tra gli interessi della donna e quelli (confliggenti) del nascituro. In questa nuova prospettiva, è fuorviante tentare ad esempio di mostrare che la donna è l’unico individuo che conta e che il nascituro non è un individuo degno di considerazione.

Art. 269 del Codice Civile: “La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre”.


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Se anche “il diritto di procreare” è un diritto fondamentale dell’individuo adulto, esso va limitato da altri diritti fondamentali della persona, quali sono i diritti del nascituro e del minore ad avere due genitori e a essere istruito, mantenuto ed educato da entrambi. Se il diritto di conoscere le proprie origini è ampiamente riconosciuto nell’ambito di vicende particolarmente dolorose e drammatiche, quale la scelta di partorire in anonimato pur di non optare per l’aborto, non si comprende perché il predetto diritto dovrebbe essere violato in caso di maternità surrogata. L’elenco dei diritti del nascituro inevitabilmente in conflitto con quelli degli individui che esercitano il loro, preteso, diritto di procreare non finisce qui: dal diritto del bambino alla bigenitorialità (negato quando alla maternità surrogata accedono singoli che non intendono intraprendere relazioni sentimentali), al diritto del bambino di essere allevato da un padre e da una madre (negato quando alla maternità surrogata accedono coppie omosessuali). Sul punto il dibattito è acceso. Da parte nostra ci limitiamo ad osservare che le fonti di diritto nazionale e internazionale (Dichiarazione ONU dei Diritti del Fanciullo, legge sull’adozione dei minori, tutela dei figli in caso di separazione e divorzio, norme del Codice Civile italiano) riconoscono il diritto, nella misura del possibile, a conoscere i propri genitori; il diritto di crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori; il diritto a non essere separato dalla madre se non per circostanze eccezionali; il diritto a conservare la propria identità e le relazioni familiari.

In buona sostanza, il fanciullo ha il prioritario, inalienabile e assoluto diritto di essere allevato all’interno della propria famiglia iure sanguinis, che presuppone il modello eterosessuale madre/padre, cioè coloro che lo hanno generato (salvo casi di inadeguatezza della famiglia di origine). Anticipando l’eventuale (e francamente misera dal punto di vista dialettico e intellettuale) obiezione secondo la quale esistono bambini orfani di una o di entrambe le figure genitoriali, così come figli cresciuti da uno dei due genitori separati o divorziati, si risponde mestamente che da una parte l’esistenza di situazioni drammatiche e dolorose non possono e non devono essere prese a modello di riferimento dal legislatore per creane altre e, dall’altra, che tanto il bambino orfano quanto quello che ha subito la separazione dei propri genitori sono individui già nati, o già concepiti, al momento della tragedia che li ha privati di un genitore. Appare invece lapalissiano che, nel caso di figli da maternità surrogata, si programma la nascita di esseri umani ai quali manca uno dei genitori non per incidente, fatalità, abbandono, ma solo perché da qualche parte, in qualche Stato, il materiale procreativo è una vera e propria merce di scambio e il cosiddetto diritto di procreare degli adulti è ritenuto prevalente rispetto al diritto dei minori ad avere un padre e una madre e di conoscere la propria identità (anche) biologica.

Nessuna analogia sussiste tra la maternità surrogata e l’istituto dell’adozione: si desume dalla sentenza n. 11 del 10/02/1981 della Corte Costituzionale.


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