ProVita Novembre 2016 - Anteprima

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“POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1, COMMA 1 NE/TN” | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00

Trento CMP Restituzione

Notizie

MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

“Nel nome di chi non può parlare” Anno V | Rivista Mensile N. 46 - Novembre 2016

Legalizzare la droga “leggera”?

La testimonianza

«Erano solo canne…»

: “fogna terminale ”

UNA

SPACCIATA PER DIRITTO


MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

SOMMARIO

Notizie

EDITORIALE

RIVISTA MENSILE N. 46 - Novembre 2016

Legalizzare la cannabis?

Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182

LO SAPEVI CHE... ARTICOLI

Redazione Toni Brandi, Federico Catani, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti Cell. 329 0349089

Direttore responsabile Toni Brandi

Rifiutati da vivi, rifiuti da morti

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Anna Maria Pacchiotti

Transgender Day

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Giulia Bovassi

Quello che la scienza dimostra (e non dimostra)

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Francesca Romana Poleggi

Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi

PRIMO PIANO

Progetto e impaginazione grafica

Legalizzare la droga “leggera”?

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Federico Catani

Tipografia

Una “fogna terminale” spacciata per diritto

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Enzo Pennetta

Legalizzare la cannabis ne riduce il consumo?

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Giuliano Guzzo

Distribuzione

“Dilettanti in criminologia”

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Claudia Ciramii

… fino a non riuscire più ad amare

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Toni Brandi

Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Giulia Bovassi, Toni Brandi, Federico Catani, Claudia Cirami, Giuliano Guzzo, Mirko (Associazione Nuovi Orizzonti), Anna Maria Pacchiotti, Enzo Pennetta, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel

C’è sempre una via d’uscita

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Mirko (Associazione Nuovi Orizzonti)

«Erano solo canne…» Giulia Tanel

L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.

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EDITORIALE

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entre andiamo in stampa, la proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis – firmata dall’On. Giachetti e da altri 238 suoi colleghi – soffre una battuta d’arresto alla Camera e torna in Commissione (almeno fino a dopo il referendum costituzionale?). Ne siamo davvero contenti. La detenzione “per uso personale” di qualsiasi droga non è più reato da anni: aggiungere a questo una vera e propria liberalizzazione delle “canne” sarebbe un vero disastro sociale. Dal Sessantotto in poi, la cultura della morte è riuscita a far credere che la cannabis sia una “droga leggera”, il che è falso: ha devastanti effetti neurologici, soprattutto sul cervello degli adolescenti (la percezione si altera, le capacità di ragionamento, di concentrazione e di riflessione della zona prefrontale del cervello non si sviluppano o regrediscono, subentrano psicosi, apatia, schizofrenia e attacchi di panico…), e dà dipendenza. Di fronte a una proposta del genere, ProVita non poteva restare indifferente: abbiamo pubblicato molti articoli sul nostro portale www.notizieprovita.it, e ora dedichiamo all’argomento anche il Primo Piano di questa rivista. Non abbiamo la pretesa di esaurire il tema delle droghe in queste poche pagine, perché i luoghi comuni da sfatare – soprattutto nell’interesse dei nostri ragazzi – sono moltissimi. La cannabis fa molto male dal punto di vista fisico e psichico. E i danni che si vedono nell’immediato (bastano un paio di boccate per sentirsi male) sono niente rispetto a quelli a lungo termine. Il fatto che siano lecite e diffuse altre pratiche che possono essere nocive o dare dipendenza (alcol, fumo, gioco d’azzardo...) non può essere una scusa per diffondere legalmente anche la droga. La legalizzazione, poi, non serve a combattere la criminalità, né a svuotare le carceri, né a concentrare maggiori risorse nel contrasto alle droghe pesanti: lo dice un magistrato che da anni combatte i narcos e la ’ndrangheta. E non è vero che la lotta allo spaccio è fallimentare: negli ultimi dieci anni il traffico è diminuito sensibilmente. E se anche la lotta ai crimini non fosse efficace, sarebbe questo un buon motivo per abrogare il codice penale? Del resto dalle comunità di recupero, si alza un chiaro, forte, unanime: «NO alla legalizzazione!». Leggete le testimonianze che abbiamo raccolto. Ma, soprattutto, uno stato civile non può legalizzare ciò che fa male, non può legalizzare ciò che dà dipendenza: dipendenza vuol dire ricattabilità; dipendenza è il contrario di libertà. La verità è che i cultori della morte vogliono una gioventù istupidita; vogliono una società di persone deboli, in crisi, facilmente addomesticabili e governabili. Noi – finché avremo voce – ci opporremo a tutto questo, e speriamo che il buon senso prevarrà. Toni Brandi

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LO SAPEVI CHE... UTERO IN AFFITTO Il mese scorso, in Senato, ProVita Onlus ha organizzato una conferenza stampa per fare fronte comune contro la pratica dell’utero in affitto, in Italia e nel mondo, cui hanno partecipato rappresentanti di forze politiche molto diverse. Nel nostro Paese le agenzie straniere promuovono in modo abbastanza spudorato la pratica dell’utero in affitto e cercano di procacciarsi clienti italiani disposti a pagare decine di migliaia di euro per acquistare un bambino, separandolo dalla sua mamma. Di fronte a tutto questo la magistratura e le autorità si mostrano inerti, nonostante le denunce che la stessa ProVita ha sporto alle Procure di Roma e di Milano. Se ancora non lo avete fatto, sottoscrivete la nostra petizione e richiedete alla nostra Redazione una copia – in Dvd – del documentario BREEDERS: donne di seconda categoria?

COLOMBIA, FARC E GENDER L’accordo di pace tra Colombia e Forze Armate Rivoluzionarie (Farc), firmato lo scorso 26 settembre, ha riscosso gli applausi di tutto il mondo mass-mediatico. Tuttavia, a ben guardare, esso favorisce politiche abortiste e lascia insoluto uno dei più gravi problemi del Paese: il narcotraffico. Inoltre, la parola “genere”, nelle sue varie sfumature, nel documento 4

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ricorre oltre cento volte. Fatto assai strano nel contesto di una trattativa con guerriglieri e terroristi! C’è chi dice che i sottoscrittori hanno creato le condizioni giuridiche per trasformare la società colombiana e promuovere politiche favorevoli all’agenda omosessualista. Una vasta porzione di opinione pubblica è fortemente contraria a quella che è, a tutti gli effetti, una resa alla guerriglia comunista. Infatti i colombiani, scesi in piazza quest’estate contro l’indottrinamento gender a scuola, hanno bocciato gli accordi tramite referendum.

NOBEL PER LA PACE Due donne anziane, due suore, completamente estranee al teatro mediatico della popolarità e dell’apparire, sono state candidate dalla Corea del Sud al premio Nobel per la pace. Sono due persone semplici, le austriche suor Marianne Stoeger e suor Margaret Pissar, che hanno dedicato la loro vita ad assistere e curare i lebbrosi in un paese come la Corea, dove la concezione buddista prevalente accompagna la tremenda malattia allo stigma sociale: i lebbrosi sono maledetti. Insieme con le cure – che guarivano quegli infelici – l’obiettivo principale delle due religiose è stato quello di ridare loro la dignità di uomini. A poco a poco


PROSPETTIVA EDUCATIVA DI GENERE

Vignetta di ProVita

quell’inferno è stato cambiato dall’esempio e dal lavoro delle due donne cui oggi tanti malati che sono guariti, e i loro figli, sono infinitamente grati. I dirigenti dell’ospedale hanno affermato che l’operato delle due suore «dovrebbe divenire una pietra di paragone per questa nostra era, incentrata sul materialismo».

GAY NON SI NASCE, E SI PUÒ CAMBIARE La teoria omosessualista della “born gay theory” è smentita dall’evidenza scientifica e dalle testimonianze di migliaia di ex gay, come Luca Di Tolve. Ma anche una ricercatrice affermata, che collabora con l’American Psychological Association (APA), attivista lesbica e seguace dell’ideologia gender, ha riconosciuto che omosessuali non si nasce, si diventa. Si tratta della dottoressa Lisa Diamond, co-redattrice del Manuale APA su Psicologia e Sessualità. Sulla scia della “born gay theory” sono stati presentati progetti di legge (tipo quello di Lo Giudice, in Italia) per vietare e criminalizzare le terapie riparative. A nostro parere per dirimere certe questioni sono sufficienti la ragione naturale e il buon senso, ma quelli che hanno sempre pronta la citazione di «ciò che dice l’APA» forse dovrebbero prendere atto delle ricerche della Diamond e ridimensionare a ideologia ciò che appunto sta nell’ambito dell’ideologia, e non della scienza.

Molti membri del Governo, e persino alcuni proponenti delle proposte di legge sull’educazione di genere, sono poco informati sulla questione. Confondono le “finalità educative” con la “prospettiva educativa”. Le finalità – o forse i pretesti – dell’educazione gender potrebbero anche coincidere, in parte, con la prevenzione della violenza e della discriminazione e con il rispetto delle differenze. Il problema è: quali mezzi e quali prospettive si adottano nell’intento di perseguire quelle finalità? Non possiamo indottrinare gli studenti all’ideologia solo perché speriamo di ottenere qualche effetto positivo. La “prospettiva educativa” non è neutrale... Insomma: il fine non giustifica i mezzi. E la “prospettiva educativa di genere” indebolisce la famiglia e, con essa, l’individuo, che diventa sempre più solo, più dipendente dal consumo e meno incline al risparmio, più ripiegato sulla soddisfazione personale e meno proteso verso il bene comune.

Immagine di ProVita - La più apprezzata sul web!

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Anna Maria Pacchiotti

RIFIUTATI DA VIVI, RIFIUTI DA MORTI Un’esperienza vissuta tempo fa al cimitero di Desio ha segnato profondamente la presidentessa di Onora la Vita: oggi la condivide con i nostri Lettori

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n Lombardia il Regolamento Regionale Formigoni 09.11.2004 in materia di attività funebri e cimiteriali (Capo II – Art. 4) prevede che nei cimiteri siano ricevuti, qualora non venga richiesta un’altra destinazione, i cadaveri dei nati morti e dei “prodotti del concepimento” (mi fa pena vedere che li chiamano così: sono bambini!). Una cara amica della zona ha saputo che nel nuovo cimitero di Desio (dall’aspetto massonico: tutte tombe uguali, nessuna idea di Aldilà, di un Dio che accolga le anime dei morti, tutto assolutamente spersonalizzato...), nascosto da un’alta siepe c’era un angolo di terra smossa, argillosa e appiccicosa: è entrata e ha notato, appesi alla recinzione, dei piccoli peluches e, nel suolo, una piccola croce.

Nonostante le promesse, l’impresa appaltatrice non ci ha avvisati riguardo il giorno in cui sarebbe avvenuto l’interramento dei poveri innocenti

Siamo passati immediatamente all’azione: dopo due visite all’ospedale tramite appuntamento con il direttore sanitario – che era piuttosto d’accordo con noi, mentre le capo-infermiere si sono mostrate poco sensibili alla questione – ci siamo rivolti all’impresa appaltatrice, che era vicina al cimitero, dove siamo state ricevute dal direttore. Costui ha detto che avrebbe rispettato il regolamento regionale di cui sopra, che aveva sulla scrivania. Nel frattempo ho fatto visita al custode del cimitero: un uomo pieno di timor di Dio, devoto a Padre Pio da Pietrelcina, fiero antiabortista, con il quale mi mantengo in contatto telefonico. Nonostante le promesse, l’impresa appaltatrice non ci ha avvisati riguardo il giorno in cui sarebbe avvenuto 6

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l’interramento dei poveri innocenti, ma per fortuna mi ha telefonato l’amico custode. Quella mattina arriviamo in gruppo, con il Diacono che avrebbe benedetto i morticini e con il quale avremmo pregato. Sospettosa e prudente, mi piazzo nelle vicinanze dell’angolo su descritto e vedo arrivare di corsa un furgone dell’ASL, che infila un cancello laterale. Avviso il custode e li fermiamo giusto in tempo. Entriamo tutti, compresa qualche donna che ha vissuto quella orribile esperienza. Fra le lacrime scatto qualche fotografia. Poi preghiamo e i poveri piccini nelle scatole dei rifiuti vengono benedetti. Concludiamo la piccola cerimonia con un canto. Impaziente, il personale dell’ASL attendeva vicino alla ruspa pronta per iniziare gli scavi. Penso che la loro coscienza sia stata profondamente turbata: si stavano rendendo conto che quelli sono bambini, persone. Io non riuscivo a smettere di piangere, ma ho visto che c’erano molte persone che sembravano essere insensibili a questa mostruosità. Alla fine gli addetti dell’ASL ci hanno letteralmente buttato fuori dal piccolo campo ed è iniziato l’orrore: dalle scatole di cartone vengono estratti dei sacchi di plastica contenenti dei feti anche grandi, ben formati. Dopo lo scavo vengono gettati, come immondizia, tutti assieme nella terra e poi ricoperti di terra smossa. Tutto questo ha causato in me un vero crollo emozionale. Ringrazio di vero cuore il bravo custode che ha reso possibile la nostra partecipazione e la benedizione di quelle piccole salme: per la causa della vita bisogna sapersi spendere, osare, chiedere la collaborazione delle persone giuste. Cari amici di ProVita, Vi assicuro che ogni volta che ricordo questo episodio il mio cuore si riempie di un grande dolore.


Giulia Bovassi

TRANSGENDER DAY È nobile lottare contro atteggiamenti ciechi di fronte alla realtà della pari dignità umana, a patto che quest’ultima venga a tutti gli effetti considerata nella sua oggettività

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ita Hester, vittima di una violenza omicida avvenuta nel novembre del 1998 ad Allston, un quartiere di Boston, era biologicamente un uomo che da oltre dieci anni conduceva un’esistenza al femminile. La brutalità dell’accaduto suscitò la reazione di molti attivisti transgender, tra i quali Gwendolyn Ann Smith, che l’anno successivo s’impegnò nel Remembering Our Dead, una fiaccolata organizzata nel giorno della morte di Rita per celebrarne il ricordo come segno di protesta contro la discriminazione “transfobica”. È questa la storia alle spalle del Transgender Day of Remembrance (TDoR), ricorrenza che viene celebrata dal 20 novembre 1999 con una veglia che oggi non coinvolge più solamente San Francisco, bensì diverse città in tutto il mondo.

Fornire l’indicibilità del proprio essere a bambini e adolescenti, pensando di liberarli dal corpo, non fa che renderli schiavi di insicurezze e di caotiche possibilità senza alcuna base d’appoggio

Episodi drammatici, come quello di Rita, sono spesso terreno di sottili e diffuse sensibilità sociali impegnate a denunciare la non-accettazione dello stile di vita trans. La condanna nei confronti di ogni tipo di emarginazione dovuta alla presenza di qualsivoglia

diversità, è alla base del principio di uguaglianza che rende ogni uomo identico in dignità ai suoi simili solo per il fatto stesso di essere tale. È questa linea che consente la convivenza civile tra individui, razionalmente coscienti dell’assurdità insita in ogni ipotetica pretesa d’indifferenziabilità tra le cellule del genere umano. Grazie a una consapevolezza è stata costruita l’armonia nella conoscenza dei contrari, imparando con essa la tolleranza e il rispetto anche in contesti che non prevedono un accordo, ma che necessitano di comprensione e aiuto. In tal senso è nobile lottare contro atteggiamenti ciechi di fronte alla realtà della pari dignità umana, a patto che quest’ultima venga a tutti gli effetti considerata nella sua oggettività. Ciò cui invece ci stiamo lentamente abituando è la normalizzazione della fluidità: non c’è nulla di effettivo, nessun dato oggettivo, tutto è determinabile e provvisorio, svincolato dal carattere empirico e fenomenologico. È questo che accade per esempio quando si prescinde dalla sessualità cromosomica (quell’informazione sul proprio sesso che l’embrione unicellulare porta con sé fin dalla fecondazione) e si approda a discutere sulla giustezza dell’arbitraria decisione genitoriale a proposito del sesso del neonato. È questo che accade quando la natura della nostra venuta al mondo e la nostra costituzione biologica caratterizzante, non vengono più analizzate in quanto tali, quanto piuttosto 2016 Novembre - n. 46

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come una presa di posizione culturale: fin dal tempo della vita intrauterina (per la precisione verso la fine della settima settimana di gestazione) il nostro essere maschi o femmine si sviluppa rispettivamente nei dotti genitali di Wolff o di Müller, che vanno incontro a differenziazione per azione degli ormoni rispettivamente maschili o femminili. È ancora questo che accade quando s’ignora, tra i fattori decisivi dell’identità personale, il sesso fenotipico o genitale e quello cerebrale. Questi dati sono infatti iscritti in ogni cellula dell’essere umano, tanto che qualsiasi anomalia nel loro sviluppo viene catalogata all’interno dei DSD, Disturbi della Differenziazione Sessuale, riconosciuti come patologie e non come terzo sesso. Appare evidente che non esistono individui neutri, in grado di sorvolare il dato biologico per scalare verso una sua rifondazione creativa, neanche se la dimensione psicologica e relazionale della loro sessualità sente di non trovare con esso corrispondenza. Due studi – uno condotto dall’American Foundation for Suicide Prevention, nell’analisi dei risultati provenienti dalla National Transgender Discrimination Survey, l’altro dall’Aggressive Research Intelligence Facility (ARIF) – hanno raggiunto il medesimo risultato: più del 41% delle persone intervistate, che hanno subito un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso, hanno ammesso di aver tentato il suicidio. Una percentuale altissima confermata anche da Trans Lifeline, una linea anti-suicidi istituita per le persone transessuali, che ha ricevuto più di 20.000 chiamate nei primi nove mesi di vita. Sono gli esiti allarmanti di quell’avvertimento lanciato nel lontano 1979 dal Dott. Charles Ihlenfeld, il quale invitò i colleghi e i sostenitori dell’ideologia transgender a tenere presente le condizioni postume ai cambiamenti di sesso: un livello

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considerevole di infelicità testimoniata dai pazienti e un alto numero di suicidi. Se a queste condizioni aggiungiamo un uso o un abuso di sostanze per cercare di colmare la dissociazione non più corpo-psiche, ma corpo-corpo (una discrepanza tra identità esteriore e identità interiore vecchia/nuova), si coglie l’urgenza di un approccio terapeutico propositivo, che favorisca un percorso di conoscenza della propria sessualità. In termini propriamente terapeutici la rettificazione del sesso segue un programma graduale, la cui tappa finale consiste nella demolizione-ricostruzione mediante intervento: quest’ultima fase comporta la privazione dei genitali, la sterilizzazione e l’impossibilità procreativa. Non è un sentiero facile, non è terapeutico (in quanto intacca l’integrità corporea di una persona sana, con organismo fisicamente integro) e non è un intervento risolutivo. Questi fattori premono sulla fragilità umana, di comune appartenenza all’homo sapiens, e inducono all’obiezione di gettare in balìa del nichilismo e del relativismo esistenziale i più piccoli, coloro sui quali siamo chiamati a vegliare: è questo l’appello postato sul sito web da Michelle A. Cretelia, presidente dell’American College dei pediatri, di Quentin Van Meter, vice-presidente, pediatra, endocrinologo, e di Paul McHugh, professore di psichiatria presso la Johns Hopkins Medical School. Un richiamo agli educatori e ai legislatori per incitarli a opporsi a tutte le politiche e le pratiche che inducono i bambini ad accettare come normale una vita in cui, con mezzi chimici o chirurgici, s’impersonifica il sesso opposto al dato assegnato alla nascita dalla natura. Fornire l’indicibilità del proprio essere a bambini e adolescenti, pensando di liberarli dal corpo, non fa che renderli schiavi di insicurezze e di caotiche possibilità senza alcuna base d’appoggio. Il compito che spetta agli specialisti del settore, così come a ognuno di noi, è di armonizzare le differenze, trattando come diverso ciò che è diverso e come uguale ciò che è uguale. Non è la recinzione vittimistica la chiave per combattere episodi terribili come quello di Rita Hester. Occorre fare chiarezza laddove vige confusione, senza aspirare a caselle vuote da sbarrare per bambini che non trovano gli strumenti per presentarsi al mondo come maschietti o femminucce, insegnando loro cosa significhi l’unicità di ogni uomo, a partire dall’irripetibilità del dato genetico.


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