Provita febbraio 2013

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Notizie

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Infosportpagine

Rivista Mensile N. 12 - Febbraio 2013

“nel nome di chi non può parlare”

La vita è sempre degna di essere vissuta Il mondo di Lucy, un futuro di speranza

La Quercia Millenaria, il frutto di un amore sovrumano

Bambini invisibili: i dati sugli aborti eugenetici consentiti dalla l. 194/78


- Sommario -

Notizie

Editoriale 3 Notizie dall’Italia

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RIVISTA MENSILE N. 12 - FEBBRAIO 2013

Notizie dal mondo

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Primo Piano Bambini invisibili

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Benedetto Rocchi

... avrei avuto un figlio Down

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Cristina Santini

Il mondo di Lucy, un futuro di speranza

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Danilo Quinto

Vite

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Francesco Agnoli

Testata Infosportpagine-ProVita Editore MP cooperativa giornalistica Sede legale Via Marlengo 49/b, 39012 Merano (BZ) Autorizzazione Tribunale BZ N6/03 dell’11/04/2003 Codice ROC MP 12603 Redazione Francesca Romana Poleggi, Antonio Brandi, Mario Palmaro, Andrea Giovanazzi Largo della Caffarelletta 7, 00179 Roma. Tel/fax: 06-3233035 Direttore Responsabile Francesca Lazzeri Progetto grafico Massimo Festini

Attualità “La bambina di Gesù”

6

Tipografia Aesse Stampa, Via Pirandello, 12, 82100 Benevento

7

Distribuzione MOPAK SRL, Via Prima Strada 66 - 35129 Padova

Marco Respinti

Il frutto di un amore sovrumano Sabrina Pietrangeli

Lacrime di coccodrillo

8

Renzo Puccetti

Scienza e Morale Quo Vadis, Europa?

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Andrea Giovanazzi

Eugenetica ieri e oggi

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Chiara Mantovani

Anna

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Cinzia Baccaglini

Per una nuova cultura dell’accoglienza

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Alessandro Andalò

Anche i disabili hanno una vita da raccontare

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Carlo Bellieni

Famiglia ed Economia Sindrome di Down e cura della persona

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Laura Orazini

Il memorandum di Jaffe P. Giorgio Maria Carbone OP

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Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero Francesco Agnoli, Alessandro Andalò, Cinzia Baccaglini, Carlo Bellieni, Antonio Brandi, Padre Giorgio Maria Carbone, Chiara Mantovani, Andrea Giovanazzi, Sabrina Pietrangeli, Laura Orazini, Renzo Puccetti, Danilo Quinto, Marco Respinti, Benedetto Rocchi, Cristina Santini.

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Editoriale

Notizie

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Editoriale

Un bambino Down ha lo stesso diritto di nascere degli altri bambini?

Nel Settembre scorso, il Corriere della Sera ha pubblicato la lettera di un padre di un bambino di 10 anni, su sedia a rotelle, che dopo aver presentato la domanda di contributo alle autorità ha dovuto constatare che i rimborsi di spese per disabili sono fermi dal 2006. Tali storie non sono rare. Ma non è solo qui il problema. Un concepito al quinto mese si succhia il dito, le sue labbra e la sua lingua cominciano piccoli esercizi per quando succhierà il latte della mamma. È indubbiamente una persona. Se però ha un difetto fisico o una ”malformazione”, per lui la condanna a morte è sancita dalla legge 194 che in tal caso permette l’aborto anche dopo i 90 giorni. Allora: abbiamo tutti “pari dignità sociale”? Un bambino Down ha lo stesso diritto di nascere di un bambino normale? Evidentemente no, se la legge concede molto più tempo per abortirlo, rispetto a un bambino apparentemente normale!

Nel Dicembre del 2006, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Nel Febbraio del 2009 il Parlamento Italiano l’ha ratificata. Quindi nessuno oggi si sognerebbe di dire che una persona minorata ha meno diritti degli altri. Invece, se è ancora nel ventre della mamma, le cose cambiano radicalmente: può essere eliminato. Per sostenere questa tesi ci si rifugia sempre dietro l’alibi che il “bambino difettoso” sarebbe infelice di vivere. Si è diffusa una mentalità eugenetica per cui si devono solo avere bambini sani e belli. La gente è confusa: da una parte c’è il mito della società perfetta e dell’eterna ricerca, mai saziabile, del piacere e dall’altra c’è una falsa compassione per la presunta sofferenza dei “diversamente abili”. Quando un giovane affetto da macrocefalia fu ucciso a Roma dallo zio, la stampa presentò l’omicidio come un “atto d’amore”, perché lo zio “non poteva più vederlo soffrire”. Ma in base a quali principi e parametri si misura la qualità della vita? E chi determina tali parametri? Chi ha detto che la disabilità impedisce la felicità? Questa applicazione di due pesi e due misure dimostra solo che la nostra è una società dove regna l’ipocrisia. Il poter nascere non può essere un’opinione. La Vita è sempre un diritto. E il diritto alla Vita è il primo dei diritti umani. Senza Vita non c’è Verità e senza Verità non c’è alcun diritto. Antonio Brandi

La dignità umana non è fondata nella capacità né nei talenti, ma è intrinseca alla natura umana. Per questo ogni neo-concepito ha un assoluto diritto alla vita che nessuno può togliergli. Dobbiamo essere realisti e capire come dietro una pretesa compassione per i bambini disabili c’è un brutale utilitarismo che vede il futuro costo socio-economico di questi bambini e dunque si promuove la loro eliminazione prima della nascita. Dobbiamo denunciare quest’atteggiamento che promuove l’eliminazione di disabili in grembo, che è un evidente preludio all’eliminazione di tutti i disabili che vivono fuor del grembo attraverso l’eutanasia. Mi congratulo con il dott. Antonio Brandi per la pubblicazione della Rivista Notizie ProVita che è impegnata in una difesa integrale della vita dal suo inizio fino al suo termine naturale e fornisce molte informazioni utili per tutti noi che siamo impegnati nella difesa della vita.

Mons. Ignacio Barreiro Carambula Direttore dell’Ufficio di Roma di Vita Umana Internazionale.


Notizie dall’Italia

Notizie

Notizie dall’Italia

4 Il 3 febbraio, in occasione della 35ª Giornata Nazionale per la Vita, la nostra Rivista ha organizzato con il “Popolo della Vita”, la proiezione del film October Baby, in un cinema del centro di Roma. All’ingresso del Campus Biomedico, invece, è stato allestito un banchetto dai volontari del CAV Roma Palatino e del Centro culturale “Amici del Timone”Roma, per sensibilizzare sulla difesa della vita nascente e raccogliere fondi per l’aiuto delle maternità difficili. L’Europa che diffondeva il cristianesimo e, con esso, la tutela della natura umana creata da Dio, ora esporta il superamento della natura umana verso una identità da costruirsi liberamente: maschio o femmina, madre o padre, moglie o marito … non si è, si diventa…. Se si perde il riferimento alla natura, si perde la possibilità stessa di sapere chi si è e come si deve vivere per essere persone umane. (dalla Relazione introduttiva al Convegno di presentazione del IV Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân, pronunciata sabato 26 gennaio 2013 da monsignor Giampaolo Crepaldi, vescovo della diocesi triestina). La Commissione tributaria di I grado di Modena ha respinto il ricorso sull’obiezione fiscale alle spese per l’aborto presentato da Andrea Mazzi, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII di Rimini. Il ricorso, però, non è stato rigettato perché banale, quindi la comunità proseguirà la sua campagna di sensibilizzazione. In particolare invita a non pagare una quota del bollo auto, come obiezione fiscale al finanziamento dell’aborto con i denari pubblici. Gadi Piperno, coordinatore delle attività per gli ebrei lontani, del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, ha dichiarato: «Per la legge ebraica l’aborto non si deve praticare, se non nei casi di concreto pericolo per la salute della madre. Per fare un esempio – ha aggiunto – un anestesista ebreo non deve collaborare con uno staff medico che si appresti a praticare un aborto». Inoltre, sul tema dell’utero in affitto, Piperno ha aggiunto «La religione ebraica è assolutamente contraria» .

La prolusione del Cardinale Bagnasco al Consiglio Permanente della CEI dà un enorme rilievo ai principi non negoziabili e alla conseguente questione antropologica, perché alla Chiesa sta a cuore – sempre – “tutto l’uomo”. Il messaggio è chiaro anche per politici ed elettori: la vita va difesa dall’inizio alla fine e non c’è spazio per compromessi o convenienze “diplomatiche” da campagna elettorale. “Quando si giunge di fronte alla grande porta dei fondamentali dell’umano, non è possibile il silenzio da parte di alcuno, persone e istituzioni: si è arrivati al “dunque”. Reticenze e scorciatoie non sono possibili: bisogna chiarire il volto che si vuole dare allo Stato”. “Mi unisco a quanti marciano per la vita e prego affinché i leader politici proteggano i bambini non nati e promuovano una cultura della vita”: con questo tweet, Benedetto XVI ha dato il suo sostegno alla Marcia per la vita di Washington, tenutasi nel 40.mo anniversario della sentenza della Corte Suprema “Roe vs Wade” che ha legalizzato l’aborto negli Stati Uniti. Dal 1973, si calcola che 55 milioni di bambini siano stati uccisi, un sesto dell’attuale popolazione americana. Il “Bando gestanti” del Comune di Busto Arsizio, mette 30 mila euro a disposizione delle neo-mamme disagiate per incentivarle a portare a termine la gravidanza. Alle gestanti in situazione di difficoltà economica, è offerto un contributo massimo di 2 mila euro in due tranche (il 50% all’atto di approvazione della graduatoria e il 50% dopo la nascita del bimbo), «con l’obiettivo - spiega il sindaco Gigi Farioli - di sostenere economicamente famiglie per le quali la nascita di un figlio pone rilevanti difficoltà di carattere economico». Per Repubblica c’è un grave problema: gli aborti con la RU486 in Lombardia sono pochissimi. Solo 566 somministrazioni, sulle quasi 19 mila interruzioni di gravidanza che ogni anno vengono fatte nella regione. L’aborto farmacologico non è ancora entrato a far parte, al contrario di quello tradizionale, dell’immaginario femminile, si lamenta Eleonora Cirant, del coordinamento Ru486Milano: «Sembra quasi che abortire sia ancora una cosa brutta e losca, da nascondere: è assurdo». Vuol dire che abortire è cosa bella? Da farsene un vanto? Alberto Giubilini e Francesca Minerva, bioeticisti che lavorano in Australia, hanno tenuto una serie di conferenze in diverse università italiane. La loro tesi è che si possa ammettere l’aborto post – nascita: al pari del feto, anche il bambino già nato non ha lo status di persona, pertanto l’uccisione di un neonato dovrebbe essere lecita in tutti i casi in cui è permesso l’aborto, anche quando il neonato non ha alcuna disabilità, ma ad esempio costituisce un problema economico o di altra natura per la famiglia. Nel N. 2 di Notizie Pro Vita, il nostro illustre prof. Benedetto Rocchi ha esaurientemente ed efficacemente risposto a una tale aberrante e diabolica tesi.


Notizie dal mondo

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Nel gennaio1973 i casi Roe vs Wade e Doe vs Bolton hanno portato alla legalizzazione dell’aborto negli USA. In occasione della ricorrenza le diocesi americane hanno indetto una novena di preghiera e di digiuno in memoria dei 55 milioni di bambini che si stima siano stati uccisi da allora ad oggi. Pochi sanno che nessuna delle due donne, attrici nei suddetti processi, ha poi abortito. Anzi, sono entrambe divenute attiviste pro-life. Ed entrambe hanno provato invano a far riesaminare le sentenze che le hanno rese celebri. Sandra Cano (alias Mary Doe) e Norma Mc Corvey (alias Jane Roe) hanno in più circostanze dichiarato che all’epoca erano giovani, senza educazione e povere: sono state abilmente manipolate e convinte da avvocati e femministe a firmare le carte processuali e a dire delle bugie, su cui poi si sono basate le storiche sentenze della Corte Suprema e la successiva legislazione abortista. L’aborto, come la fecondazione artificiale, è attualmente vietato in quasi tutta l’America Latina grazie anche all’articolo 4 della Convenzione americana dei diritti umani. Recentemente, però, secondo la Corte interamericana per i diritti umani (Iahr), chiamata a valutare la pratica della fecondazione assistita, un embrione non può essere considerato una persona fino a quando non è impiantato nell’utero della madre. L’Istituto americano di ricerca sulla popolazione ha dichiarato che la Iahr «ha emesso uno dei peggiori verdetti della sua storia». In Messico, l’episcopato locale ha esteso le pene previste dal Codice canonico - la scomunica latae sententiae per chi procura l’aborto anche per i parlamentari (cattolici) che hanno dato il proprio voto a leggi contrarie alla vita. Mons. Juan Ignacio Arrieta, segretario del Pontificio consiglio dei testi legislativi, ha sottolineato la necessità di dare a questo delitto un peso maggiore di quanto non abbia ora, almeno a livello percettivo: la gravità dell’omicidio è palese a tutti, non è così, invece, per l’aborto che è ritenuto spesso dalle legislazioni civili un diritto, qualcosa di meno grave di un omicidio. Moralmente è invece un omicidio aggravato perché in danno dell’essere più indifeso che esista. Uno studio di Elard Koch, Paula Aracena, Sebastián Gatica, Miguel Bravo, Alejandra Huerta-Zepeda, Byron C Calhoun, ricercatori e cattedratici di diverse prestigiose cliniche universitarie sudamericane e statunitensi, ha rivelato che il Guttmacher Institute ha generato per anni numeri gonfiati sugli aborti clandestini nei paesi in via di sviluppo e hanno dimostrato che non vi è alcuna relazione causaeffetto tra lo status giuridico dell’aborto (che sia legale o meno) e la mortalità materna. La mamma di Justin Bieber è impegnata nella produzione di un cortometraggio finalizzato ad incoraggiare le donne a dire “no” all’aborto. Il titolo del film è “Crescendo”, nelle sale cinematografiche dal 28 febbraio. Justin Bieber spenderà la sua immagine per questa giusta causa?

In una lettera aperta firmata dal rabbino capo, Yona Metzger e dal rabbino capo sefardita, Shlomo Amar, diretta a tutti i rabbini di Israele, si legge che “l’opinione pubblica deve essere resa consapevole della gravità dell’uccidere i feti, che corrisponde a un reale omicidio”. Il linguaggio usato quest’anno è particolarmente duro, molto più severo che negli anni passati, perché l’aborto, oltre ad essere un’enorme trasgressione, in Israele è “una reale epidemia”, dal momento che uccide ogni anno decine di migliaia di anime.

Katyia Rowe, 26 anni, ha raccontato al Daily Mail: «Ci avevano detto che nostro figlio aveva delle anomalie cerebrali così gravi che la sua vita sarebbe durata poco». Ma le ecografie hanno mostrato un bimbo sorridente: eppure erano state pensate per spaventare con le disabilità del piccolo. La mamma, con tutto il suo amore, ha voluto lasciarlo vivere: è stato felice, Lucian, nel pancione, e nei 9 giorni che ha vissuto dopo la nascita. Sui media si legge spesso del Governo irlandese che nel progetto di riforma della legge sull’aborto, si contrappone “ai Vescovi”. Nessuno dice mai che IL POPOLO irlandese si è espresso per tre volte, con referendum, contro l’aborto e che è il popolo che scende in piazza per protestare contro la sua legalizzazione. L’ultima manifestazione, a Dublino, di poche settimane fa è stata la “veglia per la vita” cui hanno partecipato pacificamente più di 25.000 persone. Erano 200, invece, i militanti pro choice che si sono riuniti per una contro - manifestazione.

La rivista Family Physician, organo del Royal Australian College of General Practitioners spiega che le donne ignorano i rischi di rimandare la gravidanza nel tempo e hanno un eccessivo ottimismo nell’efficacia della fecondazione in vitro. Anche il canadese Journal of Obstetrics and Gynecology ha formulato delle raccomandazioni e la rivista Human Reproduction ha mostrato il basso livello di informazione sui limiti dell’età feconda. Qualcuno obietterà che è antidemocratico invogliare a far figli da giovani, perché magari priva le donne di carriera e istruzione, ma obbligo dei governi è proprio quello di armonizzare istruzione e carriera con i tempi biologici. Il pensiero imperante del figlio “quando lo decido io” sembra essere un indice di grande libertà di scelta, ma cozza con l’orologio biologico delle ovaie.

Notizie dal mondo

400mila persone, secondo i media, 500mila secondo gli organizzatori, sono le persone che hanno partecipato alla marcia per la vita di Washington. La folla ha sfilato, pregando, dal Campidoglio fino alla sede della Corte Suprema.


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Attualità

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“La bambina di Gesù” Gianna Jessen si fa chiamare così, perché la sua vita è un autentico miracolo.

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uella di Gianna Jessen è una storia vera. Gianna è nata dal ventre di sua madre quando aveva solo 30 settimane, il 6 aprile 1977, a Los Angeles, e sua madre, una ragazzetta del Tennessee, rimasta incinta in modo banale come molte ragazzette della sua età rimangono incinta (banale è il modo in cui molte, troppe ragazzette restano incinta, mai la gravidanza), all’epoca aveva solo 17 anni. Quella ragazzetta, la sua mamma, voleva abortire, ma Gianna è stata più forte, più forte della morte. Ed è sopravvissuta. È sopravvissuta all’aborto salino, cioè all’iniezione di una micidiale soluzione caustica che viene immessa nell’utero della madre: una tecnica aberrante, degna nemmeno di una cavia, una delle molte che i medici, in deroga al giuramento di Ippocrate, hanno escogitato per ammazzare i bimbi. Di solito porta alla morte in 24 ore, corrodendo il feto. Per ben 18 ore di martirio assurdo la minuscola Gianna lottò contro quel composto letale e alla fine, stufa di essere martoriata in quel modo, domandandosi perché ce l’avessero tutti con lei che nulla aveva fatto di male, uscì da sua madre e lasciò tutti con un palmo di naso. Solo che il male lascia sempre il segno e l’esposizione prolungata a quel tentativo pervicace di ucciderla le ha lasciato

Dio sta usando Gianna per ricordare al mondo che ogni essere umano è prezioso per Lui.

un ricordo indelebile. La paralisi cerebrale e muscolare. A 4 anni Gianna la forte, Gianna la sopravvissuta è stata adottata da chi ha saputo volerle bene per quel che era ed è, per quel che le è stato fatto, per la sua innocenza. Grazie all’amore e alla fisioterapia che le hanno fatto fare contro ogni speranza, ha recuperato buona parte dei suoi handicap: ha pure imparato a camminare, anche se ancora lo fa con difficoltà evidenti. Il male lascia segni indelebili, ma la vita è sempre più forte. Oggi Gianna è una pro-lifer indomita che si batte per salvare quante più vite possibile. Oggi combatte per quei molti bimbi che potrebbero non avere la sua stessa forza. Oggi Gianna è un’adulta bellissima, da far invidia ai ceffi mortiferi degli abortisti. La carriera di pro-lifer l’ha iniziata nel 1991, a 14 anni. Chi ha cercato di ammazzarla è stata, ovviamente, la Planned Parenthood, il più grande abortificio del mondo, una vera e propria macelleria umana legalizzata, che spaccia incubi per soluzioni e che spande orrore a piene mani, amica di governi, ricchissima e potentissima, presente nei consessi internazionali, coccolata all’ONU e dalle sue troppe agenzie. Il caso di Gianna fu menzionato in pubblico anche da George W. Bush, il presidente americano amico dei pro-lifer, quando diede vigore di legge al Born-Alive Infants Protection Act of 2002, la norma che dà protezione giuri-

È sopravvissuta a un aborto salino, che di solito entro 24 ore porta alla morte del feto, per corrosione. dica ai bambini nati vivi da aborti falliti. Perché di casi come quelli di Gianna, insieme tristi e gioiosi, ce ne sono diversi. Di Gianna, la beata madre Teresa di Calcutta ha detto: «Dio sta usando Gianna per ricordare al mondo che ogni essere umano è prezioso per Lui. È bello vedere la forza dell’amore di Gesù che Egli ha riversato nel suo cuore. La mia preghiera per Gianna, e per tutti quelli che la ascoltano, è che il messaggio dell’amore di Dio ponga fine all’aborto con il potere dell’amore». Nessuno deve perdersi la biografia che la scrittrice statunitense Jessica Shaver le ha dedicato nel 1995, Gianna: Aborted… and Lived to Tell About It (Tyndale House Publishers, Carol Stream). Quella di Gianna è una storia che sembra incredibile, ma che invece è vera. Una storia bellissima, che parrebbe da film, tanto che un film, ormai famoso, October Baby (di cui riparleremo), s’ispira proprio alla sua storia. È il film concretissimo della vita che vince. Marco Respinti

Gianna Jessen


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Attualità

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Il frutto di un amore sovrumano La straordinaria esperienza di Sabrina Pietrangeli e Carlo Paluzzi: dopo una diagnosi pre-natale infausta, non solo è nato Giona, ma ha preso vita l’onlus La Quercia Millenaria

T

ra i motivi che possono indurre una mamma a non gioire per il dono della vita nel suo grembo c’è quello di temere per la salute del proprio piccolo. Successe a me e mio marito ben dieci anni fa. Attendevamo il nostro terzo bambino. Al quinto mese, la diagnosi: “feto terminale”. La prospettiva innaturale di un feto destinato al feretro. Un amore sovrumano ci permise di non cedere alle lusinghe di medici faciloni, per i quali questo bambino era divenuto inutile, un dispendio di tempo (loro), di energie (mie), di risorse economiche (regionali). Ci trovammo abbandonati, stretti l’uno all’altra in lacrime fuori da un ospedale, come due colonne alle quali improvvisamente mancavano le fondamenta. Ci volle un po’ per trovare un medico il cui camice bianco rivelasse un candore personale, riconducibile a una vita di preghiera e d’intimità con Dio. E così la speranza, l’accoglienza, le cure, e poi il miracolo inspiegabile di una “risoluzione spontanea”, come recita la cartella clinica,

(www.laquerciamillenaria.org)

con la freddezza di chi non riconosce che Scienza e Fede possono coesistere. Nostro figlio ci ha insegnato la pazienza. Sette mesi consecutivi in ospedale: interventi, infezioni, trasfusioni… e una lunga terribile notte in cui per ben otto ore i suoi reni sono rimasti bloccati e la sua vita si stava spegnendo. In quel momento contrattai con Dio, così com’ero abituata a fare con i miei genitori: gli chiesi di restituirmi mio figlio. In cambio gli avrei dato tutta la mia vita. Lui è stato di parola, ed io da otto anni in qua, sto facendo del mio meglio! Così è nata La Quercia Millenaria, un’onlus, che unendo scienza e testimonianza dona ai genitori affranti da diagnosi terribili il sollievo di sentirsi compresi e la possibilità di veder curare il proprio piccolo anche in utero, per migliorare la qualità della sua vita e a volte risolvere totalmente la patologia. La nostra collaborazione con il prof. Noia, e soprattutto con il Policlinico Gemelli di Roma, iniziata nel 2006 e formalizzata lo scorso Maggio, prevede la nostra presenza continua in

Il Prof. Noia con Sabrina Pietrangeli, foto di Carlo Paluzzi

favore delle mamme e dei papà presso il Day Hospital di Ostetricia con un mirato servizio di Caring Perinatale, dopo che il caso ci è stato segnalato per telefono o e- mail. Prendiamo subito un appuntamento e siamo presenti alla consulenza, alle ecografie, alle indagini invasive, tenendo la mano alla mamma spaventata, o rassicurando il papà in ansia nella sala d’attesa; nella sala parto, e molto spesso nei momenti tristi del lutto familiare, quando il piccolo è realmente terminale e muore poco dopo la nascita. A che scopo un tale impiego di risorse? La risposta è nell’evidenza dei fatti: l’85% delle famiglie che anziché ricorrere all’aborto sceglie di accompagnare il proprio bambino verso un exitus naturale, elaborano molto più in fretta la perdita e si riaprono alla genitorialità in tempi brevi, 12-18 mesi dopo. Nessun episodio depressivo, nessuna conseguenza negativa sulla salute mentale dei vari membri della famiglia, nessun divorzio. È quindi una forma educazionale di accoglienza alla vita, non certo fondamentalismo religioso! E così questa è la storia di Giona, un bambino considerato “inutile” da medici senza cuore, che dopo nove anni dalla sua nascita, ha visto nascere un esercito di bambini che sono stati amati, accolti, e tornati in cielo, e un altro esercito di bambini in terra, le cui mamme non hanno acconsentito all’aborto eugenetico, e oggi invece, felicemente, stringono il proprio bambino sano tra le braccia. Sabrina Pietrangeli


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8

Lacrime di coccodrillo L’ONU ha dichiarato il 21 marzo la giornata mondiale per la sindrome di Down, ma al contempo le legislazioni occidentali consentono pratiche di soppressione eugenetica prenatale su larga scala.

I

n Inghilterra il 92% dei bambini con sindrome di Down individuati prima della nascita vengono uccisi mediante l’aborto, in Francia siamo al 96% e in Italia le cose non stanno diversamente. La diagnosi prenatale è utilizzata come una missione militare del tipo “scova e distruggi”. Chi? Il bambino imperfetto, persino quando le imperfezioni sono correggibili come un banale labbro leporino, con tanti saluti per i principi di giustizia e uguaglianza di cui sarebbe permeata la nostra costituzione-più-bella-del-mondo. Si dirà che questa visione è da irrecuperabili pessimisti, ma osservo che non si tratta di essere pessimisti, piuttosto, come disse di sé Plino Corrêa de Oliveira, di essere veri “pessimologhi”, persone in grado di vedere e denunciare i comportamenti pessimi. “La legge 194 sull’aborto non è una legge eugenetica, non consente di abortire a causa della malformazione, ma solo se essa costituisce un “grave pericolo” per la salute della donna”: questo è il refrain che si canta da più parti. Ma se così fosse, se la legge fosse buona ma disapplicata, com’è che in oltre 34 anni dalla sua introduzione non si conosce un caso, dico un solo caso, di condanna per violazione della legge nei casi di aborto eseguiti per malformazione del nascituro? A occhio e croce

stiamo parlando di circa 80.000 bambini soppressi a causa di malformazioni diagnosticate, un numero non lontano da quello delle vittime della guerra in Bosnia. E come mai i giudici della terza sessione civile della corte di cassazione hanno potuto condannare un ginecologo a risarcire non solo i genitori, ma anche la loro bambina nata con sindrome di Down, stabilendo un singolare nesso di causalità tra la condotta del medico, insufficiente a diagnosticare la malattia, e l’anomalia cromosomica, anche se tutta la scienza medica della Terra, di Marte e dell’intero sistema solare esclude che la trisomia 21 possa instaurarsi per la mancata amniocentesi? Si è stabilito che la mancata amniocentesi ha portato al mancato aborto e il mancato aborto ha coinciso con la vita vissuta con la sindrome di Down. Dicono che i giudici non hanno voluto intendere “meglio morto che malato”, avranno ragione loro che perdono sapienza da tutti i pori, ma io, uomo semplice, nonostante tanti dotti discorsi, non

riesco a intenderla che così. Così, l’estraneo che ti vede malato con i suoi occhi e ti giudica indesiderato, allontanandoti dalla sua proprietà, giustamente, si dice che insulta la civiltà dell’accoglienza del diverso. Se invece, con le procedure della moderna medicina, ti vedono malato mentre sei nella pancia, il poter farti fuori da parte di chi dovrebbe custodirti è una conquista di civiltà. Magie dei diritti riproduttivi che conferiscono diritto di vita e di morte a un privato cittadino sul più innocente tra gli innocenti e indifeso tra gli indifesi. Mi raccomando, non chiamatela ingiustizia, non è eugenetica, no, è per il bene del bambino che avrebbe una vita infelice, è per il bene dei genitori che vedrebbero sconvolti i loro progetti di vita, è per il bene dei fratelli a cui verrebbero sottratte risorse, è per il bene della comunità che non dovrà caricarsi degli oneri di assistenza, è un bene, un bene per tutti, è un pacchetto ben confezionato che però va lasciato così com’è, guai ad aprirlo! Si potrebbe correre il rischio di trovarci dentro come sorpresa il Marchese del Grillo che ai bambini non nati spiega la morale della legge sull’aborto, ricordate? “Mi dispiace, ma io so’ io e voi nun siete …”. Renzo Puccetti


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Primo Piano

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Bambini invisibili

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Il prof. Benedetto Rocchi ha rielaborato per Notizie Pro Vita le statistiche dell’Istat sul numero dei bimbi con la trisomia 21 che vengono uccisi nel grembo materno. I dati scientifici che emergono sono agghiaccianti.

’aborto in Italia è un diritto sostanziale, che può essere rivendicato senza limitazioni, anche per finalità eugenetiche. Molto spesso l’applicazione della 194 non riguarda situazioni in cui il “problema” è costituito dalla salute del bambino. La soluzione purtroppo non è la cura. Quando Jerome Lejeune individuò le cause della sindrome di Down paventò un uso perverso della sua scoperta: aveva cercato le cause della malattia perchè voleva aiutare i bambini, migliorare le cure, ma si rendeva conto che la stessa scoperta avrebbe potuto essere usata per “selezionare” i bambini, eliminando quelli “sgraditi”. Per questo combattè strenuamente e pubblicamente la legalizzazione dell’aborto in Francia, pagando un prezzo altissimo in termini di carriera (in sostanza rinunciando al premio Nobel). Lejeune aveva visto giusto. Ogni anno tanti bambini vengono abortiti per il solo fatto di essere affetti dalla sindrome di Down: vengono eliminati perchè sono geneticamente “diversi”. È difficile non definire eugenetico questo uso del diritto d’aborto. Eppure è tutto ufficiale. Provate a leggere le “Linee Guida per l’Assistenza alle Persone con Sindrome di Down” dell’Istituto Superiore di Sanità (www.iss.it/binary/lgmr2/ cont/01.1234174825.pdf). Vi si dice che oggi in Italia nasce 1 bambino affetto dalla Sindrome circa ogni 1000 nati, ma si ammette candidamente che “dove le tecniche anticoncezionali, la

diagnosi prenatale e l’interruzione di gravidanza non sono ancora attuate, nasce circa 1 bambino con sindrome di Down ogni 650 nati vivi, come succedeva anche in Italia fino agli anni ‘70”. Un ben triste progresso della medicina! È possibile sapere quanti bimbi subiscono questo “trattamento” eugenetico? In realtà non esiste una statistica ufficiale. I dati Istat che confluiscono nella relazione annuale del Ministro della Salute al Parlamento sulla legge 194, non fanno cenno alle “motivazioni” degli aborti. È possibile tuttavia fare una stima. Il numero di bambini con la sindrome di Down che vengono concepiti dipende dall’età della mamma, secondo una relazione ormai accertata a livello mondiale. Utilizzando i dati Istat sull’età delle mamme è possibile stimare il totale dei bimbi con la sindrome di Down la cui nascita è in teoria attesa in un determinato anno. Nel 2009 ci saremmo dovuti aspettare la nascita da 1.356 a 1.856 bambini con la sindrome di Down. Sempre secondo l’Istituto Superiore di Sanità ne nascono ogni anno circa 500. Ciò vuol dire che nel 2009 mancavano all’appello da 799 a 1.309 bambini, uccisi per la loro “anomalia” nei cromosomi. Sono valori del tutto compatibili con i dati pubblicati sul Rapporto annuale dell’”International Centre of Birth Defects” (www.icbdsr. org/filebank/documents/ar2005/ Report2011.pdf) dove viene riportato il numero di aborti volontari motivati dalla sindrome del

bambino in 5 regioni Italiane. In realtà riportando quei valori al totale della popolazione italiana si potrebbero ipotizzare oltre 1.100 vittime dell’eugenetica. In regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna oltre il 70% dei bimbi ai quali è stata diagnosticata la Sindrome di Down vengono abortiti! È come se questi bambini fossero diventati invisibili. Non esistono dati ufficiali su di loro. Uno studio scientifico recente (Leoncini, E. et al, How valid are the rates of Down Syndrome Internationally? American Journal of Medical Genetics A, 2010, pp. 16701679) dimostra che nelle regioni italiane che partecipano al “monitoraggio” epidemiologico della sindrome i casi “registrati” (che portino all’aborto o meno) sono sistematicamente inferiori di quelli “effettivi”. Una terribile macchina sanitaria fa letteralmente sparire la loro esistenza tra diagnosi prenatali, richieste, autorizzazioni e aborti. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità “Molte persone con Sindrome di Down possono raggiungere un buon livello di autonomia personale. Altre, hanno bisogno di maggiore sostegno. I giovani e gli adulti con Sindrome di Down possono apprendere un mestiere e impegnarsi con responsabilità”. Provate a togliere le parole “Sindrome di Down” dal testo citato: non vi sembra che la frase descriva semplicemente persone che devono affrontare, come tutti, la vita? Benedetto Rocchi


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… avrei avuto un figlio Down Testimonianza di una madre cui è stata fatta una diagnosi prenatale di trisomia 21 e che, grazie a questo, ha imparato ad amare ancor più la vita.

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l nostro secondo figlio è un privilegiato. Lo ripeto continuamente a me stessa e anche a lui, che oggi ha otto mesi e mi guarda con i suoi occhi grandi e pieni di vita. Il suo privilegio consiste nel fatto di essere stato amato da subito, fin da quando era grande pochi centimetri. Il giorno del nostro settimo anniversario di matrimonio mi chiamarono dall’ospedale, perché c’era qualcosa che non andava nel risultato del suo test. Avevo acconsentito a fare l’esame su consiglio della mia ginecologa; avevo ascoltato distrattamente i discorsi d’introduzione della dottoressa dell’ospedale in quella sala piena zeppa di gestanti; avevo anche firmato i moduli sovrappensiero perché tanto alla prima gravidanza era andato tutto bene e poi perché un bimbo malato dovrebbe capitare proprio a me? Invece il mio tasso di “rischio” era altissimo e se mi andava bene, avrei avuto un figlio Down. Mi è crollato il mondo addosso: come potevo fare io a prendermi cura di un bimbo malato gravemente? Cosa avrebbe significato per la no-

“essere pro life” significa essere a favore della vita, non solo di quella che nasce, ma anche di quella dei genitori, che diventa drammaticamente bella e degna di essere vissuta.

Diagnosi prenatale

stra vita? Sarei stata capace di amarlo in modo adeguato? Che calvario sarebbe stata la nostra vita? Come avremmo potuto sopportare tutto? E quando noi non ci saremmo stati più? E se veramente fosse vissuto poche settimane, che senso aveva tutta questa sofferenza? Andando verso l’appuntamento all’ospedale con la mia ginecologa per capire il “da farsi” mio marito mi ha detto “Ma noi possiamo dire in che modo si compirà la felicità di nostro figlio? Chi può sapere se sarà un infelice professore ordinario di Harvard o un felice omone di 40 anni che gioca con le costruzioni?”. All’ospedale ci hanno consigliato di fare la villocentesi e poi l’amniocentesi. Mi han detto “così uno decide di fronte a una certezza”. Mio marito mi ha detto “l’unica certezza è che lui c’è”. Mentre piangevo perché non sapevo cosa fare, mio marito mi ha detto “il rischio d’a-

borto legato all’esame significa che tu prendi una pistola, metti in fila 100 bambini, la punti contro uno e spari”. Non ci avevo pensato e mi è sembrato agghiacciante. Ho viva la sensazione di quei momenti in un reparto malandato, seduta in corridoio pieno di gente, mentre mi dicevano: “Deve decidere velocemente, perché la fila per villo è lunghissima e la dobbiamo fare entro oggi. Se poi succede qualcosa, allora era destino. È giovane, ne può fare un altro”. Ho chiesto spiegazioni sulle trisomie, per capire cosa comportasse per me accettarle. Allora mi hanno mandato da un genetista. Mentre andavamo dal genetista, mi ha chiamato la mia amica ostetrica, che aveva fatto nascere anche il mio primo figlio, e mi ha detto una cosa semplice, ma profondamente vera: “Ricordati che tu non sei da sola e devi decidere per te e per il bimbo: se decidi di fare


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È meglio un infelice professore ordinario di Harvard o un felice omone di 40 anni che gioca con le costruzioni?

l’esame e stare tranquilla, devi capire esattamente cosa significa essere tranquilla. E se tu diventi tranquilla, ma succede qualcosa al bimbo? E comunque qualsiasi sia la tua decisione, io sono con te”. L’incontro con il genetista è stato incredibile (perché uno stenta a credere che in un ospedale ci siano persone così che uniscono professionalità a umanità pur dicendoti schiettamente tutta la verità). Lui ci ha mostrato delle foto di bambini down ed erano veramente belli, pieni di vita e felici. Ci ha fatto ridere quando ci ha chiesto “lei ha mai visto un down che si droga? No, perché i Down sono bimbi speciali che chiedono tanto, ma danno tanto… e poi, signora, la gente si affeziona agli animali: come si fa non a non affezionarsi ai bimbi?”. Ci ha poi parlato dell’ecografia genetica, un esame non invasivo che permette di vedere delle anomalie nel feto; questa era una nuova modalità di affrontare il problema, che però richiedeva pazienza e disponibilità da parte nostra. La prospettiva si è rovesciata: il problema non era il bambino, eravamo noi. E il proble-

ma non era il futuro, ma il presente, quel bimbo piccino per cui abbiamo iniziato fin da subito a struggerci. Il nostro amore per lui è cresciuto. E quando è arrivato, è stata un’esplosione di gioia perché era lì presente, c’era ed è questo “il lieto fine” della storia. Il nostro bimbo è sano, ma il miracolo non è questo: è il cambiamento che tutto questo ha portato nella nostra famiglia. Abbiamo imparato ad accettare, ad aspettare e ad amare; il nostro cuore si è allargato, ha imparato a struggerci per ogni bimbo che nasce. Abbiamo imparato anche che non si può giudicare chi fa altre scelte, ma occorre una compagnia, perché una mamma che decide di abortire lo fa perché ha paura sentendo il peso della situazione e pensa che una soluzione nel breve periodo riesca a lenire anche una ferita che rimarrà aperta per sempre. Ogni volta che guardiamo il nostro piccino, penso a quanti bimbi non sono nati. E penso anche a quante donne soffrono per una

decisione che sembrava giusta: ma quel dolore non è svanito, è solo addormentato e riesplode all’improvviso mentre si è in fila al supermercato e davanti c’è una mamma con un bambino piccolo, mentre alla TV scorre uno spot per la raccolta fondi per le malattie infantili, mentre uno è distratto a fare altre cose e semplicemente non ci pensa o mentre uno guarda il figlio sano che è venuto dopo o prima di quello abortito e la domanda più tremenda affiora: “Se fossi stato tu quello che non c’è?”. Mio figlio ci ha introdotto a una nuova prospettiva sulla vita e fin da piccolo ci ha insegnato che quello che pensavamo fosse amore era solo la puntina di un iceberg. Io nel mio piccolo penso che “essere pro life” significhi questo: essere a favore della vita non solo di quella che nasce, ma anche di quella dei genitori che diventa drammaticamente bella e degna di essere vissuta. Cristina Santini

Qualcuno difende pubblicamente i “bambini speciali”


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Il mondo di Lucy, un futuro di speranza Lucy è nata grazie all’amore dei suoi genitori e di coloro che hanno pregato per lei.

L

ucy, che compirà quattro anni il prossimo 7 luglio, è nata solo grazie all’amore dei suoi genitori e di chi ha pregato per lei. Racconta sua madre Benedetta: “Al quinto mese di gravidanza mi sottoposi a un’ecografia morfologica di routine. Mi dissero che alla mia bambina mancava una parte del cervelletto e mi prospettarono la possibilità di abortire. Io non sapevo neanche dell’esistenza della legge 194”. I medici scoprirono che Lucy era affetta dalla sindrome di Dandy-Walker, che colpisce un bambino su 25.000, caratterizzata da una malformazione congenita del cervello, che comporta l’allargamento del quarto ventricolo (una delle cavità del cervello contenenti il liquido cerebrospinale), l’assenza di una parte del cervelletto (struttura cerebrale deputata al coordinamento dei movimenti) e l’allargamento della fossa cranica posteriore, con spostamento di alcune strutture del cervello in sedi diverse da quella normale. I sintomi principali si manifestano in genere durante l’infanzia e sono: ritardo di sviluppo, progressivo aumento della circonferenza cranica, segni legati alla disfunzione del cervelletto (mancanza di coordinamento muscolare, spasticità, instabilità) e alla comparsa d’idrocefalo (vomito, irritabilità, convulsioni). Che cosa decideste di fare? “La prospettiva che mio marito Gianluca ed io avevamo era molto difficile da gestire. Ci fu anche paventata la possibilità di un’operazione nel corso della gravi-

danza. Tornammo a casa sconvolti e c’interrogammo a lungo. Avevamo paura di non farcela e di far venire al mondo una persona che avrebbe sofferto per tutta la sua vita. Parlammo a lungo, anche della possibilità di abortire, ma io sentivo fortissima dentro di me la convinzione che non avrei potuto farlo. Entrambi veniamo da famiglie religiose, ma non è stata solo questa la ragione per cui non presi in considerazione l’ipotesi dell’aborto”. Quale fu la ragione, allora? “Una notte, sono stata avvolta da una sensazione piacevole di caldo. Ho avuto una visione, che è ancora nitida nella mia mente. Ho visto una luce e una scritta, che diceva: ‘Il mondo di Lucy, un futuro di speranza’. Provai un senso di calore, di protezione, di

forte serenità e subito dopo sentii dentro di me una voce che mi diceva di non avere paura, di coltivare una nuova prospettiva, di guardare il mondo attraverso Lucy. Svegliai Gianluca e gli raccontai quello che avevo sentito e quello che avevo visto. Decidemmo insieme per la vita della nostra creatura e in più la cosa bellissima è stata quella di sentire che da quel momento in poi avremmo portato la nostra missione attraverso la musica, che rappresenta la nostra vocazione artistica e di lavoro”. Cosa c’entra la musica? “Abbiamo iniziato a scrivere canzoni dedicate a Lucy e abbiamo aperto un sito internet (www.ilmondodilucy.com), dove abbiamo raccontato, a mo’ di diario, la nostra esperienza. Sia-


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13 mo stati sostenuti anche a distanza da tante persone, da tutto il mondo, e sono sicura che siamo andati avanti grazie alle preghiere di molte persone normali che riscoprivano, attraverso la storia di Lucy, la bellezza delle cose che avevano. Abbiamo avuto la fortuna di avere il cuore aperto per condividere quello che ci stava capitando. Questa è stata la chiave di tutto. Abbiamo detto il nostro ‘sì’ insieme. Da allora in poi è arrivata una forza incredibile. Non c’era da mettere in dubbio più niente. È stato tutto molto più semplice: dovevamo solo camminare per la nostra strada e non abbiamo più avuto dubbi sul futuro. Quando durante la gravidanza i medici scoprirono che Lucy era affetta anche dalla sindrome di Down ci dissero che poteva succedere qualsiasi cosa. Nei bimbi affetti dalla sindrome di Dandy-Walker la durata della vita tende ad abbreviarsi quando sono presenti altri difetti congeniti. ‘Non sappiamo come sarà questa bambina’ - dicevano i medici – ‘se sarà normale, se camminerà, se parlerà’. Mi creda, pensavo di dover far nascere un mostro a tre teste”. Invece, che cosa accadde? “Lucy nacque con il parto cesareo. Nello spazio di soli tre mesi, subì tre operazioni. La prima, a 24 ore dalla nascita, quando i medici le diagnosticarono un’atresia esofagea: lo stomaco era staccato dall’esofago. La seconda, per un idrocefalo ostruttivo che costrinse i chirurghi a inserirle nel corpo una derivazione ventricolo-peritoneale che drena dal cervello all’addome l’eccesso di liquido. L’ultima per un interventricolare, un’ulteriore malformazione congenita consistente in un foro nel setto che separa i ventricoli destro e sinistro del cuore. Si rese ne-

cessaria una pericardiocentesi, per aspirare il liquido formatasi intorno al muscolo cardiaco, ma subentrò un’emorragia imponente, con crollo della pressione arteriosa. Fu trasferita in terapia intensiva e sottoposta a trasfusioni di sangue. Rimase lì 25 giorni, fra la vita e la morte e si aggrappò alla vita, con una forza meravigliosa, la stessa che trasmette oggi a tutte le persone che la incontrano”.

detto che non avrebbe parlato e invece ha iniziato a parlare. Ha anche cominciato ad andare all’asilo. Ci avevano detto che sarebbe stata aggressiva e invece è dolce e solare, ha un carattere bellissimo e trasmette gioia a tutti in modo contagioso. Ha delle caratteristiche che la rendono una persona unica”.

Com’è oggi, Lucy?

“Abbiamo trasformato il nostro diario su internet e le nostre canzoni, in un video concerto: 55 minuti sotto forma di musiche, filmati e immagini, dalla prima ecografia. Ha come titolo “Il mondo di Lucy”, che mettiamo in scena senza far pagare il biglietto. Siamo stati chiamati a tenere quattro recite anche a Medjugorje. Quasi ogni fine settimana, partiamo con il nostro camper con Lucy e vengono con noi una trentina di persone volontarie che lasciano il proprio lavoro. L’abbiamo chiamata ‘la famiglia del mondo di Lucy’. Noi vorremmo che la nostra storia possa aiutare tanti ad accogliere e ad amare la vita, così come ci è stata donata e così come abbiamo imparato a fare noi”.

“È bellissima. Come lo sono, nella loro unicità, tutti i bambini e in particolare coloro che sono portatori di disabilità. La cosa che più ci ha meravigliato è che le cose non sono mai andate così come ci era stato detto”. Ci spieghi. “Ci avevano detto che non sarebbe giunta alla fine della gravidanza e invece è nata. Ci avevano detto che avrebbe trascorso la sua vita stesa a letto, in stato vegetativo e invece è sempre in piedi. Ci avevano detto che non avrebbe potuto camminare e invece cammina. Ci avevano detto che se avesse camminato, avrebbe barcollato e invece cammina dritta. Ci avevano

La vostra è divenuta anche una testimonianza.

Danilo Quinto


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Vite La testimonianza di una delle innumerevoli persone che conoscono bene il mondo dei disabili mentali e sono convinte che le loro vite sono più che degne di essere vissute.

P

er fortuna il mondo è pieno di associazioni e movimenti che testimoniano nella concreta realtà quotidiana che la vita dei disabili è “degna di essere vissuta” e che le prospettive di felicità di un essere umano non dipendono né dal quoziente intellettivo, né dalla mappatura dei cromosomi. Basti pensare all’esercito di normodotati depressi, drogati, infelici e “scoppiati”, che popolano questa nostra società opulenta. Intervistiamo, dunque, un membro della nostra redazione che da più di 30 anni fa parte dell’associazione internazionale Fede e Luce (www.fedeeluce.com), nata in Italia 40 anni fa, grazie al carisma di Jean Vanier, che già aveva fondato l’Arche e Foi et Lumiere in Francia. Francesca, la vostra Associazione vuol testimoniare che con i disabili mentali si può creare un rapporto di amicizia. Non sono, insomma, persone da accudire e basta, un peso per la società? So con certezza, perché l’ho

Francesca e Elena

sperimentato, che gli esseri umani non comunicano solo con parole, gesti, o comportamenti concludenti e razionali. Esiste un livello di comunicazione di sentimenti, un “feeling”, direbbero gli Inglesi, impercettibile ai cinque sensi eppure reale e concreto. Conosco persone che non sono in grado di parlare e di esprimersi in alcun modo, assolutamente chiuse in se stesse, del tutto non autosufficienti, che comunicano.

sta non arriva e tu vorresti finalmente farla finita e andartene via, ti scopri imprigionato in un profondo, reciproco, struggente, legame d’amore. Elena mi ha salvato la vita. Mi ha evitato scelte sbagliate e disperate, mi ha fatto crescere nella direzione giusta, mi ha insegnato la giusta gerarchia dei valori. Se Elena non fosse nata, se non l’avessi incontrata, non oso pensare dove sarei e cosa sarei.

Hai in mente qualcuno in particolare, nel dire queste cose?

Ma queste persone conducono una vita “degna di essere vissuta”?

Ho in mente moltissime persone. Elena, per esempio. Serrata dietro il muro dell’autismo da quando è nata, appare men che nulla, ma invece…. Si lascia fare di tutto e ogni tanto graffia o tira i capelli, anche senza motivo, solo perché in certi momenti si sente ostacolata nel suo “Essere”. Rarissimamente guarda negli occhi; anzi non guarda mai niente e nessuno, ma vede tutto. E ti vede dentro. E mette a nudo davanti a tutti e soprattutto davanti a te stesso la tua povera umanità, rimuovendo d’un colpo la fragile apparenza di cui spesso siamo fatti. Elena fisicamente ti può mettere KO in poco tempo: tu non puoi vincere, puoi solo fuggire. Se accetti il confronto non hai tregua finché non ti denudi l’anima e t’inginocchi davanti all’Eterno e al Mistero gemendo: ”Perché?”. E quando la rispo-

Maria Rosaria era spastica, poliomielitica, ritardata (a 53 anni, era come se ne avesse 6), sorda, e ha avuto il cancro. La mia “grande” fede, allora, si è mostrata più fragile di quanto pensassi. Mi sono ritrovata drammaticamente libera di credere o no e di scegliere così la speranza o la disperazione. Ed è stata lei, proprio lei, Maria Rosaria, che mi ha insegnato la speranza, mi ha detto “Dove sono debole, è allora che sono forte”, con tutti i suoi handicap. È stata più forte e in gamba di me perché ha saputo sopportare tutto. Non era un angelo, in vita. Anzi era una persona determinata e testarda (e anche gelosa!). Se poteva imbrogliava anche, pur di ottenere quello che riteneva giusto. E se non riusciva a imbrogliare, ti chiedeva, per favore, di imbrogliare tu, contro te stessa, per far vincere lei… Era più simpatica che dolce. Non esitava a comandare e guai, se


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Jean Vanier

il comando non era eseguito a puntino! Del resto le persone che amava erano “sue”. Poi, a conoscerla bene, nell’intimità, si rivelava dolce e indifesa. Come quando si lavava i denti. O si vestiva e diceva che voleva fare da sola. (E faceva da sola. Tutto. Impiegando un tempo infinito.) Da lei ho imparato l’amicizia vera. Ho imparato cosa vuol dire voler bene in modo gratuito. Da lei ho imparato a parlare con poche parole. Più a fatti che a parole. Da lei ho imparato la pazienza. Da lei ho imparato un sense of humor più unico che raro. Da lei ho imparato la fedeltà. Da lei ho imparato a vedere belle le persone (me stessa compresa) a prescindere dall’aspetto fisico. Da lei ho imparato a cantare senza suoni. Con lei mi sono sempre divertita. Di lei mi porterò sempre nel cuore il sorriso. È stata una vita vera, piena di gioie e dolori, di salute e di malattia, come la vita di chiunque. Mi pare di capire che sia morta per un cancro. In un caso del genere molti pensano che sia più umano e più giusto “aiutare a morire” le persone. Fino alla fine è stata aggrappata con le unghie e con i denti alla

vita, nonostante la sofferenza. Se per un momento mi è passato – con orrore - per la mente che “farla” morire poteva essere una liberazione, ora sono più che mai convinta che lei assolutamente e disperatamente, comunque, voleva vivere. L’eutanasia è decisamente e sicuramente SOLO un atto egoistico interessato a porre fine al dolore (che può essere anche immenso) di chi assiste. Oltretutto le terapie del dolore sono in grado di lenire abbastanza bene il male fisico senza addormentare del tutto il paziente. Del resto un grande poeta scrisse “non sono mai stato tanto attaccato alla vita” quando si trovava faccia a faccia con la morte. E i genitori, i fratelli, i parenti che comunque devono curare per tutta la vita queste persone? Il mio cuore è pieno di volti di genitori e fratelli che testimoniano ogni giorno la gioia – sì, la gioia – di vivere, nonostante i problemi pratici e la responsabilità immensa che comporta un figlio o un fratello con handicap. Tra i primi che ho conosciuto, più di 30 anni fa, Francesco, il papà di Sabina: all’inizio non ha accettato la figlia, cieca, sorda, gravemente cerebrolesa. Anzi, per lunghi anni ha quasi cercato di ignorarla, allontanandosi il più possibile da lei, dalla famiglia e da Dio. Poi ha incontrato delle persone (amici di Fede e Luce) che incredibilmente erano interessati a quella creatura, la portavano in giro, alle feste, a Messa… Gli è caduto il velo dagli occhi. Si

è reso conto che anche Sabina poteva avere “una vita degna di essere vissuta”. Mi ha detto una volta: “Ringrazio Dio di avermi donato Sabina: mi ha dato più gioie e più soddisfazioni di un figlio normale”. Allora dobbiamo “sperare” di avere un figlio disabile? Nessuno vuol dire questo. Anzi, soprattutto lo Stato e le Istituzioni dovrebbero assistere in modo più efficiente chi si trova obiettivamente in difficoltà, spesso grandi (in ogni ambito). Ma una società di persone “perfette” è assolutamente inconcepibile se non nella follia di menti come quella di Hitler. Dobbiamo riconoscere tutti il diritto alla vita di ogni essere umano, perché la vita è degna di essere vissuta, semplicemente perché è… Vita! E un figlio disabile non “è” un problema, è un figlio che “ha” un problema. E che può essere – come qualsiasi figlio – aiutato a risolverlo. Ecco come si presenta il mio amico Alfredo (21 anni), un ragazzo eccezionale come tanti altri che conosco: “Ho fatto un corso d’informatica e ho preso un diploma della Regione; spero di trovare un posto di lavoro sempre nell’ambito del computer. Grazie all’associazione AIPD (www.aipd.it) ho imparato a essere autonomo. Vado agli Scout. Vado a fare acquisti, al cinema oppure a giocare al bowling. Prendo l’autobus o la metropolitana. Per diventare indipendente nella vita. Essere autonomi significa che noi ragazzi Down possiamo gestirci la vita e anche essere indipendenti. Per me essere Down significa che posso avere le chiavi di casa e questa è una cosa molto importante perché è una responsabilità”. Francesco Agnoli


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Quo Vadis, Europa? Al Third Annual International Family Forum di Riga, intitolato “La famiglia naturale come valore e priorità dello Stato”, nel 2011, sono stati pubblicati dati statistici allarmanti. Confermati e rilanciati recentemente dall’associazione – assolutamente laica - Save the Children.

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’Europa sta morendo. L’intero continente sta correndo a tutta velocità verso l’autoestinzione. I grafici qui riportati sono di facile lettura.

Figura 1: livelli di fertilità nel mondo, 1950 e 2005. Source: C. Haub, 2005 World Population Data Sheet

Proiettando le statistiche attuali (il tasso medio di fertilità è 1,4), l’Europa sarà interamente disabitata entro i prossimi due secoli. Infatti, sono sempre di più le persone che muoiono rispetto a quelle che nascono: il tasso di sostituzione è 2,1 figli per ogni coppia. I tassi di natalità sono inferiori. Perciò in circa

Figura 2: variazione della popolazione proiezioni, 2005-2050

50 anni si stima che ci saranno 100 bambini, bisognerà sopprimere i milioni di persone meno in Europa. troppi anziani! Nel 2025 la metà della popolazio- Pertanto, non vi è nulla di più urne europea dovrebbe lavorare per gente per la nostra società che un riuscire a sostenere l’altra metà dei ri-orientamento della nostra concittadini invecchiati. sapevolezza. Bisogna riformare le Il grafico della cosiddetta coscienze nella direzione di un cli“piramide della popola- ma più favorevole alla riproduziozione” mostra che in Ger- ne, più favorevole alle famiglie, in mania pochi giovani – in cui i genitori debbono poter avere basso – devono sostene- più tempo da trascorrere con i prore molti anziani (in alto). pri figli e per i loro figli. In Irlanda, uno dei pochi Ognuno di noi ha la possibilità di paesi virtuosi, la piramide contribuire ad un mondo migliore ancora si regge su una e per un ambiente più benevolo base abbastanza ampia. e favorevole per i bambini. Basta Secondo una previsione dare il buon esempio. E questo è delle Nazioni Unite, nel esattamente quello che questo ar2050 l’età media della ticolo vorrebbe invitarvi a fare. popolazione in Austria Andrea Giovanazzi sarà 50,2 anni, in Germania 50,9 anni e 54,3 anni in Spagna. La legalizzazione dell’aborto ha certamente contribuito a questa profonda crisi demografica: i bambini uccisi con l’aborto nel mondo, in questi ultimi 30 anni, secondo i dati pubblicati dalla International Planned Parenthood Federation, sono circa 46 milioni ogni anno (senza considerare gli aborti con le pillole). Di questi, il 17 per cento in Europa. In un tale contesto la conseguenza logica dell’aborto è l’introduzione Figura 3: piramidi di popolazione dell’eutana(età-sesso diagrammi di struttura) per l’Irlanda sia. Se nascono (TFR = 2,0) e per la Germania (TFR = 1,4). sempre meno Fonte: http://www.census.gov/ipc/www/idb/country.php


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Eugenetica ieri e oggi

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Oggi, come ai tempi del nazionalsocialismo, chi non è perfetto e in salute ha buone probabilità di essere eliminato, sia prima sia dopo la nascita.

i sono cattive idee più pericolose ancora degli uomini cattivi, perché tenacemente sopravvivono, talvolta incipriate di falsa pietà, continuando a circolare pressoché indisturbate nella “buona società” odierna. Una di queste è l’eugenetica, che a detta di Elof Axel Carlson è “la lunga storia di una cattiva idea”, che oggi è passata “da delitto a diritto”, per dirla con Giovanni Paolo II: diritto al figlio perfetto, alla morte dignitosa, alla ricerca scientifica senza paletti. Il tutto ad ogni costo, compreso il costo umano. Talora qualcuno si offende se si fanno riferimenti a tempi poco lontani, se ad esempio si nota la rilevanza del tema nell’ideologia nazionalsocialista. Forse non consapevoli di tale compagnia, oggi molti non si scandalizzano per le diagnosi prenatali e gli aborti cosiddetti “terapeutici”, trovano giusto pensare a come morire - e far morire - in caso di malattia grave (eutanasia) o di depressione (suicidio assistito), approvano le selezioni degli embrioni (forse) ammalati prima dell’impianto. Correva l’anno 1920 quando

nella società tedesca si teorizzò l’eutanasia di Stato e apparve un libro, “L’autorizzazione all’eliminazione delle vite non più degne di essere vissute”, dello psichiatra Alfred Hoche (1865-1943) e del giurista Karl Binding (18411920). Il primo passo verso l’attuazione delle teorie lì esposte, il famigerato Aktion T4, si ebbe nel 1933 con l’emanazione della “Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie”, cui seguì nel 1935 quella per “La salvaguardia della salute ereditaria del popolo tedesco”. Con essa si autorizzava l’aborto nel caso in cui uno dei genitori fosse affetto da malattie ereditarie, ma di fatto si iniziava la sterilizzazione forzata delle persone ritenute portatrici di malattie genetiche. Il risultato fu, in 12 anni, la sterilizzazione di più di 400.000 tedeschi. Oggi abbiamo 147 mila aborti l’anno, in Italia, e senza alcun controllo sull’esattezza della diagnosi per quelli definiti “terapeutici”. Si dice che stanno calando, solo perché non si vuole ammettere l’esistenza del terribile fenomeno del fai-da-te, con pillole varie falsamente definite contraccettive. Nel 2011, secondo The Lancet, la rivista medica inglese, ci sono stati 43,8 milioni di aborti nel mondo, una gravidanza su cinque. Ma anche a nascere si corrono grandi rischi: in Francia e in Italia, se nasci con la trisomia 21, puoi chiedere il risarcimento da

L’Aktion T4 nazista, la legge 194 italiana, il Protocollo di Groningen olandese, il Liverpool Care Pathaway britannico sono ispirati dalla stessa mentalità eugenetica. “danno di nascita” perché il dottore non ha detto alla mamma che poteva abortirti. E qualcuno ancora si chiede indignato come mai un tre per cento dei bambini francesi affetti da trisomia ancora nasca e solo il 97% venga abortito. Il protocollo di Groningen, in Olanda, dichiara che “Quando i genitori e i medici sono convinti che ci sia per un bambino una prognosi estremamente negativa, questi possono essere in accordo sul fatto che la morte è più umana della continuazione della vita.” E, se siete felici di essere nati, non è detto che possiate dormire sonni tranquilli. Se vivete in Gran Bretagna c’è il Lcp, Liverpool Care Pathway: consiste nel sospendere la somministrazione endovena di alimentazione e medicinali al paziente molto anziano o terminale e sostituirla con un’infusione permanente di morfina. Che cosa è tutto questo, se non eugenetica? Buona razza, buona qualità, buona salute. Altrimenti, meglio togliere il disturbo. Noi invece vogliamo continuare a essere “disturbati” dalla preziosità di ogni persona umana. Chiara Mantovani


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Anna Una testimonianza dura e cruda della solitudine e della disperazione di una donna di fronte all’aborto. In sala operatoria nessuno le ha chiesto perché non ha voluto l’anestesia.

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nna mi viene inviata da un amico sacerdote. Il Giovedì Santo, nel giorno in cui avrebbe dovuto partorire, è andata a confessare il suo aborto volontario. È stata la liberazione di un peso di cui non poteva parlare con nessuno. Il marito l’aveva costretta facendola accompagnare da una persona estranea sia al consultorio sia all’ospedale. Anna racconta la sua sottomissione a quel marito che già in passato aveva provato a farla abortire. Ora però sua madre, che l’aveva aiutata in passato, era lontana e malata. Per Anna il non essere stata in grado in quel momento di scappare, di andare come nei sogni ricorrenti a sbattere i pugni nel portone della Chiesa, è una

colpa. Chiusa nel suo dolore, chiusa nella rabbia verso il marito, pensa al suicidio, comincia a non mangiare. Poi il racconto duro dello svolgimento dei colloqui (dove la persona estranea l’aveva zittita parlando lei con i sanitari) e dell’aborto. Per punirsi Anna non ha voluto alcun tipo di anestesia. Ha visto tutto, ha sentito tutto, ha vissuto il dolore fisico in diretta. Ha visto cosa le veniva aspirato, ha visto il colore del suo sangue e del sangue del suo piccolo…e piangendo continua a dire: “non è vero che non c’era niente, c’era mia figlia”. Il suo racconto è intercalato da nausea, vomito, pianto, disperazione. Urla “Ho ucciso mia figlia…sì lui me l’ha fatto fare, ma IO sono colpevole”. Ha cercato negli occhi del personale sanitario qualcuno che le chiedesse il perché della scelta della non anestesia, per poter dire che quel bimbo lei lo voleva ma era sotto ricatto morale ed economico del marito. Abituata ai tradimenti, con sensi d’inferiorità per la sua precarietà fisica, era lì in sala operatoria: voleva parlare ma taceva, la guardavano, le davano della pazza masochista, ma non le chiedevano il perché: non si è fermata la macchina infernale. Dopo 20 minuti d’insopportabile dolore sembrava

Anna ogni notte sogna la bimba che sa di avere ucciso. che tutto fosse finito. Ma “C’è ancora della roba” afferma il dottore: e il rumore dell’aspiratore ricomincia. Anna esce dalla sala operatoria e nel corridoio inveisce contro suo marito: “Mi hai fatto squartare come un maiale!” Lentamente nel tempo Anna recupera le energie, guarda i suoi 3 figli e cerca Chiara che non c’è ma che sogna ogni notte. Prende coraggio e distanze dal marito. Gli parla duramente e francamente. Il marito le dice che lui si era andato a confessare da qualcuno che poteva togliere la scomunica subito. Non come lei che si era scelta uno che non lo poteva fare. Di nuovo trattata da stupida, da inferiore, “da carne da macello”. La psicoterapia si accompagna a un percorso spirituale. Comincia a dire chiaro e tondo quello che pensa sull’aborto a tutti, fino a quando incontra un’amica di circa 40 anni, alla prima gravidanza, che vuole abortire. Anna le sta vicino, cerca di farle capire l’importanza di quella creatura e dell’immenso dolore dopo un aborto. L’amica sparisce e Anna non pensa più che sia per colpa sua se qualcuno la lascia… ha detto e fatto ciò che era giusto. Qualche mese dopo incontra l’amica che appoggiando la mano di Anna sulla sua pancia le dice: “Ti presento Chiara!”. A quel punto piangono insieme. L’amica per la gioia di aver accettato la sua creatura. Anna perché ha trasformato il suo immenso dolore silenzioso e ancora vivo in motivo di vita per sé, per la memoria della sua Chiara e per la Chiara che riuscirà a vedere la luce. Cinzia Baccaglini


Scienza e morale

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Per una nuova cultura dell’accoglienza

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I volontari pro life, che si impegnano nella vita per la vita, riflettano su queste considerazioni esistenziali.

n un tempo ammorbato dalla cultura della morte, la cultura dell’accoglienza di ogni vita umana è l’antidoto più efficace per costruire una civiltà degna di questo nome. Occorre incidere profondamente nel tessuto sociale, dal modo di pensare all’educazione, peraltro compito difficile. Le armi sono un cuore innamorato della vita, con le sue difficoltà, a volte molto dure, un’apertura all’accoglienza dell’altro, ogni altro, che nasce da una profonda relazione con Dio. Senza quest’ultima risorsa, ben presto corriamo il rischio di spegnerci e di rinchiuderci in uno sterile egoismo e siamo molto condizionabili e fragili. Non siamo fiori di serra e occorre prepararsi bene per affrontare la vita

La solidarietà verso tutti, l’umiltà, la fiducia in Dio servono alla nostra conversione, ma anche a gettare le basi per una società nuova, più umana.

con allegria e positività, senza evitare gli ostacoli ma affrontandoli con umiltà e determinazione. Tutto questo vale soprattutto per i pro-life che hanno come scopo unico la salvezza dei nascituri a rischio di aborto e delle loro mamme. Bisogna agire soprattutto a monte del problema. Cominciamo noi a fare gara con chi è più accogliente, magari rinunciando a qualche nostra prerogativa e con un sorriso sincero che nasce dal profondo del cuore. C’è necessità di scambiarci tanti sorrisi

di misericordia e tanti bicchieri d’acqua che possiamo offrire all’altro. La gratuità è l’ingrediente indispensabile di ogni nostra azione e questo vale anche quando riceviamo rifiuti e indifferenza: la gratuità e l’umiltà allora ci consentono di essere sereni e felici lo stesso. La più grande ambizione che dobbiamo avere è di servire con responsabilità nel posto che occupiamo nella vita. Dobbiamo essere “tappeto” su cui gli altri possano camminare più morbidamente senza lamentarsi e senza spettacolo, ma con grande consapevolezza di fare un servizio decisivo alla comunità. È indispensabile acquisire la conoscenza dei nostri limiti, perché è il terreno adatto su cui potrà edificarsi efficacemente il nostro esistere. Diventeremo veramente accoglienti il giorno in cui la nostra incapacità e il nostro nulla non saranno più per noi causa di tristezza, d’inquietudine, bensì di gioia e di pace. Calpestiamo il nostro io che tende a colonizzare il nostro cuore e per questo avremo bisogno anche d’insuccessi, prove e umiliazioni, perché ci convinciamo che da soli non possiamo nulla. Se si fa volontariato pro-life, s’impara a vivere queste cose e ci si mette in discussione. Con quale faccia diciamo a una mamma

Con quale faccia diciamo a una mamma di non abortire se non accogliamo la nostra vita con tutte le sue difficoltà? di non abortire se non accogliamo la nostra vita con tutte le sue difficoltà? Queste ultime si superano insieme, mettendoci l’uno accanto all’altro e condividendo le fatiche dell’esistenza. A turno ci rialzeremo per aiutare qualcuno, che a sua volta nel momento di difficoltà dell’altro si metterà a disposizione. Così s’instaura una meravigliosa catena di solidarietà, dove il servizio amorevole e disinteressato contagia l’aria che respiriamo a vantaggio di tutti. Non è un’utopia: basta vedere l’esempio luminoso di Chiara Corbella e di tante mamme che accolgono il loro bambino pur in mezzo a tante difficoltà. La cultura dell’accoglienza alla vita quindi è possibile, ma occorre preparare bene il terreno su cui seminare: un cuore aperto e misericordioso. Alessandro Andalò


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Scienza e morale

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Anche i disabili hanno una vita da raccontare La nostra società edonistica e disumana considera sempre di più i disabili come “corpi estranei” da eliminare. Vorremmo che la vita promettesse solo bellezza e giustizia, invece prospetta anche delle difficoltà davanti a cui non bisogna arrendersi.

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l British Medical Journal di settembre riporta il caso di una famiglia inglese che denuncia l’ospedale per aver dato l’ordine di non rianimare (“Do not resuscitate”) un paziente in caso di arresto cardiaco, perché il paziente era affetto da sindrome di Down. Questa vicenda andrà approfondita nelle sedi opportune; a noi interessa per riprendere un dato di fatto: comunque il disabile, e la persona con sindrome Down in particolare, vengono discriminati e considerati esseri inferiori dalla società. Infatti, se si considerassero realmente le cose, ci si renderebbe conto che neanche è del tutto corretto considerare il disabile come qualcuno da “integrare”, perché è proprio l’uso di questo verbo che non torna. Non perché non ci sia tanto da fare in questo ambito, ma perché presuppone un “noi” e un “loro” che già identifica una barriera; certo, la barriera si deve far saltar via, ma “integrare” presuppone un “passaggio di stato”, che non ha ragione di esistere (siamo tutti esseri umani e siamo tutti in qualche maniera bisognosi l’uno degli altri), e non considera che

tutti siamo una risorsa, anche chi è gravemente malato: non è umano un mondo diviso in “chi dà” e “chi riceve”. Basta pensare allo spettacolo delle paralimpiadi, lo sport per disabili che quest’anno ha visto un paradosso: un boom di spettatori acclamanti (oltre due milioni e mezzo) e il solito silenzio sui mass-media. Eppure chi ha visto le gare, dopo un momento di smarrimento, non si sentiva di fronte ad uno show di riabilitazione fisica o di diversità ostentata, ma di vera eccellenza sportiva da far impallidire i noti e super pagati atleti da rivista patinata e da fidanzate-veline. Lo sguardo verso il disabile è metro per giudicare la civiltà di un popolo. E in questo tempo di tagli economici, in cui chi ne fa le spese è chi sta male, non troviamo un indice di civiltà. Ma lo sguardo verso il disabile è anche lo sguardo che abbiamo verso di noi; perché la vita si affronta sempre percependone la promessa di bellezza e giustizia, ma poi bisogna scegliere tra la resa alle difficoltà che offuscano questa promessa o la certezza che questa promessa è davvero per tutti, nonostante le difficoltà stesse. Eppure sono in continua proliferazione i test prenatali per

Dalla diagnosi prenatale di una disabilità, all’aborto, il passo è spesso breve.

La civiltà di un popolo si misura nella solidarietà, nel riconoscere a tutti gli uomini la stessa dignità. identificare i soggetti con sindrome Down; certo non tutti li faranno pensando ai risvolti abortivi, ma purtroppo dalla diagnosi di disabilità all’aborto il passo è spesso breve, stando ai dati. La percezione che il soggetto con sindrome Down sia considerato quasi come un corpo estraneo nella società si fa pressante e porta a considerare come “diversi” coloro che non abortiscono il figlio malato. Il fatto è che nella società dove tutto fa notizia, i disabili non hanno voce. Sembra impossibile, eppure basta valutare quale percentuale di presenza abbia sulla stampa la disabilità rispetto a qualunque altro argomento. Se i disabili avessero voce pubblica e la loro voce non fosse artatamente mischiata a pietismo o voyeurismo - guardate un po’ la TV e dite se non è vero - racconterebbero storie stupefacenti per il dolore, per la forza d’animo, per l’insufficienza degli interventi statali. Lasciamo che le storie dei disabili siano raccontate, e facciamole raccontare a chi sa farlo con garbo, ma anche con passione forza e impeto, per far conoscere le loro vite sconosciute e nascoste, le catacombe del terzo millennio. Ne vedremmo delle belle. Carlo Bellieni


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Famiglia ed Economia

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Sindrome di Down e cura della persona È essenziale il supporto “alla” e “della” famiglia, per consentire ai bimbi Down di esprimere in pieno le loro grandi potenzialità.

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a comunicazione della diagnosi di Sindrome di Down (SD) è spesso un evento fortemente traumatico per la famiglia che la riceve e può influenzare negativamente i primi mesi dello sviluppo. Il ginecologo riesce a rispondere talvolta solo parzialmente alle domande che il genitore pone al momento della comunicazione della diagnosi. Da tale comunicazione dipende molto spesso la prima modalità con la quale il genitore si approccerà al nuovo nato e talora la natura delle prime condotte di legame madrebambino. La SD è la più frequente causa di ritardo mentale su base genetica e la sua incidenza oggi è di 1 ogni 700-1000 bambini nati. È noto che lo sviluppo neuropsichico di ogni persona è condizionato da molti fattori che interagiscono tra di loro: nella SD la componente neurobiologica può condizionare diversi processi mentali e l’assetto cognitivo, linguistico e motorio del bambino è tendenzialmente ritardato. Sul piano affettivo-relazionale nei primi mesi di vita possono esserci difficoltà legate alle dinamiche familiari, prevalentemente la depressione

materna, e una conseguente ipostimolazione del bambino. Ma quali sono le prime risposte che attende un genitore di un bambino con SD? Che immagine ha nella sua mente rispetto al suo sviluppo? Come immagina il rapporto con questo figlio? Cosa pensa che riuscirà a fare questo bambino? Le linee guida internazionali sottolineano l’importanza di una presa in carico globale e multidisciplinare centrata sulla famiglia già dai primi giorni di vita e l’importanza di attuare protocolli riabilitativi che tengano conto di tutte le aree dello sviluppo del bambino. È altrettanto importante però che l’operatore sanitario informi il genitore circa le potenzialità dello sviluppo del proprio figlio e a trovare le strategie più adatte per favorire la crescita della persona e la sua integrazione sociale e culturale. La famiglia deve diventare, grazie a buone relazioni e collaborazioni con i vari specialisti, il regista del progetto di vita del bambino. Un progetto quindi circolare, poggiato su una buona alleanza terapeutica. Se l’ambiente riesce a considerare il bambino un interlocutore

attivo e capace, lo mette nella condizione di sviluppare la sua creatività e soggettività sulla base della sua motivazione e delle sue abilità di base. Gli interventi riabilitativi (psicomotorio, fisioterapico, logopedico, psicopedagogico) non sono volti al recupero esclusivo di singole funzioni. Per quanto concerne l’area logopedica, per esempio, è necessaria una presa in carico sin dai primi giorni per favorire il migliore sviluppo della competenza oro-motoria e delle successive competenze comunicativa e linguistica. Si comprende quindi facilmente l’importanza, sin dai primi giorni, di un counseling parentale per aiutare i genitori a vedere le potenzialità dei loro piccoli. La relazione di attaccamento, infatti, si crea sin dai primi momenti di vita e non è geneticamente predeterminata, ossia non si trasmette attraverso il cromosoma 21, ma si può costruire. La maggior parte delle famiglie dei nostri piccoli pazienti fa, già dai primi mesi di vita, l’esperienza di un bambino diverso da quello che immaginava durante la gravidanza, ma ammette che la crescita, lo sviluppo e il legame che si creano con il figlio è un legame genitoriale forte e saldo, così come avviene normalmente nella maternità e nella paternità, e che il bambino risponde come ogni altro bambino all’affetto, alle cure, alle indicazioni educative. Laura Orazini


Famiglia ed Economia

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Il memorandum di Jaffe Frederick Jaffe è uno dei padri della odierna cultura della morte. È del ’69 il suo programma, che in buona parte si è andato pian piano realizzando.

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e cause della diffusione planetaria dell’aborto e della contraccezione vanno cercate innanzitutto a livello culturale, cioè a livello delle idee umane. Molti studiosi individuano diversi filoni: materialismo, neo malthusianesimo, ideologia del genere, ecologismo radicale. In queste righe mi limito solo a un aspetto: constatare un dato di fatto, la diffusione della contraccezione e dell’aborto e la campagna per l’uso della RU486, la pillola abortiva del 49° giorno, corrispondono ad alcuni punti di un progetto di pianificazione familiare ideato da Frederick Jaffe già nel 1969. Jaffe è stato il primo presidente del Guttmacher Institute dalla sua fondazione, nel 1968, fino alla sua morte avvenuta nel 1978, e vicepresidente della International Planned Parenthood Federation, istituto e federazione noti nella promozione di campagne contraccettive e abortiste.

Jaffe stilò per conto di queste due istituzioni, per Bernard Berelson, presidente del Population Council, e per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, un memorandum di proposte per ridurre la fertilità umana. Queste prevedevano di limitare a livello sociale la fertilità mediante i seguenti strumenti: • ristrutturare la famiglia, posticipando o evitando il matrimonio; • alterare l’immagine della famiglia ideale; • educare fuori dalla famiglia i bambini; • incoraggiare l’omosessualità; • educare a limitare la famiglia; • controllare la fornitura di acqua potabile; • incoraggiare la donna a lavorare. Inoltre, si prevedevano alcuni deterrenti economici che modificassero la politica fiscale a danno della famiglia: «Introdurre una tassa matrimoniale, una tassa sui bambini; tassare gli sposati più dei celibi; eliminare l’esenzione fiscale dei genitori; introdurre tasse addizionali scolastiche ai genitori con più di un figlio o due; ridurre o eliminare le licenze retribuite di maternità e i sussidi, gli assegni familiari; introdurre premi per matrimoni ritardati o maggior distanziamento delle nascite; pensione alle donne di quarantacinque anni con meno di un certo numero di figli; eliminare gli aiuti sociali dopo i due figli;

richiedere alle donne di lavorare e fornire poche strutture di cura pediatrica; limitare o eliminare le cure mediche finanziate pubblicamente, il diritto alla scuola, alla casa per le famiglie con più di un certo numero di figli». Per evitare gravidanze indesiderate si prevedono «pagamenti per incoraggiare la sterilizzazione, la contraccezione e l’aborto; l’aborto e la sterilizzazione su richiesta; distribuzione libera, cioè senza ricetta medica, di alcuni contraccettivi; migliorare le tecniche contraccettive; rendere accessibile a tutti la contraccezione». E, infine, come controlli sociali per ridurre la fertilità «aborto obbligatorio delle gravidanze extramatrimoniali; sterilizzazione obbligatoria di chi ha due figli; permettere di avere figli solo a un numero limitato di adulti; permessi tipo tesseramento per avere figli; scoraggiare la proprietà privata della casa; non concedere case popolari sulla base della dimensione della famiglia». Non possiamo non constatare che dal 1969 a oggi molte di queste misure sono state introdotte nelle legislazioni di molti Paesi e si sono diffuse nella cultura dominante del nostro. L’Ulipristal, cioè la pillola del quinto giorno, e la RU486 sono solo gli ultimi tasselli di questo progetto? Per approfondire e conoscere le fonti del memorandum Jaffe consiglio la lettura del libro di Renzo Puccetti, Giorgio Carbone e Vittorio Baldini, Pillole che uccidono. Quello che nessuno ti dice sulla contraccezione (ESD, Bologna 2012). P. Giorgio Maria Carbone OP


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Letture consigliate

Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro Ci salveranno le vecchie zie

Roberto Dal Bosco Contro il Buddismo

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Chi sono “le vecchie zie”? Sono il simbolo di coloro che, con pazienza, intelligenza e fede, ricostruiranno il mosaico della Tradizione. Tassello per tassello, figura per figura, senza la necessità di troppa teoria e senza sentirsi in dovere di giudicare i compagni di strada. Gnocchi&Palmaro mostrano come saranno proprio loro, “le vecchie zie” a indicare quale sia la strada giusta per porre riparo ai disastri che il neomodernismo ha portato dentro la Chiesa cattolica. Con questo nuovo libro, che inaugura la collana “I libri del ritorno all’Ordine” Gnocchi&Palmaro susciteranno come sempre scompiglio e più di una reazione scomposta in campo progressista. Ma questa volta sapranno essere urticanti anche nei confronti di certo tradizionalismo e certi tradizionalisti. Per fare veramente “ritorno all’Ordine”, bisogna prima avere il coraggio e la lucidità di fare chiarezza anche nel proprio campo.

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