ProVita Giugno 2017

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Anno VI | Giugno 2017 Rivista Mensile N. 53

“POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1, COMMA 1 NE/TN” | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003

Trento CDM Restituzione

MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

Notizie

“Nel nome di chi non può parlare” Organo informativo ufficiale dell’associazione ProVita Onlus - Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale -

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MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

SOMMARIO

Notizie

EDITORIALE Per le donne

Anno VI | Giugno 2017 Rivista Mensile N. 53

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LO SAPEVI CHE... ARTICOLI

Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182 Redazione Toni Brandi, Federico Catani, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti Cell. 329-0349089

Una foto che mi ha toccato il cuore

Anna Maria Pacchiotti

Aborto con RU486: contro i bambini, contro le donne

Lorenzo Ponziani

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PRIMO PIANO

Direttore responsabile Antonio Brandi

Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi Progetto e impaginazione grafica

francesca Gottardi

Tipografia

Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Marco Bertogna, Federico Catani, Claudia Cirami, Rita Di Piero, Giuliano Guzzo, Rosalba Meli, Anna Maria Pacchiotti, Francesca Romana Poleggi, Lorenzo Ponziani, Giulia Tanel

Federico Catani

Il femminismo contro le donne

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Per la liberazione della donna

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Maternità e tutele: panoramica internazionale

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Francesca Romana Poleggi

Giuliano Guzzo

Leggi a favore delle madri che lavorano

Rosalba Meli

Una giovane in cerca di lavoro

C’è chi premia le lavoratrici madri

Claudia Cirami

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Distribuzione

“Ginecofobia”: chi ha paura delle donne?

Giulia Tanel

Rita Di Piero

FILM: The iron lady

Marco Bertogna

Un polpo per i bambini prematuri, con i “TINtacoli”!

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L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.

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EDITORIALE

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N

otizie ProVita si batte da sempre contro le ingiuste discriminazioni. In questo numero, in particolare, vogliamo levare forte e chiara la voce contro le ingiuste discriminazioni delle quali sono vittime le donne. Va molto di moda lottare per l’uguaglianza, ma ci sembra che spesso il principio della pari dignità tra tutti gli esseri umani venga stravolto e interpretato in modo perverso. Per esempio in senso sfavorevole alle donne. Ci troviamo a dover denunciare una vera e propria “ginecofobia” che affligge la nostra società e a denunciare abusi e discriminazioni dei quali sono vittime le donne, a opera della cultura materialista e nichilista che viene propagandata dai mass media e che è particolarmente diffusa nell’establishment al potere, nel nostro Paese e negli organismi internazionali. Per rendersene conto basta confrontare la retorica in voga sulla “parità di genere” e gli attuali gravi e ricorrenti abusi sulle donne che vengono ignorati quando si tratta di condannare la prostituzione, l’utero in affitto, la pornografia e il commercio di gameti. Anche il femminismo risulta, invero, un’ideologia che va contro gli interessi delle donne. Quelli che lamentano il “gender gap” nei luoghi di lavoro poi pretendono che le donne si comportino come uomini, in primis non facendo figli: le donne madri vengono licenziate, aggirando i divieti posti dalle leggi vigenti. Si ignora che la maternità ha un assoluto diritto al giusto posto come fondamentale bene sociale e umano, degno di considerazione e rispetto. Non devono essere le donne e le madri (né le famiglie) ad adattarsi alla nuova economia ma, al contrario, l’economia dovrebbe essere a misura della donna, delle madri e della famiglia, cellula fondamentale della società. Invitiamo quindi i nostri Lettori ad alzare la voce contro tutte le ingiuste discriminazioni: contro gli abusi – gravi, attuali e ricorrenti – dei quali sono oggi vittime le donne, e soprattutto le madri. Per le donne, per i nostri figli e per il futuro di tutta la società.

Toni Brandi

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ABORTO

LO SAPEVI CHE...

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L’accesso all’aborto a richiesta non diminuisce la mortalità materna: questo vale nei Paesi sviluppati, e a maggior ragione nei Paesi in via di sviluppo. Questa è la conclusione di una ricerca condotta dall’Istituto per la Bioetica e Ricerca Sociale “de Veber” di Toronto e delle statistiche ufficiali delle Nazioni Unite (Angela Lanfranchi, Ian Gentles, and Elizabeth Ring-Cassidy, Complications: Abortion’s Impact on Women, 2013, analisi di oltre 650 studi internazionali peer-reviewed) in quattro Paesi che hanno emanato leggi restrittive sull’aborto, negli ultimi due decenni (Polonia, Cile, El Salvador, Nicaragua). Anche nei Paesi dove l’aborto è stato a lungo vietato (Irlanda, Egitto, Uganda, Bangladesh, Afghanistan, Indonesia, Messico), si è registrato un significativo miglioramento della salute materna e infantile rispetto ai Paesi limitrofi, dove l’aborto è legale e su richiesta. I governi che vogliono sopperire ai minori stanziamenti americani per l’aborto nei Paesi in via di sviluppo, se davvero avessero a cuore la salute delle donne, dovrebbero piuttosto premurarsi di fornire assistenza qualificata durante il parto, educazione per le donne, disponibilità di cure ostetriche di emergenza e di trasporto eventualmente necessario, sensibilizzazione della comunità, miglioramento delle tecniche di comunicazione.

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La Cassazione ha negato a una donna il risarcimento del danno derivante dalla nascita indesiderata di un figlio senza una mano. Ella sosteneva che i medici, non essendosi accorti della malformazione, le avrebbero negato il “diritto” all’aborto “terapeutico”, cioè alla pratica dell’eugenetica che riconosce il diritto di vivere solo ai bambini “perfetti”. La motivazione della Corte, in parte, è inquietante: i giudici hanno detto che la mancanza della mano sinistra non poteva considerarsi anomalia “rilevante” per la legge. Ma allora chi decide quando l’anomalia è “rilevante” o no? I Lettori capiscono bene che è disumano mettere una linea di confine tra chi ha diritto di vivere e chi no. La vita è sacra sempre (e lo è anche per i “laici” e gli atei che si lasciano guidare dalla ragione naturale). Anche la persona gravemente colpita da malattie o da disabilità è una persona, in grado di instaurare una relazione, un rapporto d’amore, per quanto incomprensibile e misterioso, con chi le sta accanto. Però i giudici ribadiscono che l’aborto oltre i 90 giorni deve essere un caso del tutto eccezionale, e che «la legge italiana non prevede il cosiddetto aborto eugenetico, a prescindere dal grave pericolo per la vita o la salute fisica o psichica della donna.


EllaOne, la “pillola dei 5 giorni dopo”, viene spacciata per «contraccettivo d’emergenza»: un recente studio (Lira-Albarrán S. et Al.: Ulipristal acetate administration at mid-cycle changes gene expression profiling of endometrial biopsies taken during the receptive period of the human menstrual cycle. Mol Cell Endocrinol. 2017 Feb., 20) ha invece dimostrato che non inibisce l’ovulazione e che impedisce l’annidamento del bambino nell’utero della madre. Permette che avvenga il concepimento, quindi ellaOne è abortiva. Il foglietto illustrativo invece dice che impedisce l’ovulazione e quindi non provoca l’aborto, perciò, più che chiamarsi “bugiardino”, andrebbe chiamato “bugiardone”...

EUTANASIA

L’ordinamento, pur riconoscendo un diritto alla procreazione cosciente e consapevole, nega l’accesso all’aborto se non quando è fortemente a rischio la madre». Oggi come oggi vengono di fatto eliminati con l’aborto centinaia di migliaia di bambini sanissimi, entro il terzo mese. Oltre il terzo mese molti medici, di fatto, praticano l’aborto su bambini con malformazioni lievi, come quella di cui si tratta… Ma chissà che questa sentenza non sia segno di un cambiamento della mentalità, anche tra gli abortisti?

L’eutanasia non è un atto di libertà, di “autodeterminazione”. L’autore principale di uno studio pubblicato su JAMA Oncology, il dottor Charles Blanke, un oncologo della Oregon Health & Science University, ha lui stesso dato l’eutanasia a circa 65 pazienti. Ma ha rilevato che, in base alle statistiche nazionali, molti (più del 25% dei casi) chiedono l’eutanasia perché non viene somministrata loro un’adeguata terapia del dolore. Inoltre, alcuni hanno “scelto” l’eutanasia perché il costo della chemioterapia era troppo alto. Tutto questo, secondo Blanke, è assolutamente inaccettabile. Si rende conto infatti che così non si tratta più di una “libera scelta”: il paziente è “costretto” dal dolore o dalla situazione economica… Blanke ha ammesso che anche la depressione è un problema in tal senso: se – come evidenzia la ricerca – almeno tre su quattro pazienti terminali sono depressi, bisognerebbe valutare se lo stato psichico del paziente consenta davvero una libera scelta. 2017 Giugno - n. 53

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UNA FOTO

CHE MI HA TOCCATO IL CUORE La presidente di Onora la Vita condivide con noi, commossa, un ricordo...

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ra una bella mattina di primavera… Mi trovavo a Pinerolo e, ai sensi dell’articolo 21 della Costituzione sul diritto di manifestazione del pensiero, mi sono recata a Torino presso l’Ospedale Sant’Anna per la mia solita opera di informazione riguardo alla terribile realtà dell’aborto, sperando di dissuadere qualche mamma dal commettere questo omicidio che, tra l’altro, lascia profondi segni anche nel cuore di chi lo compie. Quella mattina mi sono piazzata all’ingresso del Day Hospital in Corso Spezia (che fa angolo con via Ventimiglia), dove ancora esercitava la sua macabra professione il ginecologo radicale dottor Silvio Viale. Successivamente, la Direzione dell’Ospedale gli ha concesso tutto il primo piano in via Ventimiglia, ingresso principale del Sant’Anna: sia qui che lì sono sempre andata a “dare molto fastidio”, consegnando i miei opuscoli alle ragazze e alle donne. Mi sono presa insulti e improperi, ma non mi sono mai lasciata intimorire. Quel giorno, ho trovato accanto agli scalini un foglio di quaderno a quadretti scritto col pennarello verde, con sopra una rosa rossa. Mi ha commossa profondamente. Certamente era stata lasciata da una giovane che aveva abortito, e certamente, nel profondo

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del suo cuore di donna, la parte materna (immancabile in ogni vera rappresentante del sesso femminile) ha sentito una grande sofferenza. Ho iniziato la distribuzione dei miei opuscoli e volantini: qualcuno li ha rifiutati, altri li hanno accettati molto volentieri. Il dottor Viale, come al solito, informato da qualcuno della mia presenza, ha mandato gli usceri a dirmi di scendere dagli scalini. Ho risposto ricordando la legge sulla libertà di espressione e facendo presente che, scesa o meno dagli scalini, la distribuzione l’avrei proseguita comunque. Sono anzi entrata nell’atrio in basso, prima della portineria, e ne ho appoggiati sui sedili e sul vano della finestra: li hanno presi in tanti. Ho anche distribuito i volantini di SOS Vita… Il più delle volte le persone non sono affatto informate sulla realtà dell’aborto, sulle sue conseguenze e sulle possibilità che ci sono di essere aiutate ad affrontare una gravidanza imprevista. Sono tornata a casa soddisfatta, ma con quella foto nel cuore. Ora, anche se è passato molto tempo, ho deciso di condividerla con voi, cari Lettori.

Anna Maria Pacchiotti


Il dottor George Delgado, con il dottor Matthew Harrison e la dottoressa Mary Davemport, avevano trovato già nel 2007 l’antidoto al veleno, e hanno creato un sito dedicato.

Lorenzo Ponziani

ABORTO CON RU486:

CONTRO I BAMBINI, CONTRO LE DONNE Cresce l’uso della RU486, anche fuori dalle strutture ospedaliere. Ma dei ricercatori hanno trovato l’antidoto a questo veleno...

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ginecologi dell’AIGOC, Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici, bollano la “liberalizzazione” delle pillole abortive RU486, che nel Lazio – per esempio – vogliono somministrare anche fuori dall’ambiente ospedaliero, come una «sperimentazione, ideologicamente fondata, una procedura senza i requisiti minimi di tutela dei soggetti più vulnerabili»: ovviamente i bambini. Ma anche la salute della madre viene esposta a un rischio grave. «L’aborto con la RU486 esce dalla sfera del pubblico per entrare sempre più nei meandri del privato e della solitudine: la procedura infatti viene a gravare sul piano psicologico, pesantemente, sulla donna già “gravata” dalla tragica decisione di abortire», ha scritto il prof. Pino Noia.

Ma il pericolo è grave, anche dal punto di vista fisico: «La letteratura si è espressa sulla pericolosità dieci volte superiore della RU486 rispetto all’aborto chirurgico [Bartlett L.A. et Al Obstet. Gynaecol. 103 (4:729-37, 2004) e soprattutto in relazione alle gravi complicanze di ordine medico sanitario dovute alla RU486: 676 segnalazioni del FDA, di cui 17 gravidanze extrauterine, 72 casi di gravi emorragie, 637 casi di effetti collaterali (Gary et Al Ann. Pharmacoth, Feb 2006) e 29 morti accertate nel mondo occidentale (New England Journal Medicine 354:15 April 13, 2006)]. Anche nella recente relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 194 sono stati riferiti due episodi di mortalità materna».

Il bambino allo stato embrionale è pur sempre un bambino: «L’embrione è un attivo orchestratore del suo impianto e del suo destino» (British Medical Journal, Editoriale Nov 2000; Your destiny from day one – H. Pearson – Nature, Vol. 418, 4 luglio 2002; Maternal communications with gametes and embryos: a complex interactome – A. Fazeli and E. Pewsey – Briefings in functional genomiocs and proteomics – Vol. 7 – 2 111-118 2008).

L’accanimento ideologico nuoce alla salute fisica e psichica delle donne

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Con l’aborto chimico, il bambino muore di fame e di sete per effetto della prima delle due pillole assunte dalla donna: il Mifeprex, che blocca il progesterone, un ormone fondamentale per la crescita fetale. Dopo alcune ore (entro tre giorni) la seconda pillola il Misoprostol, una prostaglandina, provoca le contrazioni e l’espulsione del morticino. Ciò provoca forti dolori, diarrea e un’abbonante emorragia che – fuori da un ospedale – può essere molto pericolosa. Inoltre, se l’utero non si svuota del tutto c’è rischio di setticemia, che può essere anche fatale. Mentre andiamo in stampa, pare che la decisione della Regione Lazio sia presa. Ma se la cultura della morte fa così un altro passo avanti, la cultura della vita a sua volta ha segnato una vittoria: l’azione di morte provocata dalla RU486 può essere bloccata. Se la madre, dopo aver preso la prima pillola, si pente, può interrompere l’aborto prendendo dosi massicce di progesterone, e il bambino ha ottime possibilità di sopravvivere, senza conseguenze indesiderate. Certamente l’antidoto funziona tanto meglio, quanto prima s’interviene: ci sono scarse possibilità di successo, se la donna ha ingerito anche la seconda pasticca abortiva. Il dottor Matthew Harrison, con il dottor George Delgado e la dottoressa Mary Davemport, avevano trovato già nel 2007 l’antidoto al veleno, e hanno creato un sito dedicato (abortionpillreversal.com),

con tanto di numero di telefono cui si può chiedere il pronto intervento dei volontari. Ma su questa scoperta è calata pesantemente la censura mediatica. In alcuni Stati federati americani stanno proponendo leggi che impongono ai medici che forniscono la RU486 di informare le madri su come l’aborto chimico cominciato possa essere invertito: è sorprendente come gli abortisti e i media loro sodali reagiscano stizziti a quella che è una possibilità di scelta per le donne. Eppure nel solo North Carolina l’antidoto ha salvato finora 213 bambini dall’aborto. La stessa Planned Parenthood è scesa in campo. Per esempio in Arizona ha ottenuto dall’autorità giudiziaria una moratoria dell’entrata in vigore di detta legge. È strano che quelli che si battono per la “libertà di scelta” della donna, poi si oppongano con tutte le loro forze all’attuazione di quelle azioni concrete che rendono davvero libera e consapevole la scelta. Il consenso informato, a seguito della conoscenza degli effetti collaterali del medicinale e delle procedure mediche che si prospettano, non serve alla “libera scelta”? Sapere che, se si è cominciata la procedura per uccidere un bambino, fino ad un certo punto è possibile tornare indietro, non serve alla “libera scelta”? O forse l’espressione “pro-choice” è stata coniata dalla neolingua solo perché dichiararsi “pro-aborto” o “pro-morte” suona troppo negativamente?

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Giulia Tanel

“GINECOFOBIA”:

CHI HA PAURA DELLE DONNE?

Oggi si fa un gran parlare di omofobia. Ma le vere discriminate in questa società sono le donne... Perché tutto questo parlare di omofobia? La vera discriminazione è non trattare gli uomini e le donne in quanto tali, accettando e valorizzando le differenze tra i due sessi: il problema è dunque oggi soprattutto quello della “ginecofobia” e, con esso, della “androfobia”. Abbiamo parlato di tutto questo con don Massimo Lapponi, sacerdote benedettino attualmente impegnato in Sri Lanka e già docente presso la facoltà di filosofia del Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo, che nel 2015 ha promosso il Movimento giuridico femminile contro la “ginecofobia”. Don Massimo, partiamo dal Movimento: perché gli è stato dato questo nome e quali fini si propone? Il nostro Movimento nasce dalla considerazione che, mentre il concetto di omofobia, dal senso di bullismo contro gli omosessuali, è stato indebitamente esteso alla non accettazione dell’omosessualità come fatto naturale, al contrario i concetti di “ginecofobia” e di “androfobia” – proprio in quanto indicano la non accettazione della condizione maschile e femminile come fatto naturale – sono pienamente legittimi e 10

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PRIMO PIANO


la loro incidenza negativa, già prevista da almeno due anni, è ormai confermata dai fatti. Le recenti sentenze dei tribunali di Trento, di Firenze e di Roma dimostrano che, una volta ridotto il concetto di “genitore” e di “figlio” alla sola attribuzione di responsabilità sancita dalla legge, eliminando ogni riferimento alla generazione biologica, tutti i diritti della maternità e della filialità, antichi quanto il mondo, vengono di fatto cancellati. Non sono, dunque, le donne e gli uomini nei loro naturali ruoli bio-psichici a essere discriminati? Quali sono le principali conseguenze nella società in relazione alla perdita della femminilità e della mascolinità? Non è raro vedere donne in carriera e padri che fanno i “mammi”: eppure non sembra che le persone così siano più felici... Penso che le conseguenze più allarmanti riguardino le nuove forme di pedagogia, già in molti casi imposte dallo Stato, che mirano a stravolgere nei bambini la spontanea percezione della differenza naturale dei due sessi biologici per fomentare in loro il dubbio sulla propria identità. Non è che le prime ad avere paura della femminilità, con le sue peculiarità volte all’accoglienza e alla cura dell’altro, sono le donne? È in atto, e con maggiore incisività negli ultimi tempi, il tentativo di convincere le donne che la loro naturale vocazione a essere spose, madri ed educatrici della prole non sia in realtà che uno stereotipo culturale “sessista”, volto a degradare la loro dignità. Ma le donne che accettano questo discorso finiscono, in realtà, per perdere la propria dignità, e con essa la salvaguardia dei loro diritti più sacri. Non si può, ovviamente, eliminare il sesso: ma, una volta abolita la cultura della donna nella sua specificità propria e nella sua dignità spirituale, il sesso può avere libero campo di esercitarsi senza alcuna regola o responsabilità... e certamente non a vantaggio della donna, anzi generando della violenza contro di lei! PRIMO PIANO

Al giorno d’oggi dire che esistono due sessi diversi, che l’umanità si divide in uomini e donne, è considerato un atto sovversivo. L’ideologia gender è penetrata già in profondità nella mente delle persone? La domanda già contiene la risposta: se chi sostiene la divisione dell’umanità nei due sessi naturali è considerato un sovversivo, questo significa che ormai l’ideologia gender è stata assorbita a largo raggio. Purtroppo essa viene spesso sostenuta con argomentazioni pseudo-scientifiche, divulgate dai media senza alcun filtro: ma la scienza vera, onesta, ci dice altro e mette in allarme rispetto alle possibili conseguenze sui nostri bambini. Come guarda il Movimento contro la “ginecofobia” alle persone omosessuali, donne o uomini che siano? Le persone sono tali non per qualche carattere particolare, come l’orientamento sessuale, ma per il fatto essenziale che sono immagine di Dio. Ogni persona, dunque, deve essere rispettata per il fatto stesso di essere una persona umana, un «cittadino del regno dei fini», come direbbe Kant, e deve perciò essere trattata sempre come fine e mai come mezzo. Sull’orientamento omosessuale ci possono essere diversi punti di vista: medico, morale, religioso. Senza ora entrare nei dettagli, osserviamo che considerarlo un fatto naturale allo stesso titolo della realtà bio-psichica maschile e femminile è una contraddizione. Se è naturale la condizione omosessuale, allora non potrà essere naturale la condizione bio-psichica maschile e femminile, ed ecco necessariamente nascere la “ginecofoba” e la “androfobia”.

Don Massimo Lapponi 2017 Giugno - n. 53

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E, d’altra parte, il fatto stesso che gli omosessuali tendano a creare coppie, a celebrare matrimoni e ad avere figli dimostra che di fatto è sempre il modello bio-psichico maschile e femminile a essere sullo sfondo come dato naturale. Se poi vogliamo estendere il discorso ai trasgender, la loro stessa volontà di modificare il loro sesso biologico per adattarlo al sesso desiderato, dimostra che il modello cui si fa riferimento sono sempre i sessi naturali biologici. Così la biologia, uscita dalla porta, rientra dalla finestra. Ma vi rientra in modo velleitario, perché il sesso ricreato artificialmente non è – e non può essere – che la pallida imitazione del vero sesso biologico. Il transgender, dunque, si dovrà necessariamente rassegnare a essere uomo o donna di “serie B”. Sembra dunque molto più ragionevole cercare, se possibile e nel modo più adeguato, curare una psiche evidentemente turbata, piuttosto che “curare” un corpo sano, stravolgendolo. Anche per gli omosessuali è inaccettabile la norma, purtroppo in via di espansione, che proibisce terapie di riconversione, anche se desiderate dall’interessato. E questo mentre, nello stesso tempo, si vuole diffondere ovunque l’intervento di blocco del normale sviluppo ormonale nei minori che mostrano qualche incertezza, che oggi potrebbe facilmente essere stata indotta dalla propaganda gender in atto. Se vale il principio che quanto non è malattia non si cura, dunque l’omosessualità non si cura perché non è una malattia, perché lo sviluppo ormonale si cura? È forse una malattia? A me sembra che le persone con tendenze omosessuali debbano essere trattate con il massimo rispetto, accettandole anche se le sentiamo diverse e sostenendole con la nostra amicizia, senza imporre

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loro percorsi che non desiderano, ma senza neanche rifiutare loro gli aiuti che desiderano. Dal punto di vista religioso vi è il gruppo “Courage”, che da molto tempo si occupa di persone con tendenze omosessuali per aiutarle nella vita spirituale cristiana, indipendentemente da ogni discorso di riconversione. I bambini: hanno veramente bisogno di una mamma e di un papà di sesso differente per crescere in maniera armonica? Questa è una cosa del tutto ovvia, come il fatto che nella vita alterniamo la veglia al sonno, e non c’è bisogno di studi specialistici per dimostrarlo. Sono soltanto le norme giuridiche fallaci che stanno ormai diffondendosi a livello planetario a rendere inefficace ogni richiamo in tal senso, fosse anche comprovato dagli studi scientifici più rigorosi. Nel concludere, cosa si sente di suggerire alle tante donne e ai tanti uomini di buona volontà che vorrebbero impegnarsi per una società migliore? Ci sono mille modi di impegnarsi per una società migliore. La nostra iniziativa vorrebbe richiamare il maggior numero di persone ad aprire gli occhi sulle manipolazioni delle più elementari evidenze che si stanno verficando nel mondo e a opporsi a esse con la forza di una maggioranza schiacciante in tutte le sedi opportune, nazionali e internazionali. Infatti, le lobby che stanno condizionando la politica mondiale si fanno forza soprattutto della disinformazione e dell’indifferenza di intere popolazioni, che finiscono per subire decisioni abnormi senza sapere neanche come ci si sia arrivati.

PRIMO PIANO


Federico Catani

contro le

DONNE IL FEMMINISMO

La donna va liberata dal presunto dominio maschile privandola della sua identità?

P

er le donne non c’è peggior nemico del femminismo. L’ideologia femminista, costola del marxismo culturale, trasforma la lotta di classe in lotta tra i sessi: la naturale differenza tra maschi e femmine viene vista come una forma di sfruttamento degli uomini sulle donne. Ecco perché spesso si sente parlare di “etero-patriarcato” o di “etero-capitalismo”: la società capitalista ed eterosessuale, fallocentrica e maschilista, avrebbe imposto il dominio del sesso maschile su quello femminile. Un dominio dal quale le femministe vogliono liberarsi. Ma per arrivare a cosa?

PEXELS

A leggere tutte le dichiarazioni che determinate associazioni o loro esponenti rilasciano, si resta esterrefatti. In Francia c’è chi ha proposto di sopprimere la parola mademoiselle (signorina) perché non esiste un corrispettivo al maschile; in Argentina si è montata la polemica del “tetazo”, ovvero le femministe hanno rivendicato il diritto delle donne di andare a seno scoperto anche nelle spiagge non riservate ai nudisti, perché gli uomini lo fanno; in Gran Bretagna l’Associazione Medica Britannica, per evitare ogni discriminazione verso i transessuali che non possono avere figli, ha imposto al personale sanitario di non dire «madre», bensì «persona gestante», per indicare le donne incinte; recentemente in Spagna un gruppo di femministe ha manifestato in piazza contro lo sfruttamento delle mucche, il cui latte deve essere riservato ai vitellini e non agli uomini; in Italia invece abbiamo la presidente della Camera, Laura Boldrini, che lotta per femminilizzare i termini usati solo al maschile (sicché bisognerebbe dire «sindaca», «ministra», etc.). L’elenco potrebbe continuare a lungo. PRIMO PIANO

Ora, la realtà ci dice che uomini e donne sono diversi. Nascere maschio non è la stessa cosa che nascere femmina. Le differenze fisiche, prima ancora che psicologiche e comportamentali, sono talmente evidenti da non dover lasciar spazio al minimo dubbio. Questa diversità è stata prevista dalla natura (o da Dio) in vista della complementarietà dei sessi, necessaria per la riproduzione e dunque per la continuazione della specie. E questo non vale solo per gli esseri umani, sebbene in essi sia molto più lampante. Oltretutto, tale distinzione è una ricchezza, che permette il mutuo aiuto nella coppia ed è fondamentale per la crescita e l’educazione dei figli, che necessitano sia delle caratteristiche della figura paterna, sia di quelle della figura materna. 2017 Giugno - n. 53

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Certamente le distinzioni tra uomini e donne vengono poi accentuate da abitudini e tradizioni culturali, che però sarebbe sbagliato e riduttivo considerare come imposizioni artificiali e liberamente interscambiabili. Se infatti è vero che molti aspetti variano da epoca a epoca e da Paese a Paese, è altrettanto innegabile che fondamentalmente si attengono a un dato di realtà. Del resto, nonostante l’ideologia gender, le ricerche scientifiche e sperimentali dimostrano che sin dalla più tenera infanzia i bambini e le bambine hanno modi diversi di approcciarsi alla mamma, alle persone che li circondano e ai giochi, senza alcuna costrizione e imposizione socio-culturale. La nota inchiesta Il paradosso norvegese lo dimostra: in un Paese civile, progressista ed evoluto come la Norvegia, nonostante le pari opportunità tra uomini e donne, certi lavori sono ancora maggioritariamente appannaggio dell’uno o dell’altro sesso. E non certo per motivi di discriminazione, ma per libera scelta. Sicché l’ingegnere continua a essere un lavoro preferito dall’uomo, mentre l’infermiera è prevalentemente donna. Non sarà forse perché le attitudini naturali degli uni e delle altre portano a questo? Evidentemente sì, ed è un bene. Infatti solitamente agli uomini piacciono le donne che siano donne e a queste piacciono gli uomini che siano tali.

Le donne sono naturalmente create per essere madri, sia che poi scelgano di diventarlo, sia che non possano o non vogliano farlo. Ma per l’ideologia no. E nella loro furia totalitaria le femministe arrivano a discriminare e attaccare duramente tutte le donne che non si riconoscono nella visione femminista. Sicché se una signora difende la vita, lotta contro l’aborto, ama il proprio (unico) marito e ha il desiderio di essere madre, viene ritenuta alienata, plagiata dalla propaganda maschilista. La scrittrice britannica Doris Lessing in un’intervista ebbe a notare proprio questo atteggiamento assurdo del mondo femminista e criticava la scrittrice Simone de Beauvoir che, pur non sentendosi e non volendo essere donna, pretendeva di insegnare alle donne come dovevano essere. La Lessing inoltre notò che in realtà certi incarichi, come a esempio quelli politici, non sono poi così gettonati dal gentil sesso, nonostante tutta la libertà esistente, perché non graditi.

Ecco perché il femminismo è una violenza. Non si tratta evidentemente di negare l’uguaglianza di tutti, in quanto esseri umani, di fronte alla legge, né la possibilità di fare della propria vita ciò che si vuole (fermo restando il rispetto per gli altri), ma di voler trasformare la donna in uomo e dunque privarla della sua propria identità, oppure di volerla contrapporre violentemente all’altro sesso. Freud parlava di «invidia del pene», e in effetti non si capisce come mai la presunta “liberazione della donna” debba portare all’imitazione o alla distruzione del maschio. Senza dimenticare peraltro che questa libertà spessissimo è andata di pari passo a un estremo degrado morale, con l’auto-trasformazione del sesso femminile in oggetto di puro piacere, da esibire senza alcun senso del pudore. Chiaramente, stando così le cose, ciò che le femministe odiano di più, oltre al genere maschile, è la maternità.

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PRIMO PIANO


Tant’è che, per imporre un certo numero di donne in politica o nei consigli di amministrazione (a prescindere dalla loro capacità), i Parlamenti votano leggi sulle “quote rosa”. Non si può poi non menzionare il cosiddetto “femminicidio”, che spesso viene anche chiamato “violenza di genere”. Oggi sembra diventato un’emergenza mondiale. I dati veri invece rivelano che, oltre ad esserci pure uomini vittime di violenza femminile, i Paesi con più alti tassi di “femminicidio” sono quelli del Nord Europa.

Quali sono le conseguenze e gli obiettivi del femminismo? La colpevolizzazione dell’uomo in quanto tale, la distruzione delle famiglie col divorzio e figli che crescono sempre più in condizioni di precarietà e difficoltà, con gravi danni alla loro salute psico-fisica. Piuttosto certi movimenti dovrebbero rivendicare il diritto delle donne a poter lavorare (purtroppo oggi spesso è una necessità) anche essendo madri e ad avere una giusta retribuzione e un orario a misura di famiglia. Le discriminazioni vanno abolite quando sono ingiuste. Le differenze giuste ci sono e vanno mantenute, per il bene comune e l’armonia della società.

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Associazione ONLUS


Per la liberazione

DELLA DONNA

Francesca Romana Poleggi

Esistono ancora oggi le schiave? Esistono donne discriminate ingiustamente a causa della loro condizione di bisogno?

L

e circostanze nelle quali le donne oggi sono pesantemente bistrattate, e subiscono reali e gravi forme di sfruttamento, vengono spesso ignorate: la propaganda della cultura nichilista ha indotto persino le donne stesse a lasciarsi strumentalizzare, con l’illusione di una fantomatica liberazione dal giogo della società “maschilista”. La fecondazione artificiale, l’utero in affitto, la prostituzione e la pornografia sono i principali canali attraverso cui si viola oggi, nei Paesi più “evoluti”, la dignità delle donne. Molti deviano l’attenzione sul “gender gap” nei luoghi di lavoro (senza vedere però che esso è davvero rilevante non tanto per le donne tout court, quanto per le madri), oppure sulla trita e triste storia del “femminicidio” che – analizzando i dati concreti – i nostri Lettori sanno bene trattarsi di una montatura propagandistica.

Però poi quando c’è da parlare forte e chiaro contro la più orrenda e moderna forma di schiavitù delle donne, l’utero in affitto, buona parte delle femministe e di quelli che chiedono piccati l’abolizione del “gender gap” si defilano in buon ordine. Quando c’è da parlare forte e chiaro contro la pornografia e la prostituzione, si comincia a fare i distinguo. Il ragionamento di solito è che, visto che la donna è emancipata (grazie al “congedo mestruale”…), se la donna stessa “sceglie” di distruggersi può farlo “liberamente”.

Alla scocciatura delle mestruazioni – talvolta anche molto dolorose – si reagisce, e non si lascia che esse impediscano vita, sport e lavoro, salvo casi eccezionali. E quando una donna sta davvero male, qualsiasi medico concede un certificato per dismenorrea. Che bisogno c’è del “congedo mestruale”? Per farci sentire protette e coccolate, come le foche monache.

Alla “liberazione” della donna serve il contrasto serio e concreto dell’utero in affitto, della prostituzione, del commercio di gameti e della pornografia: il resto sono chiacchiere

Continuano a prenderci in giro con le “Quote Rosa”, come ho già scritto qualche mese fa. Continuano a fare “gesti eclatanti” in favore delle donne, come la proposta di legge sul “congedo mestruale”: considerano le donne mestruate come persone handicappate?

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Che libertà è la libertà di vendersi come schiava, come oggetto di piacere o come incubatrice di carne? Ci può essere libertà senza dignità? Per non parlare delle donne (spesso giovani e ingenue), che vengono letteralmente intrappolate nel mercato dei gameti necessari alla fecondazione artificiale, che serve all’utero in affitto o all’eterologa. Esse mettono a serio rischio la loro salute – a volte persino la vita – per un paio di migliaia di euro. ProVita Onlus ha più volte sollevato l’attenzione dei media sullo sfruttamento delle donne attraverso la compravendita di ovociti (che tutti continuano a chiamare “donazione”, chissà perché) e l’utero in affitto. Abbiamo organizzato diverse conferenze stampa in Senato: in alcune abbiamo sensibilizzato i politici, in altre abbiamo portato testimoni d’eccezione come Elisa Gomez, una madre surrogata pentita (poi tragicamente scomparsa in circostanze misteriose), o un illustre clinico, il professor Noia, che ha spiegato i rischi concreti e seri che corrono non solo le donne che cedono gli ovuli, ma anche quelle che ricevono l’impianto (per non parlare dei – pochissimi – bambini risultanti).

Se conta solo l’avere e l’apparire, la persona non “è” più niente, nihil, nulla: è la vittoria del nichilismo

Abbiamo distribuito un DVD, Breeders - Donne di seconda categoria, con testimonianze inedite sull’ignobile mercimonio; siamo riusciti a far proiettare uno spot contro l’utero in affitto nelle sale cinematografiche UCI Cinemas. Abbiamo sporto ben due denunce alla Procura della Repubblica contro cliniche che venivano in Italia a vendere bambini, fornendo uteri di donne in affitto, come fossero accessori necessari per il confezionamento di una merce qualsiasi… La gente ha apprezzato le nostre iniziative e ci è grata per aver agito. Ma il potere politico e quello giudiziario? E la TV e i media di regime come presentano le “allegre famigliole” dei vip che comprano i bambini e le schiave PRIMO PIANO

per partorirli in California? La stragrande maggioranza delle prostitute e delle donne che affittano l’utero sono costrette dal bisogno di denaro. Quand’anche una donna scegliesse “liberamente” di vendersi, perché lo considera un lavoro come un altro, quando cioè non sia in una situazione di indigenza o di degrado sociale (penso alle baby-prostitute dei Parioli, a Roma…) vuol dire che la mentalità nichilista anti-umana – la cultura della morte – ha conquistato un altro cervello. Non si tratta, infatti di “maschilismo” o “femminismo”, si tratta di vivere in una dimensione del tutto materialista dove la persona – che è anzitutto corpo – non vale più niente come valore in sé: conta solo l’avere e l’apparire. E alla fine non si “è” più niente, nihil, nulla. Non è un caso che la prostituzione o gli spettacoli porno siano conditi di droga a fiumi, per non pensare. Sarà forse facile capire che la pornografia incrementa le deviazioni sessuali e induce ad associare il sesso alla violenza, della quale vittime sono prevalentemente le donne. Ma pochi sanno che ricerche recenti, riportate da Antonio Morra nel suo blog “Pornotossina”, hanno dimostrato che anche la pornografia soft induce a maturare una concezione negativa delle donne. I giornali, le pubblicità, il web, il cinema veicolano costantemente messaggi a sfondo erotico, anche se non così espliciti come fa la pornografia “hard”: Simon Duff e Sophie Daniels dell’Università di Nottingham, durante la conferenza annuale della “British Psychological Society’s Division of Forensic Psychology”, hanno dimostrato che il bombardamento costante di pornografia soft cui siamo sottoposti “modifica il cervello” e induce a svilire le donne e a giustificare gli stupratori: «Era vestita in modo sexy», «È uscita da sola la sera, non sa che ci sono pericoli?»… Del resto il porno soft che oggi passa in prima serata, anche a uso e consumo dei ragazzini, fino a cinquant’anni fa sarebbe stato censurato: segno che ci siamo desensibilizzati, assuefatti. E abbiamo imparato giorno per giorno – anche senza volerlo – a “cosificare” la donna, a non percepirla più come persona, ma solo come corpo: una cosa, appunto, un oggetto di piacere. Allora: per una vera “liberazione” della donna, l’estabilishment si adoperi contro l’utero in affitto, la prostituzione, il commercio di gameti e la pornografia, anche soft. E la smetta di prenderci in giro. 2017 Giugno - n. 53

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MATERNITÀ E TUTELE: PANORAMICA INTERNAZIONALE

La tutela della madre che lavora è ancora insufficiente, ma in molti Paesi – tranne l’Italia – le politiche sociali per le madri sono adeguate

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no dei grandi problemi odierni della condizione femminile, se non addirittura il problema, è quello della tutela lavorativa in caso di gravidanza. Una tutela che spesso manca, o si presenta debole e penalizzante la maternità. Viceversa le donne sono sempre più agevolate nell’ascesa professionale. Il che è giusto, intendiamoci, ma combinato con la debole tutela lavorativa in caso di maternità genera paradossi tali per cui, per esempio, nell’UE, i manager donna sono il 35% del totale, ma vi sono delle ricerche che dicono come globalmente meno del 29% delle donne, al lavoro, risulti adeguatamente tutelata in caso di maternità (cfr. AAVV. (2014), Maternity and paternity at word: Law and practice across the world). Ne consegue come, a livello globale, per oltre il 71% delle lavoratrici – che è l’equivalente di 830 milioni di donne, non un numerino – la tutela della maternità risulti inadeguata. Commetteremmo tuttavia un errore a effettuare una generalizzazione che non tenesse conto di una situazione che, a livello internazionale, si presenta come molto varia sia come tutela alla maternità in ambito professionale, sia come sostegno diretto alla natalità. Un caso certamente tra i più virtuosi – e spesso citato a modello – è quello della Francia. In effetti le politiche francesi, sul tema di cui si sta parlando, si presentano consistenti, e non è un caso che proprio il Paese d’Oltralpe faccia registrare il tasso di natalità tra i più alti nell’Unione Europea. Cosa fa la Francia? In breve, prevede un premio alla nascita di un nuovo figlio, che è parametrato ed erogato sulla base del reddito. Ad esempio, per le coppie con due stipendi il tetto previsto

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Giuliano Giuliano Guzzo Guzzo

laureato in Sociologia e Ricerca Sociale, collabora con diverse riviste e portali web fra i quali Tempi.it, Libertaepersona.org, Campariedemaistre.com, Cogitoetvolo.it, Uccronline.it e Corrispondenzaromana.it. È membro dell’Equipe Nazionale Giovani del Movimento per la Vita italiano europei * giulianoguzzo@email.com @GiulianoGuzzo : www.giulianoguzzo.com

per l’erogazione del premio è di 46.888 euro nell’ipotesi di un figlio a carico, di 53.984 euro nell’ipotesi di due figli a carico e di 62.499 euro nel caso ci siano tre figli a carico. Il premio Anna Maria consiste in 923,08 euro versati al settimo mese Pacchiotti di gravidanza. In pratica, mentre l’Italia regalava 80Maria euro Anna Pacchiotti, presidente dell’associazione “Onora la Vita onlus”. al mese ai nuovi nati nel 2015, la Francia : www.onoralavita.it faceva arrivare nelle casse familiari 185 euro al mese, più un premio di oltre 900 euro alla nascita. Purtroppo anche il modello francese sta mostrando dei limiti in termini di efficacia – le donne francesi sono passate da una media di 2,01 figli registrata nel 2014, ai 1,96 figli del 2015, fino agli 1,93 dello scorso anno – ma ciò è dovuto ad altri elementi, tra i quali senza dubbio ilGiulia successo della cultura abortista e contraccettiva, Tanel non certo per carenza di politiche sociali che rimangono molto buone.

Laureata in Filologia e Critica Letteraria. Scrive per passione. Collabora con libertaepersona.org e con altri siti internet e Buone sono anche, rispetto alla natalità, le riviste; è inoltre autrice, con Francesco Agnoli, politiche tedesche. Infatti qualche anno fa anche del soprannaturale nella di Miracoli - L’irruzione storia (Ed. Lindau). Angela Merkel, inaugurando una rivoluzione vera

e propria, ha istituto il diritto a un posto in asilo a ogni bambino che vive in Germania. In parole povere, lo Stato deve garantire un posto all’asilo, se non lo fa la famiglia può fare ricorso, ed entro tre mesi deve essere trovata una sistemazione in asili comunali o privati. In aggiunta a questo, è previsto lo stanziamento di 184 euro mensili per i primi due bambini, che diventano a 190 e 215 per i successivi nati. Più recentemente è stato attivato anche l’ElterngeldPlus, che assicura congedi parentali flessibili: 24 mesi di assenza retribuiti fino all’ottavo anno di età o assegni speciali per il lavoro part-time.

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Le politiche inglesi, invece, prevedono – per quanto concerne i figli – benefici maggiormente standardizzati, con il Child Benefit che va a tutti quelli che fanno un figlio, con l’unico limite di 50 mila sterline di reddito, soglia oltre la quale si riduce la quota settimanale elargita dallo Stato. Trattasi, in pratica, di 20,70 sterline settimanali per il primo figlio e di altre 13,70 per i successivi. Nel caso di parto gemellare è possibile ottenere il sussidio anche se si hanno già altri figli. Se il parto è trigemellare, il bonus bebè consiste in 1.000 sterline (circa 1.214,00 euro). Se ci si pone in un’ottica storica, il Paese che risulta aver promosso meglio la maternità è la Finlandia, dove da una parte la maternità al lavoro è assai tutelata, e dall’altra non solo è presente un welfare storicamente incensato dai media (qui il 32% del Pil è riservato alle politiche sociali), ma dal 1938 alle donne in attesa di partorire arriva un “pacco neonatale” che contiene davvero di tutto (vestitini, copertina, un completino pesante, cuffiette, calzini, un set di lenzuola, uno per l’igiene del bambino completo di spazzolino da denti e forbicine per le unghie, materasso e bavaglino) e che, spesso, diventa pure la prima culla del bambino. C’è da dire che l’ente di previdenza sociale finlandese, la Kela, invia la scatola

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per tutti i bambini, senza alcuna discriminazione, e se non la si vuole si può chiedere che venga convertita in un buono da 140 euro. Gli assegni per i bebè sono più alti di quelli italiani, durano fino ai 17 anni di età e aumentano all’aumentare del numero dei figli. Sono 104 euro alla prima gravidanza, 115 per la seconda e 146 per il terzo nuovo nato e via crescendo. Se il genitore è da solo, si aggiunge un bonus forfettario di 48 euro al mese per ogni bambino; infine, dieci mesi di maternità retribuita e assegni giornalieri per l’assistenza ai figli (24 euro è il minimo). Ciò nonostante, va per completezza precisato come anche la Finlandia soffra l’inverno demografico, come dimostra il fatto che in quel Paese si sia passati dalle 10,8 nascite ogni 1.000 abitanti del 2001 alle 10,45 del 2006 fino alle 10,36 del 2012: la cultura antinatalista, anche qui, prevale. Certo, l’Italia – per quanto riguarda le politiche sociali e di sostegno alla maternità – ha solo da imparare da Paesi come la Finlandia o la Francia, tuttavia la denatalità si configura come un problema purtroppo molto complesso e non solo materiale. Ciò non toglie, lo ribadiamo, che quello di maggiori tutele lavorative per le donne e di un più mirato sostegno alla maternità sia, per il nostro Paese, una inderogabile priorità. Anche se i nostri politici faticano a capirlo.

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Leggi a favore delle MADRI CHE LAVORANO

Rosalba Meli

Un avvocato ci illustra le regole a tutela delle madri lavoratrici e le invita a far valere i loro diritti

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iamo purtroppo eredi di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna, misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù. Ciò le ha impedito di essere fino in fondo se stessa, e ha impoverito l’intera umanità di autentiche ricchezze spirituali. E che dire poi degli ostacoli che, in tante parti del mondo, ancora impediscono alle donne il pieno inserimento nella vita sociale, politica ed economica? Basti pensare a come viene spesso penalizzato, più che gratificato, il dono della maternità, cui pur l’umanità deve la sua stessa sopravvivenza». Così si esprimeva Giovanni Paolo II nella Lettera alle donne del 29.06.1995, ed è proprio da queste parole che prendo le mosse per una breve disamina sulla condizione attuale delle lavoratrici madri. I diritti delle mamme che lavorano hanno il loro fondamento giuridico nella Costituzione della Repubblica (art. 3 e art. 37) e sono garantiti dal Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, cui si aggiungono le disposizioni introdotte dalla l. 92/2012 e poi dal cd. Jobs Act, l. 83 /15. L’obiettivo delle norme è proprio quello di evitare che le donne siano costrette a rinunciare al loro percorso professionale prevedendo tutele ad hoc al fine di evitare, o comunque sanzionare, ogni forma di discriminazione, o ritorsione delle lavoratrici madri, in quanto madri. Nell’ambito di questa tutela, particolare interesse assume la previsione normativa di cui all’art. 54 del Testo Unico 151/01, che sancisce espressamente il divieto di licenziamento della lavoratrice madre dall’inizio della gravidanza fino ad un anno di vita del bambino.

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Tale divieto di licenziamento si estende anche alle ipotesi di affidamento e di adozione e opera dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando, ovvero (in caso di adozione internazionale) dal momento della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento. Il divieto di licenziamento trova il suo limite nelle ipotesi di giusta causa dovuta a colpa grave della lavoratrice, di cessazione dell’attività aziendale, di scadenza del termine contrattuale e/o di esito negativo del periodo di prova, tutte da considerarsi legittime cause di recesso. In tutti questi casi il datore di lavoro può legittimamente procedere al licenziamento della lavoratrice madre, purchè dimostri la sussistenza di una delle ipotesi sopra indicate. Ove dunque non sussista alcuna legittima ragione di recesso, il licenziamento della lavoratrice madre, fino al primo anno di vita del figlio, è nullo. Nonostante questa previsione normativa, non è raro sentire di casi in cui una lavoratrice subisca un licenziamento illegittimo e perda il proprio posto di lavoro a seguito di gravidanza.

L’obiettivo delle norme a è evitare che le donne siano costrette ale: rinunciare al loro percorso profession forse questo è lo sbaglio. Le norme bano dovrebbero evitare che le donne deb rinunciare alla maternità, per poter lavorare… In tali casi la legge attualmente vigente in Italia prevede il diritto della lavoratrice al reintegro nel posto di lavoro e al risarcimento del danno, commisurato a tutte le retribuzioni perdute dalla data del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra. PRIMO PIANO


Infatti, pur avendo il legislatore, tra il 2012 e il 2015, sensibilmente ridotto le ipotesi in cui il giudice, a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento può ordinare al datore di lavoro di reintegrare il dipendente, tale diritto alla reintegra permane in tutti i casi di nullità del licenziamento disposto in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità, oltre che nei casi di licenziamento discriminatorio e disposto in costanza di matrimonio. La recente Sentenza n. 475 della Suprema Corte di Cassazione dell’11 gennaio 2017 non lascia adito a dubbi: i datori di lavoro che licenziano una lavoratrice a seguito di gravidanza dovranno non soltanto reintegrarla, ma corrisponderle un indennità risarcitoria pari a tutte le retribuzioni perdute dalla data del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra. Gli Ermellini ribadiscono la costante giurisprudenza sul tema, secondo la quale: «Il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti». Seguendo questo principio giuridico, nonostante il licenziamento, il rapporto di lavoro deve ritenersi giuridicamente pendente e «il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno». La soluzione della Cassazione è in linea con quanto previsto nelle riforme del 2012 e del 2015, che hanno dato forma al quadro normativo vigente per cui indipendentemente dal numero di lavoratori dell’impresa, l’illegittimo licenziamento della lavoratrice madre è oggi disciplinato, in caso di assunzione anteriore al 7 marzo 2015, dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge 92/12 e, per le assunte da tale data, dall’articolo 2 del dlgs 23/2015 (attuativo del Jobs Act). Auspichiamo che la rigida posizione della Giurisprudenza sia di monito a quanti ancora, anziché agevolare la maternità e sostenerla, la considerano un mero ostacolo alla produttività. In tali casi, mie care mamme, rivolgetevi senza indugio ad un avvocato esperto in materia del diritto del lavoro e fate valere i vostri diritti: non solo per voi stesse, ma anche per il figlio che portate in grembo e per una società più giusta e più a misura d’uomo (nel senso omnicomprensivo del termine, ovviamente!). PRIMO PIANO

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Una giovane in cerca di lavoro

Una breve, semplice testimonianza di una giovane di 27 anni in cerca di lavoro

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ono certamente una ragazza fortunata: ho potuto studiare informatica e ho potuto imparare bene l’inglese, perciò per me non è stato difficile trovare un impiego. Sono stata fortunata anche a trovare “l’anima gemella”: dopo qualche anno di fidanzamento abbiamo potuto decidere e fare il grande passo, il matrimonio. A ottobre ci siamo sposati e siamo partiti per la luna di miele. Al ritorno, però, ho avuto una brutta sorpresa. L’ente in cui lavoravo, con un contratto a termine che per anni mi avevano rinnovato senza problemi, mi ha comunicato che questa volta no, a marzo avrei dovuto temere che il contratto poteva anche non essere rinnovato. Colpa della crisi, dicevano. Alcune malelingue davano la colpa al matrimonio… Così, ho cominciato a inviare il mio curriculum vitae a destra e a sinistra, con un pochino di ansia, a dire il vero. Subito dopo Natale ho cominciato ad avere risposte e diverse proposte di colloqui di lavoro. Nell’ente dove ero impiegata, il mio capo e i colleghi, che mi stimavano molto, sono stati molto contenti di sapere che mi si prospettavano varie possibilità di non rimanere disoccupata e – insieme alle referenze – si sono prodigati a darmi consigli su come affrontare le interviste in programma. Mi dicevano che è molto importante fare una buona impressione; che è importante ciò che si dice e come lo si dice; che è importante come ci si veste, come ci si atteggia… Ma tutti, univocamente, alla fine mi hanno detto: «… e mi raccomando, Rita, togliti quella fede nuova fiammante: se notano che sei sposata da poco e pensano che tu possa voler restare incinta, te lo scordi il posto di lavoro!». Questo “consiglio” mi ha fatto un po’ male e mi ha fatto riflettere: riuscirò a lavorare e a mettere su famiglia? La fede non l’ho tolta. Qualche proposta di lavoro l’ho avuta lo stesso e una l’ho accettata: da marzo sono impiegata in un’azienda a tempo indeterminato. Ora vediamo cosa accade se resto incinta: vi terrò aggiornati, Lettori di Notizie ProVita!

Rita Di Piero 22

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Claudia Cirami

C’È CHI PREMIA LE LAVORATRICI MADRI Ci sono imprese, in Italia, che hanno il coraggio e l’intelligenza di premiare le dipendenti-mamme…

Ma – si diceva – c’è ancora una speranza. Così Roberto Brazzale, amministratore della Brazzale S.p.A. di Zané (VI), ha deciso di premiare con un bonus di 1.500 euro (il Baby Bonus) quei dipendenti che metteranno al mondo un figlio o lo adotteranno. Per ottenerlo, occorrerà che un dipendente (padre o madre) sia al lavoro da almeno due anni nell’azienda o che si impegni a lavorare almeno fino a due anni dopo la nascita (o l’adozione). Nel sito dell’azienda, ecco cosa dichiara Roberto Brazzale: «Non è sufficiente l’intervento dello Stato, perché il sostegno alla maternità e alle nuove nascite PRIMO PIANO

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on tutto è perduto in questo paese votato all’estinzione. Sempre più persone diventano consapevoli che per il bene comune e la produttività non c’è niente di meglio che spingere i connazionali a fare figli. Il nostro finora è sembrato un Paese ben strano: si sta avviando sempre di più verso la caduta a picco demografica e verso un tasso di invecchiamento della popolazione che suscita inquietudine, ma, contemporaneamente, è capace di indignarsi per le campagne pubblicitarie del Fertility Day e per gli spot sanremesi dove bambini nel ventre materno ascoltano musica. Salvo poi lamentarsi della crisi (ma un Paese che non si pone il problema del futuro può riuscire a trovare risposte adeguate per superarla?)...

Incoraggiare la vita è, ancora una volta, la scelta migliore per tutti

deve arrivare da uno sforzo corale, nel quale anche le aziende devono fare la loro parte, rappresentano nei fatti la “responsabilità sociale” alla quale gli imprenditori sono e debbono essere chiamati. Pensiamo, in questo modo, di poter offrire un sostegno concreto, reale, utile, accompagnando i nostri collaboratori nella meravigliosa avventura della maternità e della paternità». Parole di buon senso. Papa Francesco ha posto il problema della conciliazione tra maternità e lavoro nel 2015, in un’udienza con l’UCID, l’Unione cristiana degli imprenditori dirigenti: «Quante volte abbiamo sentito di una donna che va dal capo e dice: “Devo dirle che sono incinta”. “Da fine del mese non lavori più”». 2017 Giugno - n. 53

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Questa simulazione di dialogo scatta un’istantanea: così viene spesso trattata la maternità in Italia. Francesco ha chiesto agli imprenditori cristiani (ma questo non esclude ovviamente gli altri imprenditori) una maggiore tutela per i dipendenti e, soprattutto, per le donne lavoratrici affinché conciliare maternità e lavoro non sia impossibile. Ci sono altri esempi in Italia oltre a quello di Brazzale? Se la sua iniziativa ha fatto notizia, è comprensibile che il quadro non sia così roseo. Eppure l’aiuto alla maternità esiste ed è una realtà, sebbene non necessariamente in forma di bonus. La Stampa, per esempio, ha riportato la notizia che Unilever Italia – multinazionale che, nel nostro Paese, ha 3.500 dipendenti, una sede centrale a Roma e altri cinque stabilimenti localizzati in varie parti del territorio italiano – propone un sostegno alla maternità in termini di orari più flessibili o, per esempio, di una sala per l’allattamento. L’articolo di Simone Vazzana, dell’8 marzo 2017, s’intitolava Unilever sfida gli stereotipi di genere e premia la maternità. Lo “stereotipo di genere” sfidato in questo caso è che una donna che diventa madre non sia più in grado di lavorare bene come prima. Su questa stessa linea si pongono anche altre aziende. Quest’anno il riconoscimento concernente il miglior welfare aziendale, è andato a ventidue imprese che hanno superato un certo standard nei diversi ambiti di cui si occupa il premio. Presente tra le ventidue c’è anche la Fungar, un’azienda agricola dove la maternità, soprattutto straniera (visto che le lavoratrici sono cinesi), appare particolarmente tutelata: un periodo più lungo rispetto a quello previsto dalla legge per la maternità, flessibilità negli orari e sostegno nella ricerca di asili nido. Anche altre imprese e realtà aziendali, tra queste, si pongono su un piano simile,

segno di un interesse in crescita per la vita familiare dei dipendenti. Sebbene gli aiuti proposti siano differenti, si tratta sempre di modi concreti per incoraggiare le famiglie italiane a mettere al mondo dei bambini. Questa è la fotografia che ci rimanda il rapporto Welfare Index PMI del 2017 riguardo al settore italiano “conciliazione vita-lavoro, sostegno ai genitori, pari opportunità” (che, non a caso, nel video relativo al rapporto, ha per simbolo un biberon): «L’area della conciliazione è molto cresciuta negli ultimi tempi e ha raggiunto un tasso di iniziativa del 32,8%. L’iniziativa più frequente riguarda la concessione di flessibilità sugli orari oltre quella prevista dai contratti: 27,7%. Inoltre altri interventi meno frequenti di flessibilizzazione dell’organizzazione del lavoro: permessi retribuiti per maternità e paternità, lavoro a distanza, integrazione estesa del congedo per maternità. Sono poco diffusi i servizi di sostegno alla maternità quali asili nido aziendali o convenzionati, scuole materne e doposcuola, babysitter, e i servizi di facilitazione della vita quali disbrigo di pratiche burocratiche, trasporti aziendali e convenzioni di trasporto... È un’area di welfare caratterizzata dalle iniziative aziendali unilaterali (66,8%), cui si aggiungono accordi aziendali (8%)». Il Rapporto può essere consultato sul sito www.welfareindexpmi.it. Inoltre, una ricerca condotta dalle università di Zurigo e di Costanza, l’anno scorso, ha dimostrato che le donne con figli, nell’arco di trent’anni di carriera, sono molto più produttive delle colleghe che non ne hanno avuti. Se c’è una perdita di produttività nel breve periodo, considerando globalmente la carriera, le madri surclassano le non madri nella quantità e nella qualità del lavoro svolto, risultando più dotate per il plurimansionamento, l’efficienza organizzativa e la velocità di esecuzione di più attività. Si può concludere osservando che qualcosa si sta muovendo nel nostro Paese per favorire la maternità. Soprattutto è importante notare che sembra essersi diffusa nel privato la consapevolezza che non si deve attendere l’intervento statale per ribaltare una situazione critica. Occorre sottolineare inoltre come diverse imprese abbiano compreso che un’azione di solidarietà sociale continuata è un bene non solo per i dipendenti e le loro famiglie, ma anche per gli stessi datori di lavoro e la produttività. Incoraggiare la vita è, ancora una volta, la scelta migliore per tutti.

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THE IRON

LADY

La storia di Margaret Thatcher la conoscono tutti. La storia politica della “Lady di ferro” è Marco Bertogna sui libri di storia. Quello che sorprende, vedendo il film di P. Lloyd del 2016, è l’intimità delle fasi della vita familiare di una delle donne più potenti e importanti del mondo. Il film si snoda attraverso una serie di flashback che, l’ormai anziana signora Thatcher (interpretata da una strepitosa Meryl Streep), rivive tra ricordi, allucinazioni e immagini di repertorio. Passiamo attraverso le fasi salienti della sua vita: l’ascesa politica – tra molte difficoltà – in un ambiente maschile, l’incarico da ministro dell’istruzione, la candidatura a primo ministro, la battaglia con i sindacati, le isole Falkland e infine le dimissioni “indotte” dal tradimento dei suoi colleghi. In tutti questi passaggi sono costantemente presenti i collegamenti con la sua famiglia, in particolar modo con il marito Denis che, seppure morto, è presente nella sua quotidianità attraverso le allucinazioni delle quali soffre e che non vuole curare. Presente fisicamente è la figlia Carol e risuona molte volte nel film la mancanza dell’altro figlio Mark (gemello di Carol), che è in Sudafrica e non torna mai a trovarla. È una donna che non vuole ammettere le proprie debolezze, irritata dalle visite mediche, e che con difficoltà accetta la perdita del marito. È una donna che non si fa molte domande, ed è piuttosto pronta sempre e comunque a dare delle risposte. La femminilità passa attraverso alcuni scampoli nel lavoro ed emerge piano piano lungo il film il dubbio sul suo comportamento di moglie e di madre. Questo dubbio si concretizza nel finale, quando dalle labbra della nostra protagonista, rivolgendosi al marito “immaginario” dice: «Volevo che tu fossi felice...lo sei stato?». La risposta la saprete solamente guardando il film ma quello che emerge è proprio il dubbio che una vita passata a combattere per i propri ideali nel lavoro possa oscurare e/o mettere da parte i più valori importanti della nostra vita, come la famiglia. Le donne sono, nella maggior parte dei casi, più concrete degli uomini e questa concretezza emerge in largo e in lungo con la “Lady di ferro”, che è pronta a dar battaglia sul lavoro e in casa. Le donne hanno i piedi ben piantati a terra, e questo aspetto viene messo in risalto spesso lungo il film quando, per esempio, la signora Thatcher deve prendere decisioni importanti, mantenendo sempre il contatto con la realtà di tuti i giorni (spesso fa riferimento a quanto costano i prodotti nei negozi). È un film su una donna particolare ma che, proprio nell’essere donna, ha vissuto, amato, scelto, combattuto e sofferto.


Per abortire fino a sei mesi (e oltre) bisogna trovare una “buona scusa” (per esempio? Il piede torto, o il labbro leporino, o la Trisomia 21!...). Ma fino a dodici settimane, la legge italiana consente l’uccisione dei bambini a richiesta, senza troppe spiegazioni. La spilletta colore oro che vedete è la riproduzione esatta della grandezza dei piedini di un bambino alla dodicesima settimana di gestazione: per alcuni è ancora un «grumo di cellule» o il «prodotto del concepimento». Indossare questa spilletta, oppure attaccarla a uno zaino o a una borsa, può servire a sensibilizzare le coscienze anestetizzate dalla cultura della morte.

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i r u t a m e r p i n i b m a b i r e p o Un polp ! ” i l o c a t N I T “ i con N

n cui si C’è un modo straordinario co ematuri possono aiutare i bambini pr a Neonatale ricoverati in Terapia Intensiv (TIN)…

el febbraio del 2013, in Danimarca, un gruppo di volontari ha

iniziato quello che è conosciuto come il “Progetto Octo”. I medici hanno riscontrato che dei pupazzetti a forma di polpo (octopus, in inglese), tessuti all’uncinetto, danno grossi benefici ai bambini prematuri. Probabilmente è perché i tentacoli ricordano ai bambini il cordone ombelicale, dicono gli esperti. Stringendoli i bambini mantengono la calma, migliorano quindi la respirazione e mantengono i battiti cardiaci regolari, consentendo alti livelli di ossigeno nel sangue. Inoltre, i bambini che hanno a disposizione il polpo, hanno meno probabilità di tirare o staccare tubicini e sondini con cui spesso sono agganciati a dispositivi sanitari vari. Da quando è cominciato, il progetto si è diffuso in tutto il mondo: Svezia, Germania, Francia, Turchia, Norvegia, Islanda, Australia, Israele e Stati Uniti... molti ospedali chiedono polpi di cotone da mettere nelle culle dei bambini. È incredibile come una cosa così semplice possa confortare così tanto un bambino e aiutarlo a sentirsi meglio. In Italia è attivo un gruppo Facebook che rifornisce l’ospedale di Cesena. Visitando la pagina si possono trovare i contatti necessari per avviare l’iniziativa anche in altri ospedali. Cercate su Facebook: Octopus for a Preemie Italy - TINtacoli. Pubblichiamo qui di seguito le istruzioni per lavorare i polpetti, per avere un’idea. Chi li vuol fare si iscriva alla pagina Facebook. È importante seguire le regole molto scrupolosamente per evitare pericoli ai bambini. Il centro di raccolta controlla i polpi uno ad uno e quelli che non rispettano gli standard vengono scartati e donati in pediatria, come giochi per bambini più grandi.

2017 Giugno - n. 53

27


Le dimensioni della testa del polipo devono essere comprese tra 6-9 cm, mentre

Consigli ti essere lavora o n o v e d i lp o Ip (uncinetto di strettamente tutto deve 2 o 2,5 mm): mpatto, senza essere ben co ggiunte (le decorazioni a ome occhi, decorazioni c on sono bocca, etc., n n meglio fare u obbligatorie: he iore di polpi c g g a m ro e m u n . decoratissimi) averne pochi

i tentacoli devono essere arricciati, ma completamente estesi devono raggiungere una lunghezza massima di 22 cm.

Il bambino che riceve il suo nuovo amico all’arrivo in TIN, se lo porterà con sé a casa finita la permanenza in reparto. Sul sito trovate anche gli indirizzi dei punti di raccolta dei polpi finiti. Chi non sa lavorare a uncinetto può partecipare all’iniziativa

Le misure devono essere

rispettate e non ci deve essere pericolo che l’imbottitura

acquistando cotone o negli altri modi descritti nella pagina

Facebook.

fuoriesca. Si richiede di usare

filo di cotone al 100% (sul sito ne trovate anche alcuni tipi

consigliati, con un buon rapporto qualità/prezzo), e l’imbottitura in poliestere deve sopportare lavaggi a 60 gradi.

Il progetto ducono i Coloro che pro ese) non polpi (a loro sp compenso ricevono alcun ro. per il loro lavo 28

n. 53 - Giugno 2017

COME FARE? Ecco lo schema da seguire per realizzare un polpo. Ci raccomandiamo di seguirle scrupolosamente e ricordiamo che questo schema può essere usato solo per fini personali e no-profit. È severamente vietato utilizzare lo schema per la creazione di prodotti destinati alla vendita.


Materiali

Uncinetto: 2 mm o inferiore per la testa (volendo si può scegliere un 2,5 mm per testa e tentacoli; per queste dimensioni rimandiamo alle istruzioni sulla pagina Facebook)

ago da lana

filo 100% cotone

riempimento con fiocco di poliestere lavabile a 60 gradi (lo stesso che si usa per pupazzi o cuscini)

Abbreviazioni: M - maglia/e; CAT - catenella; MB - maglia bassa; MBSS - maglia bassissima; DIM - diminuzione

Corpo

Base

Giro 1: Anello magico con 6 mb

Giro 1: Anello magico con 5 mb

Giro 2: 2 mb in ogni m (12 m)

Giro 2: 2 mb in ogni m (10 m)

Giro 3: 1 mb - 2 mb nella stessa m (ripetere per tutto il giro) (18 m)

Giro 3: 1 mb, 2 mb nella stessa m (15 m)

Giro 4: 1 mb - 1 mb - 2 mb nella stessa m (ripetere per tutto il giro) (24 m)

Chiudere con una mbss, tagliare il filo e chiudere il lavoro

Giro 5: 1 mb - 1 mb - 1 mb - 2 mb nella stessa m (ripetere per tutto il giro) (30 m) Giro 6: 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 2 mb nella stessa m (ripetere per tutto il giro) (36 m)

Giro 7: 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 2 mb nella stessa m (ripetere per tutto il giro) (42 m)

Giro 8-16: 1 mb in ogni m (42 m)

Giro 17: 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 dim* (ripetere per tutto il giro) (36 m)

Giro 18-19: 1 mb in ogni m (36 m)

Giro 20: 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 dim* (ripetere per tutto il giro) (30 m)

Giro 21-22: 1 mb in ogni m (30 m)

Giro 23: 1 mb - 1 mb - 1 mb -1 dim* (ripetere per tutto il giro) (24 m)

Giro 24-25: 1 mb in ogni m (24 m)

Giro 26: 1 mb - 1 mb - 1 dim* (ripetere per tutto il giro) (18 m)

Giro 27: 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 mb - 1 dim* (ripetere per tutto il giro) (16 m)

Giro 28: 1 mb in ogni m (16 m)

Giro 29: Inizio dei tentacoli.

Tentacoli I tentacoli possono essere fatti con uncinetto 2.5 in modo che non vengano troppo sottili. •

1 mb, 50 cat, girare, 2 o 3 mb in ciascuna cat, 1 mbss nella maglia successiva del corpo.

Ripetere 7 volte in modo da creare 8 tentacoli.

Terminare con una mbss nel punto dove è stato iniziato il primo tentacolo, tagliare il filo e chiudere il lavoro.

Assemblaggio Unire corpo e base del polipo con lo stesso filo e un ago da lana oppure con l’uncinetto. Nel secondo caso non tagliare il filo una volta terminato l’ultimo tentacolo, in modo da poter usare lo stesso per attaccare la base. 2017 Giugno - n. 53

29


o da solo poliestere lavabile a 60 gradi. Non utilizzare cotone o rivestire la testa.

e r i p m e i r e m Co ! o p i l o il p Per u

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n. 53 - Giugno 2017

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LETTURE CONSIGLIATE «La lettura è per la mente quel che l’esercizio fisico è per il corpo» (Joseph Addison)

Ormas Maurizio

LA LIBERTÀ E LE SUE RADICI L’affermarsi dei diritti della persona nella pastorale della Chiesa dalle origini al XVI secolo Effatà

Quando è nata la moderna idea di libertà? E quando si è tradotta in istituzioni politiche? Molte risposte a tali domande devono essere ricercate nel Medioevo, l’epoca in cui il cristianesimo ha espresso in modo più rilevante, nell’Europa Occidentale, la sua influenza sulla società. Solo uno studio rigoroso e approfondito poteva consentire di vincere i pregiudizi esistenti e riconoscere nella cultura cristiana le radici di quelle libertà individuali e collettive, politiche ed economiche, che costituiscono il patrimonio del nostro vivere civile e distinguono l’Europa, almeno sino al Cinquecento, da tutto il resto del mondo. La prima “carta dei diritti umani”; della storia, è stata compilata nel primo Cinquecento da Francisco de Vitoria, un padre domenicano spagnolo.

Schooyans Michel

TERRORISMO DAL VOLTO UMANO Cantagalli

Chi legge questo libro sarà in grado di ricostruire il collegamento che c’è tra le politiche antinataliste dei neomalthusiani del XX secolo con le grandi strategie internazionali di diffusione della contraccezione, dell’aborto e della c.d. “pillola del giorno dopo”. Schooyans smaschera le menzogne e l’uso della neolingua che – grazie alle abili manovre di quelle che chiama “centrali del terrore” (Onu, Unicef, Unfpa, etc.) – hanno condotto a depenalizzare, e a rendere addirittura meritorie, delle politiche eugenetiche e di sterminio di massa degne dei peggiori totalitarismi: un vero e proprio “terrorismo dal volto umano”.


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