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“nel nome di chi non può parlare” Anno V | Rivista Mensile N. 39 - Marzo 2016
Chi salva i bambini,
salva le madri
Una testimone davvero eccezionale: Margherita Borsalino Garrone
Proposta di legalizzare l’eutanasia alla Camera
Notizie
- Sommario Editoriale: Chi salva i bambini, salva le madri
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“nel nome di chi non può parlare” RIVISTA MENSILE
Lo sapevi che...
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Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182
Attualità La donna è forte perché dà la Vita
N. 39 - MARZO 2016
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Giulia Tanel
Redazione
Antonio Brandi, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi
“Un cattolico che ricopre ruoli pubblici ha più doveri di altri”? 7 Romana Fiory
Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ)
www.notizieprovita.it/contatti - Tel. 329 0349089
Direttore responsabile Antonio Brandi Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi
Primo piano Una testimone davvero eccezionale
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Direttore ProVita Onlus Andrea Giovanazzi
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Impaginazione grafica Francesca Gottardi
Margherita Borsalino Garrone
Chi salva i bambini, salva le madri Antonio Brandi
All’ospedale Sant’Anna di Torino
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Tipografia
Anna Maria Pacchiotti
Distribuzione MOPAK SRL, via Prima Strada 66 - 35129 Padova
Scienza e Morale
Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero:
Il trionfo della morte?
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Francesca Romana Poleggi
L’eutanasia uccide anche il diritto
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Aldo Vitale
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Andrea Giovanazzi
Uomo, dove sei?
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Claudia Cirami
I bambini hanno bisogno di una mamma e di un papà Federico Catani
Sostieni le nostre attività di solidarietà sociale, al fine di difendere il diritto alla vita e gli interessi delle famiglie, dei bambini e delle madri, richiedi l’abbonamento al mensile Notizie ProVita (11 numeri).
Famiglia ed Economia La Vita è straordinaria, sempre
Margherita Borsalino Garrone, Antonio Brandi, Federico Catani, Claudia Cirami, Andrea Giovanazzi, Romana Fiory, Teresa Moro, Anna Maria Pacchiotti, Francesca Romana Poleggi, Carlo Principe, Giulia Tanel
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L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali, involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.
Editoriale
Editoriale
Lo sguardo del cuore, lo sguardo della mente: cuore e mente. Con queste parole così centrali nell’esperienza di ognuno ho pensato di connotare questo mio introdurre le importanti e toccanti testimonianze di accoglienza della vita umana nascente e di promozione del suo valore nella società che sono presentate in questo numero. Per far vincere la vita, infatti, tanto più di fronte a una gravidanza difficile o non desiderata, sono necessari entrambi gli sguardi: quello del cuore, il solo capace di generare un’azione di solidarietà concreta e tempestiva, con mitezza e discrezione, che metta a proprio agio la gestante e le faccia percepire reale vicinanza e amicizia, azione tipica dell’attività dei Centri di Aiuto alla Vita; e quello della mente, che coglie l’indispensabilità di un lavoro educativo e culturale – specie a fronte di una mentalità dominante che legittima la fecondazione artificiale, le pillole del giorno dopo o dei cinque giorni dopo – teso a far comprendere alla società che una reale garanzia di eguaglianza, di democrazia e di pace consiste nel riconoscimento del diritto alla vita di ogni
Notizie
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Chi salva i bambini, salva le madri
essere umano fin dal concepimento, lavoro proprio di molte associazioni prolife. Un binomio, quello cuore - mente, che si è spesso rivelato vincente, sia per aver strappato tanti figli dall’aborto (vedasi i dati ufficiali riportati in queste pagine), sia per aver alimentato una coscienza critica verso il clima culturale in atto, come l’astensione al referendum del 2005 sulla Legge 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita ha ampiamente dimostrato. Ma la vera forza rivoluzionaria è sua, del figlio. Una volta che la madre, sentendosi accolta e non più lasciata sola, decide di dire “Sì” alla Vita, scatta in lei una forza potente per superare ogni difficoltà! In tal modo i volontari prolife, attraverso la testimonianza di condivisione delle difficoltà della gestante, si pongono sia quale punto di proposta e di diffusione del valore della vita umana nascente, sia quale coscienza critica dell’odierna mentalità mortifera. E oggi comincia anche la battaglia per il rispetto della sacralità della vita umana fino alla sua fine naturale…
Foto: Public Domain picture
Antonio Brandi
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N. 39 - MARZO 2016
Lo sapevi che... L’organizzazione internazionale di pirati informatici, Anonymous, si è scatenata contro ProVita. Grazie all’eccellente lavoro dei nostri tecnici, la normalità viene presto ripristinata, ma i nostri lettori hanno certamente subito disagi. La Gaystapo, si sa, usa maniere spicce. La nostra Redazione, al di là del dispiacere per il fastidio arrecato ai nostri Lettori, è orgogliosa di essere finita nel mirino dei pirati informatici. Significa che diamo molto fastidio a chi promuove i disvalori, la cultura della morte e la dittatura omosessualista. Questi attacchi non ci fermeranno. Anzi, ci rinfrancano nella convinzione che la battaglia che stiamo portando avanti per la Vita e per la Famiglia è di capitale importanza, giusta ed efficace! Quindi non sarà certo ProVita a tirarsi indietro: la viltà delle persone che si nascondono dietro una tastiera non fermerà la Verità. Il primo Albergo Etico d’Italia è stato inaugurato ad Asti e viene gestito interamente da personale con la Sindrome di Down. Ci sono 21 camere e servizi per tutti i clienti, ma in particolare per quelli con disabilità intellettive e fisiche. L’albergo offre inoltre momenti di intrattenimento e di svago pensati appositamente per persone con disabilità di diversa natura. Tra questi, attività di vendemmia, itinerari culturali e percorsi gastronomici per scoprire le bellezze e i sapori della campagna circostante, che sono, ovviamente, accessibili a tutti. Le persone non vedenti, inoltre, possono avvalersi di mappe tattili della struttura, mentre gli ospiti con mobilità ridotta possono beneficiare di tutte le comodità e agevolazioni per spostarsi con facilità. “Definire il Family Day reazionario è assolutamente improprio”. “Su come regolare le questioni della vita non si può applicare la coppia progresso-reazione”. “I cosiddetti ‘diritti individuali’ sono sempre stati considerati diritti borghesi, figli del capitalismo”. “Chi ha sempre contestato che venissero trasformate in merce le braccia degli operai ora non può considerare una conquista sociale la mercificazione dell’utero”. “Non è necessario declinare al plurale la famiglia”. Parole pronunciate da Giuseppe Vacca: ex deputato del Pci, filosofo marxista, presidente della Fondazione istituto Gramsci.
Claire Atkins e suo marito Marcus erano sposati da sei anni, quando Marcus ha iniziato le cure ormonali e ha fatto le operazioni di chirurgia plastica per sembrare donna. E ha cambiato nome in Celeste. Gli sposi hanno continuato a vivere insieme con i loro figli: “Siamo alla continua ricerca di qualche uomo che vada bene per entrambe”. Purtroppo non hanno gli stessi gusti. Ha detto Claire ai giornali: “A Celeste piacciono i bei ragazzi ed io preferisco gli uomini un po’ più grassi. Non abbiamo mai dovuto lottare per lo stesso uomo”. Ammettono che la loro non è una famiglia normale... “Vivere in una famiglia senza la figura materna o paterna potrebbe danneggiare il bambino”: lo ha detto il presidente della Società italiana di pediatria Giovanni Corsello: “La discussione sulle unioni civili e la stepchild adoption dovrebbe comprendere anche i profili clinici e psicologici del bambino e dell’adolescente. Non si può, infatti, escludere che convivere con due genitori dello stesso sesso abbia ricadute negative sui processi di sviluppo psichico e relazionale nell’età evolutiva… Studi e ricerche cliniche hanno messo in evidenza che questi processi possono rivelarsi incerti e indeboliti da una convivenza all’interno di una famiglia conflittuale, ma anche da una famiglia in cui il nucleo genitoriale non ha il padre e la madre come modelli di riferimento”. Embrioni geneticamente modificati e utilizzati per la sperimentazione scientifica: accade nel Regno Unito, dove la Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA), l’ente britannico responsabile degli studi sulla fertilità e sugli embrioni, ha autorizzato la manipolazione dei concepiti, accogliendo la richiesta della scienziata Kathy Niakan, che, insieme a un team di colleghi, nei prossimi mesi condurrà i suoi studi presso il Francis Crick Institute di Londra. In pratica, gli embrioni saranno analizzati sette giorni dopo la fecondazione: non saranno destinati a riproduzione e non potranno essere impiantati in una donna. Saranno semplicemente prodotti per poi essere uccisi. Saranno contente le industrie della fecondazione artificiale e le case farmaceutiche. Il loro business è fatto sulla pelle delle persone. Il loro unico interesse è il profitto, e per questo continuano a mentire affermando che dalle cellule staminali embrionali si possono ottenere cure. La scienza però ha sempre smentito.
Lo sapevi che...
Notizie
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La vignetta del mese
di Francesca Gottardi
A distanza di pochi giorni, lo scorso mese, ProVita Onlus e il Senatore Malan hanno indetto due conferenze stampa a Palazzo Madama: in una si è posta l’attenzione sull’aberrante pratica dell’utero in affitto, grazie alla toccante – e sconvolgente – testimonianza di Elisa Anne Gomez, madre surrogata pentita, vittima della moderna schiavitù; nell’altra, in nome della tutela del diritto alla salute femminile, si è denunciata la turpitudine del commercio di ovociti. Il prof. Pino Noia, del Policlinico Gemelli di Roma, ha spiegato i danni che derivano dall’iperstimolazione ovarica e Toni Brandi ha mostrato il documentario Eggsploitation, di Jennifer Lahl. Secondo la teoria gender ognuno ha diritto di essere ciò che si sente di essere. Uomo, donna, trans … Già ha fatto il giro del web la foto di Stefonknee Wolscht, nato Paul più di mezzo secolo fa, che si sente una bambina di 8 anni: quindi non solo transgender, ma anche trans-ager. Ora pare che in Norvegia una ragazza di 20 anni rivendichi il diritto di essere considerata un gatto (trans-specie): un gatto imprigionato nel corpo di una ragazza. Perché lei – dice – “è nata così”. Già dal 2012 gli atleti transessuali maschi, operati per sembrare femmine, erano stati ammessi a gareggiare tra le donne, ma era necessaria l’avvenuta castrazione e almeno due anni di terapia ormonale. Alle prossime Olimpiadi di Rio, invece, sarà consentito gareggiare tra le donne anche ai transgender che non hanno fatto l’operazione cruciale. Si richiede solo che i loro livelli di testosterone siano certificati sotto la soglia normale per gli uomini per un anno. D’altro canto, dal 2003, l’“iperandrogenismo”, era stato ritenuto un vantaggio ingiusto per le atlete di sesso femminile. Quindi, i maschi “trans”, che sono nati e cresciuti maschi (con livello di ormoni androgeni da maschi) possono competere con le donne, mentre le donne che – anche per natura – avessero troppi ormoni androgeni nel sangue saranno escluse. Ci vogliono almeno 15 anni per smaltire completamente gli effetti di 20 anni di testosterone naturale nel sangue, l’imprinting del cervello maschile (o femminile) non cambia, è diversa la carica di aggressività e competitività, ma, insomma, non preoccupiamoci troppo di doping o altro: l’importante è partecipare.
Dopo la grande piazza del Family Day, come di consueto, è partita la “guerra dei numeri”. Quante erano le persone a Roma? Solo una cosa è certa: al Circo Massimo, c’era solo una piccola rappresentanza del popolo del Family Day. Tante altre persone, grandi e piccine, erano invece presenti in un’altra maniera, non fisica: perché XX + XY fa “infinito”! Non c’è ideologia che tenga di fronte a questa affermazione, che interessa la storia di tutti noi. No alle adozioni gay in Portogallo: il Presidente della Repubblica, Aníbal Cavaco Silva, di centro-destra, ha posto il veto su due leggi approvate dalla maggioranza di sinistra nei mesi scorsi: quella che consente alle coppie omosessuali di adottare bambini e quella che elimina le piccole restrizioni all’aborto volute dal precedente governo di centro-destra. In Portogallo il ‘matrimonio’ gay è legale sin dal 2010 e sul fronte vita e famiglia la situazione è tutt’altro che buona. Ma proprio per questo quello di Cavaco Silva è un atto molto significativo. A Parigi, nella sede dell’Assemblea Nazionale, al termine della Conferenza de La Haye, Organizzazione impegnata nella difesa dei diritti umani e della famiglia, è stata firmata la Carta per l’abolizione universale dell’utero in affitto. Al convegno hanno partecipato intellettuali di diversa estrazione politica, laiche e cattoliche, femministe di lunga militanza, attiviste lesbiche: Marie-Josephine Bonnet e Sylviane Agacinski, tanto per fare due nomi.
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Giulia Tanel
Laureata in Filologia e Critica Letteraria, scrive per passione. Collabora con www.libertaepersona.org e con altri siti internet e riviste; è inoltre autrice, con Francesco Agnoli, di Miracoli - L’irruzione del soprannaturale nella storia (Ed. Lindau).
Claudia Cardinale
La donna è forte perché dà la Vita
Lei è Claude Joséphine Rose Cardinale, nota ai più con il semplice nome d’arte Claudia Cardinale. di Giulia Tanel Attrice italiana molto in auge fin dagli anni Sessanta, ha all’attivo una filmografia di primo piano, con partecipazioni in pellicole che sono diventate delle pietre miliari del cinema del Novecento italiano: si pensi a 8 ½ di Federico Fellini, a Il Gattopardo di Luchino Visconti e a C’era una volta il West di Sergio Leone, solo per citare alcuni titoli. Quella di Claudia Cardinale, tuttavia, non è stata una carriera facile. Inizialmente, neanche ventenne, la giovane tunisina frequenta, infatti, per un solo trimestre il Centro sperimentale di cinematografia di Roma, per arrivare a concludere di non essere portata per il mestiere di attrice. La decisione sembrava presa, se non fosse che la Cardinale scopre di essere incinta di un uomo più vecchio di lei di circa una decina d’anni, cui era perversamente legata da quando – diciassettenne – aveva subito da lui una violenza. Fin da subito la promettente attrice è decisa a non abortire. A supportarla in questa decisione trova Franco Cristaldi, produttore cinematografico, il quale le propone dapprima un contratto e, a gravidanza avanzata, la protegge dagli sguardi indiscreti della stampa mandandola a partorire a Londra. Questa soluzione si rivela tuttavia un’arma a doppio taglio per la giovane Claudia Cardinale, già vittima della depressione e animata da pensieri suicidi, la quale si ritrova a non essere più padrona della propria vita: da un lato è costretta a cimentarsi in una carriera che non sentiva nelle sue corde, dall’altra non è libera di rivelare a nessuno la maternità. Patrick, questo il nome del bambino, viene cresciuto in famiglia come un fratello finché, dopo sette anni, il segreto sfuma e la Cardinale sceglie di rivelare al mondo lo scoop affidandosi alla penna di Enzo Biagi. Dal momento della maternità in avanti, i film e i riconoscimenti cui la Cardinale va incontro non si possono enumerare, e la fama della sua bellezza e bravura si diffonde a livello internazionale. Nonostante questo, però, la vita dell’attrice scorre tutt’altro che serenamente.
Già, perché un’esperienza di stupro e una maternità vissuta nel silenzio e negata agli occhi del mondo non sono cose che è possibile dimenticare: “Ha abusato di me. Era un uomo equivoco e violento. Quell’episodio ha segnato in modo indelebile la mia vita”, dirà la Cardinale in un’intervista rilasciata alla rivista Sette a distanza di decenni. Un dolore che l’attrice ha scelto di non relegare nel silenzio, ma che ha affidato alle pagine del diario autobiografico Io Claudia. Tu Claudia (Frassinelli, 2006). Lei, Claudia Cardinale, che nella sua luminosa carriera ha dato parola alle figure femminili le più disparate, in questo scritto rivela al mondo la potente vena di coraggio e di lealtà che l’ha portata a scegliere per la vita, nonostante le pressioni contrarie da parte del padre del bambino: “Mi accompagnò in un luogo assurdo e lì è accaduto qualcosa di terribile e di straordinario: si è interrotta la spirale del terrore, ho trovato la forza e ho rifiutato l’aborto. Sono fuggita senza avere la più pallida idea di come avrei risolto la situazione. Di una sola cosa ero certa: non volevo subire un’altra devastante violenza”.
L’aborto è una violenza per il bambino che viene ucciso, ma anche per la donna che lo porta in grembo e per tutte le persone che le ruotano attorno. Parole chiare, nette. L’aborto è una violenza per il bambino che viene ucciso, ma anche per la donna che lo porta in grembo e per tutte le persone che le ruotano attorno. Invece se si sceglie di dire sì alla vita – anche di fronte alle mille difficoltà sociali, lavorative o economiche che si possono prospettare – non ci si pentirà mai. Una nuova persona è venuta al mondo, e con lei è nata una nuova madre. “Io ho sempre considerato la donna molto più forte dell’uomo, perché la donna dà la vita”: parola di Claudia Cardinale.
Attualità
Notizie
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“Un cattolico che ricopre ruoli pubblici ha più doveri di altri”
Intervista a Lorenzo Fontana, Deputato al Parlamento Europeo, convinto prolife. di Romana Fiory
Abbiamo incontrato, a un convegno prolife, l’Onorevole Lorenzo Fontana, con il quale abbiamo intrattenuto una piacevole chiacchierata. Laureato in Scienze Politiche a Padova, giornalista pubblicista, studia storia all’Università Europea di Roma. Ama da sempre la gente e le tradizioni della sua terra, il Veneto. Nonostante nessuno della sua famiglia avesse mai fatto parte di alcun partito, la passione per la politica l’ha coinvolto molto presto: a soli sedici anni è entrato nella Lega Nord, dove ha sempre militato attivamente. Quando ha cominciato il suo impegno di rappresentante del popolo? Nelle istituzioni ho iniziato la mia esperienza nel 2002, come Consigliere della Terza Circoscrizione di Verona. Nel 2007 sono quindi stato eletto come Consigliere Comunale e, in seguito, al Parlamento Europeo. Il suo impegno presso il Parlamento Europeo in cosa consiste? Sono vicepresidente della Commissione per la Cultura, l’Istruzione e lo Sport e membro sostituto delle Commissioni Affari Esteri e Libertà e Giustizia. Inoltre lavoro nelle delegazioni per le relazioni con Afghanistan e con il Mashreq, nelle delegazioni di cooperazione parlamentare UE-Russia e all’Assemblea parlamentare dell’Unione per il Mediterraneo. Cerco di essere un punto di riferimento per la circoscrizione elettorale del Nord-Est, fornendo informazioni e consulenze sulle opportunità finanziarie, di studio e di lavoro offerte dall’UE e aprendo dialoghi diretti con persone, imprese, università, enti pubblici e privati. Parte del mio impegno istituzionale è rivolto anche alla promozione attiva del territorio, organizzando manifestazioni finalizzate a far conoscere la nostra terra in Europa.
Tra i miei maggiori interessi c’è la promozione delle autonomie locali, con le loro lingue e culture, e la tutela delle minoranze cristiane nel mondo.
La vita democratica ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire di principi etici che per loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili. I “valori non negoziabili” esistono ancora? Non ne parla più nessuno... Il mainstream che forma l’opinione pubblica tende volontariamente a tacere. Il fatto è che viviamo in un’epoca ‘liquida’, un’epoca di relativismo morale travestito da un falso pluralismo, dove vale tutto e niente, dove le opinioni più disparate si sommano e poi non resta più nulla. Con questo sistema di ‘non valori’ il rischio di una degenerazione della società è concreto perché – come scriveva l’allora Cardinale Joseph Ratzinger nella Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, emanata il 24 novembre 2002 – “[...] la vita democratica ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili”. E la vita è un valore non negoziabile! Per questo non si deve cedere a discutibili compromessi quando vogliono facilitare la pratica dell’aborto con il libero e immediato accesso, oppure quando si parla di eutanasia e di fine vita, o ancora quando si mette in discussione la tutela e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso.
L’Adige attraverso Verona
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L’ambiente politico, soprattutto presso il Parlamento europeo, è caratterizzato da una forte componente laicista che ogni giorno si adopera per la disgregazione relativista della società. Esiste uno schieramento trasversale compatto che si oppone a questa deriva relativista e difende il valore alla vita? C’è un gruppo compatto, ma piccolo, nell’area del centrodestra. Purtroppo è difficile fare sponda con la sinistra su questi temi. La sinistra è quasi sempre conformista e allineata ai mass media, che spesso attaccano, se non addirittura sbeffeggiano, chi difende i valori non negoziabili. Come è stato possibile che sia passato l’emendamento contro l’utero in affitto in un documento che per il resto promuove l’omosessualismo e l’aborto?
Lorenzo Fontana
Un cattolico come lei come vive il mandato di Deputato Europeo? Un cattolico che ricopre ruoli pubblici e politici ha più doveri di altri. La tensione morale e il senso di responsabilità derivati da tale consapevolezza mi accompagnano ogni giorno, e ancor di più nell’ambiente politico e nel contesto Europeo, caratterizzato da una forte componente laicista che ogni giorno prova ad aggiungere un nuovo tassello alla disgregazione relativista della società. Si riferisce in particolare alle molteplici iniziative abortiste e omosessualiste? Sì, da anni si rincorrono risoluzioni e relazioni di diversi europarlamentari, sovente di area socialista o liberale, per un riconoscimento a livello europeo di un ‘diritto all’aborto’, del ‘matrimonio’ tra persone dello stesso sesso, della ‘genitorialità LGBT’, della maternità surrogata attraverso la fecondazione artificiale per tutti, e infine dell’educazione sessuale a scuola. Peraltro, tali risoluzioni sono in contrasto con il principio di sussidiarietà sancito dai Trattati, per i quali certe materie sono di competenza degli Stati. Tuttavia il problema è soprattutto etico. Tutte queste iniziative, infatti, mirano dichiaratamente a rendere immediato l’accesso alla contraccezione e all’aborto – e quindi, di fatto, a indebolire tutti i filtri del caso (si pensi, ad esempio, agli obiettori di coscienza) – e a minare alla radice e a relativizzare il concetto di famiglia e di genitorialità.
Sull’emendamento c’è stata una divisione all’interno del gruppo socialista, con una parte che si è ribellata e ha votato contro. Il motivo? Non certo la difesa del diritto alla vita e quindi una sensibilità per l’interesse del ‘locatario’ dell’utero, cioè il bambino, ma solo per un cedimento alla pressione del movimento femminista che denunciava – in questo caso giustamente – la disumanità della pratica per le donne ‘affittuarie’. Tuttavia avrei chiaramente preferito che il voto contrario fosse per entrambi i motivi, il bambino e la donna, invece al bambino non ci hanno pensato. Infatti, l’intero gruppo socialista in seguito ha votato allineato a favore de ‘l’accesso agevole all’aborto’ e de ‘l’accesso a istituti giuridici quali il matrimonio per le persone LGBT’.
Lo slovacco Miroslav Mikolasik ha dovuto limitarsi a denunciare lo sfruttamento delle donne senza riferimenti al bambino, in modo da prendere qualche voto a sinistra… Infatti, proprio riguardo all’utero in affitto, nell’emendamento era menzionato lo sfruttamento delle donne, ma non si è fatto nessun riferimento alla violenza che subisce il bambino e allo svilimento della sua dignità di essere umano... Questa omissione è la cartina di tornasole del relativismo etico dell’Unione Europea cui accennavo prima. Pur di far passare l’emendamento contro l’utero in affitto e ottenere il suo scopo, il deputato che lo ha presentato, lo slovacco Miroslav Mikolasik, ha dovuto limitarsi a parlare dello sfruttamento delle donne senza fare riferimento al bambino, in modo da prendere qualche voto a sinistra e ottenere la maggioranza parlamentare.
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Una testimone davvero eccezionale
Abbiamo avuto l’onore e il privilegio di ricevere una lettera dalla moglie del compianto Giuseppe Garrone: più di venticinque anni dedicati alla difesa della Vita, dal suo inizio nel grembo materno, e all’aiuto concreto delle donne in difficoltà. di Margherita Borsalino Garrone Caro Brandi, conosco bene come sono nati il “Cassonetto per la vita” (poi “Culle per la Vita”), il numero “SOS Vita” e il “Progetto Gemma”: sono la moglie di Giuseppe Garrone. “Progetto Gemma”, l’ultimo in ordine di tempo, iniziato nel 1994, non fu opera esclusiva di Giuseppe. Un team di quattro indefessi amanti del bimbo non ancora nato, dell’invisibile figlio dell’uomo, lavorò intensamente per organizzare uno strumento agile ed efficace di adozione prenatale a distanza. Primo ideatore è Mario Paolo Rocchi, poi Francesco Migliori, presidente del Movimento per la Vita Italiano, nella cui casa accogliente a Milano la moglie Annamaria preparava il pranzo per i quattro amici (gli altri due sono Silvio Ghielmi e Giuseppe Garrone).
La nascita del Progetto Gemma
La foto mostra i nostri quattro all’uscita della cappella del cimitero di Mesero, dove venne celebrata una S.Messa e affidato all’intercessione della Beata Gianna Beretta Molla il “Progetto Gemma”. La futura santa se ne prese cura in modo particolare: i risultati furono al di là di ogni aspettativa.
Il Progetto Gemma è una sorta di adozione prenatale a distanza, grazie alla quale la mamma in difficoltà riceve un contributo economico mensile. Nel 2014 ha salvato 21.000 bambini (e le loro mamme!).
Il “Cassonetto per la vita” nacque a Casale Monferrato per iniziativa, questo sì, di Giuseppe. Il nome manifesta la ragione della sua nascita: il ritrovamento di un neonato nella spazzatura. L’annuncio ascoltato al giornale radio era quanto di più meschino e ipocrita si possa immaginare, una presa di posizione colpevolizzante verso la madre per l’abbandono, e per di più nella spazzatura: veniva descritta come un’abietta, rea di un delitto tanto crudele e raccapricciante. A Giuseppe immediatamente parve necessario far luce su tanta ipocrisia: “Dove finiscono i resti degli aborti? È forse più elegante la fogna, o sono più accoglienti i sacchi dei rifiuti ospedalieri? Sì, perché abortito a tre, quattro o cinque mesi di vita, oppure ucciso dopo aver visto la luce, dove sta la differenza? Questo è un uomo!”. A ottobre si fece un Convegno, vennero alla luce i numeri agghiaccianti dei ritrovamenti e tanto altro, compresa la storia delle benemerite “Ruote degli esposti”, con tanto di nomi dominanti (Esposito, Esposto, Trovato, Amato, etc.) e si vide come questo semplice strumento aveva partecipato alla difesa della vita di tanti italiani, anche famosi (Zeffirelli, per esempio). Gli ostacoli al primo “Cassonetto per la vita” vennero dall’interno e dall’esterno. Parte del mondo cattolico valutò questa ‘reinvenzione’ della “Ruota degli esposti” una reminiscenza medioevale e non permise l’apertura del varco necessario nel muro del CAV-MpV di Casale, per motivi sanitari. Femministe e politici mossero la Magistratura con un esposto alla Procura da parte di un deputato locale. Come sempre, a suo tempo naturalmente, la Verità trionfa e lo si vede dai frutti. Tanto inspiegabile impedimento ad aprire lo spazio per la Ruota, riguardo al muro di proprietà d’altri, convinse Giuseppe che era necessario avere la proprietà della sede. Da lì vennero meraviglie! Meraviglie della Provvidenza! Fino alla casa di pronta accoglienza per mamme in attesa. L’esposto alla Magistratura, poi, una volta terminata l’inchiesta, fu una liberatoria: infatti, sulla base delle motivazioni di quell’archiviazione, sono fondate oggi tutte le altre aperture di ‘culle’ o ‘cassonetti’ che dir si voglia, in tutta Italia (oggi sono una quarantina). Già allora Giuseppe era ben consapevole che una o quaranta ‘culle’ non avrebbero impedito l’abbandono, perché diceva: “Il cassonetto si trova a ogni angolo, mentre una donna disperata, assalita dall’angoscia, in cerca di una via di fuga per nascondere l’avvenuta maternità, difficilmente arriva a una culla per la vita”.
Primo Piano
Nonostante questo, la ‘culla per la vita’ è stata la salvezza per molti neonati, ma gli abbandoni sono ancora numerosissimi, né sappiamo quanti sono quelli che non vedremo mai. Quindi le ‘culle per la vita’ sono e restano una provocazione per la nostra civiltà inumana; sono fatte per invitarci a riflettere, e Dio non voglia che la conclusione sia: “Meglio se avesse abortito”. Per l’esperienza che ho io, ed è anche quella che Giuseppe ha sempre sostenuto, si può dissuadere la donna in difficoltà economica o povertà esistenziale, sostenendola con il “Progetto Gemma” oppure, come succede in Piemonte, con lo “Zainetto per la Vita”, e tutto il sostegno amichevole che possono offrire le operatrici dei Centri di Aiuto alla Vita (CAV)… ma per la donna che sostiene che l’aborto è un suo diritto e che nessuno deve entrare nella sua libertà? Come salveremo suo figlio e lei? Perché l’aborto quasi sempre uccide due persone… Nessuno è meno libero di chi è in uno stato di ansia e di paura, magari anche con la depressione e la nausea dei primi mesi di gravidanza. Chi cerca aiuto al consultorio trova facilmente come risposta il certificato di IVG. Dunque è necessaria un’opera di diffusione prima di tutto della presenza dei CAV e della loro disponibilità, quindi un’opera culturale che diffonda rispetto e conoscenza dei primi giorni di vita. “Chi è l’embrione” e non “che cosa è”. Davanti a questo forse si capisce perché, dopo la nascita del primo CAV a Firenze per opera del caro Mario Paolo Rocchi, venne la fondazione del Movimento per la Vita (MpV), ad opera specialmente Esattamente un primo annoinsuperabile fa, il 3 febbraio di Francesco Migliori, presidente che 2011, connotò moriva l’opera delanascente prolife Casalevolontariato Monferrato con questo binomio: CAV e MpV, due facce dell’unica Giuseppe Garrone, indimenticabile proposta di difesa del figlio non ancora nato. Ilprotagonista MpV nasce perdiun’opera educativapro chelife rifondi mille battaglie in sul diritto naturale il diritto alla vita e che, nello stesso Italia, impegnato da tempo nel tempo, accolga ogni studio scientifico che dimostri l’umanità del concepito. Movimento per la vita italiano, sia a Dunque ritengo che i CAV che operano con più livellonon locale nazionale, e fondatore successo, solo che come attività assistenziale, sono corroborati e sostenuti dall’attività di informazione, del comitato Verità e Vita. Elena Baldini, formazione e diffusione di un efficiente MpV. chepiù ha lavorato accantoila lui, lo Tanto che, se a lungo consideriamo numero incalcolabile di questo aborti toccante prodotti scientificamente racconta in ricordo. dalla fecondazione artificiale, ci accorgiamo di come – insieme agli aborti chimici della RU486, della pillola È trascorso ormai un anno da quando del giorno dopo, etc. – ci troviamo spesso di fronte Giuseppe èdipartito perl’aborto. la Casa del Padre. all’impossibilità prevenire le 19:00 del venerdì 3 mettere febbraio, noi SoloErano una rivoluzione culturale può uneargine a questo genocidio sconosciuto. eravamo indaffarati a sistemare le primule Il problema è: da dove cominciare? Certo, con i giovani. per l’imminente Giornata per la Vita. Ma Ma con quali strumenti? Non è questo il momento per non una c’erarisposta, la solitamaatmosfera della cercare sono certafestosa che abbiamo circostanza. Si lavorava in ha punta di a perduto alcune opportunità chequasi la storia messo nostra disposizione. piedi, perché sapevamo che l’amico ci stava
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Infine c’è “SOS Vita”, che nasce come proposta alternativa dopo il Convegno sull’abbandono dei neonati. Immediatamente emerge che la risposta di “SOS Vita” è duplice: aiutare la mamma in crisi di fronte alla gravidanza indesiderata e accogliere con attenzione e disponibilità il pianto o la muta invocazione d’aiuto della mamma e anche del papà che, dopo l’aborto, sono caduti in depressione o hanno addirittura tentato il suicidio, a causa di un lutto nascosto magari per anni e mai elaborato.
Il ‘protocollo’ elaborato da Garrone era fatto di ascolto, verità, fede e speranza e ha ridato la vita a molti. A questo proposito vorrei sottolineare come Giuseppe, proprio grazie al suo ininterrotto contatto con molte donne vittime dell’aborto, abbia elaborato un ‘protocollo’ fatto di ascolto, verità, fede e speranza, che ha ridato la vita a molti. Il suo libricino Oltre la morte...la vita (si veda a p. 31) è uno strumento semplice, ma che può ancora servire per iniziare il lungo cammino di rinascita dopo l’aborto volontario. Sono molte le ricchezze che Giuseppe ci ha lasciato, per questo mi sono sentita in dovere di comunicargliene una piccola parte.
In ricordo di Giuseppe Garrone
lasciando. E così vogliamo ricordarlo: un vero giovane aperto alla vita e pronto a dare e fare di tutto pur di salvarne anche una sola.
La ringrazio per l’attenzione e le auguro di proseguire con slancio la sua preziosa attività. Margherita
Giuseppe Garrone (1939 - 2011)
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Antonio Brandi
Foto: jarmoluk
Imprenditore di professione, si dedica alla difesa dei diritti dei più deboli per passione. Per dar voce a chi non ha voce ha fondato e dirige Notizie ProVita.
Chi salva i bambini, salva le madri
Testimonianze dai Centri di Aiuto alla Vita, che offrono aiuti concreti e salvano vite di bambini e di donne, lontano dal palcoscenico mediatico caro alla cultura della morte. di Antonio Brandi Almeno 10.000 bambini nati e oltre 30.000 donne assistite nel solo 2014: questa è l‘opera dei 355 Centri di Aiuto alla Vita operanti in Italia. Il rapporto annuale che viene pubblicato sul sito del Movimento per la Vita illustra grafici, tabelle e statistiche di un’opera vasta e meritoria, che non fa notizia, mai, sulle prime pagine dei ‘giornaloni’ politicamente corretti: alla cultura della morte non interessa chi vive per la Vita. Rimandando i lettori ad approfondire i dati sul sito www.mvp.org, vogliamo qui semplicemente sottolineare che la presenza dei CAV è in costante crescita: negli ultimi vent’anni, dal 1995 al 2014, in tutto il territorio nazionale, il loro numero è aumentato del 57%: dai 226 CAV operanti nel 1995 siamo passati ai 355 dello scorso anno. Quanto alla distribuzione territoriale, al Nord i CAV sono aumentati del 25%, mentre al Centro e al Sud sono più che raddoppiati e nelle Isole sono quasi triplicati. L’attività dei CAV è volta alla tutela della vita umana, non solo dei bambini, ma anche delle madri. Perché tra i due c’è un legame inscindibile: chi aiuta i bambini, aiuta le madri. Ovviamente, però, il dato che salta più all’occhio e dà speranza è costituito dai 134.851 bambini nati negli ultimi vent’anni; cifra che si può ragionevolmente arrotondare a 170.000, perché non sempre i dati sono riportati puntualmente da tutti i CAV. Il numero medio dei bambini nati per ogni CAV è dunque quasi triplicato.
Quanto alle donne assistite, nel 2014, sono state 21.000 le mamme che hanno beneficiato dell’aiuto del “Progetto Gemma”. Oltre a queste sono state assistite altre 20.000 donne, 94 in media per ciascun CAV. Elaborando i dati nel complesso, risulta che in questi vent’anni i CAV e gli Enti a essi collegati hanno aiutato circa 600.000 donne, delle quali poco meno della metà gestanti. Ogni donna assistita si presenta ripetutamente (almeno 10-12 volte nel corso di un anno) a un Centro. Circa il 2% delle gestanti ha potuto usufruire di ospitalità in case di accoglienza, oppure presso famiglie, o ancora in case in affitto dei CAV.
Almeno 134.000 bambini nati e circa 600.000 donne assistite dal ’75 ad oggi, dei quali 10.000 bambini e 40.000 donne nel solo 2014. Tra le prestazioni assistenziali fornite, le più frequenti sono: gli aiuti in natura; l’assistenza sociale, psicologica e morale; gli aiuti in denaro; e l’assistenza medica.
Ancora troppo pochi sono i CAV convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale o con i Comuni, e in ogni
caso troppe sono le incombenze burocratiche richieste che appesantiscono inutilmente, sia da un punto di vista economico che organizzativo, l’attività dei CAV.
Primo Piano
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Si legge sul rapporto citato un invito condivisibile sulla necessità di maggior supporto da parte della Pubblica Amministrazione: “La rilevanza sociale dell’attività svolta da quarant’anni e documentata anche dai dati sopra commentati, legittima la richiesta di riconoscere il vero ruolo dei CAV che consiste nel salvare vite umane evitando che la donna ricorra all’aborto, e non solo nell’erogare assistenza che resta compito primario della Pubblica Amministrazione e di altre Associazioni di Volontariato con le quali il Movimento per la Vita e i Centri di Aiuto alla Vita auspicano una sempre maggiore collaborazione”.
Il vero ruolo dei CAV dovrebbe consistere nel salvare le donne e i bambini dall’aborto, ma spesso si trovano a dover erogare un’assistenza che dovrebbe essere compito primario della Pubblica Amministrazione e di altre Associazioni.
Ma, andando oltre questi dati tecnici, l’esperienza dei CAV è profondamente umana. È fatta di incontri, anche dolorosi, e di problemi, non sempre felicemente risolti. Comunque è una tessitura continua di rapporti umani, che arricchiscono coloro che ne sono protagonisti. Abbiamo quindi raccolto storie, testimonianze, esperienze di vita di quanti prestano la propria opera di volontariato nei CAV. Leggendo le loro vicende emergono da un lato il prezioso lavoro discreto e determinante che i volontari dei CAV conducono ogni giorno per ‘aiutare la vita’ a nascere e a crescere; dall’altro purtroppo siamo costretti a registrare quanto questo lavoro sia vieppiù necessario in un mondo sempre più votato alla cultura della morte, tanto che si industria a prospettare l’aborto quale soluzione facile, veloce e desiderabile, persino in violazione della legge 194 attualmente vigente in Italia. Nella prima testimonianza, donataci dal CAV di Pinerolo, in provincia di Torino, vedremo come, in una struttura pubblica, si sarebbe trovato il modo di far abortire una donna in stato di gravidanza molto avanzata: non solo praticando un infanticidio, ma mettendo anche ad alto rischio l’incolumità fisica della stessa madre.
ECCO IL CONTRIBUTO DI CRISTIANA E ISABELLA. Alla ventitreesima settimana di gestazione, al bimbo fu diagnosticata una grave malformazione cardiaca che lo avrebbe portato ad aver bisogno di svariate operazioni appena nato. I medici consigliarono alla madre di abortire, anche fuori legge: era la soluzione ‘migliore’, anche se fuorilegge! Lavorare in un CAV vuol dire assistere in diretta a veri e propri miracoli. Era un tranquillo pomeriggio di giugno quando, con una telefonata della nostra amica Donatella, questa storia ebbe inizio. Infatti lei, sapendoci volontarie del CAV-MpV pinerolese, ci chiese di accompagnare una sua amica camerunense, alla seconda gravidanza, a fare l’ecografia morfologica. Accettammo di buon grado e così abbiamo conosciuto Nadia, una donna giunonica e statuaria con una figlia di due anni paragonabile a un terremoto e una bella pancia tonda. Dopo la morfologica ci dissero che il piccolo era un maschietto, ma anche che era necessaria un’ecografia di secondo grado per fare degli accertamenti circa una possibile malformazione del cuore. Ci attivammo quindi subito per prenotarne una al Sant’Anna di Torino, specializzato in diagnostica pre-natale. Alla ventitreesima settimana, grazie a questa ecografia, la diagnosi fu certa: il bimbo aveva una grave malformazione cardiaca, che lo avrebbe portato ad aver bisogno di svariate operazioni appena nato. A Nadia, insieme al marito, venne prospettata la vita grama che sarebbe toccata al loro bambino. Gli chiesero quale senso avesse farlo nascere, visto che – a detta loro – non avrebbe mai nemmeno potuto fare una corsa o una passeggiata in montagna, a causa di questi suoi problemi. La proposta dei medici fu quella di abortire. Solo che c’era una complicazione: il limite per ricorrere all’aborto terapeutico in Italia è posto a venti settimane, e la nostra amica ormai le aveva abbondantemente superate.
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E qui restammo basite: Nadia ci ha raccontato che le hanno detto di non preoccuparsi, che l’avrebbero accompagnata in Francia dove ancora era possibile ‘intervenire’. Piuttosto che rischiare di farle mettere al mondo un ‘prodotto imperfetto’, sarebbero stati disposti anche a pagarle il viaggio e ad accompagnarla in un’altra nazione per disfarsi della sua creatura. Lei non sapeva cosa fare: suo marito spingeva nella direzione consigliata dai medici e la paura di fronte alle prospettive di vita che gli specialisti avevano dipinto per suo figlio la facevano titubare. Dopo molti discorsi e tante preghiere, Nadia decise di tenere il bambino e lo comunicò al marito. La reazione di lui fu tutt’altro che positiva: se voleva tenerlo non avrebbe dovuto coinvolgerlo in nulla che riguardasse il bambino, e tantomeno chiedergli di sborsare denaro. Ma lei aveva noi accanto, e forte di questo non si lasciò abbattere. Così iniziammo questa splendida e faticosa avventura. Per prima cosa le abbiamo prenotato una visita dalla dottoressa Agnoletti, primario di cardiologia dell’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino. Lei, dopo un attento studio del caso, ci comunica la bella notizia: il bimbo avrà sì bisogno di fare delle operazioni appena nato, anche molto rischiose, ma in caso di successo avrebbe potuto trascorrere una vita perfettamente normale; l’unico limite dato dal difetto al cuore sarebbe stato verso gli sport a livello agonistico, ma a livello amatoriale avrebbe potuto fare qualsiasi cosa desiderasse. Nel sentire questo il nostro cuore si scalda, e siamo ancora più spronate a proseguire in tutta la serie di visite che il caso richiede.
Ci troviamo quindi ad accompagnare Nadia ogni quindici giorni al reparto di cardiologia neonatale del Regina Margherita. Qui abbiamo scoperto un reparto meraviglioso con personale eccellente, sempre attento e disponibile a soddisfare ogni esigenza delle mamme e dei piccoli: abbiamo conosciuto delle persone meravigliose. Finalmente, il 22 gennaio 2015, con un parto cesareo viene al mondo Daniel. Il caso è talmente delicato che riusciamo anche a farlo battezzare in ospedale. Due giorni dopo subisce il primo intervento per permettergli di vivere e noi aspettiamo pregando e sperando che tutto vada bene. Dopo quindici giorni di ricovero, il piccolo può tornare a casa. Nadia è sempre felice e sorridente, come lo è stata per tutta la durata del suo calvario. Resta a casa una settimana e poi abbiamo un’altra visita di controllo. Purtroppo l’esito non è buono: è necessario ricoverare di nuovo Daniel, in quanto il primo intervento non ha dato i risultati sperati. Si procede quindi con un secondo intervento, questa volta una plastica vera e propria per dare al piccolo il cuore di cui ha bisogno. L’intervento riesce bene e il bimbo risponde alle cure in maniera adeguata, mangia nel modo giusto e Nadia ha tanto latte, nonostante la tensione che avrebbe steso chiunque. Tornano di nuovo a casa dopo quindici giorni e Daniel sta benissimo, cresce normalmente ed è bello come il sole. Continuano le visite di routine e, appena compiuti i tre mesi, Daniel subisce il terzo e ultimo intervento al cuore. Vista la sua forza e il suo crescere bene, raro nei bimbi con questi problemi, anche questa operazione riesce come da manuale e il piccolo sta bene. Anzi, sta più che bene! Ora ha un anno, è un bambinone ed è l’orgoglio di suo padre che, vedendo la tenacia di sua moglie, non può fare a meno di vantarsi con chiunque gli capiti a tiro di quanto sia bello e forte suo figlio, che in un anno di vita ne ha passate tante e tutte difficili. Nadia è felice e continua ad avere il sorriso calmo e forte che l’ha contraddistinta in tutti i mesi d’ospedale, e che l’ha resa spesso un esempio per le altre mamme nella sua situazione. Le visite e le operazioni non sono finite, ma ora sappiamo che il peggio è passato e questo bimbo meraviglioso potrà avere la vita felice che ogni madre desidera per il proprio figlio.
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È stato un onore poter contribuire e assistere a questo miracolo e siamo grate a Nadia perché ce ne ha dato la possibilità. Vedere Daniel crescere e sorridere è una grande gioia, e per questo ringraziamo il Signore che ha dato a sua madre la forza di lottare e andare avanti nonostante tutto.
DAL CAV DI BENEVENTO, CI SCRIVE IL PRESIDENTE, CARLO PRINCIPE. Quelle che raccontiamo sono solo alcune delle oltre 400 storie di bambini strappati all’aborto in ventitré anni di servizio del Centro di Aiuto alla Vita di Benevento. Storie di altrettanti “Sì” alla Vita di mamme che hanno riflettuto sull’iniziale decisione dell’aborto grazie alle parole di amicizia rivolte a loro dalle volontarie incontrate davanti al reparto “IVG pianificazione familiare”, triste eufemismo per nascondere la realtà di 600 bambini uccisi ogni anno nell’ospedale “G. Rummo” di Benevento. La prima è la storia di M., accompagnata dal convivente che lavora stagionalmente come bracciante agricolo e senza alcun contratto di lavoro. Con un affitto da pagare, un permesso di soggiorno solo provvisorio e senza assistenza sanitaria, di fronte alla prospettiva di un figlio i due avevano deciso per l’aborto. Era soprattutto il compagno a spingere M.: “Se stai male, senza medico, come farai?”, le diceva. Ma la vicinanza della volontaria che le promette visite mediche gratuite e un aiuto economico (grazie a un “Progetto Gemma”), rasserena M. Poi il compagno, sempre ostile (fino alla minaccia di abbandono), cambia idea di fronte alla nascita di un bellissimo bambino. Quella di K., invece, è una storia di povertà estrema. Sposata con quattro figli, è in attesa del quinto. È già assistita dal CAV per l’ultimo di appena nove mesi. Il marito non riesce a trovare lavoro stabile e si arrangia con parcheggi e richieste di aiuto ai servizi sociali e alla Caritas. Inoltre per lei si prospetta un quinto parto cesareo. Con la mentalità anti-vita di oggi, K. avrebbe tutti i motivi per abortire.
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Invece ha tenuto nascosta questa gravidanza al marito, contrarissimo a un altro figlio, temendo che l’avrebbe spinta all’aborto. Cosa che ha fatto non appena l’ha saputo, ma ormai era troppo tardi: la gravidanza era oltre il terzo mese. Contrariato, l’uomo se la prende – non a torto! – con il CAV, che avrebbe influenzato la decisione della moglie, pretendendo un aiuto concreto. Quando viene a sapere di attendere una bambina, dopo quattro figli maschi, non è più nei suoi panni per la gioia. Nasce una splendida bambina, capelli biondi e occhi azzurri. Un “Progetto Gemma”, pannolini e alimenti sono stati l’aiuto concreto che il CAV ha offerto ai due genitori e alla loro bambina.
Con poco meno di dieci volontari, il CAV di Benevento ogni anno salva circa 15 bambini e 15 mamme dall’aborto. In più, secondo i dati dell’ospedale “G.Rummo”, almeno 40 o 50 mamme cambiano idea dopo la prenotazione dell’IVG: chissà quanto è stata determinante la parola buona o l’opuscolo informativo che hanno ricevuto dalle volontarie del CAV…
Con poco meno di dieci volontari, il CAV di Benevento è presente, grazie a una convenzione, presso l’ospedale “G. Rummo” per incontrare e stare accanto alle donne tentate di rifiutare loro figlio, e per convincerle che l’aborto è un’azione ingiusta: non solo viola la sacralità di una vita, ma è anche dolorosa per la madre che lo compie. Oltre alle quindici mamme che, ogni anno, dopo un colloquio, sono dissuase ad abortire, altre 40 o 50 donne, secondo i dati dell’ospedale, cambiano idea dopo la prenotazione. Anche per queste mamme il CAV non è del tutto estraneo al loro “Sì” alla Vita: quasi tutte ricevono dalle volontarie almeno una parola buona e un opuscolo informativo inneggiante alla Vita, che possono aver acceso in loro la scintilla del “Sì” alla Vita. Tuttavia c’è un’altra, e più numerosa, galassia di mamme: quelle che cercano nel CAV solo un aiuto per crescere il figlio. Sono circa 60 o 70 all’anno (1.300 dal ’92), e solo Dio sa in che misura la presenza del CAV abbia allontanato in loro un’eventuale tentazione di abortire. Il servizio alla Vita del CAV di Benevento non si esaurisce in ospedale. Esso è accompagnato da un’intensa azione di sensibilizzazione, promuovendo la partecipazione a diverse iniziative come la Marcia Nazionale per la Vita, le Feste per la Vita, conferenze nelle scuole e ai corsi per fidanzati, stampa di manifesti e dépliant, etc. Il sito www.centrodiaiutoallavitabenevento.it illustra nel dettaglio tali iniziative.
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Anna Maria Pacchiotti
Presidente dell’associazione
“Onora la Pacchiotti, Vita Onlus”. Anna Maria presidente : www.onoralavita.it dell’associazione “Onora la Vita onlus”.
SOS VITA è un numero verde 8008-13000 e ha un sito web con cui si può comunicare on line www.sosvita.it
: www.onoralavita.it
All’ospedale Sant’Anna di Torino
“Onora la Vita” è una delle associazioni che collabora attivamente con i CAV. di Anna Maria Pacchiotti È una bella mattinata estiva. Dopo aver dato regolare comunicazione alla Prefettura, con alcuni Associati di “Onora la Vita” e alcuni amici dei CAV di Torino e dintorni, ci troviamo di fronte all’Ospedale Sant’Anna. Qui lavora come primario il dottor Silvio Viale, noto esponente del Partito Radicale e dell’Associazione Luca Coscioni. È inoltre stato il primo sperimentatore, nel 2005, della RU486: solo in seguito, nel 2009, essa è divenuta un farmaco legale in Italia (nonostante gli effetti collaterali, anche mortali, per le donne).
Con l’avvicinarsi delle vacanze estive, sono molte più del solito le coppie che decidono di ‘disfarsi’ di quel bambino ‘scomodo’. Iniziamo un approccio educato e gentile con i passanti. Qualcuno scuote il capo e tira dritto; alcune donne danno certe ‘risposte acide’ che fanno sospettare ferite interne e profonde derivanti da precedenti aborti procurati. Molti condividono le nostre idee; qualcuno inizia con noi una fattiva collaborazione. Verso le 10:30 si avvicina a noi un medico inviato dal dottor Viale, venuto a conoscenza della nostra presenza, il quale ci vieta assolutamente di salire anche uno solo degli scalini d’accesso all’anticamera. Rispondo: “Egregio dottore, la nostra presenza è autorizzata dalle Autorità e garantita dall’articolo 21 della Costituzione a proposito di libertà di espressione, sia con parole che tramite scritti. Ad ogni modo, possiamo continuare a operare sul marciapiede, se crede: non cambia nulla. Noi rimaniamo qui come è nostro diritto!”. Si allontana bofonchiando... Poco dopo, invece, riesco a intrufolarmi all’interno, da sola: inizio a depositare opuscoli sulle poltroncine dell’anticamera e ad attaccare adesivi “SOS VITA” nei bagni. Poi salgo al primo piano, nella ‘tana del lupo’. La scena che mi si presenta è impressionante. Con l’avvicinarsi delle vacanze estive, sono molte più del solito le coppie, e le madri, che decidono di disfarsi di quel bambino ‘scomodo’. Solo successivamente faranno i conti con la sindrome post-abortiva.
Giulia Tanel
Riesco a entrare nel reparto e a depositare, sul tavolino della sala d’aspetto più vicina all’infermeria, parecchi opuscoli e un libro, dicendo alle giovani Laureata in Filologia e Critica sedute sulle poltroncine: “Ragazze, leggete e Letteraria. pensate a quello che state per fare”.Scrive per passione. Collabora con libertaepersona.org e con altri siti internet e Ho lasciato una lettera per Viale, ho Agnoli, riviste;il è dottor inoltre autrice, con che Francesco conosciuto personalmentedi anni fa, con la fotografia Miracoli - L’irruzione del soprannaturale nella storia (Ed. Lindau). di una piccina che lui avrebbe voluto far morire: la mamma, dopo una visita al Sant’Anna, si era rivolta anche a me, disperata perché “la misura del cranio del feto era troppo piccola”. Naturalmente l’avevo tranquillizzata. La gravidanza era proseguita tranquillamente ed è nata una splendida bambina. Uscendo mi sono fermata nella prima grande anticamera, quella più esterna, dove attendono i parenti delle pazienti. Vi sono piccoli tavoli dove appoggiare libri, opuscoli, volantini. Solo un signore, particolarmente nervoso, mi ha urlato una parola irripetibile. Ormai ci ho fatto l’abitudine. Gli ho risposto con calma che non stavo costringendo nessuno a prendere o a leggere il materiale informativo. Sono quindi tornata all’ingresso. Verso le ore 11:30 scende le scale un’infermiera inferocita che inizia a strillare: “Tolga subito quell’immagine violenta!”. Si riferiva a un cartello raffigurante un tenero piccino, con un foglio di quaderno sul quale c’era scritto: “Il più grande diritto umano è il diritto a nascere. Firmato: Tutti i bambini del mondo!”.
Il più grande diritto umano è il diritto di nascere. Firmato: Tutti i bambini del mondo. Le faccio presente con delicatezza che l’immagine è la rappresentazione della dolcezza di un bambino. Si allontana, non proprio convinta. Più tardi, per concludere la nostra testimonianza, ci portiamo tutti assieme all’interno del cortile dell’Ospedale, dove i lavori in corso d’opera nascondono in parte la bella Cappellina, per rivolgere a Dio la nostra fervida preghiera affinché risani il mondo da tutte le mostruosità che stanno avvenendo, e affinché lo Spirito Santo parli alle menti di chi, tali mostruosità, le effettua.
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Francesca Romana Poleggi
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adre di tre figli, moglie, insegnante, fa parte M del movimento ecclesiale “Fede e Luce”. Dal 2008 è impegnata sul fronte dei diritti umani con la Laogai Research Foundation. Co-fondatrice di ProVita Onlus, è direttore editoriale di questa Rivista.
Il trionfo della morte?
Il titolo di un celebre romanzo del ‘900 è per ragionare sulla proposta di legalizzare l’eutanasia presentata alla Camera. Ma c’è un punto interrogativo: possiamo ancora fermare questa deriva? di Francesca Romana Poleggi In questo mese di marzo alla Camera dei Deputati è stata calendarizzata la discussione della proposta di legge n. 2973, d’iniziativa dei Deputati Nicchi, Scotto, Farina, Bordo, Costantino, Duranti, Melilla, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Quaranta, Ricciatti e Zaccagnini. Si intitola “Norme in materia di eutanasia”. Al momento di andare in stampa la cosa è confermata, con gran soddisfazione dei giornali e dell’intelligencija laica e mortifera che va di moda ormai da decenni. C’è anche chi scrive, sul Corriere della Sera, che quello del suicidio assistito è “uno dei temi più intimamente sentiti dalla società”. Probabilmente per ‘società’ intendeva l’élite di quei signori radical chic cui si accennava prima. Quanto alla gente ‘vera’, quella che affronta i problemi quotidiani della vita, se fosse bene informata su quanto accade nei Paesi dove l’eutanasia (o il ‘suicidio assistito’, che è esattamente la stessa cosa, checché ne dicano) è stata legalizzata, non esiterebbe a rispedire al mittente la proposta di mettere tra i nuovi ‘diritti’, inventati dalla follia autodistruttiva del relativismo, anche quello di morire. Questo è il nostro scopo: riflettere, informare e far riflettere. Sta poi a voi, cari lettori, fare altrettanto, per arginare questa deriva diabolica (in quanto volta alla distruzione dell’essere umano). Intanto, però, il lavorio per farci il lavaggio del cervello è cominciato da decenni. Anzitutto creano confusione, con abili strategie ‘neolinguistiche’, tra eutanasia attiva e passiva, suicidio assistito, accanimento terapeutico (tutte pratiche abominevoli in sé, comunque e sempre) e le sacrosante cure palliative. Queste, se sono ‘vere’ cure palliative, sono quegli interventi di sedazione mirati a lenire il dolore fisico dei malati, per consentir loro di superare le
crisi, oppure per consentire loro di andare incontro alla morte nel modo più sereno e naturale possibile. Infatti, le vere cure palliative tendono a non far perdere del tutto coscienza al paziente, ma a migliorare – e di molto – la qualità dei loro ultimi momenti di vita. Naturalmente la ricerca e lo studio relativamente a queste terapie e alla formazione del personale degli hospice – votati all’assistenza, anche psicologica, dei malati e dei loro cari – crescono in modo inversamente proporzionale alla pratica eutanasica: quest’ultima infatti costa meno ed è molto più sbrigativa.
Le ‘vere’ cure palliative sono quegli interventi di sedazione mirati a lenire il dolore fisico dei malati, per consentir loro di superare le crisi oppure per consentir loro di andare incontro alla morte nel modo più sereno e naturale possibile. In seconda istanza creano confusione tra il dare da mangiare e bere a un soggetto non autosufficiente e le terapie, cioè le cure e le medicine atte a sconfiggere una malattia. Come se dare il biberon a un lattante fosse un ‘atto terapeutico’. Fateci caso, quando vi capiterà di leggere sull’argomento: troverete espressioni quali “terapia nutrizionale”, oppure “sedazione terminale profonda” (è questa che confondono con le cure palliative), o la sigla asettica ANH, che sta per artificial nutrition and hydration (nutrizione e idratazione artificiale).
Scienza Primo e Morale Piano
Creano confusione tra il dare da mangiare e bere a un soggetto non autosufficiente e le terapie.
“Sospendere l’ANH” suona come qualcosa di perfettamente innocuo… Ci vogliono far credere che far morire di fame e di sete una persona handicappata – ma senziente, come Eluana Englaro, per intenderci – sia la stessa cosa che sospendere un trattamento farmacologico terapeutico che tiene inutilmente in vita una persona già morta cerebralmente. E, a proposito di morte cerebrale (cui segue l’espianto di organi a cuore battente che, ad alcuni, è vero, può salvare la vita, ma ad altri frutta un sacco di soldi), sarà bene ricordare quanto siano discutibili, per lo meno all’estero, i protocolli che si usano per dichiarare il paziente clinicamente morto. Abbiamo raccontato molte storie di ‘risvegli’ in extremis, di persone date per spacciate cui si stavano per prelevare gli organi vitali, soprattutto nel numero di questa Rivista pubblicato proprio nel marzo dell’anno scorso. Sul nostro portale abbiamo pubblicato opinioni a confronto: c’è chi – autorevolmente – sostiene che se un paziente, in Italia, viene dichiarato morto cerebralmente, la cosa è sicura ed eticamente ineccepibile; c’è chi nutre seri dubbi sostenendo inoltre che molto dipenda dalla moralità dell’équipe sanitaria e del plesso in cui il paziente si trova. Recentemente è ritornata sui giornali la vicenda di George Pickering che, un anno fa, quando tutto era pronto per ‘staccare la spina’ che teneva in vita il figlio, ha impugnato la pistola e ha tenuto lontani polizia e personale ospedaliero per tre ore. Poi il figlio, sollecitato, ha cominciato a stringergli la mano. Oggi il ragazzo si è pienamente ripreso e il padre, incarcerato per aggressione a mano armata, è stato da poco rilasciato. Intanto, però, le cronache italiane si riempiono di casi umani, come quello di Dominique Velati, militante radicale ammalata di cancro, cui è stata pagata la trasferta in Svizzera per farla finita. Casi umani che, per pura coincidenza, sono assurti agli onori delle cronache proprio quando è stata data notizia della calendarizzazione della proposta di legge sull’eutanasia, nel gennaio scorso.
Philip Nitschke
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LA PROPOSTA DI LEGGE 2973 Nel testo nostrano – che, diciamolo subito, nonostante tante chiacchiere non garantisce per nulla che l’insano gesto sia davvero frutto della libera scelta del morituro – all’articolo 2 si parla spudoratamente non solo di “medico”, ma di “medico curante” per definire colui che ammazza il paziente. Questi, sempre ex art. 2, da solo (se la morte naturale è considerata imminente) o con la consulenza eventuale di uno o due colleghi, se il decesso naturale non è previsto a breve, accerta che “le sofferenze fisiche o psichiche sono costanti e insopportabili”. Personalmente mi sono sempre chiesta: con quale metro un soggetto può misurare le sofferenze – soprattutto quelle psichiche! – di un altro soggetto? Cosa vuol dire “insopportabili”? Nel confronto tra i malanni di routine che abbiamo avuto mio marito ed io, lui avrebbe dovuto essere eutanasizzato diverse volte, poverino, per quanto soffriva, nonostante i guai più gravi e oggettivamente più dolorosi li abbia passati io... Basta questo per capire che una qualsiasi persona “destinata a morire” (ergo: ogni essere umano) che soffre fisicamente o psichicamente (cosa che purtroppo capita a ogni essere umano) può chiedere di farsi ammazzare. Il medico, secondo la norma in questione, deve accertarsi che “la richiesta è stata formulata in maniera volontaria, è stata ben ponderata e ripetuta e non è il risultato di una pressione esterna”. Come fa? Assolda Sherlock Holmes? Piuttosto, qualsiasi persona che si sente un peso per i propri cari (e capita molto facilmente, a volte a ragione, molto spesso a torto) se sa che è cosa legale (quindi lecita, normale) la possibilità di farla finita, già subisce di per sé la ‘pressione’ a levarsi di torno.
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G. Borlone de Buschis, Il Trionfo della Morte, Oratorio dei Disciplini, Clusone (BG)
Tra l’altro, sempre all’art. 2, si dice che il medico deve informare i familiari solo se il paziente gli dà l’incarico di farlo. Insomma è una vera e propria istigazione a togliersi di mezzo quando ci si sente un impiccio per gli altri e un peso per la società (che, certo, a livello di SSN risparmierebbe un bel po’ di quattrini). Tuttavia il bello viene quando si parla della dichiarazione scritta con la quale si chiede l’eutanasia e della dichiarazione anticipata di trattamento (di cui all’art. 3), che ognuno può stilare in via preventiva quando ancora è in buona salute: fumo negli occhi, chiacchiere. Infatti, se il soggetto non è in grado di scrivere, questi documenti possono essere stilati da altri: due o tre persone si mettono d’accordo per eliminare il nonno che rompe, ed è fatta. E lo fanno ‘certi’ di fare un piacere al suddetto nonnino… Meglio ancora, l’art. 3 specifica: “Nella dichiarazione anticipata sono indicate una o più persone di fiducia maggiorenni, alle quali è affidato il compito di informare il medico curante della volontà del paziente. In caso di rifiuto, impedimento, incapacità o morte di una delle persone di fiducia, subentra quella che eventualmente segue nell’elenco”. Cioè, se il figlio – per esempio – si rifiuta di far ammazzare il padre, subentra il cugino, o il vattelappesca, e la cosa si fa… perché s’ha da fare! Ad aggiungere la beffa al danno, la legge istituirebbe una Commissione di controllo e vigilanza, con tante parole e tante garanzie. Ma questa interviene dopo che il paziente è stato ammazzato: sai che consolazione scoprire, dopo, che l’eutanasia non doveva essere praticata! Infine, la specifica che la dichiarazione scritta (ricordiamo: può essere anche scritta da altri!) “ha valore vincolante nei confronti del medico e di ogni altro soggetto”, velatamente mina la libertà di obiezione di coscienza dei sanitari (direi dei medici ‘veri’, nel senso proprio del termine) che, anche se proponessero terapie alternative alla morte (che terapia non è), sono costretti a girare ‘la pratica’ ad altro “medico curante” che il paziente trovi disposto a fungere da boia.
Del resto, nello Stato dell’Alberta, in Canada, il Collegio dei Medici e Chirurghi ha approvato un documento con cui si esortano i dottori a fornire assistenza agli aspiranti suicidi anche se minorenni, senza possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza. Stesso problema in Belgio, dove si vuole che le case di cura cattoliche non possano proibire di ammazzare, entro le proprie mura, i pazienti in esse ricoverati. La proposta di legge si chiude con l’art. 12: “La persona deceduta a seguito di un intervento di eutanasia, praticato in conformità alle condizioni e alle procedure stabilite dalla presente legge, è dichiarata deceduta di morte naturale a tutti gli effetti di legge”.
La legge istituirebbe una Commissione di controllo [...], ma questa interviene dopo che il paziente è stato ammazzato: sai che consolazione scoprire, dopo, che l’eutanasia non doveva essere praticata!
Questa proposta di legge – come qualsiasi proposta di legge in materia – apre scenari inquietanti.
Abbiamo l’esempio del Belgio e dell’Olanda, primi fra tutti, dove la pratica eutanasica miete ogni anno un numero di vittime sempre più grande, per motivi sempre più futili, e questo anche senza il consenso dei pazienti e anche senza che vengano avvisati i più stretti congiunti. Chi segue il nostro portale web troverà esempi su esempi, circostanziati e documentati dalla stampa internazionale. Da ultimo, in Olanda il partito pro eutanasia ha già proposto un disegno di legge per fornire gratuitamente, come medicinale da banco, il veleno per morire a tutte le persone al di sopra dei settant’anni.
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La proposta di legge 297, nonostante tante chiacchiere, non garantisce per nulla che l’insano gesto sia davvero frutto della libera scelta del morituro Philip Nitschke – medico australiano che si è fatto radiare dall’albo pur di continuare a promuovere apertamente la “morte per tutti” – ora propaganda, con evidente successo, presso gli altri cultori della morte come i tanti che siedono nel nostro Parlamento, “il suicidio razionale”: vuole dimostrare che non serve che le persone siano depresse o malate per desiderare di morire. Chi perde una persona cara, i detenuti e tutti gli anziani dovrebbero avere accesso libero e gratuito a farmaci letali, in modo che possano uccidersi facilmente. Aggiungiamo noi: perché non anche i ragazzi che prendono brutti voti a scuola o quelli traditi dagli amici o lasciati dalle fidanzate? Andrew Coyne, un giornalista canadese, in un articolo di qualche tempo fa si è chiesto se all’atto della somministrazione dell’iniezione letale, il medico dovrà usare una siringa sterile. Certamente lo farà. Le vecchie abitudini sono dure a morire. Ed è quanto
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mai necessario avvolgere un atto (che è e resterà sempre) illecito secondo la legge naturale con una patina di professionalità: bisogna coprire ben bene l’omicidio, con una sorta di maquillage da procedura medica di routine. Il cervello di un essere umano ragionevole e razionale, per accettare la logica dell’eutanasia con un minimo di coerenza, deve fare una ‘piroetta di 180°’: il “su” diventa “giù”, il “dentro” diventa “fuori”, “ammazzare” diventa “compassione”. La morte (procurata) diventa un bene, non più un male da prevenire (una ‘bella’ morte eu-thanatos, appunto), un servizio da fornire (anzi, sarà somministrata a spese dei contribuenti, tramite SSN). Il ‘diritto’ di morire, perciò, non potrà essere ‘limitato’ (come, per esempio, il diritto di guidare la macchina), ma sarà considerato un ‘diritto inviolabile dell’uomo’ (nello stesso tempo ricordiamo che il diritto a vivere invece è stato derubricato da tempo, per esempio con la legalizzazione dell’aborto). E, infatti, in nome del principio di uguaglianza e dei ‘diritti per tutti’ nei Paesi del Nord Europa l’eutanasia non si nega ai bambini, ai malati mentali e a chi è stufo della vita, per qualsiasi motivo. Se non ci ribelliamo subito tutti a questa deriva, se lasciamo prendere piede al nichilismo del quale è pervasa l’ideologia dominante, presto questa logica ci sembrerà ineccepibile e ‘naturale’. E allora sarà davvero il trionfo della morte.
Salvatore Crisafulli con il fratello Pietro. Dopo anni di coma, dato per morto più volte, si è risvegliato e – circondato dall’affetto dei suoi cari – ha testimoniato con passione il valore della vita. Certamente è meno noto ai media di Piergiorgio Welby, che si è fatto ammazzare…
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Aldo Vitale Aldo Vitale è avvocato. Dottore di ricerca in Storia e Teoria generale del Diritto Europeo presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tor Vergata e cultore della materia in Biogiuridica e in Filosofia del diritto.
Albert Camus (1913 - 1960)
L’eutanasia uccide anche il Diritto
L’eutanasia secondo alcuni è dovere dello Stato, secondo altri è diritto dell’individuo: in ogni caso ci rimettono i più deboli. di Aldo Vitale “Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”. Albert Camus ha così interrogato il mondo contemporaneo, esortandolo ad abbandonare ogni prospettiva ideologica, cioè di carattere aprioristico, per adottare lo strumentario razionale tipico della filosofia, cioè la ragione, ai fini dell’investigazione del suddetto fondamentale problema. Sull’argomento si possono delineare due principali correnti di pensiero: quella che affronta il problema dal punto di vista sociale e collettivo, e quella che lo legittima, invece, nella sua dimensione esclusivamente individuale e soggettiva. Il risvolto delle esigenze sociali, come scaturigine dell’attivazione di quel complesso meccanismo medicogiuridico che conduce all’applicazione o alla disapplicazione di un determinato trattamento terapeutico che produce la morte del paziente, rimanda inevitabilmente a un passato storico in cui tale prospettiva era stata precisamente ponderata proprio per i suoi orizzonti di carattere prettamente sociale.
Si possono delineare due principali correnti di pensiero: quella che affronta il problema dal punto di vista sociale e collettivo e quella che lo legittima nella sua dimensione esclusivamente individuale e soggettiva. Nel 1895 Adolf Jost, in Das Recht auf den Tod (Il diritto alla morte), sostenne che il controllo sulla morte dell’individuo deve spettare in definitiva all’organismo sociale, cioè allo Stato. Questo concetto è in diretta opposizione alla tradizione angloamericana dell’eutanasia, la quale sottolinea il diritto dell’individuo a morire come rivendicazione umana suprema. Di contro Jost si riferisce al diritto dello Stato a uccidere, a muoversi insomma a ‘compassione’ per concedere la Gnadentod, la morte per grazia.
La prospettiva sociale vede nella morte del soggetto non solo un diritto dello Stato a poter procedere in tal senso, ma il dovere dello Stato a proceder in tal senso per tutelare la società alla base dello Stato stesso; su questa scia si sono espressi Karl Binding e Alfred Hoche nel loro Die Freigabe der Vernichtung lebenunswerten Lebens (La legittimità dell’annientamento delle vite indegne di essere vissute) nel 1920, andando a costituire quella piattaforma medico-giuridica che pochi anni più tardi ha legittimato i programmi di eutanasia, dei malati di mente per esempio, sotto il regime nazionalsocialista. La seconda prospettiva, quella individuale, ritiene invece che il diritto di morire non sia altro che l’affermazione ultima e migliore dell’assoluta e incondizionata libertà del soggetto di poter disporre, in ossequio alla propria libertà, anche della propria vita senza intromissioni di carattere esterno, specialmente sulla scorta di valutazioni di ordine morale, giuridico, religioso o sociale. Si potrebbe definire, dunque, la prima concezione sull’eutanasia come centrifuga, in quanto tende a estendere al più largo livello sociale il problema del diritto di morte, laddove la seconda potrebbe essere intesa come centripeta, poiché concentra solo ed esclusivamente sull’individuo, sul soggetto, la possibilità, la volontà e la libertà di determinare la propria morte. Nella prospettiva sociale l’eutanasia è vista come un dovere che la società ha verso se stessa: alleviare il proprio dolore alleviando il dolore, la sofferenza di colui che soffre in stato terminale, per esempio. Alleviare le sofferenze della famiglia, alleviare il carico di responsabilità dei medici. Oltre a ciò vi può essere, sconfinando così nelle aride lande dell’utilitarismo, una prospettiva anche economica: cioè, le risorse e le energie necessarie a tenere in vita un po’ più a lungo chi è comunque destinato alla morte, potrebbero essere riversate per chi ha invece qualche chance in più di sopravvivere secondo i parametri e le valutazioni mediche.
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In quest’ottica, tuttavia, pur senza rendersene conto, il diritto viene plasmato e forgiato secondo le esigenze della società, tradendo una precisa e ben individuabile influenza della prospettiva sociologica per cui il diritto è lo strumento da utilizzare per il raggiungimento dell’unico scopo che gli è possibile raggiungere, cioè l’adeguamento dell’ordinamento al sentire sociale. In questo caso, però, a venir meno è proprio l’essenza stessa del diritto che cessa di essere espressione dell’universalità della giustizia per divenire la formalizzazione di un mero dato storico-sociale. Si nega così implicitamente la verità stessa del diritto, che diviene un mero involucro formale privo di contenuto o, meglio, il contenuto del quale varia secondo l’imponderabile mutevolezza del sentire sociale. La seconda dimensione con cui può essere inteso il fenomeno dell’eutanasia, è quella individualistica, cioè quella basata esclusivamente sulla volontà del singolo. In questa prospettiva il soggetto, così come il medico, è solo dinanzi alla morte, e alla sua decisione, alla sua sola volontà come unico metro di giudizio.
L’unico criterio è la volontà, la volontà di potenza, la volontà di dominio sul mondo a partire dalla propria vita, e, quindi, perfino della propria morte. L’unico criterio è la volontà, la volontà di potenza, la volontà di dominio sul mondo a partire dalla propria vita, e, quindi, perfino della propria morte. Si pensi, per esempio, appunto, a quanto sentenziava lo Zarathustra del maestro europeo della volontà (nichilistica) del pensiero europeo, cioè Friedrich Nietzsche: “Io lodo qui la mia morte, la libera morte che mi viene perché io la voglio”. Anche in questo secondo caso la natura del diritto viene a essere stravolta. Il diritto, infatti, diventa una mera certificazione della volontà individuale, una semplice copertura formale: il diritto viene letteralmente fagocitato dalla volontà soggettiva.
Philippe de Champaigne (1602 - 1674), Natura morta con teschio.
Friedrich Nietzsche (1844 - 1900)
Divenendo lo strumento del desiderio e dell’assoluta, cioè priva di limiti, volontà individuale, il diritto, ferito nella sua essenza, smarrisce la sua stessa identità, come nota il filosofo del diritto Sergio Cotta: “Non è difficile capire che in tali casi il diritto è stato appunto usato come un mero strumento, facendo violenza alla sua essenza strutturale”. Il diritto, invece, è ben altro e, proprio perché ricomprendente anche, ma non solo, la volontà individuale – cioè considerandola, pur senza appiattirsi su di essa – svolge il prezioso e insostituibile ruolo di difesa dei più deboli, anche e soprattutto da quegli atti di volontà che in quanto tali trasgrediscano la retta ragione e le leggi di natura. L’eutanasia, insomma, produce una doppia gravissima distorsione: burocratizza la morte, che da evento naturale diventa artificiale, legittimato ora da esigenze sociali, ora da motivazioni individuali; proceduralizza il diritto, depauperizzandolo della propria essenza e distogliendolo dal suo scopo, cioè la difesa del più debole, facendolo assurgere a mero strumento del più forte. L’eutanasia, dunque, sia nella prospettiva centrifuga, sia in quella centripeta, produce effetti collaterali non solo ai danni della vita, ma anche e soprattutto ai danni del Diritto, rendendolo privo di sostanza e semplicemente determinabile in base ad astratti formalismi proceduralistici, come nota in proposito il filosofo del diritto Francesco D’Agostino: “La soluzione è vista nell’assegnare al diritto il compito specifico di difendere un’etica convenzionale pubblica, che fissi in modo universalistico (cioè valido per tutti) le procedure pubblicamente concordate di gestione dei singoli problemi sociali”.
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Andrea Giovanazzi
Prolife per passione e per indole, essendo tra gli ultimi nati in una famiglia di circa un centinaio di parenti tra zii e cugini! : www.notizieprovita.it
La Vita è straordinaria, sempre
Una famiglia qualunque, una storia tra tante: anche se difficili, ecco come le battaglie quotidiane si possono affrontare e vincere. di Andrea Giovanazzi Questa è la storia di una famiglia normale. E’ una storia che ci insegna che proprio la normalità si tinge d’incredibile e di straordinario: perché la vita quotidiana chiede atti eroici e coraggio da leoni, ma – nella maggior parte dei casi – questi gesti non fanno notizia… Questa famiglia trentina ha lottato e si è battuta per la Vita, e grazie a Dio ha vinto. Non posso nascondere la gioia e la commozione che ho provato nell’intervistare Maria Giovanna Poli e Diego Giovanazzi e nell’essere accolto a casa loro. La stessa gioia e commozione si potevano leggere anche nei loro volti nel ricordare queste vicende.
La vita quotidiana chiede atti eroici e coraggio da leoni, ma - nella maggior parte dei casi - questi gesti non fanno notizia. Maria Giovanna mi ha raccontato come ebbe inizio la storia di Chiara: “Per tutte e due le nostre figlie all’inizio della gravidanza il ginecologo ci ha consigliato di fare l’amniocentesi, vista l’età della mamma (avevo quarant’anni). Ma noi ci siamo fidati di Dio e abbiamo rifiutato questo esame, che oltre ad essere invasivo non ci avrebbe fatto cambiare idea rispetto alla prosecuzione o meno della gravidanza. La Vita è Vita e già amavamo Chiara per quello che era”.
Diego ha spiegato che il medico fu colpito, e in qualche modo sollevato dal loro atteggiamento: strinse forte le loro mani e si complimentò per il loro coraggio. Prosegue Maria Giovanna: “Da principio la gravidanza di Chiara era regolare, non vi erano complicazioni e tutto sembrava andare per il meglio. Ma un giorno, durante la visita del quarto mese, il ginecologo ci disse che qualcosa non stava andando bene e che sarebbe stato necessario il cerchiaggio del collo dell’utero altrimenti c’era il rischio reale di perdere la bambina. Dopo il cerchiaggio, il sacco amniotico si è rotto... accadde di nuovo quello che era successo con il mio primo figlio!”. Maria Giovanna continua: “Prima di partorire Chiara, rimasi con il sacco rotto per cinque o sei giorni. Chiara nacque nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Bolzano il 18 dicembre 1998, dopo venticinque settimane di gestazione, quindi con circa tre mesi di anticipo. Venne subito intubata: pesava 6 etti e 75grammi ed era lunga solo 21 centimetri, tanto da stare nel palmo della mano di suo padre Diego. E scese ulteriormente di peso, per il calo fisiologico. Rimase per ben tre mesi in terapia intensiva, fino a metà marzo, periodo in cui sarebbe dovuta nascere. Venne seguita dal dott. Messner, il fratello del famoso alpinista. Il primo ‘pasto’ con il latte materno Chiara lo fece il 22 dicembre, tramite un sondino che la alimentava direttamente nello stomaco (gavage)”. Tutto questo è stato un grande insegnamento per Maria Giovanna e Diego.
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“Credo veramente nella Vita”, afferma Maria Giovanna. Anche se questa con Chiara non è stata la prima esperienza che l’ha provata profondamente. Infatti, prima di sposare Diego, Giovanna in otto mesi ha visto morire prematuramente il suo primo figlio Gabriele e, poco dopo, il suo primo marito Roberto, per un incidente stradale. Prosegue Maria Giovanna: “Ho vissuto per tre mesi a Bolzano grazie a dei parenti che mi hanno prestato un appartamento. Mio marito ci raggiungeva il fine settimana da Crosano, il paese ove viviamo sull’altipiano di Brentonico (TN), per potere assistere Chiara. Mi veniva spontaneo di incoraggiare le altre mamme in terapia intensiva, mi sentivo forte visto quanto avevo passato. ‘Pesa un chilo? Pesa tanto! Coraggio che ormai è fatta’, dicevo loro. E quando potevo donavo loro il mio latte in eccesso così da poterle aiutare a nutrire i loro piccoli”. Dopo la nascita di Chiara, Maria Giovanna ha provato il dolore di un aborto spontaneo. Poi è nata Laura, il 24 settembre del 2002: voluta, desiderata e amata anche lei, da subito. Tutto è avvenuto naturalmente, anche se la mamma aveva già quarantaquattro anni. “Con Laura è andato tutto bene, tranne l’ansia per due minacce di aborto in una settimana, al terzo mese. Ma la Vita è più forte di ogni cosa. Conservo ancora tutto: il diario, gli appunti, il programma della giornata per accudire Chiara, e la lettera che scrissi in risposta al dott. Pedrotti dopo la morte di Roberto.
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Nella lettera dissi che il mio obiettivo era quello di farmi una famiglia, e che non mi sarei arresa davanti a un destino tanto avverso. Con Laura ci siamo affidati a Dio ed è nata senza grossi problemi: ho fatto tutto quello che potevo per evitare complicazioni. Mano a mano che passava la settimana cruciale, la venticinquesima, capivo che sarebbe andata bene specie perché essendo femmina sapevo che era più sviluppata a parità di tempo gestazionale rispetto ad un maschietto…”. La storia di questa famiglia è una storia tra tante, ma, come tutte, una storia davvero speciale. Nel lanciare un messaggio alle giovani coppie che ci leggono, Giovanna dice: “Occorre credere in Dio e nella Vita, abbiate coraggio!”.
“La Vita è più forte di ogni cosa [...]. Occorre credere in Dio e nella Vita, abbiate coraggio!” Ah, dimenticavo: Giovanna e Diego sono due dei miei trentasei zii, e Chiara è la penultima e Laura l’ultima dei trentanove cugini di cui è formata la mia famiglia. E anche questo è un insegnamento… Se sappiamo accogliere e accettare la Vita con speranza e confidando nella Provvidenza, ci accorgeremo che le storie straordinarie possono accadere anche nelle nostre normalissime famiglie.
Chiara Giovanazzi
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Claudia Cirami
Siciliana, ha una laurea in filosofia e il magistero in Scienze Religiose. È insegnante di religione cattolica. * sorrialba@gmail.com
Uomo, dove sei?
Sergej Petrovič Postnikov, Ettore e Andromaca
Una ‘chiamata alla battaglia’, affinché l’uomo contemporaneo recuperi la sua dimensione virile, di guida amorevole, di custode responsabile di Claudia Cirami Dov’è finito l’uomo? Viene in mente il passo biblico in cui Dio chiede ad Adamo: “Dove sei?” (Gen 3,9). Nel Giardino dell’Eden, il primo uomo si nascondeva a causa del peccato. Oggi, invece, lo specifico maschile si nasconde anche per altri motivi. In primo luogo, a causa del femminismo, che talora, all’inizio, ha sollevato istanze per certi versi accettabili, poi ha straripato, costringendo l’uomo ad arretrare, puntando sui sensi di colpa ‘pariopportunisti’. In secondo luogo, a causa del dottor Spock e degli esperti che, come lui, hanno chiesto ai padri di educare i figli in modo permissivo (la marcia indietro è stata tardiva e non ha prodotto frutti apprezzabili). In terzo luogo, a causa dei mutamenti sociali e tecnologici che hanno chiesto all’uomo di fronteggiare sfide impegnative e problemi (crisi, disoccupazione), senza però dargli un adeguato sostegno. Infine, a causa dell’ideologia gender (connessa al femminismo radicale), che vuole erodere i fondamenti stessi dell’identità maschile e femminile per dare vita a un individuo di genere neutro, al di là delle dimensioni sessuate che sono e saranno sempre solo due. Il risultato? L’uomo ha smarrito se stesso, perdendo in autorevolezza, responsabilità, capacità di proteggere la famiglia. Certo, esistono le eccezioni (i tanti uomini impegnati in favore delle iniziative per difendere la famiglia lo dimostrano): al tempo stesso, però, ognuno può costatare quanti uomini conducono la loro esistenza cristallizzati in un’adolescenza perenne, incapaci di indicare la strada e di prendere per mano. Qualcuno ha parlato di “crisi del padre”: è vero, ma, prima ancora della figura paterna, è entrata in crisi la virilità, intesa qui come la “qualità propria dell’uomo forte, sicuro di sé e risoluto, coraggioso, che si manifesta nelle sue azioni” (dal dizionario Treccani). Attualmente all’Adamo moderno viene suggerita una via per ritrovare se stesso: l’armonizzazione della parte maschile e femminile.
Così molti uomini “non sanno che il loro ‘essere uomini’ va costruito giorno per giorno, attraverso un costante dialogo fra la parte maschile (razionale) e femminile (emozionale). Ma è proprio questa determinazione a non arrendersi alla fatica del ‘dibattito interiore’, e anzi a tenerlo vivo pur nelle difficoltà della vita, il centro dell’identità di un uomo moderno. Per chi lo vuole, questa possibilità di crescita si presenta nella vita di ogni giorno” (Maschi in crisi d’identità, Riza.it). Il punto è, però, che questa strada, oltre ad essere oggettivamente complicata, sembra ambigua in partenza: esiste davvero una parte femminile nell’uomo, o è solo un’ipotesi figlia delle teorie che tendono a mascolinizzare le donne e a femminilizzare gli uomini?
Esiste davvero una parte femminile nell’uomo, o è solo un’ipotesi figlia delle teorie che tendono a mascolinizzare le donne e a femminilizzare gli uomini? Anche la Chiesa si interroga sul problema dello smarrimento dell’uomo contemporaneo. Il vescovo americano Thomas Olmsted, di Phoenix, ha scritto una lettera alla sua diocesi e incoraggiato la produzione di un cortometraggio, chiamato significativamente A call to battle, perché combattere (per proteggere) dovrebbe essere la vocazione dell’uomo. Il filmato si apre con un monito: “Non sei stato creato per la comodità, sei stato creato per la grandezza”. Mai in tutta la storia dell’umanità – in così poco tempo – si sono viste tante spose senza sposo e tanti figli senza padre. Perché l’uomo ha perso le coordinate per essere un vero sposo e padre. Da qui l’invito agli uomini perché capiscano che l’amore è sacrificio e autocontrollo, perché si confrontino spiritualmente e fraternamente con altri uomini e si impegnino a diventare virili come Dio li ha voluti. Attendiamo fiduciose la risposta.
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I bambini hanno bisogno di una mamma e di un papà
Il sesso dei genitori influisce - e molto - sull’equilibrio psicofisico dei bambini. di Federico Catani “Che problema c’è se un bambino cresce con due genitori dello stesso sesso? L’importante è che venga amato, no? D’altra parte, in tanti sono stati senza il papà o senza la mamma e nella vita sono riusciti a cavarsela benissimo. Opporsi alle adozioni gay, pertanto, è solamente indice di una mentalità retrograda”. Questo il tenore delle argomentazioni addotte da quanti sono favorevoli a concedere figli alle coppie omosessuali. Qualcuno giustamente ha risposto facendo notare l’esistenza di molte persone senza una gamba o un braccio e che, nonostante questo, vivono serene e sono in grado di condurre una vita normale. Ma non per questo una legge statale deve consentire che, dalla nascita, a certi bambini venga amputato un arto. La lobby gay diffonde ricerche in base alle quali si dimostrerebbe l’assoluta normalità di una ‘famiglia’ omogenitoriale: per i figli non vi sarebbe alcun effetto collaterale. Peccato però che tali studi spesso prendano in considerazione campioni talmente limitati da non poter essere considerati lavori scientifici. E, se i risultati contraddicono l’ideologia Lgbt, vengono prontamente censurati o manipolati. La vera scienza, infatti, è contraria alle adozioni gay e spiega perfettamente che, per crescere bene, il bambino ha bisogno di un padre e di una madre, cioè di due figure genitoriali di sesso diverso, che possano trasmettere la differenza e al contempo la complementarietà del maschile e del femminile. Le eccezioni a tale norma non fanno altro che confermarla. Gli studi in materia sono innumerevoli e sul sito di ProVita è possibile trovarne in gran quantità. Qui ne citiamo solo alcuni. Robert Oscar Lopez, cresciuto con due lesbiche, testimonia il grave disagio psichico che ha subito. Parla addirittura di “violenza morale”: desiderava un papà, ma lo facevano sentire in colpa per questo bisogno viscerale di bambino.
Federico Catani
Laureato in scienze politiche e insegnante di religione, è attualmente laureando in scienze religiose. È giornalista pubblicista.
La vera scienza è contraria alle adozioni gay e spiega perfettamente che, per crescere bene, il bambino ha bisogno di un padre e di una madre, cioè di due figure genitoriali di sesso diverso. Tutte le indagini più credibili effettuate sul campo convergono sull’importanza della stabilità della relazione della coppia per il benessere psicofisico dei bambini. Ebbene, stando ai dati, le coppie omosessuali non garantiscono tale stabilità. Sul British Journal of Education, Society & Behavioural Science, il sociologo americano Paul Sullins ha scritto che i “problemi emotivi [sono] maggiori per i bambini con genitori dello stesso sesso rispetto a quelli con genitori di sesso opposto, addirittura con una incidenza più che doppia”. Sulla stessa rivista, un altro studio, The Unexpected Harm of Same-Sex Marriage: A Critical Appraisal, Replication and Re-Analysis of Wainright and Patterson’s Studies of Adolescents with Same-Sex Parents (2015), smonta in modo definitivo il mito che il sesso dei genitori non influisca sull’equilibrio psico-fisico dei bambini. La ricerca ha infatti rivelato che gli adolescenti cresciuti con genitori dello stesso sesso sperimentano più ansia e minore autonomia rispetto a quelli cresciuti con genitori di sesso opposto. Inoltre, tra i ragazzi cresciuti in famiglie omosessuali, quelli con genitori ‘sposati’ mostrano sintomi depressivi, crisi di panico e pianto in misura ben maggiore di quelli con genitori conviventi.
28 N. 39 - MARZO 2016 “Se sei un adulto cresciuto con omosessuali, bisessuali o transessuali, spero che tu possa essere valorizzato per ciò che sei. Sappiamo che puoi soffrire il non poter parlare liberamente di ciò che senti dentro…”: l’associazione della Stephanowicz (cresciuta con due gay) offre sostegno psicologico a chi ha sofferto la sua stessa condizione.
Le ragioni di questa disparità non sono chiare: forse il ‘matrimonio’ cancella nei bambini ogni speranza di trovare o ritrovare il genitore mancante… Nella stessa direzione va un documento pubblicato dall’American College of Pediatricians (2013), dal titolo Genitori omosessuali: è tempo di cambiare?. Il documento, che cita le più rilevanti ricerche scientifiche sul tema, evidenzia i rischi che lo stile di vita omosessuale dei genitori può avere sull’infanzia. Si rileva che la violenza tra partner dello stesso sesso è due/tre volte superiore che tra le coppie eterosessuali (altro che ‘famiglie’ gaie!). Inoltre, le coppie gay sono significativamente più soggette a scioglimento della relazione rispetto a quelle eterosessuali; uomini e donne omosessuali hanno numerosi partner sessuali anche all’interno di relazioni stabili; individui con condotta omosessuale hanno maggiori probabilità degli eterosessuali di soffrire di una malattia mentale, di abusare di sostanze, di avere tendenze suicide, e hanno mediamente una vita più breve. Da notare che tali disfunzioni esistono a livelli elevati nel mondo gay anche laddove l’omosessualità è ampiamente accettata (non dipende quindi dalla ‘omofobia’ della società!). Tutto ciò ovviamente non può non influire sui minori.
I problemi emotivi sono maggiori per i bambini con genitori dello stesso sesso rispetto a quelli con genitori di sesso opposto. Francesco Paravati, presidente della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera (SIPO), parlando delle nuove ‘famiglie’ (il discorso vale anche per quelle ‘allargate’ dopo un divorzio), ha dichiarato che in esse il problema “è la crescita in uno stato di confusione per quanto riguarda i punti di riferimento genitoriali, importante nella vita psicologica di un bambino”. Silvia Vegetti Finzi, docente di psicologia dinamica a Pavia, membro dell’Osservatorio Permanente sull’infanzia e l’adolescenza e del Comitato Nazionale di Bioetica, ha scritto sul Corriere della Sera: “Non è irrilevante che esso [il nostro corpo, n.d.r.] sia maschile o femminile e che il figlio di una coppia omosessuale non possa confrontarsi, nella definizione di sé, con il problema della differenza sessuale”. Claude Holmes, uno dei massimi esperti del mondo infantile, ha affermato che “i bambini hanno bisogno di genitori di sesso diverso per crescere”. Come un edificio, per stare in piedi, ha le sue leggi, così anche i bambini hanno bisogno di avere accanto una figura femminile e una maschile.
Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio per i Diritti dei minori e consulente della Commissione parlamentare per l’Infanzia, ha ricordato che “un’équipe, guidata dal prof. Loren Marks, della Louisiana State University, ha messo a punto un’ennesima analisi, pubblicata sul Social Science Research, che attesta le notevoli differenze sussistenti tra figli adottati da coppie gay conviventi e figli naturali di coppie eterosessuali”. Non sono questioni secondarie, perché si sta parlando del “diritto di ogni bambino ad avere una famiglia pedagogicamente completa delle figure di riferimento, maschile e femminile, e non già di appagare le voglie degli adulti che per avere figli devono ricorrere a metodi alternativi rispetto al naturale rapporto eterosessuale”. Italo Carta, docente di clinica psichiatrica presso l’Università degli Studi di Milano, ha spiegato che “la psiche dell’uomo è diversa da quella della donna: la donna protegge, dà la vita per il figlio, si sobbarca le sue fatiche. Il padre è quello che recide questo legame affinché il bambino cresca e cammini con le sue gambe. Il bambino da quando è nato il mondo, per crescere forte e sano, per affrontare la vita e i problemi, ha bisogno di entrambe queste figure. Senza di esse salta in aria tutto il dispositivo edipico su cui si fonda da sempre ogni società. Non mi parlino dei genitori morti perché la loro presenza evocata è utile comunque a questo processo. E comunque la morte non crea disordini affettivi come la sostituzione di un genitore con una figura di un altro sesso”.
La morte di un genitore non crea disordini affettivi come la sostituzione di un genitore con una figura di un altro sesso (il lutto può essere efficacemente elaborato). Potremmo continuare a lungo. Tuttavia, concludiamo con la considerazione più elementare e concreta che si possa fare, quella scaturita dal senso comune: si nasce da un uomo e una donna e si ha bisogno di un padre e di una madre. Non è un’opinione discriminatoria, ma la pura constatazione della realtà. Che oggi vi sia bisogno di ribadirlo è molto preoccupante.
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Antonio Brandi
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Letture consigliate Giuseppe Garrone Oltre la morte... la vita Gribaudi Con la presentazione del Card. Alfonso Lòpez Trujillo e la prefazione di Mons. Germano Zaccheo, questo piccolo libro vuole essere una breve e semplice traccia per aprire una strada verso la luce e la vita. È scritto con passione e compassione, c’è voglia di condivisione, di vicinanza a coloro che soffrono, in questo caso alle donne che hanno sofferto il terribile e abominevole dramma dell’aborto. Ridona speranza, riporta alla vita e alla gioia di servire la vita.
Aldo Rocco Vitale Gender, questo sconosciuto - Cosa si nasconde dietro la nuova ideologia del nostro tempo Fede e Cultura L’ideologia gender esiste e agisce a tutti i livelli della società. La negazione della differenza tra l’identità maschile e femminile, il negare la natura, ha quale fine l’utopia di una nuova era di pace sociale senza discriminazioni, che comporta la distruzione totale dell’identità personale. Questo libro mette in luce le origini e gli sviluppi dell’ideologia gender, i suoi legami con il movimento gay e il femminismo e i problemi antropologici e biogiuridici che inevitabilmente solleva.
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