ProVita Marzo 2017

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Anno VI | Marzo 2017 Rivista Mensile N. 50

“Nel nome di chi non può parlare” Organo informativo ufficiale dell’associazione ProVita Onlus - Organizzazione non Lucrativa di Utilità Sociale -

“POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1, COMMA 1 NE/TN” | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003

Trento CDM Restituzione

MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

Notizie

OGNI

VALE

NO alle DAT NO all’EUTANASIA


MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

SOMMARIO

Notizie

EDITORIALE

RIVISTA MENSILE N. 50 - Marzo 2017

Una questione di vita o di morte

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LO SAPEVI CHE... ARTICOLI

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Persona, famiglia, radici

Andrea Giovanazzi

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Redazione Toni Brandi, Federico Catani, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti Cell. 329-0349089

La Festa della donna

Francesca Romana Poleggi

«Se lo dice il papi…»

Andrea Torquato Giovanoli

Direttore responsabile Toni Brandi

Per i disabili: una FIABA che diventa realtà

Nicola Maria Stacchietti

Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi

L’uomo può tutto?

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Progetto e impaginazione grafica

Perché l’eutanasia?

Aldo Rocco Vitale

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Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182

Giulia Tanel

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francesca Gottardi

PRIMO PIANO

Tipografia

Distribuzione

Sembra “consenso informato”, invece è eutanasia

Toni Brandi

Piccolo vocabolario della neolingua

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L’eutanasia come fatto sociale

Giuliano Guzzo

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Risvegli

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Una vera storia d’amore

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Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Toni Brandi, Marco Bertogna, Federico Catani, Andrea Giovanazzi, Andrea Torquato Giovanoli, Giuliano Guzzo, Anna Maria Pacchiotti, Francesca Romana Poleggi, Nicola Maria Stacchietti, Giulia Tanel, Aldo Rocco Vitale

La rivista Notizie ProVita non ti arriva con regolarità? Contatta la nostra Redazione per segnalare quali numeri non Ti sono stati recapitati e invia un reclamo online a www.posteitaliane.it. Grazie per la collaborazione!

L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.

Federico Catani

Anna Maria Pacchiotti

FILM

Nebbie in agosto

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EDITORIALE

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I

n questo numero di Notizie ProVita abbiamo avuto il piacere di intervistare due personaggi eccellenti: il giornalista Marcello Foa e la scrittrice Susanna Tamaro. Non abbiamo dimenticato, poi, che a marzo si celebrano la festa della donna e la festa del papà. Il tema centrale di questo mese però è – purtroppo – l’eutanasia. Mentre andiamo in stampa, infatti, sono ancora in discussione alla Camera le Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari. Offriamo perciò ai nostri Lettori informazioni che servono a riflettere e ad acquisire consapevolezza (abbiamo anche predisposto un breve “vocabolario della neolingua” per difenderci dal lavaggio del cervello…). Leggerete come, nei Paesi ove si è iniziato con la legalizzazione dell’eutanasia in casi estremi e forme particolarissime, nel giro di pochi mesi i paletti siano saltati e la morte sia dilagata. Come ProVita abbiamo lanciato una petizione e il 16 febbraio abbiamo tenuto una Conferenza Stampa alla Camera per sollevare il dibattito nell’opinione pubblica, dal momento che i media di regime tendono a non parlarne. Nella proposta di legge in questione – se anche volessimo riscontrare qualcosa di buono, per esempio, circa il consenso informato o altro – l’ambiguità ci pare regni sovrana. Non bisogna fidarsi: il testo va respinto in toto, perché tende “normalizzare” la morte per fame e sete che ha subito Eluana Englaro. Di argomenti contro l’eutanasia (attiva, passiva o suicidio assistito che dir si voglia) ce ne sono un’infinità. Se avete la possibilità di seguire il nostro portale www.notizieprovita.it ve ne sarete fatti un’idea. Personalmente mi ha toccato particolarmente ciò che ha scritto una malata terminale canadese, July Morgan. Questa donna dice di sentirsi terribilmente offesa dalla legge sull’eutanasia: solo quelli che si sono lasciati morire vengono elevati ad esempi di somma dignità, come se i suoi quattro anni di lotta contro il cancro non fossero stati “dignitosi”. Invece lei ha avuto la prova che la dignità è così intrinseca all’essere umano da potersi esprimere anche in condizioni di estrema vulnerabilità e dolore. Anche nei momenti più bui. L’eutanasia legale, dice Julie, la spaventa: la fa sentire in “dovere” di chiedere di morire. “Taglia le gambe” a chi invece ha bisogno di energia e incoraggiamento per lottare, per difendere la propria vita... perché ci sono dei momenti in cui una persona si può sentire “da buttar via”. Ma la vita non è mai da buttare via. Mai. Toni Brandi


LO SAPEVI CHE... SUPERARE GLI HANDICAP

STUDIARE ALL’ARCIGAY

Collette Divitto, 26 anni, ha sempre avuto la passione per la cucina, in particolare per i dolci, e ha tentato più volte di farne una professione. A Boston, tuttavia, nessuno pareva aver bisogno di lei. Ora, grazie all’aiuto e ai sacrifici dei genitori, Collette ha aperto il suo negozio di pasticceria e i suoi biscotti al cioccolato e cannella sono diventati famosi! E così il sogno di Collette si fa più grande: vuole riuscire a dare lavoro ad altre persone con la Trisomia 21, come lei.

I non addetti ai lavori forse non sanno che nel corso del triennio delle scuole superiori, durante l’anno scolastico e/o durante l’estate, per i ragazzi è prevista un’esperienza lavorativa organizzata in convenzione tra la scuola e un’azienda o un ente, la quale sarà anche oggetto d’esame durante il colloquio della maturità. A Padova e Provincia è stato preparato un opuscolo – con la collaborazione di diversi enti (perfino della diocesi) – per aiutare le scuole nella scelta di detti partners. Da questo apprendiamo che i ragazzi possono andare a fare uno stage presso l’Arcigay, Circolo Tralaltro. Chissà quanti genitori saranno lieti di sapere che la scuola manda i loro figlioli a fare un’esperienza “formativa” all’Arcigay. Chissà quanti professori e presidi saranno orgogliosi di averceli mandati. La neo-Ministro dell’Istruzione sarà davvero contenta: questo non è gender nelle scuole... è molto di più!

GENDER A TEATRO (MA CI VANNO LE SCUOLE) Spettacoli teatrali come Fa’afafine (la storia di un bambino che un giorno si sente maschio e un giorno si sente femmina) e Bent (la storia di due omosessuali in un lager nazista) hanno sollevato le proteste di molti genitori e docenti, in diverse città d’Italia. Anche se in alcuni casi la Gaystapo ha assunto un tono intimidatorio con i genitori che hanno presentato la richiesta di consenso informato e con i docenti 4

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neo-assunti (in prova) che si sono rifiutati di portare i loro allievi a teatro, a Potenza, a Pisa, a San Pietro In Casale (Bologna), ad Avellino, a Rimini, a Vicenza, a Bolzano e a Pistoia gli spettacoli sono stati cancellati, oppure sono stati disertati. La questione non è quella di voler operare una “censura”, il problema è che (anche a detta di illustri pedagogisti e psichiatri) la scuola non può ritenere questo tipo di spettacoli adatti a bambini e ragazzi.

quasi esclusivamente di cellule umane». Il problema principale – ammesso dagli stessi ricercatori impegnati nel progetto – è che le cellule staminali umane potrebbero migrare nel cervello del maiale, dando ad esso caratteristiche umane. E già c’è chi si preoccupa per la sofferenza degli… animali!

ISLANDA PER I GIOVANI

MAIALI UMANI Il Salk Institute of Biological Studies, in California, ha prodotto embrioni chimere, iniettando cellule staminali umane in embrioni di maiali. I media cercano di porre la questione solo e unicamente dal punto di vista del progresso della scienza, che sarà in grado di fornire organi di ricambio in quantità illimitata alle persone malate in attesa di trapianto. Nessuno si chiede se sia giusto, per fare un pancreas nuovo, ammazzare un bambino allo stato embrionale (perché, allora, non far crescere quel pancreas nel legittimo proprietario umano, per poi toglierglielo quando sarà abbastanza grande – adulto! – per trapiantarlo? Soffrirebbe? Lobotomizziamolo e teniamolo in frigorifero!). Comunque i maiali risultanti dall’esperimento avranno organi «fatti

In Islanda, con un lavoro congiunto tra famiglie, Stato e istituzioni scolastiche e ricreative è stato realizzato con successo un programma anti-droga denominato “Youth in Iceland”. È iniziato ufficialmente nel 1992 e punta a trovare e incentivare delle attività alternative, salutari, in grado di aiutare a gestire lo stress che è all’origine del consumo di alcol e droga (chi cerca eccitazione, chi cerca stordimento…). Sono state promosse attività sportive e artistiche, sono state bandite le pubblicità di bevande alcoliche e sigarette, è stato vietato l’acquisto di queste ultime per i minori di diciotto anni e di alcol per i minori di vent’anni; infine, ai ragazzi tra i tredici e i sedici anni è stato imposto il coprifuoco alle dieci di sera in inverno e a mezzanotte d’estate. Tra il 1997 e il 2012 è raddoppiato il numero degli adolescenti che praticava sport quattro volte a settimana e che trascorreva più tempo con i genitori ed è crollato il numero di ragazzi che assumevano alcol e droghe.

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PERSONA, FAMIGLIA, RADICI

Andrea Giovanazzi

L’autenticità della persona, la forza della famiglia, la fedeltà alle nostre radici

A

bbiamo incontrato il giornalista Marcello Foa, che gentilmente ha voluto rispondere ad alcune nostre domande.

Come vuole presentarsi ai nostri Lettori? Sono giornalista per vocazione. Allievo di Montanelli, ho lavorato a Il Giornale per vent’anni, ora dirigo il gruppo editoriale svizzero Corriere del Ticino-mediaTi. Insegno anche all’università, la mia specializzazione è la manipolazione mediatica. Recentemente, come giornalista, è stato molto apprezzato negli ambienti prolife italiani in merito alla questione francese… Ho semplicemente scritto quello che era doveroso: in Francia è in atto il tentativo di vietare qualunque forma d’informazione pro-vita, come se fosse un’ideologia estremista. Viene trattata alla stregua delle teorie naziste, il che è paradossale e drammaticamente 6

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emblematico dei tempi che viviamo: a voler essere provocatori, si potrebbe dire che le logiche naziste e settarie sono quelle di Hollande. Com’è possibile cercare di vietare idee e posizioni etiche che sono perfettamente legittime? Lei è stato uno dei pochi giornalisti nazionali ad esporsi, non Le sembra strano? Sì, dovrebbe essere strano, ma in realtà non lo è. La notizia non ha ricevuto attenzione mediatica in Italia ed è passata come se fosse una cosa normale, mentre a mio giudizio rientra nei tentativi di un certo establishment di lavare il cervello alle masse e di limitare la libertà di stampa, soprattutto sul web. E infatti la legge fa riferimento soprattutto alla propaganda su internet. Da quando il popolo britannico ha votato la Brexit e quello americano ha eletto Trump, è in corso un tentativo di mettere il bavaglio all’informazione alternativa su internet. Ciò è molto grave.


E come è possibile che tutti i giornali ignorino certi fatti importanti e si concentrino su altri? Le notizie appaiono sui giornali quando o sono così rilevanti da non poter essere ignorate (terremoto, crisi di governo, eccetera) o quando, a parità d’importanza, sono spinte da spin doctor che le presentano con la giusta enfasi, affinché vengano riprese dai media. O non riprese: in questo caso era meglio farla passare in silenzio, e così è stato. Se non c’è enfasi, nessun corrispondente o nessun caporedattore si accorge dell’importanza del fatto. Il processo di agenda setting, ovvero di gerarchizzazione delle notizie e degli eventi, ricorre a tecniche sofisticate che la maggior parte dei giornalisti ignora. Ciò che sta spiegando può essere applicato su scala mondiale? Anche su scala mondiale. La simultaneità di certe campagne non è casuale. Com’è possibile che i tormentoni a favore dei “matrimoni” gay o della teoria gender esplodano simultaneamente in diversi Paesi, o comunque con uno scarto temporale minimo? Il conformismo non è sufficiente per spiegare fenomeni internazionali, che peraltro sono ricorrenti.

Cambiare la semantica significa mutare i valori

Trattasi di campagne di propaganda e talvolta di vera e propria ingegneria sociale, ovviamente mai dichiarate espressamente ma la cui pianificazione è evidente, perlomeno a chi osserva il mondo con lucidità e ha un po’ di conoscenze dei meccanismi di comunicazione, come la finestra di Overton. In questo ambito il ruolo trainante di grandi istituzioni internazionali, come l’Onu, è rilevante, in quanto serve a dare autorevolezza e legittimità internazionale a tali teorie. Il processo richiede tempo, certe percezioni non si cambiano dall’oggi al domani, ma chi promuove queste campagne si pone obiettivi di lungo periodo. Su questa rivista abbiamo, a diverse riprese, parlato della neolingua: cosa ci dice in proposito, in qualità di docente di tecniche della comunicazione? Purtroppo il mondo disegnato da Orwell in 1984, e per molti versi da Huxley in Il Mondo Nuovo, sta diventando realtà. Cambiare la semantica significa mutare i valori. Quando i formulari degli asili non riportano più l’indicazione «padre» e «madre», ma «genitore 1» e «genitore 2» si compie un’operazione pericolosissima di sradicamento. Il pretesto è quello di non offendere i genitori gay, ma lo scopo reale è di creare una società nella quale la famiglia tradizionale non ha più senso e nella quale, attraverso il grimaldello del gender e della sessualità, si relativizza tutto, tranne il diritto a perseguire il proprio piacere personale, soprattutto quello sessuale e trasgressivo. La neolingua è funzionale in tal senso. 2017 Marzo - n. 50

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In questa continua corsa verso nuovi “diritti” umani, l’aborto come può essere considerato? L’aborto è presentato come un metodo legittimo di controllo delle nascite, il che, peraltro, è assurdo nella nostra epoca in cui non mancano precauzioni molto efficaci. Lo schema ideologico è lo stesso: il diritto individuale della donna è anteposto a qualunque altra considerazione, etica e valoriale. Gli effetti sono duplici: da un lato la disgregazione della famiglia e del concetto di sacralità della vita, insito in tutte le religioni semitiche (cristianesimo, islam, ebraismo). Dall’altro l’esaltazione dell’egoismo e dell’individualismo, che giocano un ruolo importantissimo nello scardinare le società tradizionali e nell’atomizzare l’individuo. Come interpreta il fatto che nella democraticissima Europa siamo già all’eutanasia post nascita? Fortunatamente l’eutanasia post nascita non è

ancora diffusa, però è coerente con il progetto: se il figlio non è normale, se ha un handicap e dunque ti “rovina” la vita, in una società in cui gli individui sono deresponsabilizzati ed egoisti, hai diritto di sopprimerlo. Rabbrividisco solo al pensiero… A differenza di molti suoi colleghi, Lei ha sempre avuto il coraggio di esporsi, andando controcorrente pur di dire la verità: un messaggio e un consiglio per i nostri Lettori? Faccio semplicemente il mio lavoro, sforzandomi di essere onesto con me stesso e con i lettori. Il consiglio è di essere consapevoli delle minacce che incombono sulla nostra società e di non cedere: l’autenticità della persona, la forza della famiglia, la fedeltà alle nostre radici, alle nostre tradizioni, alla nostra religione è la grande risposta alle forme più insidiose di manipolazione; ricordando che questi sono bisogni ancestrali, che solo la nostra strana epoca mette in dubbio.

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Francesca Romana Poleggi

LA FESTA

DELLA DONNA Felice e orgogliosa di essere donna, mi chiedo che senso abbia la “Festa della donna” in un mondo che tende ad annullare le donne e la femminilità

Ma ci stanno riprovando a farmi sentire – in quanto donna – una “specie in via d’estinzione”, una categoria socialmente debole che merita protezione particolare: per esempio con le ridicole “quote rosa”.

Per combattere il ‘femminicidio’ bisogna smettere di distruggere la famiglia

A

l liceo, negli anni Settanta, quando il collettivo femminista della scuola metteva in riga professori, presidi e bidelli, l’8 marzo era una festa “seria”: «In ricordo delle operaie massacrate nel 1908 nella fabbrica di camicie di New York». Molto tempo dopo ho scoperto che il rogo era inesistente, una “bufala” clamorosa, inventata dalla propaganda sovietica nel ’22. Non so se le ragazze del collettivo l’hanno mai saputo e se si sono indignate anche loro. Io – a dire il vero – la “Festa della donna” l’avevo comunque già in antipatia. Perché solo le donne vanno festeggiate? Perché non c’è la “Festa dell’uomo”? Mi sembrava – e mi sembra – non un momento di emancipazione, ma una specie di contentino, una gentile concessione (dall’alto) di cui sinceramente non sentivo, e non sento, il bisogno. In più mi dava l’idea di essere banalizzata, sminuita, come persona: come tutti ho le mie feste e le mie ricorrenze e non avevo certo bisogno dell’8 marzo per andare a mangiare la pizza con le amiche.

Chi l’ha detto che per fare un alcunché bisogna “riservare” delle quote alle donne? Sono handicappate? In qualsiasi competizione – che sia leale, ovviamente – deve vincere la persona migliore, più adatta, a prescindere dal sesso. Per me le quote rosa sono addirittura offensive. Ma le donne vanno “protette” a tutti i costi. Perciò hanno montato la storia del “femminicidio”. Certamente la violenza è da condannare. La violenza dell’uomo, che mediamente è fisicamente più possente, sulla donna, soprattutto in casa – laddove si presume che la donna sia affettivamente coinvolta – è da vili, da vermi disgustosi. 2017 Marzo - n. 50

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Ma anche sulla questione dei “femminicidi” girano molte bugie: i dati che provengono da fonti attendibili, come il Rapporto sulla Criminalità in Italia del Ministero dell’Interno, ci dicono che le donne uccise sono sempre meno: 192 nel 2003, 179 nel 2013 e 152 nel 2014. In percentuale le donne sono circa il 30% delle vittime di omicidio. Quindi il 70% sono maschi. Anche negli altri reati dovuti a questioni sessuali, il numero di vittime maschili è maggiore del numero di vittime femminili: 51,11% contro 48,89%. Ma la cosa più sbalorditiva, che ha sbalordito anche il giornalista del Washington Post che ha fatto la ricerca e ci ha scritto un articolo, è il “paradosso nordico”: i Paesi europei che hanno i più alti standard in materia di tutela dei “nuovi diritti” e di “gender equality” (hanno dato piena attuazione alla Convenzione di Istambul, sulla parità di “genere”), hanno anche gli indici più elevati di violenza domestica contro le donne. Danimarca, Svezia e Finlandia detengono il triste record. Gli studiosi hanno anche fatto i calcoli con l’eventualità che le donne più “libere” denuncino più facilmente gli abusi. Non c’è niente da fare: i risultati non cambiano.

L’incidenza tra i fruitori del porno di stupratori, molestatori sessuali e persone che ricorrono a minacce e intimidazioni per “ottenere sesso” è decisamente rilevante, secondo i ricercatori dell’Università dell’Indiana e dell’University of Hawaii a Manoa, i quali hanno eseguito una meta-analisi di ventidue studi provenienti da tutto il mondo. La nostra società fa molta propaganda per ridurre i comportamenti a rischio: si pensi alla sicurezza stradale o alle campagne contro il fumo. Ma sulle prime pagine dei giornali, sugli autobus, tra i manifesti della Presidenza del Consiglio per la “Pubblicità Progresso”, qualcuno ha mai visto scritto «No alla pornografia» o «La pornografia fa male a te e ai tuoi cari»?

I Paesi europei che hanno dato piena attuazione alla Convenzione di Istambul sulla parità di ‘genere’, hanno anche gli indici più elevati di violenza contro le donne

Questo voler parlare in ogni occasione di violenza di “genere” e di “femminicidio” serve solo a fomentare l’odio tra i sessi e a far propaganda alla più violenta ideologia femminista, quella che vuole “liberare” la donna negandole innanzi tutto la femminilità, la naturale tendenza alla maternità come realizzazione di sé, e che in buona sostanza mira a sfasciare la famiglia. Oggi, poi, da un lato si nega alle donne il fondamentale diritto a essere se stesse, cioè esseri femminili, ma dall’altro si pretende di conferire il diritto d’esser donna a persone che hanno da prima della nascita scritto nel DNA di tutte le cellule il sesso maschile.

La condizione della donna – in relazione alle violenze, agli abusi e ai “femminicidi” – è di gran lunga migliore in paesi come la Polonia, la Grecia, e perfino l’Italia. Le ricerche dimostrano che la violenza sulle donne è scatenata dall’abuso di alcol e di droghe. La libertà e spregiudicatezza nei costumi sessuali, l’educazione sessuale completa, fin dai primi anni di scuola, la contraccezione e l’aborto liberi e a richiesta, di cui si fanno vanto i Paesi nordici, non servono affatto alla “liberazione delle donne”: tutt’altro. Per non parlare della pornografia (anche di quella “soft”, quella che passa a tutte le ore sugli schermi delle TV, nelle pubblicità e nei film che vanno in onda in prima serata).

La propaganda martellante continua a insinuare che i “femminicidi” sono il risultato della mentalità retrograda, patriarcale, che non accetta l’emancipazione femminile. Invece un noto psichiatra come Alessandro Meluzzi ha evidenziato che il tipico maschio “femminicida” è un “maschio fragile”, nato e cresciuto in una società liquida, fatta di legami che non tengono, senza certezze e senza sicurezze, di coppie precarie e di divorzi brevi, terrorizzato dalla paura dell’abbandono, che facilmente degenera in modo violento: per combattere il “femminicidio” bisogna quindi smettere di tentare di distruggere la famiglia. Se vogliamo celebrare una vera festa della donna, che non sia una presa in giro, dobbiamo prima recuperare il valore vero della famiglia.

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«SE LO DICE IL PAPI…»

Andrea Torquato Giovanoli

Per il 19 marzo facciamo i nostri migliori auguri a tutti i papà, offrendo una riflessione sulla paternità che rimanda al Padre

L

’altra sera mia moglie ci aveva appena chiamati a tavola, i piccoli erano già seduti ai posti di combattimento mentre io e il grande li stavamo raggiungendo dopo esserci lavati le mani, quando sento il mezzanello prendere in giro la pargoletta chiamandola ripetutamente, ma storpiandone il nome. Lei per un po’ ha risposto pazientemente al fratello, ripetendo il suo nome correttamente, evidentemente non capendo che quello faceva apposta; infine, esasperata, si è rivolta a me chiedendomi con tono supplichevole di confermare al fratellino il suo nome corretto, perché io mettessi pubblicamente un sigillo definitivo alla questione. Alla sua domanda su come si chiamasse, io ho risposto allora, ostentando una certa enfasi, declamando il suo nome, al che lei si è rivolta al fratellino con espressione soddisfatta, esclamando: «Ecco, hai sentito? L’ha detto il papi che io sono Nadia!». La cosa è finita lì tra i due pargoli, anche perché nel frattempo la mia dolce metà aveva messo loro davanti i piatti con la cena, e il loro appetito ha messo fine a ogni controversia, ma il fraterno siparietto non ha lasciato indifferente il sottoscritto, il quale, durante la serata, è ritornato con il pensiero sulla vicenda, traendo ancora una volta la conclusione di quanto sia indispensabile la figura paterna per un figlio. Infatti la mia bambina ha chiesto direttamente a me, e non a sua madre, la conferma sulla sua identità, e questo perché il figlio riconosce istintivamente nella figura paterna quella autorità naturale che gli riverbera, prima ancora che

ne abbia consapevolezza, l’immagine stessa di quel Dio la cui paternità egli percepisce iscritta nelle profondità del suo animo. E come la mia bambina, invero, così anche l’uomo cerca conferma di sé rivolgendosi al Padre, perché intimamente conosce che solo Lui può indicargli quel nome che esplica chi egli sia e quale sia il suo destino, il quale, nonostante le intemperie del vivere sembrino smentirlo, è sempre un destino di bene. E come la madre è per il figlio lo specchio più immediato dell’amore di Dio, così il padre è per i figli la prima immagine del Padre Celeste e, quanto Quello, egli è ai suoi occhi naturale autorità («Quando parla il papi, si obbedisce subito»), riferimento verace («Quando il papi dice una cosa, quella è per forza vera»), solida guida («Se il papi mi tiene per mano, sì che cammino tranquillo»), baluardo poderoso («Se c’è il mostro sotto il letto, io chiamo il papi») e giusto giudice («Lo dico al papi, e poi vediamo chi ha ragione»). Perché i figli hanno bisogno di entrambi i genitori per quell’ontologica differenza che li contraddistingue nel loro essere così complementari l’uno all’altro, tant’è che senza la madre che insegna a costruire ponti, un figlio cresce menomato nella sua capacità di entrare in relazione con l’altro, così come senza il padre che pone muri attorno alla sua prole, questa non solo resterà scoperta ai pericoli esterni alla famiglia, ma crescerà anche disorientata per quella mancanza di limiti e di regole che sole possono definire al bambino quello spazio sicuro in cui davvero “diventare grande”, con la libera consapevolezza di quale sia la propria vera identità: quella di essere figlio, e figlio amato dal Padre.

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PER I DISABILI:

Nicola Maria Stacchietti

UNA FIABA CHE DIVENTA REALTÀ I #futurigeometri abbattono le barriere architettoniche: un progetto-concorso organizzato da una onlus votata all’integrazione dei disabili

F

IABA è un’organizzazione senza scopo di lucro che ha come obiettivo quello di promuovere l’eliminazione di tutte le barriere fisiche, culturali, psicologiche e sensoriali per la diffusione della cultura delle pari opportunità a favore di un ambiente ad accessibilità e fruibilità totale, secondo i concetti di “Design for all” e “Universal Design”. Ha promosso l’istituzione di “Cabine di Regia per la Total Quality” da diversi anni in tutta Italia con i Comuni di Avezzano, Bellizzi, Caltagirone, Civitavecchia, Lariano, Palmi,

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Pescara, Ponza, Siracusa, Taranto, Viterbo, Porto Sant’Elpidio, Bollate e le Province di Pescara, Chieti, Salerno, Viterbo, Ragusa e Catania e da ultimo con la Regione Abruzzo. Sono tavole rotonde di esperti e amministratori pubblici che garantiscono la massima performance dell’amministrazione nell’ambito delle barriere architettoniche. Dallo scorso dicembre, e fino al prossimo 8 maggio, è online la quinta edizione del bando de “I Futuri Geometri Progettano l’Accessibilità”: gli studenti degli Istituti CAT da cinque anni si cimentano nella stesura di progetti per l’abbattimento delle barriere architettoniche attraverso questo concorso, che ha prodotto la Prassi di Riferimento presso l’Ente di Unificazione Normativa Italiano, “Abbattimento barriere architettoniche - Linee guida per la riprogettazione del costruito in ottica universal design”. La prassi attua un approccio metodologico fondato sul concetto di accessibilità per tutti, che si basa sull’analisi del contesto e delle scelte progettuali dei possibili interventi di abbattimento delle barriere architettoniche. Il concorso ha complessivamente coinvolto nel nostro Paese 190 Istituti CAT, migliaia di studenti, che hanno presentato 108 progetti alle amministrazioni locali interessate. Di questi, sei sono stati adottati e realizzati, o sono in corso di realizzazione: presso il campo sportivo “Fontanassa” di Savona (progetto da 300mila euro presentato dagli studenti dell’ISS Boselli); “Giostre inclusive” nel Parco Bramante di Asti (IIS Gioberti); “Sbarrieramento della Stazione Ferroviaria di Rovereto” (ITET Fontana); “Accessibilità di Viale Roma e Viale Vittorio Veneto” a San Giovanni in Marignano (ITTS “Odone Belluzzi” di Rimini); “Un banale scalino… un ostacolo insormontabile” (ITG Manetti di Grosseto); “Una scuola per tutti” (IIS Volta di Pavia).


Associazione ONLUS

OGNI

VALE

FIRMA anche tu per dire NO ALLE DAT NO ALL’EUTANASIA! Alla Camera è in discussione un ddl - testo unificato risultante da una serie di proposte più vecchie - sull’eutanasia, dal titolo solo apparentemente innocuo: “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari” (da cui l’acronimo DAT). ProVita Onlus ha lanciato una petizione per chiedere ai deputati di respingere il testo sulle DAT che, introducendo l’eutanasia, mette in discussione il diritto alla vita delle persone malate; violenta la coscienza del medico; trasforma in atti potenzialmente illeciti gli atti di sostegno vitale dovuti a tutti: il dar da mangiare e da bere. Infine, infrange il principio su cui si regge il convivere civile e pacifico di tutti i popoli: «non uccidere».

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Giulia Tanel

L’UOMO PUÒ TUTTO? Un dialogo su educazione, valori, neolingua e anche eutanasia

A

bbiamo incontrato la nota scrittrice Susanna Tamaro, nipote di Italo Svevo, che gentilmente ha voluto rispondere ad alcune nostre domande. La realtà ci dimostra che stiamo perdendo la nostra umanità, la convinzione che l’uomo è un essere dalla dignità immensa, e questo anche per via della progressiva scristianizzazione della società. Qual è la sua visione della situazione? Questo argomento c’è in tutti i miei libri: c’è un filo rosso sul senso della vita, sulla libertà... Sono tempi in cui occorre essere molto vigili perché sono passati, o stanno passando molto rapidamente, dei concetti che farebbero inorridire mio nonno: se si svegliasse oggi e gli spiegassi la situazione, credo che non capirebbe. Questa modifica ha portato ad abbracciare il mito prometeico, ossia che «L’uomo può tutto». Ma questo è in contraddizione con il senso della vita, e non occorre essere cristiani per capire che va contro la nostra natura. Naturalmente la scristianizzazione favorisce questo processo, perché non ci sono più valori di riferimento, non c’è più un ancoraggio, non c’è più un limite che dice: «No, questa cosa qui non si fa!».

L’assenza di maestri ed educatori è la grande tragedia contemporanea

In questo contesto, le persone che forse più ne pagano le spese sono i giovani, che non trovano educatori e maestri cui fare affidamento. Si potrebbe dire che l’educazione, una tra le missioni più importanti, è forse anche tra le più disattese?

Sì, sicuramente. L’assenza di maestri ed educatori è la grande tragedia contemporanea.

Il punto è però che per educare – per “tirare fuori” dal gregge, come dice la parola – bisogna avere un’idea di dove si sta andando. Se io stesso, come educatore, navigo a vista... come faccio a educare? Se non ho un insieme di valori di riferimento, per dire «Questa cosa sì» o «Questo non si fa», e per i quali sono anche pronto a combattere e a impegnarmi... se tutto è possibile, che tipo di educazione posso dare? Un’educazione soltanto alla disperazione e alla confusione.

La prima agenzia educativa è la famiglia, che oggi però è spesso in crisi e costantemente sotto attacco. Come vede la situazione? La situazione è davvero tragica. Penso che bisognerebbe partire guardando il numero di disturbi psichiatrici nell’infanzia, che stanno crescendo enormemente. Questo vuol dire che qualcosa non va perché fino a pochi anni fa non c’erano tutti questi problemi, e così gravi: i bambini sono la cartina di tornasole, perché se stanno male significa che hanno alle spalle qualcosa che non funziona. La cosa che non funziona è che non c’è più una stabilità, non c’è più un’identità familiare. Un tempo la famiglia era anche piena di difetti, naturalmente, ma comunque era fedele al fatto che l’essere umano ha bisogno di un papà e di una mamma, possibilmente che si vogliono bene. Ma comunque ha bisogno di un papà e di una mamma, cioè di avere un’immagine di sé anteriore nei genitori e anche di sapere di essere stato atteso... Quando questo non avviene, quando c’è una famiglia distrutta – io la ho avuta, quindi parlo con cognizione –, quando c’è un avvicendarsi di figure... i bambini lo accettano (crescevano anche ad Auschwitz) però rimane uno smarrimento di fondo, una specie solitudine che deriva dal fatto di non aver avuto questa stabilità. Io spero che sia una forma di transizione: la famiglia di un tempo era piena anche di cose negative, quindi spero che quello attuale sia solamente un momento di “pulizia” e che poi si ritorni a capire che la coppia stabile per i bambini è sempre meglio. 2017 Marzo - n. 50

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Anche la scuola riveste un ruolo educativo importante, se non altro per le ore che i giovani passano seduti dietro un banco. Quali sono i principiali limiti del l’istituzione scolastica italiana? I limiti della scuola di oggi sono immensi. Di fatto non si educa più. Anche gli insegnanti che vorrebbero educare sono nell’impossibilità di farlo per via dell’irrompere dei genitori sulla scena; genitori che una volta erano alleati dell’insegnante, mentre ora nella maggior parte dei casi sono contro l’insegnante. Quando ero piccola io e mi lamentavo di una cosa che aveva fatto la maestra, mia mamma – ancora prima di sapere cosa aveva fatto – diceva: «Comunque ha fatto bene». C’era un’integrazione del ruolo dell’insegnante e di quello dei genitori, mentre oggi queste due figure si “distruggono” a vicenda. Poi c’è un frazionamento dei tempi, ci sono i balletti degli insegnanti che cambiano ogni anno... invece un educatore ha bisogno di tempo per riuscire a costruire qualcosa. Infine c’è la complessità educativa. Educare è un’enorme fatica, adesso più che mai perché bisogna

lottare contro le tante cose che succedono intorno. Gli insegnanti dovrebbero essere pagatissimi, perché il meglio del Paese dovrebbe andare a insegnare. Oggi invece sono sottopagati e questo comporta che spesso prendano la loro missione, la loro professione, sottogamba. Arriviamo a un tema caldo: l’ideologia gender. L’ennesimo attacco all’uomo e alla legge naturale? Sì, sicuramente. Parlo io che, nei primi anni Sessanta, sono stata una bambina con molti problemi d’identità sessuale: ho avuto una grande sofferenza perché non riuscivo a capire che cos’ero. Non mi ritrovavo nel ruolo femminile “classico”: ero più attiva, avevo solo fratelli maschi... Se all’epoca fossi stata presa in cura da uno psicologo, mi avrebbe rovinata. Nel senso che è normale che ci siano delle fasi transitorie nell’infanzia, nella ricerca dell’identità, ma che non sono determinanti per la vita intera. Sono dei momenti di passaggio: io nel tempo ho capito che si può essere donna anche senza il fiocchettino in testa. Però se nel momento in cui si presenta questa crisi d’identità, si prende il bambino e lo si manda dallo psicologo, lo si rovina perché si fa diventare “per sempre” una cosa che è transitoria. E questo è un crimine, secondo me, perché i bambini cambiano! Nel mondo ci sono varietà, fantasie, fasi evolutive diverse... Per cui questo voler ideologizzare una cosa che è normale in certe fasi della vita vuol dire anche restringere la vita dell’essere umano soltanto al lato sessuale. Invece questa sfera è una parte importantissima ma comunque relativa dell’essere umano.

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Bisogna lasciare i bambini liberi di crescere: è incredibile questa frenesia nell’ideologizzarli! Qualcuno direbbe che non esiste una natura umana, mentre io sono certa che esiste una natura umana, che si basa sulla dualità, come del resto tutto l’universo: maschile e femminile, luce e buio, inverno ed estate... tutto ha un suo opposto. E la vita procede proprio per la relazione tra gli opposti, non per la relazione tra i simili. Un altro tema di attualità è quello dell’eutanasia, con il testo unificato in discussione alla Camera. Perché la morte e la sofferenza fanno così paura, tanto da dover essere negate? Fanno paura proprio perché non abbiamo più riferimento sulla complessità e sul mistero della vita. Inoltre, in tutto il campo della bioetica c’è stato il lavoro fatto “a monte” di modifica del linguaggio. Perché, per esempio, nel momento in cui parlo di “igiene riproduttiva” nel campo dell’aborto o di “buona morte” per l’eutanasia, si trasmette un’accezione positiva. Hanno insomma avuto l’astuzia di mettere un termine positivo in una cosa che è assolutamente negativa. Ora, mia madre è morta per via di tumore. Io non ho voluto l’accanimento terapeutico, non ha sofferto mai ed è morta a casa sua, nel suo letto, con il suo cane vicino. Nessuno vuole soffrire e la medicina ci permette di far sì che questo non accada. La “buona morte” è questa: spegnersi vicino ai propri cari, con le cure palliative, in maniera naturale. Ed è proprio questo il punto su cui bisognerebbe insistere: lottare affinché le cure palliative vengano incentivate.

Inoltre non bisogna dimenticare che l’eutanasia “istituzionalizzata” è voluta per ragioni di economia sociale, perché le persone che non stanno bene – e che vivono sempre di più – pesano sui bilanci. La realtà è che, con l’eutanasia, le categorie più deboli finiranno per essere vittime di questa decisione. L’idea dell’eugenetica risale agli anni Trenta, quindi è un verme che lavora da tanti anni. Però quando mettiamo l’efficienza davanti a tutto, credo che abbiamo perso la nostra umanità. Da ultimo, un consiglio per i nostri Lettori. In Va dove ti porta il cuore emerge un concetto forte: nella vita serve un centro: qual è, secondo lei? Il centro è il cuore, come dice il titolo del mio libro. Tuttavia è importante sapere che il cuore ha una parte in ombra e una parte in luce, proprio come la terra: uno dei problemi della vita è proprio quello di portare alla luce quella parte di cuore che è nelle tenebre. Il nostro cuore ci “parla”: lì risiedono la coscienza e i valori più profondi in cui crediamo, quindi il punto principale è saper ascoltare questa voce. Inoltre, è importante avere consapevolezza del fatto che la vita è un dono e un mistero e che noi non possiamo controllare tutto. Infatti, chi ha gli occhi aperti sulla vita vede che c’è una trama per ognuno e che questa unicità ci parla del mistero, altrimenti saremmo tutti uguali. Riportare in luce l’idea che la vita sia sacra vuol dire tornare al mistero e all’unicità.

da prima ti anni. Anche n ta a d ra vo la rme che derato un l Holmes, consi utanasia è un ve el l’e d o: en ar W r am ve T li la O i”; ancora esempio, Ha ragione anni Venti, ad sa degli “inferior li as eg m n i : d ta e n on re T zi i tà di za degli ann va della necessi icava la steriliz ve sp ri au sc , o, d o sm o si th es gr nned Paren o George pilastro del pro Anche il famos ndatrice di Pla fo i. il r, ab ge er an id S t es ie d re prima Marga e minoranze in ispirato alle teor tr è al si le r e le it te H en . m sa oli di ne di mas ogiate eliminare i deb li di eliminazio ampiamente el u , ia od n m or a if ev al C on p pro lmente in Bernard Shaw America, specia in o an av ol rc ci eugenetiche che pf del 1924. nel Mein Kam 2017 Marzo - n. 50

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PERCHÉ L’EUTANASIA? L’uomo moderno vorrebbe incatenare le energie della morte, scegliendo da sé il modo e il tempo di morire

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on il trascorrere del tempo aumenta il numero dei Paesi e degli ordinamenti che legalizzano l’eutanasia e che riconoscono il cosiddetto “diritto di morire” in capo ai propri cittadini, i quali decidono di non proseguire la propria esistenza o perché afflitti da patologie fisiche inguaribili, o perché allo stadio terminale di qualcuna di esse, o anche soltanto per motivi legati al mero disagio psichico ed esistenziale, o perfino senza alcun tipo di malessere, come dimostra la proposta avanzata nell’ottobre 2016 dai Ministri della salute e della giustizia del Governo olandese. MA PERCHÉ L’EUTANASIA? Per delineare una risposta occorre partire dalla concezione della morte, individuando le tre fasi che si sono succedute lungo il corso dei secoli nei rapporti tra l’uomo e la stessa morte. Nell’antichità classica il fenomeno della morte era inteso come qualcosa di inevitabilmente interconnesso alla natura dell’uomo, per cui quest’ultimo non poteva che esservi sottomesso, come ricordano le laconiche parole di Democrito: «Gli uomini mentre fuggono la morte, la inseguono». Tuttavia in qualche modo la vita continuava, nell’Ade, dopo la morte. Eutanasia, in questo contesto, è da intendere in senso molto diverso da come oggi lo intende la neolingua. Il concetto di eutanasia, nell’ambito della cultura classica, è infatti ancorato al significato etimologico del termine, cioè “ben morire”, ovvero spegnersi senza traumi e senza prolungate sofferenze, accettando l’evento naturale della morte. Con il trascorrere del tempo la morte, pur rimanendo qualcosa d’inevitabile, comincia a non essere più vissuta seraficamente e stoicamente come nell’antichità classica, ma diviene uno scandalo che suscita disgusto e rabbia, come provano le parole di Dorian Gray di Oscar Wilde: «La morte è l’unica cosa che mi spaventa. Ne ho orrore». L’umanità intraprende così una vera e propria lotta contro la morte. La cultura illuminista, rielaborando paradossalmente l’aspirazione d’immortalità di derivazione cristiana, si intesta una simile battaglia, poiché la sconfitta della morte voluta da Dio significa il trionfo della ragione umana. Del resto così riconosce Céline Lafontaine, allorquando scrive che «il rifiuto della morte portato dal regime cristiano d’immortalità si trasforma nel secolo dei Lumi in un vero e proprio attacco contro la mortalità. Mentre fino a quel momento era stata considerata come un fatto derivato dalla volontà divina che governa il destino umano, la morte comincia allora ad apparire come una rottura nell’ordine razionale della società».

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Aldo Rocco Vitale


urre “È facile ind te ziane o mala n a e n so er p le peso, oppure a sentirsi un inutili…”

Tramite il progresso sociale, politico e tecnico in genere, oltre che medico in particolare, si riesce a debellare la mortalità di molte patologie e si rintraccia il confine della mortalità umana in senso più sfavorevole ai territori fino a ora conquistati dalla morte. Intanto il potere s’impossessa della biologia, come ha notato Michel Foucault, diventando bio-potere, con la conseguenza che se il dominio umano si è espanso fino a manipolare l’origine della vita, la stessa nascita, non può che estendersi, con il tempo, per controllare anche la morte. Ecco quindi che si giunge alla terza fase, cioè quella in cui la morte non si accetta più, non si combatte più, ma si addomestica, per utilizzare la felice formula di Philippe Aries, cioè si sottomette alla volontà dell’uomo.

In questa terza, e ultima, prospettiva l’eutanasia diventa lo strumento con cui l’uomo moderno vorrebbe imbrigliare e incatenare le energie della morte, scegliendo da sé il modo e il tempo del proprio morire. In questa nuova accezione l’eutanasia altro non diventa che la via con cui l’uomo reclama la propria libertà dalla morte, soggiogandola alla propria stessa volontà. Dopo essersi impossessato della procreazione, tramite le tecniche di fecondazione artificiale e l’aborto, dopo aver riportato numerose vittorie nel campo della medicina, che ha sconfitto sempre più patologie mortali, adesso non rimane che impossessarsi dell’ultimo stadio della vita, cioè la morte. L’eutanasia viene così reclamata come espressione della propria libertà da un lato e, per altro verso, come

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Dopo essersi impossessato della procreazione, tramite la fecondazione artificiale e l’aborto, non rimane che impossessarsi della morte

Nella lotta di emancipazione dell’essere umano e di estensione dei suoi confini di libertà soggettiva, fisica oltre che morale, l’eutanasia viene così interpretata come lo stadio ultimo delle aspirazioni di libertà che albergano in ciascuno, come rivelano perfettamente le parole di Valerio Pocar: «Consentire la scelta eutanasica da parte di una persona competente rappresenterebbe, di conseguenza, un progresso della libertà che, come tale e come affermazione dell’etica della tolleranza, rivestirebbe un significato importante, tanto sotto un profilo etico quanto sotto un profilo pedagogico e civile». 20

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Dove l’eutanasia è legale sono subito saltati i paletti imposti dalla legge: dilagano gli abusi e il ‘diritto’ di morire si trasforma in un ‘dovere morale’ di ‘togliere il disturbo’

capacità dell’uomo di non subire ma di dominare la natura nel suo insieme, anche nel suo aspetto più crudele, più terribile, più spaventoso. L’uomo cessa così di essere confinato nei limiti della propria creaturalità – quella per cui è Dio che dona e toglie la vita (Gen 3,19) – ed espande il proprio potere su ciò che prima era indomabile, cioè appunto la sua fine nel tempo e nello spazio, decidendo da sé quando e come questa fine dovrà sopraggiungere. L’eutanasia assurge così a un ultimo tassello di quel mosaico raffigurante l’essere umano che procede nel tempo acquisendo l’autogoverno su se stesso e sul proprio destino, anche e soprattutto biologico. Il senso contemporaneo di eutanasia è così compiuto nella sua definizione ed è oramai maturo per essere adottato dapprima come desiderio individuale, poi come rivendicazione politica e infine come pretesa giuridica espressione della più vasta libertà personale. In un primo momento il diritto alla salute si trasforma così nel diritto a non soffrire e poi nel diritto di morire, come traduzione giuridica concreta del più generale principio di libertà individuale tutelata e garantita dall’ordinamento.

Lo Stato, le istituzioni e l’ordinamento giuridico, quindi, in questa nuova ottica, devono necessariamente omettere ogni intervento e rimuovere ogni impedimento per la completa realizzazione della libertà del cittadino che include, ovviamente, il suo diritto a essere consensualmente soppresso: ma è davvero libero l’uomo che chiede di morire? Si travasa nell’ambito giuridico, in sostanza, il principio volontaristico ri-forgiato da Friedrich Nietzsche, il quale, appunto, così ha scritto: «Io voglio insegnare il pensiero che dà a molti il diritto di sopprimersi – il grande pensiero che seleziona e disciplina». Tuttavia, alla luce di questa più recente interpretazione, sorgono almeno due interrogativi basilari, che meritano una separata trattazione: è davvero configurabile il diritto (in senso soggettivo) di sopprimersi? Nel caso in cui la risposta alla precedente domanda fosse positiva, che conseguenze vi sarebbero per il diritto (in senso oggettivo) in sé considerato? L’esperienza storica insegna semmai che in tutti i luoghi e i tempi in cui l’eutanasia è stata legalizzata sono stati travalicati molto presto i limiti imposti dalla legge, facendo dilagare gli abusi, e capovolgendo il presunto “diritto” di morire in un “dovere” di morire – specialmente per motivi economici –, a carico di soggetti fragili e/o malati. Del resto si sa che, come in ogni utopia che si rispetti, il “Mondo Nuovo” è solo per i sani, belli, forti e ricchi.


SEMBRA “CONSENSO INFORMATO”,

Toni Brandi

INVECE È EUTANASIA

Un affascinante mistero per la scienza, uno scandalo per lo scientismo

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entre andiamo in stampa, la Camera si appresta a discutere la proposta di legge intitolata Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari (da cui l’acronimo DAT), che è il testo unificato di tutta una serie di proposte più vecchie. All’articolo 3, primo comma, si dice che il paziente, o il suo “fiduciario” (quindi una persona indicata dal paziente stesso, che però decide anche se il malato potrebbe aver cambiato idea e potrebbe non aver fatto in tempo a comunicarglielo) può dare «consenso o rifiuto rispetto a scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari», tra i quali vengono incluse «le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali». Da quando in qua cibo e bevande sono “trattamenti sanitari”? Togliere cibo e bevande a un malato vuol dire ucciderlo, praticargli l’eutanasia. Alcuni la chiamano “sedazione terminale” e la spacciano per “cure palliative” (perché ovviamente il malato è sedato, mentre muore di fame e di sete). Alcuni considerano il nutrimento una sorta di “accanimento terapeutico” (anche dare il biberon a un neonato?). Stiamo attenti a non cadere nell’imbroglio: alle pp. 22-23 troverete uno strumento efficace contro le insidie della neolingua. All’art. 1, settimo comma, la proposta recita: «Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale». Ciò vuol dire che se io chiedessi al mio medico di uccidermi, o se il mio “fiduciario” lo chiedesse per me, quegli non potrebbe rifiutarsi: alla faccia della libertà di coscienza e del giuramento di Ippocrate. E la cosa è sostanzialmente confermata dall’articolo 3, che spiega che le “DAT” sono «disposizioni» e non più «dichiarazioni» anticipate di trattamento (la differenza tra le due parole non è da sottovalutare). E non si sostenga che «allora uno cambi mestiere, non faccia il medico»: la professione medica è di chi cura e salva la vita, non di chi uccide. Quella è la professione del boia. Due cose nettamente diverse.

PRIMO PIANO

Poiché la proposta di legge in questione è scritta male anche tecnicamente, alla fine il medico risulta essere un mero esecutore delle «convinzioni e preferenze» del paziente, in ogni circostanza. Tant’è che i Presidi delle facoltà di Medicina di tre grandi Università romane (La Sapienza, Tor Vergata e Campus Biomedico) hanno pubblicamente stigmatizzato lo svilimento della professione operato da questa nuova normativa. Tra le altre criticità, segnaliamo all’articolo 5 la convalida dei registri dei “testamenti biologici” adottati da qualche Comune per compiacere le associazioni pro-eutanasia; e all’articolo 4, comma 2, dove si parla di «qualità della vita» del paziente: chi decide quando e come una vita è “di qualità”? Eppure la maggioranza PD, M5S e SEL, sempre litigiosa e divisa, in questa circostanza mortifera è compatta. Sono pochi i Deputati che, in Commissione, si stanno battendo per la vita. Noi, in occasione delle prossime elezioni, indicheremo con precisione nomi e cognomi di tutti loro: anche stavolta «ci ricorderemo». 2017 Marzo - n. 50

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PICCOLO VOCABOLARIO DELLA NEOLINGUA Dicono che la parola “eutanasia” danneggi la causa mortifera, «perché la gente naturalmente l’associa all’idea dell’uccisione» (invece, dare la morte che cos’è?). Allora si propone di sostituirla con: morte catartica, completamento intenzionale della vita, esito, fine razionale della vita, uscita, terminazione razionale della vita, morte non contingente, morte consensuale e razionale, suicidio amorevole, dignicidio… Queste e altre parole della neolingua servono per plasmare il nostro pensiero: ecco un agile antidoto ai veleni “neolinguistici” in circolazione.

ACCANIMENTO TERAPEUTICO È il somministrare cure inutili o sproporzionate, che non servono per la guarigione o per il miglioramento del malato. È moralmente da condannare così come l’eutanasia. Ma attenzione: dare da mangiare e da bere a un handicappato non è accanimento terapeutico! BUONA MORTE, EU-TANASIA È già in sé una parola della neolingua. Nell’antichità era il «morire senza dolore». Oggi è il «procurare la morte» di un malato. Si può distinguere tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva: con un’azione o un’omissione si causa la morte di qualcuno. COMPASSIONE Una delle più grandi organizzazioni pro eutanasia si chiama “Compassione e scelta”. Ma com-passione vuol dire «patire insieme», condividere il dolore (che è il modo migliore per alleviarlo), non vuol dire «uccidere». CONDIZIONE INCOMPATIBILE CON LA VITA Espressione usata soprattutto per i bambini per i quali viene “consigliato” l’aborto “terapeutico”. La condizione di quei bambini è vita. Una vita probabilmente breve, quasi sempre senza dolore. Per quanto effimera, chi gliela nega soffre un trauma, chi gliela concede e li accompagna all’esito naturale elabora più facilmente il lutto, in pace e serenità. La medicina perinatale, inoltre, sa fare miracoli, per cui non è mai detta l’ultima parola… CURE PALLIATIVE La medicina ha fatto progressi enormi nella

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terapia del dolore, che può essere domato e vinto senza privare il malato della coscienza. Ma attenzione: dare sedativi a un malato per non fargli sentire i morsi della fame e della sete, finché non muore, non è dare cure palliative, è eutanasia. DAT = DICHIARAZIONI (O DISPOSIZIONI) ANTICIPATE DI TRATTAMENTO, dette anche TESTAMENTO BIOLOGICO. Se una persona chiede di evitare l’accanimento terapeutico – anche se non dovrebbe essere necessario – o di donare gli organi, va bene. La richiesta di abbreviargli la vita, invece, non può essere vincolante per chicchessia. Anche perché è facile cambiare idea. In Olanda, ai vecchietti che cambiano idea, non danno retta: prevale il testamento biologico fatto, magari, molti anni prima. EUTANASIA Si veda: BUONA MORTE. FARMACI Sono solo le medicine che servono a curare, non i veleni letali somministrati con il preciso intento di uccidere o di indurre al suicidio. IDRATAZIONE (O NUTRIZIONE) ARTIFICIALE Consiste nel dare cibo e acqua con flebo o sondini. Non sono medicine, né farmaci, né terapie. Dare da mangiare e da bere a un malato non è mai accanimento terapeutico. MORIRE CON DIGNITÀ La morte non è mai bella, è sempre dolorosa e non ha in sé dignità, perché è la vita umana ad avere una dignità somma, fino all’ultimo momento.

VOCABOLARIO


La neolingua vorrebbe far credere che una morte dignitosa sia la morte più veloce e anticipata rispetto al decorso naturale. È invece più corretto usare l’espressione «morte serena» (con sedativi appropriati, se servono). MORTE Si vuole abbandonare la definizione di morte come concetto biologico, per considerarla un fatto sociologico: si apre così la porta alla cosificazione della persona, a discapito dei più deboli e vulnerabili. Si è morti non quando cessano le funzioni vitali, ma quando si cessa di esser “persona”? E chi stabilisce chi è e chi non è persona? Quanto alla morte biologica, c’è anche il problema se si possa definire morta una persona con encefalogramma piatto, ma col cuore che batte (si veda: STACCARE LA SPINA). PALLIAZIONE TERMINALE Si veda: CURE PALLIATIVE. Il termine è spesso usato per indicare la morte per fame e per sete, cui sono state condannate persone come Eluana Englaro o Terri Schiavo. QUALITÀ DELLA VITA Attenzione: tutti vogliamo legittimamente migliorare la qualità della nostra vita. Ma la vita, a prescindere dalla sua qualità – che, peraltro, è impossibile misurare – ha un valore altissimo. Nessuno può giudicare la qualità della vita tale da «non essere degna d’essere vissuta». SEDAZIONE TERMINALE Si veda: PALLIAZIONE TERMINALE. STACCARE LA SPINA È giusto staccare la spina dei macchinari quando questi pongono in essere un accanimento terapeutico. Molti parlano di corpi morti tenuti in vita artificialmente, qualora siano in stato di morte cerebrale (elettroencefalogramma piatto). Il problema è che oggi il concetto di morte cerebrale, soprattutto all’estero, è molto vago: è capitato più di una volta che – una volta staccata la spina – il “morto” abbia continuato a vivere autonomamente e poi si sia anche ripreso. Ma attenzione: molti parlano di staccare la spina anche quando intendono smettere di dare da mangiare e da bere al malato…

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STATO VEGETATIVO (O “VEGETALE”) Riferito a chi ha gravi disabilità cognitive e menomazioni, è peggiorativo: perché non «stato di incoscienza persistente»? Perché a forza di usare le parole “giuste” ci abituiamo a escludere queste persone, i bambini nel grembo materno e gli handicappati gravi, dal novero degli esseri umani. SUICIDIO ASSISTITO Si tratta di un’espressione menzognera perché le persone che arrivano a tanto finiscono comunque morti ammazzati da qualcuno, anche se il veleno lo bevono con le loro mani. TERAPIA Si tratta di un’azione o di un metodo tesi alla guarigione di una malattia, o comunque al miglioramento di una condizione patologica. Quindi definizioni come “aborto terapeutico” sono una menzogna della neolingua. TERAPIA DEL DOLORE Si veda: CURE PALLIATIVE. TESTAMENTO BIOLOGICO Si veda: DAT. TRATTAMENTO SANITARIO Dovrebbe significare “terapia”. Già da tempo si usa per non “offendere” i malati psichiatrici che così non “si curano”, ma vanno sottoposti a «trattamento sanitario obbligatorio». Quindi, sfumato il concetto di “terapia”, la neolingua cerca di passare come trattamenti sanitari il nutrimento e l’idratazione dell’handicappato (che potrebbe non essere affatto “malato”, tecnicamente). VITA DEGNA D’ESSERE VISSUTA Si veda: QUALITÀ DELLA VITA. VSED - VOLUNTARY STOP EATING AND DRINKING (Smettere volontariamente di mangiare e bere). Un malato rifiuta il cibo e chiede la palliazione finché non sopraggiunga la morte: è una forma di suicidio assistito. Chissà, forse un giorno sarà vietato curare le persone anoressiche…

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Giuliano Giuliano Guzzo Guzzo

laureato in Sociologia e Ricerca Sociale, collabora con diverse riviste e portali web fra i quali Tempi.it, Libertaepersona.org, Campariedemaistre.com, Cogitoetvolo.it, Uccronline.it e Corrispondenzaromana.it. È membro dell’Equipe Nazionale Giovani del Movimento per la Vita italiano * giulianoguzzo@email.com @GiulianoGuzzo : www.giulianoguzzo.com

L’EUTANASIA

COME FATTO SOCIALE L’eutanasia non è un fatto privato, individuale come vuole la propaganda: ha implicazioni e conseguenze sociali

Anna Maria Pacchiotti, presidente dell’associazione “Onora la Vita onlus”.

I

l dibattito sull’eutanasia, tra quelli che riguardano le tematiche bioetiche, è probabilmente il più delicato e senza dubbio il più complesso. Impossibile, infatti, trattare del cosiddetto fine vita senza imbattersi in tutta una serie di concetti – «autodeterminazione», «accanimento terapeutico», «desistenza terapeutica», «paternalismo medico», «morte degna», «libertà di cura», solo per ricordarne alcuni – che esigerebbero ciascuno un approfondimento, che però i tempi ristretti dei dibattiti sulla cosiddetta “dolce morte” non consentono.

Quando l’eutanasia viene legalizzata, nel giro di pochi anni fa cultura innescando una tendenza mortifera inarrestabile

Dibattiti, questi, che spesso vedono affastellarsi una serie di slogan e di luoghi comuni che, se da un lato hanno una indubbia efficacia sotto il profilo comunicativo, dall’altro – quasi sempre – veicolano contenuti menzogneri. Si finisce così, molto spesso, per incensare l’eutanasia come elemento di progresso civile, senza però specificare che nell’osannata Unione Europea appena tre Paesi – Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo – la prevedono come espressamente legale. 24

Anna Maria Pacchiotti

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: www.onoralavita.it Allo stesso modo, non di rado si ricorre alla fuorviante dicotomia tra etica laica ed etica cattolica, asserendo che mentre la prima tutela la libertà di scelta la seconda imporrebbe il “dovere di vivere” a tutti i costi, nonostante dolori e atroci sofferenze. Falso: nessuno, nel mondo cattolico, ha mai detto una cosa simile. Anzi, il Catechismo stesso condanna esplicitamente Giulia l’accanimento terapeutico (CCC, 2278) e già papa Tanel Pacelli (1876-1958) nel lontano 1957 precisava con chiarezza che se «la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato Laureata in Filologia e Critica Letteraria. l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento Scrive per passione. Collaboradella con libertaepersona.org e con altri siti internet e vita, essa è da ritenersi lecita».

riviste; è inoltre autrice, con Francesco Agnoli, di Miracoli - L’irruzione del soprannaturale nella storia (Ed. Lindau). un’enorme differenza tra

Il punto vero è che esiste morire con dignità – cosa alla quale nessun cristiano ha motivo di opporsi – e l’essere uccisi, che è ciò che implica l’eutanasia. L’inganno peggiore, del quale non di rado i sostenitori del’eutanasia ricorrono, è però un altro vale a dire la tesi secondo cui la “dolce morte” riguarderebbe la sola autodeterminazione individuale, essendo qualcosa che attiene alla sola sfera individuale, un fatto privato insomma. Ecco, è vero precisamente il contrario: l’eutanasia – tanto più se riconosciuta per legge – è un fatto sociale con implicazioni sociali e conseguenze sociali. Lo dimostrano elementi di carattere quantitativo e qualitativo. Iniziando dai primi, c’è da dire che quando l’eutanasia viene legalizzata, nel giro di pochi anni fa cultura, PRIMO PIANO


Continuando, c’è però da dire che la dimensione sociale dell’eutanasia e il suo dilagare rilevano anche sotto il profilo qualitativo. Fanno testo, in proposito, i casi di Belgio ed Olanda. Iniziando col Belgio, c’è da dire la legge sull’eutanasia è stata approvata dal Parlamento federale il 16 maggio 2002 ed è entrata in vigore il 20 settembre dello stesso anno. In apparenza questa norma si delineava come “restrittiva”, in quanto rendeva possibile l’eutanasia solo in presenza di quattro, specifici requisiti: il ruolo esclusivo del

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medico nell’applicazione dell’eutanasia; l’esigenza che la richiesta del malato fosse volontaria e ponderata; la necessità che fosse accertata come insopportabile e non alleviabile la sofferenza del malato; la consultazione di un altro medico indipendente. Ebbene, tutti i paletti sono caduti nel giro di pochissimo tempo. Nel maggio 2008 – appena sei anni dopo – al Parlamento fiammingo è stato depositato un disegno di legge che prevedeva l’eutanasia attiva per gli incapaci mentali. Nel 2014 è stata estesa ai bambini. Stesso discorso per l’Olanda: il diritto a morire, all’inizio, doveva essere prerogativa dei soli malati incurabili, mentre poi è stato esteso, col cosiddetto

innescando una tendenza mortifera, nota agli bioeticisti come “china scivolosa”. Lo provano i casi dei Paesi Bassi, dove le persone che scelgono di morire aumentano di anno in anno in modo esponenziale – dai 1.923 casi del 2006 ai 3.695 del 2011, fino ai 4.188 del 2012, con un’impennata del 13 per cento in un anno –, e del Belgio, dove le richieste di morte non solo crescono (235 nel 2003, 1.807 nel 2013), ma coinvolgono i pazienti più giovani, e anche pazienti non terminali e le persone depresse. In Canada, in soli sei mesi dalla legalizzazione, sono state uccise 744 persone. Sono storie vere anche queste, ma i sostenitori del diritto a morire si guardano bene dal raccontarle. Chissà perché. Allo stesso modo costoro sorvolano sul fatto che la “dolce morte”, una volta introdotta nell’ordinamento giuridico, si presti ad abusi. Un esempio clamoroso, per restare alla “civilissima” Olanda, viene dal Rapporto Remmelink, il primo rapporto commissionato dal Governo sulla “dolce morte”, il quale rivelò che almeno un terzo dei 5.000 pazienti ai quali, già nel lontano ‘91, era stata somministrata la “dolce morte”, non aveva dato alcun esplicito consenso e ben 400 ammalati non avevano neppure accennato alla questione con il loro medico personale. Scusate, e l’autodeterminazione?

Ovunque l’eutanasia è stata legalizzata, i paletti sono saltati e le uccisioni senza la volontà del malato sono dilagate

Protocollo di Gröningen ai bambini fino a un anno di vita. Poi pure a quelli che abbiano compiuto il dodicesimo anno di età. Ora si sta studiando per consentirla anche per quelli tra i due e i dodici anni. Si tradisce così proprio l’osannato principio di autonomia, dal momento che è del tutto evidente come per costoro risulti inapplicabile il concetto del “valido consenso”. Sempre in Olanda, al St Pieters en Bloklands, un centro anziani di Amerfott, si è deciso, in assenza di una specifica richiesta, di non rianimare i pazienti colpiti da un infarto. Che in terra olandese si fatichi, a livello sociale, a dare un senso alla vita degli anziani è provato anche dal successo di un movimento il cui nome, tradotto, è “Per volontà propria”, che si batte per il suicidio assistito per quanti, superati i settant’anni, si sentissero stanchi di vivere, ai quali si deve fornire, gratuitamente e senza ricetta, il veleno in farmacia. Potremmo continuare ancora, con gli esempi. Ma è già chiara la portata sociale – ampia e devastante, nelle sue implicazioni – dell’eutanasia. Un aspetto al quale i nostri politici, prima anche solo di pensare di votare una legge sulla “dolce morte”, dovrebbero fare molta attenzione, ma che pure noi, spettatori spesso inconsapevoli di continui spot pro-eutanasia, dobbiamo tenere sempre ben presente.

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RISVEGLI

Federico Catani

Le storie di Salvatore Crisafulli, Max Tresoldi e tanti altri dimostrano che si può uscire dal coma e dallo stato vegetativo

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er giustificare le loro campagne pro-morte, i sostenitori dell’eutanasia non esitano a ricorrere a casi limite, tragici e pietosi. Sono ben noti al grande pubblico i nomi di Terri Schiavo, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro e Massimo Fanelli, che i mass media hanno trasformato in simboli. Si tratta di una tecnica comunicativa già usata per promuovere l’aborto, il divorzio, lo pseudo-matrimonio gay e molte altre aberrazioni. Con l’eutanasia tale strategia è ancora più efficace, perché la malattia, la sofferenza e la morte riguardano tutti, e chiunque resta colpito nel sentir raccontare o vedere determinate situazioni di estremo dolore. Però anche quanti difendono il diritto alla vita sino alla sua naturale conclusione hanno delle “armi” a disposizione per contrastare la propaganda dei cultori della morte. Nonostante vengano ignorati dalla stampa e dalle televisioni, infatti, i casi di risveglio da stati che sembravano irrimediabili sono numerosi. Innanzitutto va precisato che il coma o il cosiddetto stato vegetativo non tolgono al paziente la sua dignità di persona umana. Chi, anche per anni e anni, si trova in queste condizioni, è pur sempre un soggetto di diritti e nessuno può arrogarsi il potere di stabilire quale vita è degna di essere vissuta, e quale no. Nessuno può decidere chi deve morire e chi no. Anche perché quelle che troppo superficialmente (e per comodità) si considerano condizioni “irreversibili”, in realtà non lo sono. La sindrome del Locked In comporta che il paziente apparentemente sembri del tutto inerte, ma di fatto sente e comprende perfettamente quanto accade intorno a lui. E a volte può accadere che si risvegli… Di storie da raccontare ce ne sarebbero tante: ci limitiamo qui a qualche esempio. Per l’Italia non possiamo non parlare di Salvatore Crisafulli e di Max Tresoldi. Il siciliano Crisafulli, morto nel 2013, è diventato un testimone indiscusso, pur oscurato dai media, della lotta all’eutanasia. Dopo due anni di coma vegetativo 26

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si svegliò e fece una rivelazione sconvolgente: «Mentre ero in coma sentivo e vedevo tutto». Dato per spacciato da illustri scienziati, che lo avevano definito “un vegetale”, Crisafulli invece era vivo e presente a se stesso. E, appena possibile, ha rivelato a tutti la sua voglia di vivere, anche in quelle tragiche condizioni: «Il diritto di morire non può diventare la nuova frontiera dei diritti umani», ha dichiarato più volte. Oggi la sua storia è diventata un film: La voce negli occhi, prodotto dall’associazione Sicilia Risvegli Onlus, presieduta dal fratello di Salvatore, Pietro.

o in coma r e e r t n e M « evo tutto» d e v e o v i t sen

Quanto a Max Tresoldi, anche lui è uscito dal coma nel 2011, dopo dieci anni di stato vegetativo. Svegliatosi, disse ai familiari: «C’ero sempre stato. Sentivo e vedevo tutto, ma non sapevo come dirvelo». Qualche tempo fa, Max è riuscito ad andare in tv, insieme ai suoi genitori che lo hanno accudito con dedizione, e ha mostrato un cartello con la scritta «Sono felice»: un messaggio di speranza e un invito a non smettere mai di lottare. Cosa sarebbe accaduto se i suoi familiari fossero ricorsi all’eutanasia? La stessa sorte delle povere Terri Schiavo ed Eluana Englaro, morte letteralmente di fame e di sete. Un altro caso interessante è quello della sessantottenne Rosalba Giusti, risvegliatasi dal coma dopo quattro anni, durante i quali, come riferisce oggi, è riuscita a memorizzare i nomi di tutti coloro che le stavano attorno. Passando all’estero, è impressionante la storia dello sportivo belga Rom Houben, per 23 anni ritenuto PRIMO PIANO


incosciente, in stato vegetativo, ma poi rivelatosi, grazie ad un particolare computer, capace non solo di sentire e reagire agli stimoli esterni, ma anche del tutto partecipe. Attraverso la tastiera, Rom ha detto: «Mai dimenticherò il giorno in cui hanno scoperto che non ero incosciente: è stata la mia seconda nascita». C’è poi l’esperienza della francese Angéle Lieby, di 57 anni. Nel luglio 2009 finì in coma farmacologico. Era considerata un “vegetale”, ma in realtà sentiva tutto, sebbene – come ha poi raccontato – non potesse vedere nulla. La donna comprese molto bene che i medici la davano per spacciata, suggerendo al marito di iniziare a pensare al funerale. Angèle sentiva tutto, voleva urlare che era viva, ma la sua voce purtroppo era muta e non aveva la forza di fare alcun cenno. Quando però la figlia le rivelò di aspettare il terzo figlio e che avrebbe desiderato tanto che la nonna lo potesse vedere, dagli occhi di Angèle sgorgò una lacrima. Una sola lacrima che consentì alla figlia di avvertire i dottori. Poi arrivò il movimento di un mignolo. Da quel momento, la donna è “rinata”, iniziando un lungo e complesso cammino di riabilitazione. In un libro che è riuscita a scrivere e pubblicare, Angéle afferma con decisione che «una persona può essere perfettamente cosciente anche se all’apparenza sembra in coma irreversibile». Infine ricordiamo la vicenda della giovane americana Taylor Hale, che nel 2011, a soli 14 anni, è finita in coma dopo un brutto incidente. A un certo punto i medici dichiararono la morte cerebrale e iniziarono a rimuovere i sostegni vitali per consentire la donazione degli organi.

I casi di risveglio da situazioni che sembravano irreversibili sono innumerevoli, ma i mass media non ne parlano…

Ma, nel momento in cui vennero staccati i macchinari, la ragazzina cominciò a respirare affannosamente, ad aprire gli occhi e ad emettere dei suoni, cosicché PRIMO PIANO

Salvatore Crisafulli e suo fratello Pietro La storia di Salvatore Crisafulli è diventata un film: La voce negli occhi, prodotto dall’associazione Sicilia Risvegli Onlus, presieduta dal fratello di Salvatore, Pietro.

i dottori riaccesero subito il respiratore. Insomma, Taylor non era morta e si era svegliata. Iniziò anche per lei una faticosa riabilitazione, non ancora conclusa, che però non le ha impedito di diplomarsi. Ebbene, anziché sprecare tempo ed energie per l’eutanasia, non si dovrebbero forse impiegare risorse per l’assistenza alle famiglie con a carico persone gravemente disabili e per permettere a quanti si risvegliano di recuperare una vita il più possibile normale, attraverso la riabilitazione? Come mai in questi casi i soldi non si trovano mai? È chiaro: con l’eutanasia lo Stato risparmia e i malati vengono tolti di mezzo in nome di un ipocrita umanitarismo e di un falso amore. Ma è questa la società che vogliamo? È questo il mondo nuovo che progettiamo? Chi si trova in situazioni difficili ha bisogno primariamente di non essere lasciato solo, non certo di essere ammazzato. 2017 Marzo - n. 50

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Anna Maria Pacchiotti

UNA VERA STORIA D’AMORE

La testimonianza che ci porta la Presidente dell’associazione Onora la vita insegna il coraggio e l’amore per la vita, anche nelle difficoltà

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a conobbi il 27 luglio dell’anno scorso. Mi trovavo a Tradate, dove avevo allestito una bancarella per dare informazioni sull’aborto e raccogliere fondi per beneficienza, quando dovetti riparare sotto i portici per la pioggia. Sotto a quel diluvio, apparve Lucia: una donna malata di sclerosi multipla, coperta da un grande impermeabile giallo, in carrozzina. Con lei il marito Claudio e la piccola Aurora. Dimostrò un immediato interesse per la tutela della vita nascente e ci scambiammo indirizzi e numeri di telefono. 28

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Nello scorso gennaio sono stata a casa sua e le ho parlato. È una testimonianza di grande coraggio, ed è una vera storia d’amore. Lucia è stesa sul divano, appoggiata a dei cuscini. Iniziamo a parlare e la bimba, che ora ha otto anni, partecipa divertita alla conversazione. Lucia conosce Claudio quando faceva la V elementare: ambedue aspettavano l’autobus alla stessa fermata per recarsi a scuola. Dalla I media si PRIMO PIANO


sono ritrovati anche in classe assieme. Lucia bravissima, Claudio un po’ meno. Lei lo aiutava a fare i compiti. Finita la scuola, non si sono più visti fino al 1988. Quell’anno Lucia fu ricoverata in Ospedale a Gallarate e le fu diagnosticata la sclerosi multipla. Claudio andò a trovarla. Dopo la visita in ospedale iniziò a frequentare la casa di Lucia, le faceva compagnia con i soliti giochi di società. Poi iniziarono a uscire assieme (lei camminava ancora bene). Si recavano soprattutto al cinema o a Varese, in un bar dove facevano una cioccolata speciale che lei gradiva molto. Una sera d’inverno in cui la strada era una lastra di ghiaccio, ebbero un piccolo incidente, fortunatamente senza gravi conseguenze, ma l’automobile di Claudio non funzionava più. Così dovette chiamare il fratello maggiore, che lo rimproverò aspramente. Lucia provò una grande tenerezza e, per la prima volta, lo abbracciò. Una sera, tornati a casa dal cinema, lui le disse: «Io vorrei diventare il tuo ragazzo»; lei gli rispose: «No, scordatelo. Sono malata e non voglio coinvolgere nessuno nella mia vita». Claudio rispose: «Non insisto. Mi spiace. Comunque se cambi idea, io sono qui». Continuarono a essere amici e a frequentarsi. L’anno successivo decisero di passare assieme una vacanza a Sirmione, sul Lago di Garda. Si fecero ottima compagnia, lunghe passeggiate che giovarono molto alla salute di Lucia. Qualche

«Sono malata volgere e non voglio coin ia vita» nessuno nella m

Aurora è cresciuta bellissima, intelligente, amorevole: ha un ottimo talento musicale (suona molto bene il flauto traverso), aiuta i genitori in casa. Sta molto vicina alla mamma: hanno massima cura reciproca. Il marito e la mamma di lei fanno i lavori di casa. Claudio ha inventato dei congegni che aiutano Lucia ad accendere e spegnere le luci a distanza e lei, quando può, lavora. PRIMO PIANO

tempo dopo si ritrovano a casa di lei, di fronte ad uno specchio: lui le chiede nuovamente di sposarlo. Lucia gli risponde: «Guardami, sono gravemente ammalata e con un’enorme febbre sul naso». Claudio ripete che per lui tutto questo non ha importanza. A questo punto Lucia cede: «Se prometti di essere sempre così, ti sposo subito». Detto, fatto. Lui provvede alla casa, la ristruttura. Il matrimonio avviene il 20 giugno 1992 ad Abbiate Guazzone (vicino a Tradate). Ho visto la fotografia delle nozze: due bellissimi sposi bruni, davvero felici! Successivamente si trasferiscono a Tradate. La loro vita matrimoniale prosegue felicemente. I medici, come al solito, li allarmavano a causa della malattia di Lucia e li invitavano a evitare le gravidanze, ma lei non assumeva alcun farmaco anticoncezionale. Dopo un certo periodo, lei vede scomparire i ciclo. Esegue tre test di gravidanza da sola, poi si recano assieme dalla ginecologa e dall’ecografia risulta che nel suo grembo stava crescendo una nuova vita, ben aggrappata all’endometrio nella parte alta dell’utero. Ne furono immediatamente incredibilmente felici. La gravidanza proseguì benissimo. Dopo i classici nove mesi, l’8 aprile 2006, è nata Aurora, con taglio cesareo perché Lucia non ha le normali spinte. Ma la bambina pesa 2 chili e 800 grammi e sta benissimo.

Aurora ha detto davanti a me, alla sua cara mamma: «Quando sei triste e ti viene da piangere per qualsiasi motivo, confidalo a me; io ti aiuto, piangiamo assieme». Verso la fine del nostro colloquio, Lucia mi confida che ovviamente la malattia la sta lentamente consumando. Talvolta fa fatica a deglutire, ma non si arrende e mangia di tutto. Il suo motto è «Mai mollare!». Dice: «La sclerosi piegherà le sue ginocchia, ma Dio annienterà la sclerosi, come una bolla di sapone». Questa, cari Lettori, è quella meravigliosa Fede in Dio che tutti dovremmo avere. Lucia e la sua bella famiglia ce la insegnano. 2017 Marzo - n. 50

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NEBBIA

IN AGOSTO

«Adesso tocca a noi… decidiamo noi»: queste sono parole del dottor Veithausen, responsabile di Marco Bertogna un ospedale psichiatrico nella Germania del sud nei primi anni Quaranta - quando l’Aktion T4 sterminò più di 200.000 persone (tra le quali 5.000 bambini e ragazzi) -, in un film che racconta una storia vera. Una storia che ha per protagonista Ernst Lossa, un ragazzino tredicenne di etnia nomade jenish che, essendo orfano di madre e avendo il padre ambulante, passa da un affidamento all’altro (con esperienza anche del riformatorio) ed è infine accolto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di cui sopra perché ha la nomea di ragazzo “problematico”. Inizialmente il dottore Veithausen appare simpatico, accogliente, affabile ma con il passare dei minuti del film il nostro protagonista tredicenne si accorge che il contesto in cui si trova è una macchina spietata e che le persone e i bambini con cui entra in contatto dapprima spariscono per poi morire di polmoniti e/o broncopolmoniti, tutte diagnosticate dal dottor Veihausen. Ernst non ci sta e si ribella. «Adesso tocca a noi... decidiamo noi» è un’affermazione simbolo anche dei nostri tempi: viene detta o pensata in riferimento all’autodeterminazione. Nel film il contesto è quello dell’utilizzo dell’eutanasia e dell’eugenetica per la selezione della razza da parte del Reich; nella nostra vita la domanda che ci possiamo porre è se queste ideologie continuino a penetrare o meno nelle odierne politiche nazionali e internazionali (si veda l’eutanasia che dilaga laddove è legalizzata e l’ecatombe dei bambini con la trisomia 21 perpetrata con l’aborto terapeutico). È un film bello, intenso, che andrebbe visto e che ha la forza di mettere in discussione l’ipocrisia dei nostri giorni. Guardando gli orrori del passato potremmo costruire un futuro dove Ernst vivrebbe in una comunità che lo accoglie e si prende cura di lui, aiutandolo anziché risolvere il problema eliminandolo. È un film che ha la stessa caratteristica narrativa di film come Schindler’s List: attraverso il racconto di una persona (in questo caso di un ragazzino) viviamo intensamente un dramma che tocca tutta l’umanità. «Adesso tocca a noi... decidiamo noi» dovrebbe diventare una frase positiva, il motto, il grido di un’umanità migliore, sulle ceneri di un passato che non vorremmo tornasse più.


LETTURE CONSIGLIATE «La lettura è per la mente quel che l’esercizio fisico è per il corpo» (Joseph Addison)

Don Stefano Tardani

FIGLI DI CHI? Quale futuro ci aspetta Ancora

Il fondatore del Movimento dell’amore familiare scava nell’intimo dell’uomo e della donna di oggi, in una società che, sempre di più, spinge a fare affidamento solo sulla ricchezza materiale, sulla scienza – che non si vuole più sottomettere a nessuna etica e a qualsiasi problema di coscienza – e sul benessere personale: tutto il resto è relativo. La famiglia viene attaccata pesantemente, con l’obiettivo di scardinarla, di confonderla con altre associazioni umane che famiglie non potranno mai essere. Per evitare che questo accada, l’uomo e la donna sono chiamati a riscoprire le proprie radici profonde, la propria identità di figli di un unico Padre, e dunque tutti fratelli tra loro.

Jean Ousset

L’AZIONE. Manuale per una riconquista cattolica politica e sociale Editoriale Il Giglio

Di fronte alla mancanza di leader e all’aggressione culturale permanente dei massmedia della società secolarizzata, un piccolo gruppo che si propone un’opera di restaurazione della società naturale e cristiana può ancora agire con efficacia? A questa domanda risponde positivamente il manuale tradotto per la prima volta in italiano da Guido Vignelli. L’intellettuale francese Jean Ousset (1914-1994) insegna la tecnica di un’azione civico-culturale volta a rivitalizzare le élite, le gerarchie sociali, i corpi intermedi. È tuttavia indispensabile un’accurata formazione dottrinale e di metodo. Lo studio fornisce indicazioni precise, valide anche nell’era di Internet, e molto utili al mondo pro-life.


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