“POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1, COMMA 1 NE/TN” | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00
Trento CMP Restituzione
Notizie
MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES
“Nel nome di chi non può parlare” Anno V | Rivista Mensile N. 46 - Novembre 2016
Legalizzare la droga “leggera”?
La testimonianza
«Erano solo canne…»
: “fogna terminale ”
UNA
SPACCIATA PER DIRITTO
MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES
SOMMARIO
Notizie
EDITORIALE
RIVISTA MENSILE N. 46 - Novembre 2016
Legalizzare la cannabis?
Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182
LO SAPEVI CHE... ARTICOLI
Redazione Toni Brandi, Federico Catani, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti Cell. 329 0349089
Direttore responsabile Toni Brandi
Rifiutati da vivi, rifiuti da morti
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Anna Maria Pacchiotti
Transgender Day
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Giulia Bovassi
Quello che la scienza dimostra (e non dimostra)
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Francesca Romana Poleggi
Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi
PRIMO PIANO
Progetto e impaginazione grafica
Legalizzare la droga “leggera”?
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Federico Catani
Tipografia
Una “fogna terminale” spacciata per diritto
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Enzo Pennetta
Legalizzare la cannabis ne riduce il consumo?
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Giuliano Guzzo
Distribuzione
“Dilettanti in criminologia”
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Claudia Ciramii
… fino a non riuscire più ad amare
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Toni Brandi
Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Giulia Bovassi, Toni Brandi, Federico Catani, Claudia Cirami, Giuliano Guzzo, Mirko (Associazione Nuovi Orizzonti), Anna Maria Pacchiotti, Enzo Pennetta, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel
C’è sempre una via d’uscita
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Mirko (Associazione Nuovi Orizzonti)
«Erano solo canne…» Giulia Tanel
L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.
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EDITORIALE
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entre andiamo in stampa, la proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis – firmata dall’On. Giachetti e da altri 238 suoi colleghi – soffre una battuta d’arresto alla Camera e torna in Commissione (almeno fino a dopo il referendum costituzionale?). Ne siamo davvero contenti. La detenzione “per uso personale” di qualsiasi droga non è più reato da anni: aggiungere a questo una vera e propria liberalizzazione delle “canne” sarebbe un vero disastro sociale. Dal Sessantotto in poi, la cultura della morte è riuscita a far credere che la cannabis sia una “droga leggera”, il che è falso: ha devastanti effetti neurologici, soprattutto sul cervello degli adolescenti (la percezione si altera, le capacità di ragionamento, di concentrazione e di riflessione della zona prefrontale del cervello non si sviluppano o regrediscono, subentrano psicosi, apatia, schizofrenia e attacchi di panico…), e dà dipendenza. Di fronte a una proposta del genere, ProVita non poteva restare indifferente: abbiamo pubblicato molti articoli sul nostro portale www.notizieprovita.it, e ora dedichiamo all’argomento anche il Primo Piano di questa rivista. Non abbiamo la pretesa di esaurire il tema delle droghe in queste poche pagine, perché i luoghi comuni da sfatare – soprattutto nell’interesse dei nostri ragazzi – sono moltissimi. La cannabis fa molto male dal punto di vista fisico e psichico. E i danni che si vedono nell’immediato (bastano un paio di boccate per sentirsi male) sono niente rispetto a quelli a lungo termine. Il fatto che siano lecite e diffuse altre pratiche che possono essere nocive o dare dipendenza (alcol, fumo, gioco d’azzardo...) non può essere una scusa per diffondere legalmente anche la droga. La legalizzazione, poi, non serve a combattere la criminalità, né a svuotare le carceri, né a concentrare maggiori risorse nel contrasto alle droghe pesanti: lo dice un magistrato che da anni combatte i narcos e la ’ndrangheta. E non è vero che la lotta allo spaccio è fallimentare: negli ultimi dieci anni il traffico è diminuito sensibilmente. E se anche la lotta ai crimini non fosse efficace, sarebbe questo un buon motivo per abrogare il codice penale? Del resto dalle comunità di recupero, si alza un chiaro, forte, unanime: «NO alla legalizzazione!». Leggete le testimonianze che abbiamo raccolto. Ma, soprattutto, uno stato civile non può legalizzare ciò che fa male, non può legalizzare ciò che dà dipendenza: dipendenza vuol dire ricattabilità; dipendenza è il contrario di libertà. La verità è che i cultori della morte vogliono una gioventù istupidita; vogliono una società di persone deboli, in crisi, facilmente addomesticabili e governabili. Noi – finché avremo voce – ci opporremo a tutto questo, e speriamo che il buon senso prevarrà. Toni Brandi
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LO SAPEVI CHE... UTERO IN AFFITTO Il mese scorso, in Senato, ProVita Onlus ha organizzato una conferenza stampa per fare fronte comune contro la pratica dell’utero in affitto, in Italia e nel mondo, cui hanno partecipato rappresentanti di forze politiche molto diverse. Nel nostro Paese le agenzie straniere promuovono in modo abbastanza spudorato la pratica dell’utero in affitto e cercano di procacciarsi clienti italiani disposti a pagare decine di migliaia di euro per acquistare un bambino, separandolo dalla sua mamma. Di fronte a tutto questo la magistratura e le autorità si mostrano inerti, nonostante le denunce che la stessa ProVita ha sporto alle Procure di Roma e di Milano. Se ancora non lo avete fatto, sottoscrivete la nostra petizione e richiedete alla nostra Redazione una copia – in Dvd – del documentario BREEDERS: donne di seconda categoria?
COLOMBIA, FARC E GENDER L’accordo di pace tra Colombia e Forze Armate Rivoluzionarie (Farc), firmato lo scorso 26 settembre, ha riscosso gli applausi di tutto il mondo mass-mediatico. Tuttavia, a ben guardare, esso favorisce politiche abortiste e lascia insoluto uno dei più gravi problemi del Paese: il narcotraffico. Inoltre, la parola “genere”, nelle sue varie sfumature, nel documento 4
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ricorre oltre cento volte. Fatto assai strano nel contesto di una trattativa con guerriglieri e terroristi! C’è chi dice che i sottoscrittori hanno creato le condizioni giuridiche per trasformare la società colombiana e promuovere politiche favorevoli all’agenda omosessualista. Una vasta porzione di opinione pubblica è fortemente contraria a quella che è, a tutti gli effetti, una resa alla guerriglia comunista. Infatti i colombiani, scesi in piazza quest’estate contro l’indottrinamento gender a scuola, hanno bocciato gli accordi tramite referendum.
NOBEL PER LA PACE Due donne anziane, due suore, completamente estranee al teatro mediatico della popolarità e dell’apparire, sono state candidate dalla Corea del Sud al premio Nobel per la pace. Sono due persone semplici, le austriche suor Marianne Stoeger e suor Margaret Pissar, che hanno dedicato la loro vita ad assistere e curare i lebbrosi in un paese come la Corea, dove la concezione buddista prevalente accompagna la tremenda malattia allo stigma sociale: i lebbrosi sono maledetti. Insieme con le cure – che guarivano quegli infelici – l’obiettivo principale delle due religiose è stato quello di ridare loro la dignità di uomini. A poco a poco
PROSPETTIVA EDUCATIVA DI GENERE
Vignetta di ProVita
quell’inferno è stato cambiato dall’esempio e dal lavoro delle due donne cui oggi tanti malati che sono guariti, e i loro figli, sono infinitamente grati. I dirigenti dell’ospedale hanno affermato che l’operato delle due suore «dovrebbe divenire una pietra di paragone per questa nostra era, incentrata sul materialismo».
GAY NON SI NASCE, E SI PUÒ CAMBIARE La teoria omosessualista della “born gay theory” è smentita dall’evidenza scientifica e dalle testimonianze di migliaia di ex gay, come Luca Di Tolve. Ma anche una ricercatrice affermata, che collabora con l’American Psychological Association (APA), attivista lesbica e seguace dell’ideologia gender, ha riconosciuto che omosessuali non si nasce, si diventa. Si tratta della dottoressa Lisa Diamond, co-redattrice del Manuale APA su Psicologia e Sessualità. Sulla scia della “born gay theory” sono stati presentati progetti di legge (tipo quello di Lo Giudice, in Italia) per vietare e criminalizzare le terapie riparative. A nostro parere per dirimere certe questioni sono sufficienti la ragione naturale e il buon senso, ma quelli che hanno sempre pronta la citazione di «ciò che dice l’APA» forse dovrebbero prendere atto delle ricerche della Diamond e ridimensionare a ideologia ciò che appunto sta nell’ambito dell’ideologia, e non della scienza.
Molti membri del Governo, e persino alcuni proponenti delle proposte di legge sull’educazione di genere, sono poco informati sulla questione. Confondono le “finalità educative” con la “prospettiva educativa”. Le finalità – o forse i pretesti – dell’educazione gender potrebbero anche coincidere, in parte, con la prevenzione della violenza e della discriminazione e con il rispetto delle differenze. Il problema è: quali mezzi e quali prospettive si adottano nell’intento di perseguire quelle finalità? Non possiamo indottrinare gli studenti all’ideologia solo perché speriamo di ottenere qualche effetto positivo. La “prospettiva educativa” non è neutrale... Insomma: il fine non giustifica i mezzi. E la “prospettiva educativa di genere” indebolisce la famiglia e, con essa, l’individuo, che diventa sempre più solo, più dipendente dal consumo e meno incline al risparmio, più ripiegato sulla soddisfazione personale e meno proteso verso il bene comune.
Immagine di ProVita - La più apprezzata sul web!
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Anna Maria Pacchiotti
RIFIUTATI DA VIVI, RIFIUTI DA MORTI Un’esperienza vissuta tempo fa al cimitero di Desio ha segnato profondamente la presidentessa di Onora la Vita: oggi la condivide con i nostri Lettori
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n Lombardia il Regolamento Regionale Formigoni 09.11.2004 in materia di attività funebri e cimiteriali (Capo II – Art. 4) prevede che nei cimiteri siano ricevuti, qualora non venga richiesta un’altra destinazione, i cadaveri dei nati morti e dei “prodotti del concepimento” (mi fa pena vedere che li chiamano così: sono bambini!). Una cara amica della zona ha saputo che nel nuovo cimitero di Desio (dall’aspetto massonico: tutte tombe uguali, nessuna idea di Aldilà, di un Dio che accolga le anime dei morti, tutto assolutamente spersonalizzato...), nascosto da un’alta siepe c’era un angolo di terra smossa, argillosa e appiccicosa: è entrata e ha notato, appesi alla recinzione, dei piccoli peluches e, nel suolo, una piccola croce.
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Nonostante le promesse, l’impresa appaltatrice non ci ha avvisati riguardo il giorno in cui sarebbe avvenuto l’interramento dei poveri innocenti
Siamo passati immediatamente all’azione: dopo due visite all’ospedale tramite appuntamento con il direttore sanitario – che era piuttosto d’accordo con noi, mentre le capo-infermiere si sono mostrate poco sensibili alla questione – ci siamo rivolti all’impresa appaltatrice, che era vicina al cimitero, dove siamo state ricevute dal direttore. Costui ha detto che avrebbe rispettato il regolamento regionale di cui sopra, che aveva sulla scrivania. Nel frattempo ho fatto visita al custode del cimitero: un uomo pieno di timor di Dio, devoto a Padre Pio da Pietrelcina, fiero antiabortista, con il quale mi mantengo in contatto telefonico. Nonostante le promesse, l’impresa appaltatrice non ci ha avvisati riguardo il giorno in cui sarebbe avvenuto 6
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l’interramento dei poveri innocenti, ma per fortuna mi ha telefonato l’amico custode. Quella mattina arriviamo in gruppo, con il Diacono che avrebbe benedetto i morticini e con il quale avremmo pregato. Sospettosa e prudente, mi piazzo nelle vicinanze dell’angolo su descritto e vedo arrivare di corsa un furgone dell’ASL, che infila un cancello laterale. Avviso il custode e li fermiamo giusto in tempo. Entriamo tutti, compresa qualche donna che ha vissuto quella orribile esperienza. Fra le lacrime scatto qualche fotografia. Poi preghiamo e i poveri piccini nelle scatole dei rifiuti vengono benedetti. Concludiamo la piccola cerimonia con un canto. Impaziente, il personale dell’ASL attendeva vicino alla ruspa pronta per iniziare gli scavi. Penso che la loro coscienza sia stata profondamente turbata: si stavano rendendo conto che quelli sono bambini, persone. Io non riuscivo a smettere di piangere, ma ho visto che c’erano molte persone che sembravano essere insensibili a questa mostruosità. Alla fine gli addetti dell’ASL ci hanno letteralmente buttato fuori dal piccolo campo ed è iniziato l’orrore: dalle scatole di cartone vengono estratti dei sacchi di plastica contenenti dei feti anche grandi, ben formati. Dopo lo scavo vengono gettati, come immondizia, tutti assieme nella terra e poi ricoperti di terra smossa. Tutto questo ha causato in me un vero crollo emozionale. Ringrazio di vero cuore il bravo custode che ha reso possibile la nostra partecipazione e la benedizione di quelle piccole salme: per la causa della vita bisogna sapersi spendere, osare, chiedere la collaborazione delle persone giuste. Cari amici di ProVita, Vi assicuro che ogni volta che ricordo questo episodio il mio cuore si riempie di un grande dolore.
Giulia Bovassi
TRANSGENDER DAY È nobile lottare contro atteggiamenti ciechi di fronte alla realtà della pari dignità umana, a patto che quest’ultima venga a tutti gli effetti considerata nella sua oggettività
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ita Hester, vittima di una violenza omicida avvenuta nel novembre del 1998 ad Allston, un quartiere di Boston, era biologicamente un uomo che da oltre dieci anni conduceva un’esistenza al femminile. La brutalità dell’accaduto suscitò la reazione di molti attivisti transgender, tra i quali Gwendolyn Ann Smith, che l’anno successivo s’impegnò nel Remembering Our Dead, una fiaccolata organizzata nel giorno della morte di Rita per celebrarne il ricordo come segno di protesta contro la discriminazione “transfobica”. È questa la storia alle spalle del Transgender Day of Remembrance (TDoR), ricorrenza che viene celebrata dal 20 novembre 1999 con una veglia che oggi non coinvolge più solamente San Francisco, bensì diverse città in tutto il mondo.
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Fornire l’indicibilità del proprio essere a bambini e adolescenti, pensando di liberarli dal corpo, non fa che renderli schiavi di insicurezze e di caotiche possibilità senza alcuna base d’appoggio
Episodi drammatici, come quello di Rita, sono spesso terreno di sottili e diffuse sensibilità sociali impegnate a denunciare la non-accettazione dello stile di vita trans. La condanna nei confronti di ogni tipo di emarginazione dovuta alla presenza di qualsivoglia
diversità, è alla base del principio di uguaglianza che rende ogni uomo identico in dignità ai suoi simili solo per il fatto stesso di essere tale. È questa linea che consente la convivenza civile tra individui, razionalmente coscienti dell’assurdità insita in ogni ipotetica pretesa d’indifferenziabilità tra le cellule del genere umano. Grazie a una consapevolezza è stata costruita l’armonia nella conoscenza dei contrari, imparando con essa la tolleranza e il rispetto anche in contesti che non prevedono un accordo, ma che necessitano di comprensione e aiuto. In tal senso è nobile lottare contro atteggiamenti ciechi di fronte alla realtà della pari dignità umana, a patto che quest’ultima venga a tutti gli effetti considerata nella sua oggettività. Ciò cui invece ci stiamo lentamente abituando è la normalizzazione della fluidità: non c’è nulla di effettivo, nessun dato oggettivo, tutto è determinabile e provvisorio, svincolato dal carattere empirico e fenomenologico. È questo che accade per esempio quando si prescinde dalla sessualità cromosomica (quell’informazione sul proprio sesso che l’embrione unicellulare porta con sé fin dalla fecondazione) e si approda a discutere sulla giustezza dell’arbitraria decisione genitoriale a proposito del sesso del neonato. È questo che accade quando la natura della nostra venuta al mondo e la nostra costituzione biologica caratterizzante, non vengono più analizzate in quanto tali, quanto piuttosto 2016 Novembre - n. 46
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come una presa di posizione culturale: fin dal tempo della vita intrauterina (per la precisione verso la fine della settima settimana di gestazione) il nostro essere maschi o femmine si sviluppa rispettivamente nei dotti genitali di Wolff o di Müller, che vanno incontro a differenziazione per azione degli ormoni rispettivamente maschili o femminili. È ancora questo che accade quando s’ignora, tra i fattori decisivi dell’identità personale, il sesso fenotipico o genitale e quello cerebrale. Questi dati sono infatti iscritti in ogni cellula dell’essere umano, tanto che qualsiasi anomalia nel loro sviluppo viene catalogata all’interno dei DSD, Disturbi della Differenziazione Sessuale, riconosciuti come patologie e non come terzo sesso. Appare evidente che non esistono individui neutri, in grado di sorvolare il dato biologico per scalare verso una sua rifondazione creativa, neanche se la dimensione psicologica e relazionale della loro sessualità sente di non trovare con esso corrispondenza. Due studi – uno condotto dall’American Foundation for Suicide Prevention, nell’analisi dei risultati provenienti dalla National Transgender Discrimination Survey, l’altro dall’Aggressive Research Intelligence Facility (ARIF) – hanno raggiunto il medesimo risultato: più del 41% delle persone intervistate, che hanno subito un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso, hanno ammesso di aver tentato il suicidio. Una percentuale altissima confermata anche da Trans Lifeline, una linea anti-suicidi istituita per le persone transessuali, che ha ricevuto più di 20.000 chiamate nei primi nove mesi di vita. Sono gli esiti allarmanti di quell’avvertimento lanciato nel lontano 1979 dal Dott. Charles Ihlenfeld, il quale invitò i colleghi e i sostenitori dell’ideologia transgender a tenere presente le condizioni postume ai cambiamenti di sesso: un livello
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considerevole di infelicità testimoniata dai pazienti e un alto numero di suicidi. Se a queste condizioni aggiungiamo un uso o un abuso di sostanze per cercare di colmare la dissociazione non più corpo-psiche, ma corpo-corpo (una discrepanza tra identità esteriore e identità interiore vecchia/nuova), si coglie l’urgenza di un approccio terapeutico propositivo, che favorisca un percorso di conoscenza della propria sessualità. In termini propriamente terapeutici la rettificazione del sesso segue un programma graduale, la cui tappa finale consiste nella demolizione-ricostruzione mediante intervento: quest’ultima fase comporta la privazione dei genitali, la sterilizzazione e l’impossibilità procreativa. Non è un sentiero facile, non è terapeutico (in quanto intacca l’integrità corporea di una persona sana, con organismo fisicamente integro) e non è un intervento risolutivo. Questi fattori premono sulla fragilità umana, di comune appartenenza all’homo sapiens, e inducono all’obiezione di gettare in balìa del nichilismo e del relativismo esistenziale i più piccoli, coloro sui quali siamo chiamati a vegliare: è questo l’appello postato sul sito web da Michelle A. Cretelia, presidente dell’American College dei pediatri, di Quentin Van Meter, vice-presidente, pediatra, endocrinologo, e di Paul McHugh, professore di psichiatria presso la Johns Hopkins Medical School. Un richiamo agli educatori e ai legislatori per incitarli a opporsi a tutte le politiche e le pratiche che inducono i bambini ad accettare come normale una vita in cui, con mezzi chimici o chirurgici, s’impersonifica il sesso opposto al dato assegnato alla nascita dalla natura. Fornire l’indicibilità del proprio essere a bambini e adolescenti, pensando di liberarli dal corpo, non fa che renderli schiavi di insicurezze e di caotiche possibilità senza alcuna base d’appoggio. Il compito che spetta agli specialisti del settore, così come a ognuno di noi, è di armonizzare le differenze, trattando come diverso ciò che è diverso e come uguale ciò che è uguale. Non è la recinzione vittimistica la chiave per combattere episodi terribili come quello di Rita Hester. Occorre fare chiarezza laddove vige confusione, senza aspirare a caselle vuote da sbarrare per bambini che non trovano gli strumenti per presentarsi al mondo come maschietti o femminucce, insegnando loro cosa significhi l’unicità di ogni uomo, a partire dall’irripetibilità del dato genetico.
QUELLO CHE LA SCIENZA DIMOSTRA (E NON DIMOSTRA)
Francesca Romana Poleggi
Una metanalisi di centinaia di studi scientifici sull’omosessualità e sulla transessualità smentisce i luoghi comuni della propaganda Lgbt
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a rivista scientifica The New Atlantis (Numero 50, autunno 2016) ha pubblicato uno studio condotto dal professor Lawrence S. Mayer (del Dipartimento di Psichiatria presso la Johns Hopkins University School of Medicine e professore di statistica e biostatistica presso l’Arizona State University) e Paul R. McHugh (professore di psichiatria e scienze comportamentali presso la Johns Hopkins University School of Medicine e primario, per venticinque anni, nell’omonimo ospedale), con la consulenza di numerosi medici specialisti nelle varie discipline interessate, dalla pediatria all’immunologia. Tra costoro molti hanno declinato l’invito a collaborare per paura delle reazioni violente e dello stigma che gli attivisti Lgbt sono in grado di scatenare, con ripercussioni anche gravi sulla carriera dei malcapitati.
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Bisogna conoscere la verità, innanzitutto nell’interesse delle persone che hanno un orientamento omosessuale o che soffrono di disforia di genere
Questo lavoro, scrive invece il professor Mayer, serve a sfatare – sulla base della metanalisi di svariate centinaia di studi scientifici – i principali luoghi comuni che sono stati inculcati nelle nostre menti dalla propaganda ideologica Lgbt. Bisogna conoscere le risultanze di queste indagini, sia per amore della verità e della libertà di pensiero, sia innanzitutto nell’interesse delle persone che hanno un orientamento omosessuale o che soffrono di disforia di genere.
solo ed esclusivamente per ragioni scientifiche, scevre da qualsiasi risvolto o considerazione politica e/o morale. Tra l’altro Mayer si dichiara deciso sostenitore della lotta per l’uguaglianza e contro le discriminazioni delle persone Lgbt e ha più volte testimoniato in loro favore, come perito. Al contempo, però, è fortemente preoccupato per tutti i bambini ai quali si prospetta, in modo irresponsabile e sconsiderato, la terapia ormonale e il cambiamento di sesso in caso di apparente disforia di genere, spesso destinata a regredire spontaneamente con la maturità sessuale. Il rapporto s’intitola Sexuality and Gender – Findings from the Biological, Psycological and Social Sciences (Sessualità e genere – Riscontri dalle scienze biologiche, psicologiche e sociali). Quanto all’orientamento sessuale, la prima parte dello studio si preoccupa della comprensione di quanto possa essere innato: non c’è alcuna possibilità di dimostrare che gli omosessuali sono “nati così”. Non c’è alcuna prova scientifica, né ci sono spiegazioni biologiche alla base dell’orientamento sessuale umano (che non dipende neanche dai dosaggi ormonali). Le piccole differenze riscontrate nelle strutture e nell’attività cerebrale degli omosessuali sono verosimilmente il risultato di fattori ambientali e psicologici (il cervello umano è un organo che si plasma nel corso della vita).
Gli Autori dichiarano di essere stati spinti all’impresa dalla preoccupazione professionale per il benessere della comunità Lgbt, all’interno della quale si riscontra un tasso di problemi di salute mentale sproporzionato rispetto alla media della popolazione. Il loro lavoro è stato condotto 2016 Novembre - n. 46
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L’orientamento sessuale può essere fluido nel corso della vita di alcune persone, ma l’80% degli adolescenti maschi che avevano detto di aver provato attrazione per altri maschi sono poi divenuti adulti eterosessuali. La stragrande maggioranza delle persone non eterosessuali ha avuto esperienze sessuali molto precoci (sovente con abusi).
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Prospettare l’operazione a chi soffre di disforia di genere – specie se bambini – è un grave errore ed è contro i loro interessi
Nella seconda parte dello studio, ove si tratta di sessualità e salute mentale, si mette in luce come l’incidenza delle malattie mentali nella popolazione non eterosessuale sia di gran lunga più elevata rispetto alla media. Le persone non eterosessuali soffrono di disturbi d’ansia, di depressione, di abuso di sostanze in percentuale doppia rispetto alla media dei consociati. I suicidi nella comunità Lgbt sono due volte e mezzo in più. I dati sono ancora più allarmanti rispetto alle persone transgender: il 41% di loro ha tentato il suicidio, laddove solo il 5% degli americani lo tenta. Le prove che i fattori di stress sociale – come la discriminazione e lo stigma (la cosidetta “omofobia”) – contribuiscano al rischio elevato di questi problemi di salute mentale, sono deboli. Infatti sappiamo che suicidi e malattie mentali si manifestano anche in Paesi molto gay friendly, come quelli del Nord Europa. Non solo: le comunità (eterosessuali) perseguitate e stigmatizzate nel passato e nel presente, per motivi razziali o religiosi, non reagiscono allo stesso modo. Come mai? Nella terza parte, si smentisce l’ipotesi che l’identità di genere sia una proprietà innata e fissa degli esseri umani, indipendente dal sesso biologico. Non esiste «un uomo intrappolato nel corpo di una donna» oppure «una donna intrappolata nel corpo di un uomo»: non c’è alcun fondamento scientifico. La disforia di genere incide sullo 0,6% della 10
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popolazione americana: le strutture cerebrali dei transessuali e dei transgender non forniscono alcuna prova neurobiologica per la disforia. Invece risulta che chi si sottopone all’intervento chirurgico per la riassegnazione del sesso si suicida, o tenta di suicidarsi, diciannove volte di più degli altri. Quanto ai bambini, solo una piccola minoranza di quelli che mostrano una qualche forma di disforia continuerà a soffrirne in adolescenza o in età adulta. Non ci sono prove scientifiche che dimostrino la necessità d’interventi che ritardino la pubertà, o che modifichino le caratteristiche sessuali secondarie degli adolescenti. La sessualità è una parte estremamente complessa della vita umana, che sfida i tentativi di chi vorrebbe definirne tutti gli aspetti con precisione. Ma la ricerca offre alcune chiare risposte: le persone Lgbt mostrano alti tassi di depressione, ansia, abuso di sostanze e suicidio rispetto alla popolazione generale. Lo stigma, il pregiudizio e la discriminazione non risultano determinanti in tal senso. Fin qui i dati scientifici oggettivi. Poi ci sono sempre il buon senso e la morale dettata dalla ragione naturale (la stessa che ci insegna che non bisogna uccidere, rubare, mentire, tradire…), le quali – se usate correttamente – eviterebbero a noi di dover scrivere tante parole e agli addetti tanto lavoro di ricerca.
Federico Catani
LEGALIZZARE LA DROGA “LEGGERA”? Dovremmo sottrarre il tema droga all’ideologia e alla strumentalizzazione politica per darlo alla scienza
Prima di tutto ci racconti chi era Fabio Bernabei. Qual è il ricordo che ne conserva e che vuole condividere con noi? Fabio era un amico e un collega con cui abbiamo condiviso diverse esperienze professionali. Nel giornalismo, anche al CNR, e poi con la Comunità di San Patrignano, con la quale io sono in rapporti di collaborazione e amicizia da oltre vent’anni. Ci incontravamo, tra l’altro, in occasione degli eventi che “Sanpa” organizza per dibattere di giovani, abusi, dipendenze e comportamenti a rischio. Era diventato uno dei maggiori esperti di questo tema, che seguiva soprattutto a livello internazionale: viaggiava molto, PRIMO PIANO
partecipava a organismi specializzati. Ci siamo incontrati anche dopo l’insorgere della malattia, che affrontava con un coraggio leonino, non aveva mai perso il suo piglio allegro. La sua prematura scomparsa è una grande perdita.
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I narcos puntano ad allargare il mercato, con qualsiasi mezzo. Anche promuovendo la legalizzazione della cannabis!
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l 28 maggio scorso è morto Fabio Bernabei, amico di ProVita e specialista sulle tematiche della droga. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Storia moderna della droga: dalle utopie alla realtà, la cui prefazione è stata scritta da Marco Ferrazzoli, capo ufficio stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), giornalista da tempo impegnato su questo fronte. Lo abbiamo interpellato per avere un quadro generale sull’argomento.
Quali sono le cifre della diffusione delle droghe e del loro consumo? Ci sono forti preoccupazioni per le sfide poste dalla diffusione delle nuove droghe e delle dipendenze comportamentali (uso patologico di internet, gioco d’azzardo) e per il consumo di sostanze illecite che, seppure stabile, mostra percentuali molto elevate a causa degli aumenti registrati tra il 1995 e il 2003. 2016 Novembre - n. 46
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I risultati pubblicati nell’ultimo rapporto del progetto ESPAD (European School Survey Project on Alcohol and other Drugs), che ha coinvolto 35 paesi europei e un totale di 96.043 studenti, condotto in Italia dall’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, evidenziano che l’uso di droghe mostra ancora livelli molto elevati. In media, il 18% degli studenti europei ha riferito di aver utilizzato una sostanza almeno una volta nella vita, ma le percentuali variano notevolmente tra i Paesi partecipanti all’indagine, dal 6% al 37%, con 10 Paesi che superano il 25%, tra cui l’Italia (28%).
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Modi, luoghi e riti dello sballo cambiano e si sovrappongono a quelli della cosiddetta normalità. In questo caotico quadro perde ancor più senso la vieta distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”
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La sostanza più diffusa in assoluto è la cannabis, con il 16% degli studenti che riferisce di averla utilizzata almeno una volta: tra il 1995 e il 2015 le tendenze sul consumo hanno indicato un aumento generale sia per l’uso occasionale, sia per quello corrente. Il 4% degli studenti ha sperimentato le nuove sostanze psicoattive (NPS) almeno una volta nella vita, mentre il 3% ne ha riferito un uso recente. Le NPS sembrano ormai più diffuse di altre sostanze come amfetamine, ecstasy, cocaina o LSD. Questo, evidenziano i ricercatori, rende necessario approfondire il monitoraggio delle nuove droghe che vengono immesse sul mercato.
dei 13 anni, dice l’ESPAD, è diminuita nel corso degli ultimi vent’anni dal 10% al 4%; in Italia ad aver sperimentato l’uso di tabacco è il 58% degli studenti, nel 1995 la percentuale si attestava intorno al 64%. L’uso di alcol tra gli adolescenti europei rimane a livelli elevati ma mostra, come per il fumo, tendenze positive. Il consumo una tantum, dal 1995, è diminuito dall’89% all’81% e l’uso corrente dal 56% al 47%, con un marcato calo dopo il picco del 2003. La percentuale di “binge drinking” (cinque o più bevute in una singola occasione) in alcuni Paesi è diminuita e in Italia il consumo corrente di alcolici ha fatto registrare per la prima volta una diminuzione dal 2003 (dal 63 al 57%). E cosa dire delle cause che stanno dietro l’uso di sostanze stupefacenti? Sono un giornalista, non un sociologo e devo dire che diffido delle analisi troppo semplicistiche. Tante analisi, dall’indagine Genitori e figli allo specchio dell’Ipsos a Degenerazioni di Alessandro Barbano, riconducono l’uso di droghe alla «paura di affrontare una realtà difficile», alla «mancanza di sostegno della famiglia», prendendo di mira padri e madri insicuri, deboli, incapaci di opporre dei «No» educativi, di trasmettere valori positivi, di stabilire un rapporto di fiducia. Quando non si tratta addirittura di genitori che ai figli hanno trasmesso un modello educativo errato.
Cosa si può fare per contrastare l’uso delle sostanze? Quello che è stato fatto per il fumo: informare, fare comunicazione. Tra gli adolescenti, per il consumo di tabacco, sono stati osservati sviluppi positivi che si inseriscono nel contesto delle politiche di contrasto degli ultimi vent’anni, in cui l’Italia è stata un modello virtuoso. La percentuale di ragazzi europei che ha iniziato a fumare quotidianamente prima
Piantagione di papaveri
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La crisi della famiglia viene in genere correlata a quella dell’altro, fondamentale presidio formativo, la scuola, e a quella di una società dove i giovani spesso appaiono privi di riferimenti. Possiamo poi prendercela con la televisione, con i reality show, il web, il mito del “tutto e subito”… Devo dire però che, anche per l’esperienza diretta che ho svolto presso un centro che si occupa delle famiglie con questi problemi, l’Anglad, nell’ambito di un master in Psicologia di consultazione, il primo problema delle famiglie è comprendere cosa accade.
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La marijuana accelera la progressione della schizofrenia, dà problemi di memoria e di apprendimento, provoca il restringimento di alcune aree cerebrali
Il consumo si è completamente trasformato, è divenuto poliassunzione, si tratta cioè di assunzioni occasionali, periodiche, dal tiro di coca per tirarsi su alla cala di una pasticca in discoteca del week-end, dalla canna con gli amici alla sbronza; queste cose si mescolano tra di loro in modo confuso, le somatizzazioni variano molto da individuo a individuo, non è affatto semplice individuare
il problema, figuriamoci risolverlo. Inoltre ci si illude che questi abusi siano compatibili con un regime di vita “normale”, poiché non portano a una emarginazione sociale eclatante né a stili di vita microcriminali come avveniva un tempo, dato il costo ormai molto basso delle sostanze, almeno di quelle chimiche, che sono prodotte da laboratori spesso improvvisati, e della cannabis, che però ha una quantità di principio attivo molto più alta che in passato. È corretta la distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”? Dovremmo sottrarre il tema droga all’ideologia e alla strumentalizzazione politica per darlo alla scienza, a chi lo studia seriamente e può dirci come stanno le cose. Le sostanze – droghe comunemente dette, alcol, tabacco, etc. – fanno male ma sono piacevoli, ciascuna di loro ha una dannosità diversa che è molto relativa all’età, alla continuità e alla frequenza di assunzione. Ma va detto che la droga continua a uccidere, anche se come dicevo appare “normale” e normalizzata. Molti studenti interpellati dall’ESPAD, ma si veda anche la periodica Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze, ritengono «facile» o «piuttosto facile» reperire una sostanza illegale: in discoteca, a casa dello spacciatore, in strada e a scuola. Questo lascia a loro la possibilità di combinarle in cocktail casuali quanto micidiali, si pensi a “tendenze” come il botellon e lo shottino, oppure alla fiorente narco-industria delle nuove sostanze: anfetamine, ketamina, Mdma, Ghb, popper, shaboo… Così il confine tra lecito e illecito, nocivo e innocuo, si confonde ancora di più. Modi, luoghi e riti dello sballo cambiano e si sovrappongono a quelli della cosiddetta normalità. In questo caotico quadro perde ancora più senso la vieta distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”. Ma i danni quali possono essere? Io posso solo riportare quanto dicono gli esperti, secondo i quali le risultanze
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sui danni a livello psico-fisico sono inequivocabili. Una ricerca dell’Aarhus Psychiatric Hospital uscita sul British Journal of Psychiatry attesta che la marijuana accelera la progressione della schizofrenia, mentre un’indagine del National Institute on Drug Abuse (NIDA) pubblicata su Neurology attribuisce al “fumo” problemi di memoria e di apprendimento. Un Istituto del CNR ha invece scoperto come cocaina ed ecstasy inducano mutazioni genetiche che aumentano il rischio di tumori. Le tecniche di imaging, oggi, consentono di fotografare in modo impressionante i danni indotti dalle droghe. «Nel cervello dei ragazzi che assumono cocaina si possono osservare veri e propri solchi nella corteccia prefrontale, zone atrofizzate come quelle presenti normalmente nelle persone anziane», spiega il neurochirurgo Giulio Maira dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. L’Università di Melbourne ha constatato il restringimento di alcune aree cerebrali dovuto all’uso frequente di cannabis.
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Nell’opinione pubblica si evidenzia la spietatezza dei narcotrafficanti e non i successi delle forze dell’ordine, che invece ci sono
Una ricerca uscita sul Journal of Neuroscience dimostra che l’ecstasy può compromettere le aree fondamentali per l’apprendimento e la memoria. Lesioni cerebrali di lungo termine sono state rilevate sui frequentatori di rave party dall’Università di Adelaide.
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E legalizzare la cannabis serve solo ad allargare un mercato, come quello della droga, che è un sistema di rilevanza internazionale... Questo fenomeno ha, come ormai tutti i processi complessi ma in modo peculiare, una dimensione e una dinamica globali: produzione, traffico e consumo vanno visti innanzitutto come elementi di un commercio, ancorché illegale, criminale, dannoso. Pertanto le strategie da cui i narcos sono mossi puntano sempre innanzitutto all’allargamento del mercato. Per ottenere questo, qualunque strumento è utile: terrorismo, criminalità, guerra, collusione con il potere politico ed economico… In tutti i continenti, dal Messico all’Afghanistan, dalla Colombia alla Guinea Bissau, è in atto uno scontro tra chi tutela la salute e la legalità e chi persegue il proprio profitto a qualunque costo. Nell’immaginario collettivo, anche in seguito a fiction come Gomorra e Narcos, in genere si tende a evidenziare molto la spietatezza dei narcotrafficanti e molto meno i successi di chi li combatte, che pure ci sono, come dicono i dati forniti dall’Ufficio antidroga delle Nazioni Unite e delle forze dell’ordine. Un aspetto che per esempio è del tutto ignorato e al quale invece la nostra società così “ecologicamente corretta” dovrebbe porre maggiore attenzione è il disastro ambientale provocato dalla produzione di droga. Per realizzare un chilo di cocaina si utilizzano quasi centro litri di sostanze chimiche, come spiega il Drug Enforcement Administration. E ben 2,4 milioni di ettari di foresta pluviale tropicale, informa la Nato, sono stati distrutti per far posto alle colture di coca e papavero da oppio. PRIMO PIANO
UNA “FOGNA TERMINALE” SPACCIATA PER DIRITTO
Enzo Pennetta
Lettera a un giovane, aspirante consumatore di cannabis, entusiasta della legalizzazione che gli viene prospetta come “liberazione”
Nella società del Mondo Nuovo è infatti largamente diffuso l’impiego di una droga di Stato chiamata “soma”, una sostanza di cui ogni cittadino fa uso quando è insoddisfatto, anziché protestare e impegnarsi politicamente, o che assume quando sente un vuoto esistenziale, come fosse un profano sacramento eucaristico, anziché cercare risposte di senso nella vita e nel trascendente. Questo vogliono fare di te e dei tuoi sogni di giovane, mentre ti dicono che finalmente hai un nuovo diritto. Pensa che alla Camera dei Deputati hanno addirittura presentato una Carta dei diritti delle persone che usano sostanze: ma non crederci quando queste persone dicono che ti regalano qualcosa. Uno che di droghe ne sapeva davvero tanto perché ne aveva prese tante, lo scrittore della Beat Generation William Burroughs, scriveva: «Chi vi ha sottratto quello che è vostro? Pensate che ve lo ridaranno? Hanno mai dato qualcosa gratis? … ascoltate: il loro Giardino delle Delizie è una fogna terminale» (Nova Express, 1964).
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Le nuove generazioni vengono spinte ad addormentare le proteste e ad anestetizzare le istanze esistenziali
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aro giovane, aspirante suddito, legalizzare la cannabis è la preannunciata ultima “vittoria del progresso sull’arretratezza”, o meglio l’ultimo provvisorio passo verso il compimento di un’utopia profeticamente descritta nel lontano 1932 dallo scrittore britannico Aldous Huxley, nel romanzo Brave New World (Il Mondo Nuovo).
Ecco qual è il regalo che ti fanno, una “fogna terminale” spacciata per diritto. Una distopia è un sogno in negativo, ed è un progetto che va a compiersi in questi giorni a spese vostre: intere generazioni defraudate del loro futuro da un sistema economico che mette al centro il profitto, precarizzando le vostre esistenze; generazioni tradite nella loro ricerca di significati da una società che tutto permette fuorché di dare un senso alla vita; generazioni che vengono spinte ad addormentare le proteste e ad anestetizzare le istanze esistenziali con il “tetraidrocannabinolo” (il principio attivo della cannabis), una sostanza dalle caratteristiche ideali per assolvere la funzione di “soma”. Quelli che si dichiarano tuoi amici, dal politico che dice che tanto fuma pure lui, allo scrittore famoso che dice che così si combatte la mafia, non ti dicono che la cannabis – secondo uno studio della Northwestern University,
©Christiaan Tonnis
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Bisognerebbe davvero rileggere con attenzione “Le avventure di Pinocchio”.
del Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School, pubblicato su The Journal of Neuroscience nell’aprile di quest’anno – si prende piano piano il primo posto nella tua mente e rende meno soddisfacenti le ricompense naturali come il cibo, il sesso e l’interazione sociale, quindi ti dà meno spinte a formare gruppi sociali: il buon cittadino del Mondo Nuovo cerca meno la relazione con gli altri, il loro bravo suddito è meno portato ad organizzarsi in gruppi e se ne sta da solo, senza protestare, gratificato dalla sua “canna”. Ma non basta: secondo uno studio dell’Università del Queensland in Australia, il consumo regolare di cannabis nell’adolescenza può determinare nella vita adulta un deficit cognitivo ed espone a un maggior rischio di patologie psichiatriche, come la schizofrenia o l’insorgere di psicosi. Un declino delle capacità cognitive è stato segnalato anche da uno studio apparso sul Proceedings of the National Academy of Sciences e si manifesta con una diminuzione dell’intelligenza, della memoria, della capacità di attenzione e della capacità verbale. Questo sì che è un altro regalo che il Mondo Nuovo fa a se stesso! Anche per queste caratteristiche la cannabis 16
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è ottima per la distopia che si realizza: nella società che verrà il buon cittadino non è molto istruito (hai visto come viene demolita la scuola mentre dicono di renderla più “buona”?) e possibilmente il loro cittadino perfetto dovrebbe anche essere poco intelligente. Se poi si dibatte tra una selva di disturbi psichici che lo tengono occupato con i suoi problemi di salute mentale e lo spingono ad assumere altre sostanze che ne alterino il comportamento, ancora meglio, a maggior ragione non disturberà “i manovratori”.
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Un cittadino poco intelligente, con disturbi psichici che lo tengono occupato con i suoi problemi, non disturberà “i manovratori” …
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©vesparossa
Ma i regali per la società distopica del Mondo Nuovo sono davvero tanti. Per ultimo, ma non ultimo, arriva uno studio pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry, a firma di un gruppo di ricercatori dell’Hospital de Sant Pau e dell’Universitat Autònoma de Barcelona. PRIMO PIANO
Questa ricerca ci dice che il consumo abituale di marijuana espone a un maggior rischio di produrre falsi ricordi: cioè induce il soggetto a credere di ricordare come realmente accaduto un evento che gli è stato solo raccontato, come succede in genere nei bambini. Che meraviglia! Questa è manna per la manipolazione dell’opinione pubblica, un popolo che tende a ricordare come vere delle storie che gli hanno raccontato crederà a tutto quello che dicono i media, una vera benedizione per regimi totalitari e ideologie di ogni tipo. Ma è bene che tu queste cose non le sappia e che ti trattino come il povero Pinocchio (te la ricordi la storia del burattino?): lo caricavano sul carro che portava al Paese dei Balocchi, dove tutto era divertimento, ma non gli avevano detto che poi sarebbe stato trasformato in asino e venduto per guadagnarci sopra. E così, allo stesso modo, vogliono vendere proprio te alla società del profitto. Tuttavia serve loro il tuo consenso per farti salire sul carro che porta al Paese dei Balocchi, un carro che se ci pensi bene somiglia tanto a quello della Million Marijuana March.
Loro Pinocchio l’hanno letto e sanno bene che certe cose è meglio che tu non le sappia. Forse anche per questo, quando ti parlano degli effetti della cannabis, ti prendono in giro dicendoti che fa bene, come quella volta che sul Corriere della Sera del 14 novembre 2010 hanno titolato Effetti marijuana sul cervello: corteccia ristretta ma più connettività, facendoti credere che qualcosa migliorasse mentre invece la “maggiore connettività” è solo il disperato tentativo del cervello di compensare i danni subiti dalla corteccia. O come quella volta che qualcuno su Le Scienze ha scritto I danni al cervello di troppa marijuana, come a dire che poca va bene e che, forse, fa anche bene. Questo è il regalo che stanno per farti e, stiamone certi, lo faranno nonostante tutti quelli che si opporranno. Succede sempre così, con questi regali di “progresso”: è solo questione di tempo, ma prima o poi vengono approvati. Ma i regali ci offrono sempre un’opportunità, quella di lasciarli in uno sgabuzzino e non usarli. Il Mondo Nuovo può regalarti qualsiasi cosa, ma quello che non può fare è sostituirsi alla tua libertà di dire «No!».
A molti governanti farebbe piacere avere a che fare con un popolo di asini. Tuttavia gli asini non sono affatto stupidi, a differenza di quelli che cedono supinamente alla propaganda.
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Giuliano Guzzo
LEGALIZZARE LA CANNABIS NE RIDUCE IL CONSUMO? No, davvero! I dati reali parlano chiaro
Vi è infatti una vasta letteratura scientifica che mette in luce come il consumo di cannabis – oltre a tradursi, per una buona percentuale, nel rischio di passare ad altre droghe (Journal of Drug Issues, 2008) – risulti correlato al rischio di psicosi (Psychological Medicine, 2011), di crisi depressive (Journal of Psychiatry, 2010) e problemi al cuore (International Journal of Cardiology, 2007), nonché 18
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al pericolo d’incidenti automobilistici, come accertato da numerosi esperimenti in laboratorio e simulazioni di guida (Emergency Medicine, 2002; Epidemiologic Reviews, 1999), metanalisi che hanno considerato centinaia di studi precedenti (BMJ, 2011), nonché dall’esperienza di diversi Stati (American Journal of Epidemiology, 2014), e come ricordato nelle stesse relazioni ufficiali (Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dati anno 2012 e primo semestre 2013 – elaborazioni 2013, p. 223). Difficile insomma continuare a presentare questa come una sostanza “leggera”.
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Nessuno è in grado di confutare il dato che a seguito del proibizionismo, negli anni Venti in America, il consumo di alcol era diminuito
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rmai è impossibile anche solo sfiorare l’argomento delle cosiddette “droghe leggere” senza imbattersi in una carrellata di luoghi comuni che, ancorché confutati ripetute volte, continuano a circolare e a essere spacciati per verità. Una di queste è la tesi secondo cui legalizzare la cannabis costituirebbe una svolta positiva perché consentirebbe non solo di superare la fallimentare politica proibizionista, ma anche di farne diminuire il consumo. È proprio così? Veramente, come si sente da più parti dire, il proibizionismo avrebbe fallito? Prima di formulare una risposta a questi interrogativi – che tanti ormai evitano persino di porsi dando per scontata la risposta – occorre fare una premessa circa la sostanza di cui si sta parlando, sostanza che, contrariamente all’ottima fama di cui gode, non è esattamente innocua.
Chiarito questo, passiamo pure a considerare i presunti fallimenti del proibizionismo che, secondo molti, avrebbe dimostrato tutta la sua inefficacia già negli anni Venti del ‘900 in America, quando col XVIII emendamento e il Volstead Act, venne sancito il bando sulla fabbricazione, vendita, importazione e PRIMO PIANO
trasporto di alcool, provocando – si racconta – una clamorosa impennata di consumi. La realtà dei fatti, però, è un’altra. Infatti negli Stati Uniti la lotta agli alcolici portò, fra il 1921 ed il 1934, al calo dei consumi, degli arresti per guida in stato di ebbrezza nonché delle ospedalizzazioni per patologie alcol correlate, quali la cirrosi (Harvard’s Kennedy School of Government, 1989). Tutti effetti tangibili e che è difficile considerare negativamente, tanto che vi sono alcuni studiosi che ne criticano solo l’entità, ma nessuno nega che vi siano stati (American Law and Economics Review, 2003). Il fallimento del cosiddetto proibizionismo pare difficile da individuare anche nel nostro Paese, dal momento che – rileva Alfredo Mantovano – «l’organismo istituzionalmente dedicato alla lotta alla droga, dipendente in modo diretto dalla Presidenza del Consiglio, collega la pessima riforma di due anni or sono (una sorta di semi-liberalizzazione, NdR) all’aumento immediato della diffusione dei derivati della cannabis e alla diminuzione di efficacia dell’azione di contrasto». Affermare che il cosiddetto proibizionismo abbia fallito è una clamorosa bugia.
20 Stati hanno legalizzato il fumo di cannabis per uso medico e due anche per uso ricreazionale, indica che la legalizzazione della cannabis aumenta soprattutto la quantità consumata pro-capite […] Non ha eliminato il mercato illegale ma ne ha semplicemente ristretto la clientela agli adolescenti e agli adulti che non possono permettersi il costo elevato della cannabis legale» (Il Sole 24 Ore, 18.05.2014). Sulla stessa scia anche le parole dell’editorialista Guido Olimpio, il quale ha notato che, se alcuni «[...] rapporti ufficiali dicono che la legalizzazione della marijuana negli Usa sta privando i cartelli messicani di importanti guadagni», la realtà è che «seguendo quotidianamente le operazioni lungo la frontiera meridionale si nota come i narcos continuino a spedire quantità ingenti di marijuana. Non solo con i grossi zaini affidati agli spalloni, ma a bordo di veicoli riempiti in ogni singolo angolo» (Corriere della Sera, 28.02.2015). Che dire? Il solo, vero fallimento è quello dell’antiproibizionismo. Che non è una “politica”, ma mostra i tratti ingannevoli dell’ideologia.
Il fallimento della legalizzazione si è visto anche altrove: si guardi per esempio alle più recenti politiche americane, i cui favolosi “successi” sono stati così illustrati dal prof. Gaetano Di Chiara, Direttore del dipartimento di tossicologia all’Università di Cagliari: «L’esperienza degli USA, dove PRIMO PIANO
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Per completare il ragionamento andiamo a visionare i dati di Paesi che hanno imboccato la strada della legalizzazione. Sono dati davvero poco confortanti. Si pensi al caso dell’Olanda dove, dopo la legalizzazione della vendita di marijuana, il consumo tra i 18-20enni dal 1984 al 1996 è passato dal 15% al 44% (Roken, Drinken, Drugsgebruik en Gokken Onder Scholieren vanaf 10 Jaar - Trimbos-instituut, 1997). Inoltre, un’analisi della prevalenza del consumo di cannabis tra i quindicenni e sedicenni, facendo una media tra i dati del 2003 e del 2007, mette in evidenza come quello registrato tra i giovani dei Paesi Bassi – spesso indicato come modello per la propria politica di regolamentazione del fenomeno – sia più elevato di quello tra i giovani italiani (Working Paper, 2010).
Le unità cinofile antidroga svolgono un lavoro eccellente. Del resto mente chi dice che l’attività antidroga delle forze dell’ordine è fallimentare.
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Claudia Cirami
“DILETTANTI IN CRIMINOLOGIA” «La legalizzazione della cannabis non serve davvero a combattere le mafie»: lo sostengono persone che di mafie davvero se ne intendono
È un falso provato dai dati di fatto. È stato già il compianto magistrato Paolo Borsellino, ucciso nel 1992 per mano della mafia, a infierire un colpo letale a quest’argomentazione. Per esempio egli, nel lontano 1989, intervenendo in un incontro pubblico a Bassano Del Grappa, non ha esitato ad usare un’espressione severa, definendo “dilettanti di criminologia” i sostenitori di questa posizione.
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Sostenere che la legalizzazione della cannabis danneggerebbe la criminalità e le mafie è da “dilettanti in criminologia”
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Le chiamano “droghe leggere”, ma leggere non sono affatto: un tempo la cannabis aveva il 5% di THC, oggi arriva anche al 90%
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chi serve la legalizzazione delle droghe leggere? In un contesto in cui il riferimento morale sembra avere perso ogni importanza perché presuppone un orizzonte di fede e/o valoriale che, tuttavia, non è condiviso unanimemente, sembra più opportuno non chiedersi se sia morale o meno legalizzare le droghe leggere, ma interrogarsi sul “ cui prodest” un’eventuale legalizzazione. Partiamo dunque da un’idea di chi è per il “Sì”: la convinzione che la legalizzazione delle droghe leggere demolirebbe il mercato nero e toglierebbe introiti alla criminalità.
Una delle accuse fatte al ragionamento del magistrato ucciso è che risale al 1989 e avrebbe poca attinenza con l’attuale contesto nazionale ed internazionale. Tuttavia, la stringente logica del giudice – nonostante l’indubbio mutamento di costumi, avvenimenti storici e mentalità – non appare affatto demodé, dato che su posizioni identiche si è schierato anche Nicola Gratteri, PM di Catanzaro, impegnato da decenni nella lotta contro la ’ndrangheta. In una recente conferenza in Senato, Gratteri ha ribadito che ai grandi spacciatori si farebbe un vero favore se si legalizzasse la cannabis: gli introiti che gli verrebbero negati sono il 25% del 5% di quelli che ricevono dal mercato degli stupefacenti. Di contro, come dimostrato dove si è proceduto alla
Il magistrato rilevava, infatti, che la legalizzazione avrebbe favorito l’acuirsi del mercato nero sia nei riguardi di chi, per esempio per ragioni sociali, non avrebbe mai scelto il canale legale, sia per «le categorie più deboli e meno protette», come per esempio i minori, «le prime ad essere investite dal mercato clandestino». Inoltre per quanto si fossero potute legalizzare alcune sostanze (oggi diciamo le “droghe leggere”, ma leggere non sono affatto) lo Stato non avrebbe assolutamente potuto legalizzarne altre (faceva l’esempio del crack) e la criminalità avrebbe avuto sempre le sue fonti di reddito.
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legalizzazione, i consumatori di cannabis aumentano esponenzialmente e di conseguenza aumentano i consumatori di droghe sempre più efficaci, o di cannabis con una percentuale di principio attivo (THC) maggiore di quella consentita dalla legge. Inoltre il prezzo di mercato della cannabis legale sarebbe comunque superiore a quello della droga illegale, perché ovviamente i delinquenti hanno costi di produzione inferiori. Questo dovrebbe bastare a Saviano, che su La Repubblica del 25 luglio 2016 ha sostenuto che, seppure non scomparirebbe del tutto, il mercato nero verrebbe tuttavia ridimensionato e sarebbe tolta alla
mafia (o alla criminalità in senso lato) e al terrorismo una forte fetta dei guadagni ed entrambi verrebbero indeboliti. Ma evidentemente Saviano non ha visto il video su You Tube in cui parla il defunto magistrato siciliano: la mafia, spiegava Borsellino, esisteva già prima del traffico di stupefacenti, e se questo «per miracolo divino» fosse eliminato, probabilmente esisterebbe anche dopo perché «l’essenza della mafia non è il traffico degli stupefacenti», ed essa si riconvertirebbe immediatamente puntando su altro. Anche se il giudice non ne parla, lo stesso si potrebbe dire del terrorismo (che non esiste da oggi). Senza offesa per Saviano e per altri, pur qualificati: Borsellino appare ancora oggi una voce più convincente.
IL MULTIMILIARDARIO GEORGE SOROS Che c’entra Soros con la droga? Già il 26 ottobre 2010 Soros scriveva sul Wall Street Journal che lui sostiene la liberalizzazione della marijuana. Diceva di aver finanziato con 80 milioni di dollari le campagne per la legalizzazione. Analoghi interventi “filantropici” sono stati fatti dai Rockefeller. Perché? La Philip Morris possiede laboratori per sviluppare piante con maggior concentrato di THC: un tempo una pianta di cannabis aveva il 5% di principio attivo. Oggi questa percentuale è andata aumentando. Con i nuovi metodi di coltivazione e di estrazione si ottiene una droga che arriva ad avere fino al 90% di THC. E la chiamano ancora “droga leggera”? Chi conosce davvero quali grandi interessi economici ruotano attorno alla legalizzazione della cannabis?
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Toni Brandi
… FINO A
NON RIUSCIRE PIÙ AD AMARE Intervista al responsabile dell’Associazione Nazionale Genitori Lotta alla Droga
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a droga è un dramma non solo per chi ne fa uso, ma anche per le famiglie coinvolte. Paolo De Laura è il responsabile dell’ANGLAD (Associazione Nazionale Genitori Lotta Alla Droga), organizzazione di riferimento a Roma e nel Lazio della Comunità di San Patrignano. Lo abbiamo contattato per avere il parere di una persona che tutti i giorni è a contatto con la triste realtà della tossicodipendenza. Dottor De Laura, cos’è l’ANGLAD e di cosa si occupa con precisione? L’ANGLAD è stata costituita nel 1997 e si configura come Associazione di Volontariato regolarmente iscritta all’Albo Regionale. Oltre che riferimento per la Comunità di San Patrignano su Roma e Lazio, è un centro di accoglienza, ascolto, orientamento e terapia per le tematiche delle dipendenze patologiche, in un’ottica che valorizza il recupero della funzione genitoriale come momento di cambiamento e novità. Questo significa che il contatto con le famiglie è costante per l’intera durata del percorso di recupero della persona. Facciamo riunioni per coloro che frequentano i gruppi orientativi e propedeutici a un eventuale inserimento in comunità, a seguito di monitoraggio tossicologico, farmacologico, 22
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psichiatrico, familiare nonché motivazionale. Il nostro ufficio legale provvede anche al controllo delle problematiche giudiziarie connesse allo stato di tossicodipendenza, con eventuale assistenza. Sosteniamo le famiglie coinvolte e sono previsti incontri nelle carceri con i detenuti che lo desiderano. Sono altresì previsti incontri tematici con gli studenti delle scuole, le loro famiglie, i docenti. Nel corso del 2015 abbiamo stimato una media di 900 primi contatti telefonici d’informazione e 500 incontri personali. L’ANGLAD Roma mantiene un costante il rapporto con il territorio, unitamente alla presentazione di progetti volti a sostenerla, nel continuo sforzo di migliorare la qualità dell’intervento. Qual è la sua esperienza in merito ai casi che affrontate? Premetto che ho avuto anch’io un passato di tossicodipendenza durato vent’anni e dunque, a 58 anni, parlo non solo per titoli accademici, ma per aver visto io stesso – negli occhi di coloro che mi volevano bene e nei miei – la stessa identica, profonda e inutile sofferenza mista a rabbia, che da più di vent’anni vedo nei ragazzi e nelle loro famiglie quando li incontro al primo appuntamento. PRIMO PIANO
La droga è una delle espressioni dell’importante affaticamento del nostro Paese. E dico una perché non dobbiamo mai dimenticare l’alcol e il gioco d’azzardo, tanto per citare altri due problemi in aggiunta alla tossicodipendenza. Per amor di sintesi potrei dire che ormai la nostra Associazione non si occupa tanto del problema droga, bensì del default dei sistemi familiari, della scuola e, ovviamente, del mondo del lavoro. Se poi analizzassimo bene cosa si cela dietro questo “male di vivere”, scopriremmo – tanto per cambiare – solo e solamente una cosa: la volgarità del denaro. Sì, perché il business è straordinariamente allettante: un grammo d’oro, acquistato in gioielleria, costa circa 20 euro, o poco più. Nelle piazze di spaccio, un grammo di coca viene 80 euro. Un grammo di eroina, 100 euro. I numeri parlano da sé, credo. Nella mia personale esperienza, sull’altare della soddisfazione del mio piacere ho mortificato e sacrificato l’amore della mia famiglia di origine, quello della mia famiglia di acquisizione, gli anni di studio per imparare l’arte del restauro pittorico, diventato poi, ma non per molto, la mia professione. E poi la salute, fino ad arrivare alla detenzione. E il tutto vissuto in un’incredibile, quanto folle, inconsapevolezza. Qualcuno vede dignità in tutto questo? Cosa ci può dire rispetto al numero di minori che cadono nella rete della tossicodipendenza? La diffusione su larga scala degli stupefacenti a livello nazionale è cominciata verso l’inizio degli anni Settanta e, a distanza di quarant’anni, il fenomeno è diventato oltre ogni dubbio transgenerazionale e transclassista. Sono dunque rappresentate tutte le diverse anime che, con l’incipit dell’evento tossicomanico, “cristallizzano” – mi si passi il termine – la loro crescita come individui, come persone. Infatti ancora oggi si inizia nel periodo più delicato per ognuno di noi: quello che accompagna la pubertà verso l’adolescenza. PRIMO PIANO
I minori problematici sono in aumento, purtroppo. E si comincia a fare uso di stupefacenti, nello specifico la cannabis, otto volte su dieci intorno agli 11-12 anni. E incredibilmente, dopo qualche anno di consumo, il problema non riguarda più la sostanza, quanto piuttosto la trasformazione da quella condizione naturalmente oppositiva dell’adolescente a una che, logorata anche dallo stile di vita, ha più a che fare con il disadattamento e l’esclusione sociale, fino ad arrivare all’estremo della sociopatia. Vorrei chiarire ancor meglio: generalmente si comincia con lo spinello (quarant’anni fa come oggi). E lentamente, nel rapporto di frequentazione con ambienti seduttivi dove lo stupefacente è di casa, si prova (per curiosità, per esser accettati, per trasgressione) l’uso di altro. Lentamente ma inesorabilmente. Fino a rimanere stanziali su eroina e/o cocaina. E lì il quadro si complica vieppiù, visto che ambedue procurano a chi le usa la sindrome astinenziale o “rota”, come si dice in piazza. Condizione, questa, che spinge la persona a dover usare dosi sempre maggiori di sostanza per non soffrire fisicamente e psicologicamente. In pratica è il gatto che si morde la coda. Sia ben chiaro: è un’inesattezza dire che se usi cannabis poi arriverai matematicamente a farti di ero o coca, ma è tragicamente vero che l’80% di chi arriva alle due sostanze citate, ha iniziato con la cannabis. Quindi è giusto a suo parere parlar di distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”? Pensa che sarebbe utile liberalizzare queste ultime? Per me non esistono droghe “leggere” e droghe “pesanti”. Esiste la droga. E il tema della sua legalizzazione è un grande inganno. Nella fattispecie della cannabis, mi permetto di citare il pensiero di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, che da trent’anni è in prima fila nella lotta alla ‘ndrangheta calabrese: «Uno stato democratico si deve occupare della salute e della libertà dei suoi cittadini, noi sappiamo invece che qualsiasi forma di dipendenza genera malattie, in particolare psichiche, ma genera anche ricatto. Non possiamo liberalizzare ciò che fa male». Con la massima umiltà mi permetto di aggiungere che, per la mia esperienza, la droga non ha alcuna utilità. Non serve. È solo un letale “accelerante” di capacità, pulsioni, fantasia di cui siamo già in possesso e che, con le sostanze stupefacenti, si impoveriscono fino a sparire. Fino a non riuscire più ad amare e a essere sedotti dalla vita. 2016 Novembre - n. 46
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Mirko
C’È SEMPRE UNA VIA D’USCITA Dopo anni di strada e di droga ero senza speranza, ma quella frase ha riacceso qualcosa...
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io padre era stato abbandonato da suo padre, ha trascorso anni in collegio e ha fatto lì esperienze non delle migliori: sono cresciuto tra un padre violento e alcolizzato e una madre impaurita. Ho pochi ricordi dei primi anni di vita. Soprattutto mi tornano in mente la paura e la gran voglia di rimanere in silenzio. Ricordo in maniera tanto viva l’esercizio che facevo di trattenere il respiro, di cercare di non farmi sentire, perché a casa mia si sfasciava tutto ogni giorno.
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Sono cresciuto un po’ come mascotte di questo gruppo della vecchia tossicodipendenza trentina
Quando avevo sei anni, mio padre ha avuto un grave incidente ed è rimasto sulla sedia a rotelle. Ha iniziato così a far uso di sostanze stupefacenti, prima la morfina dell’ospedale e poi l’eroina della strada. Quindi la mia casa è diventata un po’ la “piazza” della Trento di allora, una città piccolina dove i punti
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di ritrovo erano per lo più gli appartamenti. E io sono cresciuto un pochino come mascotte di questo gruppo della vecchia tossicodipendenza trentina. Mia madre poi si è innamorata di uno di questi uomini e mi ha portato a vivere in alta montagna in Val di Fassa: un posto meraviglioso, però con una tendenza alla chiusura, alla non accoglienza, soprattutto nei confronti di chi è svantaggiato. La mia solitudine e il mio silenzio sono aumentati sempre di più. A circa sette anni il desiderio più grande che avevo nel cuore era di buttare via tutte quelle “voci” interiori che mi accusavano di esser diverso, incapace... sentivo di non meritare amore, amicizia, attenzione. In più, l’uomo con cui si era messa mia madre era accusato dell’omicidio della prima moglie. Quindi, oltre alla solitudine, vivevo anche tutta una serie di paure correlate a questo assassinio e sono cresciuto con l’ombra del pensiero «oggi sei vivo, domani sei morto», e che la morte non fosse poi tanto lontana, ma fosse qualcosa che avevo costantemente in casa e che poteva arrivare da un momento all’altro. Inoltre quest’uomo aveva anche problemi di tossicodipendenza.
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Mi hanno arrestato e, in un attimo di lucidità, mi hanno proposto di entrare in una comunità. Nei sette anni successivi ho fatto diverse esperienze di comunità, prima nella Comunità Incontro, poi a San Patrignano, poi ho fatto tutto il programma al Ceis. E ogni due anni, appena mi rimettevano all’interno della comunità in una fase in cui dovevo assumermi qualche responsabilità in più, essere un pochino più capace di ridare qualcosa a chi accoglievo, fare un lavoro o qualsiasi cosa, io crollavo, iniziavo a sudare, mi si piegavano le ginocchia e riscappavo laddove almeno un po’ di silenzio lo trovavo. Le “voci” diventavano sempre più assillanti e quella convinzione di non essere all’altezza diventò come un “tumore” che mi mangiava dentro. Così sono arrivato all’ennesima ricaduta.
Decisi allora di mettere assieme più soldi possibile e di andare a vivere in un postaccio, la cartiera di Verona, dove non entra neanche la polizia. Lì c’è tutta la delinquenza possibile, dalle prostitute agli assassini, a chi vende armi e a chi vende droga. Sono rimasto lì qualche mese; sono collassato una marea di volte, e altrettante mi hanno buttato fuori da quel posto: un’ambulanza mi raccoglieva e mi rianimava. Una sera, ormai ridotto a 54 chili e spento in tutti i sensi, con una gran voglia di morire, è arrivato in questa cartiera un ragazzo di Nuovi Orizzonti per una missione di strada. Mi si avvicinò e mi disse: «Ciao, sono Tommaso… sai, è l’esperienza di Gesù quella che ti salva». Io, sì, avevo sentito parlare di religione, avevo fatto l’esperienza del cristianesimo attraverso i miei nonni che avevano buttato fuori mia madre quando si era messa con quel delinquente (e non li avevo più visti per tanti anni, quando forse erano le uniche persone che mi avrebbero potuto dare una mano), ma niente di più. Non so perché scoppiai a piangere in mezzo alla piazza, dove dovevo mantenere la mia immagine di persona che non si fa mettere i piedi in testa. Il giorno dopo sarei dovuto entrare in comunità a Nuovi Orizzonti: Tommaso mi propose appunto di andare al musical di fine missione. Ma la stessa notte mi hanno arrestato di nuovo: sono entrato in un bar a rubare una stecca di sigarette e mi hanno sbattuto in carcere.
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E così già a nove anni ho iniziato a far uso di psicofarmaci, poi di hashish e, a quattordici anni, di eroina. Ho trovato in queste sostanze quel silenzio che cercavo da quando ero piccolo e ho iniziato ad avere qualche amico o, meglio, amici sbandati come me. Ero diventato un po’ il punto di riferimento per la tossicodipendenza del posto. Ho iniziato ad avere in mano soldi, ho fatto qualche viaggio, mi sono preso tutta quella parte di vita che pensavo fosse importante e bella. Sennonché, dopo i primi tempi e nonostante il massiccio uso di sostanze, dentro di me ricominciava a parlare quella “voce” che mi accusava di essere inadeguato a vivere.
Mi sentivo diverso, incapace. Mi sentivo di non meritare amore, amicizia, attenzione
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È vero che esiste il demonio, è vero che nel momento in cui stiamo cercando di cambiare la nostra vita spesso c’è qualcuno o qualcosa che prova a ostacolarci. Bisogna essere anche un po’ vigili, perché a volte diamo colpe agli altri quando non riusciamo a fare questo salto di qualità, mentre basterebbe solo concentrarci su “chi” ci sta tendendo questo tranello, e allora forse non gli daremmo lo spazio che tante volte ha nella nostra vita. Lì, in carcere, essendo appunto cresciuto un po’ come la mascotte della tossicodipendenza, non me la passavo malissimo, non mi sono mai mancate le sigarette, il vino, il cibo, e prendevo liberamente alcune cose dalla farmacia. Ma quella volta chiesi di andare nella biblioteca a prendere la Bibbia: cercavo parole di salvezza. Mi hanno poi dato gli arresti domiciliari in un appartamento e ho iniziato a cercare questa “comunità spirituale” (mi ero dimenticato che si chiamava Nuovi Orizzonti): ho iniziato ad andare in tutti i servizi, al Sert, dagli assistenti sociali, dicendo di voler entrare in una “comunità spirituale” dove fare l’esperienza di Gesù. Nel frattempo mi è arrivato un ordine di carcerazione e mi hanno portato in caserma. Fortunatamente il comandante dei carabinieri era uno che a suo tempo aveva arrestato mio padre, quindi mi conosceva e mi ha dato dodici ore di tempo per trovare una comunità. Ho provato allora a chiamare tutte le comunità dove ero già stato, ma nessuno mi riprendeva perché insomma… avevo combinato un sacco di guai. Fino a che ho trovato la comunità Nuovi Orizzonti di Montevarchi e ho deciso di andarci. Prima di partire sono andato in una farmacia, ho rubato il sacchetto dell’immondizia, e la notte prima dell’ingresso in comunità sono andato nei casoni popolari di Trento a rubare i vestiti dagli stendini per avere due panni da portare con me a Nuovi Orizzonti. La prima persona
che ho incontrato in comunità è stato proprio Tommaso… e per la seconda volta negli ultimi dieci anni sono scoppiato a piangere. Sono entrato in comunità con una crisi d’astinenza terribile, ho passato trentuno notti senza chiudere occhio, vomitavo di continuo, e poi entravo in cappellina e mi mettevo seduto lì. Non sapevo pregare, ma me ne stavo lì. Un giorno Loredana mi vide e mi chiese: «Ma come hai fatto a stare tutta la mattina qua in cappellina?», e io le risposi che era l’unico posto in cui riuscivo a stare un po’ meglio. Qualche giorno dopo ci trovammo di nuovo insieme in cappellina; lei mi guardò e mi disse: «Mirko, se avrai la fortuna di fare l’esperienza di Dio, tu non ti sentirai mai più solo!». Ho combinato guai anche a Nuovi Orizzonti: non sono un tipo facile, sono cocciuto, sono ferito… però ho scoperto una cosa meravigliosa. Nessuno mi ha insegnato a vivere, quello che ho imparato me lo sono dovuto prendere con i denti in mezzo alla strada, con tanta rabbia che ancora, in parte, mi porto dietro; però quando ho finalmente aperto il Vangelo, ho scoperto che là potevo imparare a essere un uomo. Adesso sono passati tanti anni: portiamo avanti un centro in Trentino, accogliamo ragazzi, ci occupiamo di evangelizzazione nel Nord. Sono marito e sono padre di tre ragazzi, e ogni giorno ringrazio Dio per avermi regalato la famiglia che io non ho mai avuto e che ho sempre sognato. Quello che mi ha cambiato è stato l’amore degli altri, la loro attenzione per me, ma soprattutto la meditazione della Parola ogni mattina in comunità. Per me è stato fondamentale imparare a leggere il Vangelo e provare a viverlo con tanta umiltà: perché questo Gesù è imitabile. Non ci ha mostrato una via che è per Lui e che con noi non c’entra niente: è una via che ognuno di noi, leggendo il Vangelo, può mettere in pratica e può imitare. Nel Vangelo ho scoperto anche che io sono un prodigio… ed è bello poter pensare che finalmente lo si può vivere in pienezza: nonostante i propri guai, c’è una strada d’uscita! E quindi ecco, camminando insieme, vivendo il Vangelo, faremo grandi cose!
Chiara Amirante fondatrice delle Comunità Internazionale Nuovi Orizzonti
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Giulia Tanel
«ERANO SOLO CANNE…» «… ma le canne, le sole canne, lo avevano rovinato: non sapeva neanche più camminare!»
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a dipendenza da droghe segna per tutta la vita e rimane scolpita nell’intimo delle persone. Tuttavia dire «Basta» è possibile, e così ricominciare a gustare la vita nella sua pienezza. Notizie ProVita ha incontrato Maia [nome di fantasia, ndR], siciliana d’origine ma da anni trapianta al nord, che gentilmente ha accettato di donarci la sua testimonianza di vita. Maia, raccontaci la tua storia nella prigione delle droghe... Il mio esordio con le droghe è avvenuto tardi: avevo 26 anni e mi ero fatta prendere dalla “sindrome della crocerossina” nei confronti dei un ragazzo tossicodipendente con cui mi ero fidanzata. Per questo concatenarsi di avvenimenti ho cominciato subito con l’eroina, alla quale nel tempo si sono unite cocaina, psicofarmaci, metadone... in un mix esplosivo che mi ha portato sull’orlo del baratro. Nel 1989 avevo trentotto anni e, per merito di mia mamma, sono entrata a San Patrignano: pesavo 38 kg e avevo 200 grammi di metadone addosso (era la mia dose quotidiana di mantenimento). Appena arrivata in comunità, mi hanno mandata a San Vito, in Provincia di Trento. Avevo bisogno di estrema tranquillità per potermi rimettere – letteralmente – sulle gambe e ricominciare a vedere la realtà che mi circondava. Volevo morire. L’astinenza è durata oltre sei mesi... Sono stata in terapia a San Vito tre anni, dove mi sono poi volontariamente fermata come operatrice per altri cinque anni. Nel 1995 sono rimasta incinta – oramai ero solamente una dipendente della comunità, avevo una vita fuori – e ho deciso di non
abortire, nonostante il mio compagno lo volesse e nonostante fossi sieropositiva dal 1984. Francesco [nome di fantasia, ndR] è nato al settimo mese e, grazie alle terapie antiretrovirali che avevo effettuato in gravidanza, a otto mesi dalla nascita è risultato negativo all’HIV. Quando il bimbo compì tre anni, lasciai San Vito e trovai una casa e un lavoro. Cominciò così la nostra nuova vita, che a tratti fu molto dura: ero sola ad allevare un figlio. Ad ogni modo le gratificazioni ripagavano la fatica: il bambino cresceva sereno, era intelligente e sensibile, molto portato per lo sport e per le lingue. Insomma, gli anni passavano e io pensavo che la droga fosse un capitolo oramai chiuso nella mia vita, invece.... Invece cosa è successo? Quando Francesco si iscrisse al liceo aveva voti altissimi, era già in possesso della certificazione C1 di inglese e giocava a basket in maniera promettente. Tuttavia ben presto notai che cominciava a cambiare. Subito pensai che ci fosse di mezzo la droga perché, essendoci passata, avevo una particolare sensibilità al tema. Mi confrontai con alcuni amici, che mi dissero che era l’adolescenza e che sarebbe passato tutto verso i vent’anni.
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Eppure io vedevo che le cose andavano sempre peggio e che Francesco era sempre più distante da me e assente dalla realtà... Hai quindi provato parlare direttamente con lui? Sì, certo. Era alla fine del secondo anno delle scuole superiori. Gli raccontai il mio passato di tossicodipendente, spinta da un amico che mi ha detto che non potevo pretendere da lui che fosse sincero, se non lo fossi stata io per prima nei suoi confronti. Francesco mi rispose che lui non era come me e che “quelle cose” gli facevano schifo. Come l’hai smascherato, alla fine? L’hai colto in fragrante? Sì. Dopo aver provato inutilmente a seguirlo per coglierlo sul fatto, trovai “un pezzo di fumo” nel suo portafoglio. Gli chiesi cos’era e mi rispose che era fumo. Da quel momento è cominciato un estenuante tira e molla fatto di promesse, di scuse, di giustificazioni rispetto al fatto che ne faceva un uso sporadico... e io alla fine mi convinsi che in fondo erano “solamente” canne che, nella mia perversa mentalità di ex-eroinomane, erano poca cosa.
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Le canne di oggi assomigliano, negli effetti, alla LSD di una volta
Ma la realtà è stata diversa... Purtroppo sì. A differenza di quando ero giovane io – che comunque di canne me ne sarò fatte un paio in tutta la vita – il concentrato di THC presente oggi nell’hashish e nella marijuana è assai superiore e provoca effetti collaterali importanti, nonché danni al cervello che rendono i ragazzi “scemi”. Credo di non sbagliare nel dire che le canne di oggi assomigliano, negli effetti, alla LSD di una volta. Mio figlio, da brillante che era, divenne uno studente mediocre, che faticava a portare a termine i propri 28
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compiti. Alla fine si è diplomato con un misero 66/60. Dopo la maturità ha provato a fare l’università in due diverse facoltà, ma non è riuscito ad andare avanti. Ha quindi cominciato a lavorare, con impieghi a tempo determinato. Più passava il tempo, più aumentava la droga che fumava quotidianamente e più non riusciva a stare nella quotidianità. Facendo i calcoli, stiamo parlando di fatti avvenuti nel 2015. Cosa successe a quel punto? Sì, Francesco aveva compiuto vent’anni: gli dissi che o smetteva, oppure doveva andarsene di casa. Avevamo già contattato l’Associazione Amici di San Patrignano, ma non era convinto di smettere... A novembre gli ho tolto la residenza e per quasi un anno è stato via di casa. Quando mi chiamava io – in accordo con l’Associazione – gli chiedevo subito se aveva deciso di farsi aiutare e, se la risposta era negativa, interrompevo la chiamata. Un gesto difficilissimo per una mamma, ma la mia storia mi aveva insegnato che quello era l’unico metodo per convincerlo a farsi aiutare. Dopo dieci mesi, alla fine di agosto di quest’anno, Francesco è venuto da me: sporco, senza soldi, affamato... mi ha chiesto aiuto. Le canne, le sole canne, lo avevano rovinato: non sapeva neanche più camminare e gliel’ho dovuto reinsegnare! Facevamo le prove per strada, un passo dopo l’altro... A inizio settembre ha lasciato definitivamente l’appartamento dove ha trascorso l’ultimo anno ed è tornato a casa. Abbiamo iniziato i venticinque giorni di “segregazione” per la disintossicazione e, nel contempo, abbiamo fatto le carte per San Patrignano. Appena possibile entrerà in comunità per i tre anni di terapia... e tutto per colpa di quelle che alcuni sostengono ancora essere “droghe leggere”. Maia, alla luce della tua intensa storia di vita, vuoi lanciare un messaggio? La droga non è mai leggera! Mai! E, genitori, alla prima avvisaglia preoccupatevi: occhi rossi e comportamenti strani non sono “segnali tipici dell’adolescenza”. La cannabis non va liberalizzata. Nella nostra società i ragazzi sono già rovinati da tante cose, non aggraviamo ulteriormente la situazione. PRIMO PIANO
#STOP UTEROINAFFITTO
ProVita lancia T P teroina tto: una grande campagna di sensibilizzazione per fermare la compravendita dei bambini e lo sfruttamento delle donne. Aiutaci con una donazione, per realizzare questa campagna e agire legalmente contro le a en ie i surro a ione c e pro uo ono u ero in a o in a ia
VUOI AIUTARCI? DONA ORA PER LE DONNE E I BAMBINI! IBAN I T 8 9 X 0 8 3 0 5 3 5 8 2 0 0 0 0 0 0 0 0 5 8 6 4 0 Conto Corrente Postale n. 1 0 1 8 4 0 9 4 6 4 intestati a “ProVita Onlus”
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N. 42 - GIUGNO 2016
DIFENDI LA
FAMIGLIA
E I TUOI FIGLI
Il bene comune può essere realizzato solo attraverso la promozione senza compromessi della Vita e della Famiglia naturale fondata sul matrimonio.
Notizie
ProVita ha pubblicato un “Patto per la famiglia naturale” con il quale i candidati Sindaci nei capoluoghi di Provincia e i candidati Sindaci e Consiglieri nei capoluoghi di Regione si impegnano a difendere la Famiglia, la Vita e i bambini e a lavorare nell’interesse e per il maggior bene di tutto il popolo della realtà territoriale in cui sono candidati.
“nel nome di chi non può parlare” Anno V | Rivista Mensile N. 39 - Marzo 2016
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Vai sul sito www.notizieprovita.it per leggere il “Patto per la famiglia naturale” e conoscere i nomi dei candidati “nel nomeche di lo chihanno nonsottoscritto! può parlare”
POSTE ITALIANE S.p.A. | Spedizione in AP - D.L. 353/2003 | (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) | art. 1, comma 1, NE/PD | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00
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Anno IV | Rivista Mensile N. 37 - Gennaio 2016
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Chi salva i bambini,
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Anno V | Rivista Mensile N. 41 - Maggio 2016
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IN UNA GOCCIA CURA E CONFORTO PERINATALE
Non vuoi finanziare gli aborti?
LETTURE CONSIGLIATE «Leggere è la capacità di una maggioranza e l’arte di una minoranza» (Julian Barnes)
Renzo Puccetti
LEGGENDER METROPOLITANE ESD – Edizioni Studio Domenicano
Con tono divulgativo e una ricca documentazione scientifica, l’Autore ricostruisce i fatti che condussero l’Associazione sichiatri Americani a cancellare l’omosessualit dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali e risponde a domande ricorrenti quali: gay si nasce ’omofobia razzismo, oppure usata per zittire l’oppositore Cos’ la condizione transgender Cos’ la teoria gender? Questa teoria efficace per educare all’inclusione e prevenire la violenza sulle donne “ i diritti per tutti” cancella le discriminazioni l’amore che fa la famiglia Come crescono i figli con le coppie dello stesso sesso
Massimo Gandolfini con Stefano Lorenzetto
L’ITALIA DEL FAMILY DAY Dialogo sulla deriva etica con il leader del Comitato Difendiamo i Nostri Figli Gli Specchi - Marsilio
In questo libro-intervista, il neuroscienziato Massimo Gandolfini si racconta per la prima volta: dai suoi trascorsi giovanili “rivoluzionari”, a come ha cambiato vita dopo l’incontro con Francisco Argüello, detto Kiko, lo spagnolo fondatore del Cammino Neocatecumenale. Dice la sua sulla deriva etica che l’ha costretto a portare in piazza oltre un milione di italiani: unioni civili, utero in affitto, adozioni gay, omosessualismo, teoria gender... E racconta dei sette figli che ha adottato perché non poteva averne di suoi, tre dei quali sarebbero morti se con la moglie, medico come lui, non li avessero accolti e curati in casa loro.
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