ProVita Settembre 2016

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POSTE ITALIANE S.p.A. | Spedizione in AP - D.L. 353/2003 | (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) | art. 1, comma 1, NE/PD | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00

Trento CMP Restituzione

Notizie

“Nel nome di chi non può parlare” Anno V | Rivista Mensile N. 44 - Settembre 2016

EDUCARE I GIOVANI in un mondo alla rovescia

LA TIRANNIA DELLA MAGGIORANZA CURARE LA TRISOMIA 21

CURARE LA


SOMMARIO Notizie

EDITORIALE

RIVISTA MENSILE N. 44 - Settembre 2016

Educare i giovani in un mondo alla rovescia

LO SAPEVI CHE ARTICOLI

Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182

Perché votare NO al referendum costituzionale

Federico Catani

Redazione Toni Brandi, Federico Catani, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti Cell. 329 0349089

Se la democrazia nasconde la tirannide

Renzo Puccetti

Direttore responsabile Toni Brandi Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi Progetto e impaginazione grafica

Possiamo riparare il femminismo?

Costanza Miriano

«Forte come la morte è l’amore»

Giulia Tanel

Il suicidio ha un senso?

Giuliano Guzzo

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PRIMO PIANO

Educare i giovani in un mondo alla rovescia

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Il ruolo educativo della scuola

Enzo Pennetta

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Nei sotterranei dell’ospedale Sant’Anna

Anna Maria Pacchiotti

“Transumanesimo” e accettazione della realtà

Tipografia

Roberto Marchesini

Distribuzione

Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Padre Giorgio Maria Carbone, Federico Catani, Giuliano Guzzo, Roberto Marchesini, Costanza Miriano, Anna Maria Pacchiotti, Enzo Pennetta, Renzo Puccetti, Francesca Romana Poleggi, Giampaolo Scquizzato, Giulia Tanel

L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.

Padre Giorgio Maria Carbone

Curare la trisomia 21

Francesca Romana Poleggi

«Ma io, dottore, sono incinta!»

Giampaolo Scquizzato

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EDITORIALE

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on questo numero di settembre Notizie ProVita assume una nuova veste grafica, che speriamo sia gradita ai nostri Lettori. E a settembre ricomincia anche la scuola. Ci è sembrato quindi opportuno dedicare il nostro Primo Piano all’educazione. Ex-ducere, tirare fuori, far nascere la verità come faceva Socrate con l’arte della levatrice, la maieutica, è cosa complessa. È necessario e propedeutico dare delle informazioni e aiutare il discente a sviluppare il suo senso critico. C’è l’educazione dei genitori a casa e quella degli insegnanti a scuola, c’è l’educazione della strada, degli amici, dei mass media… Veniamo educati dalla vita, dagli incontri e dagli scontri, dall’amore e dal dolore (perché la sofferenza – ahinoi – è una grande maestra di vita). La famiglia resta tuttavia il luogo principale dove educare, perché è lì che crescono le persone; è questa la comunità che genera e cura i più fragili e più bisognosi d’amore: i bambini, gli uomini di domani. In questi tempi di decostruzione della famiglia, di svilimento ideologico delle figure e del ruolo della mamma e del papà, la scuola tenta di appropriarsi del ruolo educativo con prepotenza. Per questo siamo consapevoli che di certo non esauriamo l’argomento con i contributi di questo numero: torneremo su questo tema presto, soprattutto se dovremo constatare che – in virtù dell’attuazione della legge 107 – la scuola sarà sempre più votata a veicolare messaggi educativi in contrasto con quelli dati in famiglia e con quanto insegna la ragione naturale. Sanno bene, i nostri Lettori, dei tentativi ideologici della propaganda in atto, tesi ad andare “oltre l’umano” (p. 23), in un contesto socio-politico che prospetta inquietanti scenari totalitaristici (p. 6 e p. 7). Rifletteremo anche sul ruolo essenziale della donna, che non può del tutto prescindere dall’essere per natura chiamata alla maternità, pur volendo o dovendo lavorare (p. 9). E, anche in questo numero, Vi proponiamo alcune testimonianze di vita vissuta (p. 22) e donata (p. 11 e p. 29), che servono ad alimentare la speranza in un mondo in cui i dati statistici mostrano che la cultura della morte miete sempre più vittime suicide (p. 13). Nonostante tutto, infatti, la cultura della vita non è spenta, ma è solo silenziata dai mezzi di comunicazione di massa. In controtendenza, perciò, vi aggiorniamo infine circa i progressi della ricerca scientifica dedicata alla cura della sindrome di Down, sulle orme del grande genetista Jerome Lejeune (p. 27). Toni Brandi

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LO SAPEVI CHE... UTERO IN AFFITTO

PROSTITUZIONE

ProVita è stata tra i primi a denunciare il mercimonio dell’utero in affitto. Già nel 2013 abbiamo redatto il primo numero speciale di questa Rivista sul tema. Poi alle parole – che servono per informare – abbiamo fatto seguire i fatti: nel settembre scorso abbiamo denunciato alla Procura della Repubblica chi l’organizza a Milano, a giugno chi lo fa a Roma dove una agenzia americana si proponeva di trovare clienti in Italia interessati alla pratica dell’utero in affitto all’estero. La descrizione dell’incontro è stata pubblicata dal Corriere della Sera in un articolo del 2 giugno 2016 di Monica Ricci Sargentini. L’uomo che ha presentato i servizi offerti per comprare il bambino all’estero ha spiegato come eludere la normativa italiana che vieta l’utero in affitto. In Italia infatti, l’art. 12, comma 6, della Legge 40 del 2004, recita: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila a un milione di euro». Ora la cosa è in mano ai giudici. Sarà in buone mani?

Solo chi, come don Oreste Benzi, si preoccupa in concreto di salvare le donne dal marciapiede, sa che la prostituzione è sempre una schiavitù. In Italia la legge non punisce chi si prostituisce, ma il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione. I numeri però vedono una crescita esponenziale delle donne – sempre più giovani – e ora anche di ragazzi, che battono il marciapiede. Di volta in volta il giudice dovrebbe accertare se la prostituta (o il “prostituto”) lo fa liberamente o per costrizione. Molti, in modo superficiale, vorrebbero la legalizzazione e la regolamentazione della cosa, in nome del “diritto di fare ciò che si vuole”. Invece, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha ispirato una proposta di legge trasversale (con prima firmataria Caterina Bini) che punisce i clienti. L’unico sistema che finora ha dato qualche risultato in Paesi come la Svezia e la Francia. Laddove, invece, la prostituzione è regolamentata dalla legge – come in Olanda – gli abusi, le violenze e lo sfruttamento non solo continuano, ma aumentano in modo preoccupante.

ABORTO «Safe and legal» era lo slogan inglese degli anni della legalizzazione dell’aborto. Purtroppo anche questo slogan è servito al lavaggio del cervello di molti che credono che l’aborto legale serva alla salute femminile. I nostri Lettori, invece, sanno bene che l’aborto determina non solo gravi problemi psichici alle donne (la sindrome post-aborto può essere molto grave e manifestarsi anche dopo diverso tempo);

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ma le conseguenze dell’aborto possono essere assai invalidanti anche sul piano fisico (basti pensare al link ABC, Abortion Breast Cancer, il cancro al seno). Non solo. Molte (troppe) donne sono morte a causa dell’aborto: emorragie, setticemie e altre complicazioni possono essere fatali. Muoiono più donne per aborto (legale) che per complicanze post partum. L’ultima vittima conosciuta (perché gran parte dei decessi vengono rubricati sotto altra voce) dell’aborto “safe and legal” si chiama Cree Erwin. Aveva ventiquattro anni. È stata trovata morta nel letto di sua madre a Battle Creek, nel Michigan. Lascia un bimbo di un anno. Pochi giorni prima aveva abortito in una clinica della Planned Parenthood e poi si era recata in ospedale accusando forti dolori di pancia, ma era stata rimandata a casa con un antidolorifico.

GENDER

Vignetta Notizie ProVita - La più condivisa sul web!

La diffusione dell’ideologia gender e dell’omosessualismo e l’asservimento totale all’agenda delle lobby LGBTQIA(…) sono certamente una delle priorità di Renzi, del suo Governo e della maggioranza parlamentare che lo sostiene. Alla Camera sono stati depositati ben otto progetti di legge per rendere obbligatorio e trasversale a tutte le discipline, in tutte le scuole, l’insegnamento della fluidità di “genere”. Nel frattempo il Miur – mentre andiamo in stampa – sta approntando linee guida dirette a consentire la propaganda dell’ideologia gender nelle scuole, in adempimento del comma 16 della legge 107 (la cosiddetta “Buona scuola”). Infine è stato creato il “Portale Nazionale LGBT”,

frutto della “Strategia Nazionale LGBT”, che serve a «promuovere una maggiore conoscenza della dimensione LGBT per contrastare ogni forma di discriminazione basata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere». Vi hanno lavorato ventinove Associazioni omosessualiste, compreso il “Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli”. Nel mezzo milione di euro stanziati in ventiquattro mesi per la strategia messa in atto a livello nazionale, il costo previsto per la realizzazione del portale web era di 30 mila euro… avranno assunto come impiegato Bill Gates in persona?

BAMBINI TRANSGENDER Il Regno Unito, purtroppo, è uno dei Paesi più obbedienti nella realizzazione dell’agenda della lobby LGBT. E sappiamo, purtroppo, che uno degli effetti delle politiche statali ad essa asservite è l’aumento esponenziale dei bambini che soffrono di disforia di genere e che vengono sottoposti a trattamenti ormonali per bloccare la pubertà e cambiare sesso. Nel 2015 sono stati registrati 1.398 casi di disforia di genere, più del doppio dei 697 del 2014 (nel 2010 erano 97). In soli nove mesi del 2015 sono state stanziate ben 2,7 milioni di sterline per somministrare ai bambini interessati farmaci che ne blocchino la pubertà. Una clinica deputata a queste tristi pratiche, inoltre, per fare la diagnosi interagisce con molti bambini attraverso e-mail, telefono o Skype. Vignetta Notizie ProVita - La più cliccata sul web!

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PERCHÉ VOTARE NO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Federico Catani

La democrazia è in pericolo. Renzi e il suo Governo hanno assunto apertamente atteggiamenti autoritari

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atteo Renzi è Presidente del Consiglio non perché ha vinto le elezioni, ma in quanto nominato dall’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in base alla fiducia di un Parlamento eletto con un sistema delegittimato dalla stessa Corte Costituzionale. Siamo governati da un partito di maggioranza relativa che, sebbene si fregi del nome “Democratico”, amministra la cosa pubblica in modo autoritario, realizzando riforme radicali per la storia del nostro Paese, con ostinata arroganza e senza tener conto della volontà e dei reali interessi degli italiani (e lo può fare anche perché controlla dispoticamente gran parte degli organi di informazione).

ProVita ha aderito al “Comitato Famiglie per il NO” al referendum

Nel momento in cui questa rivista va in stampa, c’è grande dibattito in merito alla nuova legge elettorale (l’Italicum) e al referendum sulla riforma costituzionale. Le certezze e l’ostentata sicurezza di Renzi, infatti, sembrano vacillare. E ora non solo si sta discutendo di possibili ritocchi all’Italicum, ma anche della possibilità di non sottoporre agli italiani un quesito referendario unico, ma uno “spacchettamento”. In tal modo Renzi, evidentemente preoccupato, tenta di depoliticizzare il voto sulla sua riforma e di salvarsi il posto di capo del Governo (sappiamo quanto contino le sue parole, ma non dimentichiamo che aveva promesso di dimettersi in caso di sconfitta al referendum…). Sia come sia, ProVita ha aderito al “Comitato Famiglie per il NO” (al referendum), presieduto da Massimo Gandolfini. Ma qual è il nesso tra il voto contrario alla riforma renziana e la battaglia per la difesa della famiglia e della vita? Bisogna anzitutto premettere che legge elettorale e riforma della Costituzione sono strettamente collegate. L’Italicum, infatti, prevede un premio di maggioranza esorbitante per la lista vincente (al ballottaggio, ad esempio, chi al primo turno ha avuto magari il 25% dei voti, in caso di vittoria otterrebbe il 55% dei seggi). 6

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A questo aggiungiamo che la riforma prevede una sola Camera con funzione legislativa: ebbene, è facile comprendere dove sia il problema. Se già ora, con il bicameralismo perfetto, il Governo è riuscito ad approvare una legge come la Cirinnà – nonostante la mobilitazione di milioni di cittadini e senza che ne sia stato discusso in Aula neanche un emendamento –, con la vittoria del “Sì” cosa impedirà agli esecutivi di far passare in tempi rapidi e senza contraddittorio utero in affitto, liberalizzazione delle droghe, eutanasia, adozione dei figli per single e coppie omosessuali, o il reato di “omofobia”? Sia chiaro, la Costituzione non è il Vangelo e può benissimo (anzi, deve) essere riformata. Ma il lavoro va fatto in modo condiviso. Qui invece abbiamo assistito ad un’imposizione: in questi anni Renzi ha dato prova di non amare il confronto. Il NO al referendum, quindi, è prima di tutto un NO al rischio di accentramento del potere in un solo partito; un NO alla limitazione della libertà e, con essa, della possibilità di difendere sul piano sociale, antropologico e morale principi e valori sui quali si è costruita la nostra civiltà.


Renzo Puccetti

SE LA DEMOCRAZIA

NASCONDE LA TIRANNIDE

Fabiana - geomangio

«La protezione contro la tirannia del potere politico non basta; è necessaria anche la protezione contro la tirannia dell’opinione e del sentire dominante» (J.S. Mill)

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el secondo versetto del capitolo 12 della Lettera ai Romani, San Paolo compie un’esortazione: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo». Il verbo greco, syschematixeste, definisce ciò da cui dobbiamo guardarci, gli schemi di questo mondo, ovvero le categorie di pensiero con cui giudichiamo ciò che è vero o falso e distinguiamo il bene dal male. Circondati da continui manufatti, siamo portati a interpretare ogni realtà come manipolabile, compreso l’uomo; similmente, immersi negli schemi di giudizio dettati dalla società, siamo fatalmente destinati a subirne l’attrazione e a interiorizzarli, consapevolmente o meno. Se nel primo caso la salvezza viene dall’esercizio dello sguardo contemplativo, dall’osservare e meditare sulla realtà che è data ed è previa all’uomo, nel secondo caso abbiamo la necessità di parole e gesti che rompano l’incantesimo malefico e ci risveglino dal torpore della ragione. Il primo a mettere in guardia dal pericolo dello scivolamento nel pensiero unico della maggioranza è stato Alexis de Tocqueville. Nel 1835 e 1840 egli pubblica i due volumi di Democrazia in America, risultato di un viaggio di nove mesi negli Stati Uniti, dove annota che «Catene e boia: questi sono i rozzi mezzi che la tirannia ha usato nel passato, ma ai nostri giorni la civiltà ha perfezionato lo stesso dispotismo

che sembrava non avere più nulla da imparare. [...] Sotto il governo assoluto di un solo uomo, il dispotismo, per raggiungere l’anima colpisce crudelmente il corpo, ma l’anima, sfuggendo a questi colpi, si erge gloriosamente al di sopra di esso. Nelle repubbliche democratiche però la tirannia non procede in questo modo: lascia stare il corpo e si dirige direttamente all’anima. Il padrone non dice più ‘Penserai come me o morirai’; dice: ‘Sei libero di non pensarla come me [...], ma da oggi sei per noi un estraneo [...]. Rimarrai tra gli uomini, ma perderai il tuo diritto all’umanità. [...] Vai in pace, ti lascio la vita, ma te la lascio in uno stato peggiore della morte’». Di questa modalità tirannica abbiamo avuto un saggio nell’omologato sfoggio di nastrini arcobaleno sul palco di Sanremo. John Stuart Mill, nel saggio Sulla Libertà del 1859 riprende e sviluppa il concetto: «Come altre tirannie, la tirannia della maggioranza fu inizialmente, e lo è ancora, ritenuta temibile soprattutto nel momento in cui opera attraverso atti delle pubbliche autorità. Ma le persone riflessive hanno capito che quando la società è essa stessa il tiranno [...] il suo modo di tiranneggiare non è limitato agli atti che essa può compiere per mano dei suoi funzionari politici. La società può eseguire, ed esegue, i suoi propri ordini: e se emette degli ordini ingiusti invece che giusti, o degli ordini su cose nelle quali non si dovrebbe immischiare, essa mette in atto una tirannia sociale più̀ terribile di molti tipi di oppressione politica, N° 44 - Settembre 2016

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dal momento che, per quanto non sorretta da pene così estreme, lascia poche vie di scampo, penetrando molto più a fondo nei dettagli della vita e rendendo schiava la stessa anima. La protezione, dunque, contro la tirannia del potere politico non basta; è necessaria anche la protezione contro la tirannia dell’opinione e del sentire dominante». Sono oramai numerosi gli ambiti in cui, attraverso l’apparato statale, la tirannia della maggioranza impone l’incompatibilità tra la carica e il mantenimento degli schemi ricevuti in eredità dai genitori, donati dall’adesione alla fede cristiana, o più semplicemente suggeriti dalla legge naturale. I pochissimi medici e ginecologi indisponibili a prescrivere o trascrivere contraccettivi sono reputati incapaci fondamentalisti religiosi, indegni di svolgere l’attività medica. Dai farmacisti si esige la fornitura delle pillole dei giorni dopo, il rifiuto espone a denunce e vandalismi. L’obiezione di coscienza all’aborto, e solo là dove essa è riconosciuta, è pressoché ubiquitariamente considerata un diritto di rango inferiore rispetto al cosiddetto “diritto di scelta” della donna; non assassinare un innocente è un’opzione esercitabile soltanto se il rifiuto non ostacola la fruizione della prestazione.

Oggi una tirannica religione libertaria considera il dissenso un atto di blasfemia

Quelli di pasticcere, fotografo, fiorista, tipografo, albergatore, sarto e impiegato comunale sono mestieri a rischio di azioni legali per chi non è disposto a offrire i propri servigi alle nozze gay. I casi di multe per centinaia di migliaia di dollari, le chiusure e le vendite forzose delle attività nei paesi che hanno introdotto il matrimonio omosessuale attestano la repressione. La professione di psichiatra e psicoterapeuta deve seguire i rigidi canoni imposti dalla psico-nomenklatura: il disagio omosessuale è segno di contagio omofobico, il conflitto con i valori religiosi del paziente, dimostra che è sbagliata la sua religione.

Anche occuparsi di adozioni pone davanti a un bivio: dare i bambini a coppie dello stesso sesso, o chiudere baracca e burattini. Con l’avvento dell’insegnamento della prospettiva di genere insegnanti e presidi sono costretti a scegliere tra il rispetto dei programmi ministeriali e la propria coscienza. Se fossi eletto sindaco del mio paese dovrei rifiutarmi di celebrare le unioni civili, i matrimoni di divorziati e i primi matrimoni tra battezzati, ciascuno dei quali è un atto contrario alla fede e alla morale, ma con ciò mi esporrei alla più che probabile denuncia per omissione di atti d’ufficio. Dunque, anche il concorso alla carica di primo cittadino è precluso a un cattolico indisposto a peccare. Non va molto meglio ai sacerdoti. Il Parlamento regionale della Comunità di Valencia si appresta a votare una mozione di condanna dell’arcivescovo Antonio Cañizares Llovera. Il cardinale è stato accusato di «incitare all’odio contro omosessuali e femministe», di «razzismo, omofobia e sessismo» e di «non essere cristiano». Padre Maurizio Vismara, parroco di Montemurlo, ha dovuto invece fronteggiare la sollevazione di un gruppo di genitori per avere ricordato nell’incontro preparatorio alla prima Comunione che divorziati e separati conviventi o risposati non possono ricevere l’Eucarestia. Persino quello di genitore è un mestiere vincolato dall’etica dello Stato, come dimostra il caso dei coniugi Martens e di altre sette coppie della cittadina tedesca di Salzkotten messi in galera per essersi rifiutati di fare frequentare ai figli le lezioni di educazione sessuale. Non credo sia ancora percepito, ma i cattolici stanno subendo un sistematico restringimento dello spazio loro disponibile nella società attiva; presto ciò che rimarrà assomiglierà a un ghetto dove sopravvivere in attesa del rastrellamento finale.

Credevamo che dopo la repressione romana e islamica il discepolato di Gesù non avrebbe richiesto costi a noi occidentali del XXI secolo; ci sbagliavamo. Oggi il conto della fedeltà a Cristo ci viene presentato dai sacerdoti di questa tirannica religione libertaria che considera il dissenso un atto di blasfemia.

TROVA LE DIFFERENZE 8

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POSSIAMO RIPARARE IL FEMMINISMO?

Costanza Miriano

Gli uomini faranno anche le astronavi e i palazzi e stamperanno i soldi, ma noi facciamo gli uomini e le donne di domani

A

desso le femministe di mezzo mondo se lo stanno chiedendo. Solo in Italia continuano a battere i pugni per la cosiddetta emancipazione, e infatti non per niente siamo il Paese che fa meno figli al mondo. Al mondo. In assoluto. Dalle altre parti, invece, si chiedono ormai da tempo: come possiamo riparare il femminismo (How to fix feminism)? Già, perché il femminismo, che in qualche modo è stata una fioritura dello spirito femminile, una legittima richiesta di sguardo e di attenzione, si è dimenticato di un piccolo, piccolo particolare. È che a volte l’ideologia ha così tanta fretta che non può perdere tempo con quisquilie come quelle che ci sottopone la realtà. Il particolare dimenticato, il dato di fatto imprescindibile, ma reale, è che i figli li fanno le donne. Li tengono nove mesi nella pancia. Li allattano. Li accudiscono. Per i primi tre anni di vita ogni bambino continua a essere un feto, anche se il cordone è tagliato. Ha bisogno di un rapporto se non continuo almeno molto stretto con la mamma, che è l’unica persona al mondo in grado di capirlo del tutto. Una mamma produce latte quando suo figlio ha fame, anche se ne è lontana; una mamma si sveglia quando lui piange; una mamma sa decifrare il suo pianto e, con la voce cui lui è stato abituato molto prima che nascesse, ha il potere di rassicurarlo.

Il femminismo si è dimenticato di un piccolo particolare; l’ideologia ha perso di vista la realtà: i figli li fanno le donne

Il femminismo ha vissuto tutto questo come un complotto, un’imposizione della violenza patriarcale, quando non è che la realtà, la natura. Della natura fa parte anche l’altra notizia, ancora più taciuta di questa, se possibile. Non solo il bambino ha necessità di una presenza massiccia della mamma, ma anche la mamma ha bisogno del bambino. Desidera, visceralmente vuole, stargli vicino, accudirlo, coccolarlo, dargli il meglio. È vero: c’è chi avverte questo desiderio con più forza, chi con meno... ma c’è per tutte.

Il problema si pone quando la mamma lavora. E qui ci sarebbe da distinguere tra infinite situazioni: c’è chi lavora per necessità di vera sopravvivenza, chi per garantire un tenore di vita almeno dignitoso ai figli, chi per scelta, chi per desiderio di fare del bene anche al di fuori della famiglia, chi per ambizione o desiderio di benessere. Le situazioni sono davvero diversissime, ma sono accomunate da un unico grande fatto: per tutte le neomamme tornare al lavoro è un problema. Ed è un problema di tempo (la scoperta di non avere il dono dell’ubiquità è una consapevolezza dolorosissima per ogni mamma). Lo è anche per quelle che lo negano persino di fronte a se stesse, e che cercano di sedare i sensi di colpa magari appoggiandosi ad amiche che hanno fatto la scelta di tornare al lavoro prestissimo, raccontandosi che è colpa dei pregiudizi di una società maschilista e patriarcale, ripetendosi all’infinito la balla del tempo di qualità (il famoso: «Non conta quanto ci stai, ma come», bla bla bla...). Possiamo raccontarci tutto quello che vogliamo ma questo è “il problema” per tutte le mamme che devono o vogliono lavorare. Il punto è che il lavoro ha regole e tempi maschili. Ha dinamiche maschili. N° 44 - Settembre 2016

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Ha procedure maschili. Noi donne abbiamo chiesto di entrarci, e io credo che sia stato un bene: non posso non pensare alla cura materna che hanno per me la mia commercialista, la dottoressa, la ginecologa, la parrucchiera. Quando devo scegliere qualcuno che si prenda cura di me istintivamente cerco una donna, perché so che abbiamo una sensibilità e una dolcezza diverse; mentre, lo ammetto, non cerco un pilota donna, né un poliziotto: se qualcuno mi deve proteggere, preferisco che sia un uomo, comunque questo è ancora un altro tema.

Le donne hanno giustamente ottenuto di entrare nel mondo del lavoro, ma per farlo hanno accettato che si dimenticasse la loro specificità

Dicevamo: le donne sono entrate nel mondo del lavoro, ed è stato un bene, e non solo per la capacità di cura e la dolcezza, ma per molti altri talenti che abbiamo. Il problema è che abbiamo preteso e ottenuto di entrarci, ma per farlo abbiamo accettato che si dimenticasse la nostra specificità. Noi portiamo la vita. Noi maneggiamo la vita. Noi abbiamo bisogno di un tempo per la gravidanza: per esempio se si lavora e si hanno già altri figli dovrebbe essere permesso di stare a casa, perché lavorare tutto il giorno col pancione e poi andare a casa a recuperare il tempo perso con gli altri figli e correre come pazze diciotto ore al giorno non è la condizione di massima sicurezza per una gravidanza. Noi abbiamo bisogno di un tempo per il puerperio e di uno per l’allattamento, di un tempo per lo svezzamento e per le pappe e le prime parole e i primi passi. Non ne hanno bisogno solo i nostri figli, anche noi lo vogliamo con tutto il cuore, non desideriamo lavorare per pagare un’altra donna che senta le prime parole dei nostri bambini, che insegni loro lo sguardo sul mondo, che li faccia addormentare sul loro petto. Parlo così da quadrimamma bilavoratrice: ho due figli maschi, due femmine e due lavori (faccio la giornalista e scrivo libri e spesso tengo conferenze in giro per l’Italia).

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Quindi nessuno mi può accusare di voler rimandare le donne ai fornelli e a lavare i pavimenti (la preghiera della sera dei miei figli a tavola spesso è «Grazie Dio che hai creato i surgelati»). Faccio quello che posso, mi barcameno, in ritardo su tutti i fronti, alla conferenza stampa e alla riunione di scuola, all’aeroporto e alla festicciola dei figli, sempre sudata e con la calza rotta, certa di essere sempre in difetto (e comunque quando i figli erano piccoli di lavoro ne avevo solo uno). Proprio per questo posso parlare: il mondo del lavoro dovrebbe prevedere una maggiore flessibilità per le madri, almeno per le privilegiate che non svolgono un ruolo legato alla presenza fisica. Anche qui dovremmo aprire una casistica infinita, ma quello che mi preme che passi in questa arruffata riflessione è che è necessario ripensare gli obiettivi delle battaglie delle donne. Abbiamo ottenuto di entrare nelle stanze dei bottoni: presiediamo Fondi Monetari e Paesi potentissimi, pilotiamo astronavi e guidiamo multinazionali, siamo sindaci e presidenti della Camera. Siamo entrate nella stanza dei bottoni, adesso chiediamo di uscirne quando qualcuno ha bisogno di noi, là fuori. Un figlio è molto molto di più di qualsiasi progetto di legge, atterraggio su un pianeta lontano, più di qualsiasi politica monetaria. Molto più di cento libri da Pulitzer o Nobel, più di un Oscar o di qualsiasi altra cosa. Un figlio è un’opera incredibilmente più nobile e complessa e delicata e prodigiosa. È un tale privilegio essere madri, che non capisco come abbiamo potuto rinunciarci quasi del tutto (siamo le madri meno prolifiche al mondo) per così poco: cariche e titoli, ma anche solo stipendi, o addirittura miserie come “il tempo per me stessa”. La catechesi del mondo ci ha fregate: abbiamo rinunciato al più grande privilegio, alla gioia e anche, se vogliamo, al potere più enorme che Dio, o la natura per chi non ci crede, ci ha consegnato. Noi facciamo gli uomini. Gli uomini faranno anche le astronavi e i palazzi e stamperanno i soldi, ma noi facciamo gli uomini e le donne di domani. Che i contribuenti di oggi si facciano carico di quelle di noi che hanno bisogno di un po’ più di tempo per fare le mamme.


Giulia Tanel

«FORTE COME LA MORTE È L’AMORE» Questa testimonianza di vita è davvero forte e colpisce nel profondo. Parla Luca Marchi

È

la storia di un amore di coppia, di una famiglia, della vita che continua oltre la morte... ed è una storia che rimette al centro tre punti fondamentali, oggi molto attaccati: la vita, la famiglia e l’educazione. Tre capisaldi di una tavolozza di colori che, combinati in maniera diversa nella storia di ognuno di noi, danno origine a un dipinto unico e meraviglioso. A raccontarcela il marito di Elisa Lardani, morta di parto il 28 febbraio del 2015 a Orvieto, a soli trentotto anni.

Innanzitutto, potresti presentarti ai nostri Lettori? Sono Luca Marchi, vivo a Orvieto anche se sono nato a Roma. Faccio l’infermiere di sala operatoria e sono sposato con Elisa dal 2003. Abbiamo quattro figli: Chiara, Francesco, Maria e Maddalena. Cos’è successo nella tua vita circa un anno e mezzo fa? Un anno e mezzo fa è nata la nostra quarta figlia Maddalena e, durante la dinamica del parto, Elisa ha avuto quella che in termini scientifici si chiama “embolia da liquido amniotico”, che porta delle conseguenze all’interno del corpo – tra le quali per esempio la CID (coagulazione intravascolare disseminata) – in grado di determinare problematiche molto gravi sia sulla donna, sia sul nascituro. Maddalena quali conseguenze ha riscontrato? Probabilmente Maddalena è stata per diversi minuti in arresto cardio-respiratorio perché un coagulo ha ostruito il cordone ombelicale. Di fatto Maddalena è stata letteralmente “tirata fuori” dalla pancia di Elisa quando era ancora molto alta in utero, con una manovra d’emergenza molto difficile e di rara riuscita. Appena nata è stata rianimata per più di dieci minuti e poi è stata trasferita in terapia intensiva neonatale dove è stata trattata per settantadue ore con una tecnica moderna, l’ipotermia, per preservare il tessuto cerebrale – uno dei pochi tessuti che il nostro corpo non è in grado di ricostruire – e limitare il danno che poi comunque le è stato riscontrato con la risonanza magnetica.

Elisa, invece? Dopo l’embolia, una volta che Maddalena era stata fatta nascere, abbiamo tentato di operare Elisa. Abbiamo provato a fare tutto il possibile, ma il problema era che il suo assetto coagulativo era completamente saltato. L’abbiamo tenuta in terapia intensiva, praticamente a lottare tra morte e vita, per trentasei ore circa e in questo lasso temporale le abbiamo infuso circa cinquanta sacche di sangue, plasma e piastrine. Giustamente, durante il funerale, Mons. Enzo Bonetti - responsabile del progetto Mistero Grande e già direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia della Cei - ha dichiarato: «Elisa ha dato fino alla sua ultima goccia di sangue». Ed è vero, dato che le hanno infuso almeno sette litri di sangue, contro i circa cinque litri che mediamente scorrono nel nostro corpo: Elisa non aveva quindi più una goccia del suo sangue all’interno del corpo. Fino a mezzogiorno del giorno dopo il parto abbiamo tentato disperatamente di salvarla e sembrava anche che la situazione stesse migliorando. Poi a un certo punto il suo cuore si è fermato: è andata in arresto cardiorespiratorio e lì ci siamo salutati... sperando di rivederci! Quindi tu in questa situazione eri implicato come marito ma anche come infermiere? Sì. In urgenza ho messo da parte il “marito” e ho fatto l’infermiere. Non potevo stare lì con le mani in mano. Durante l’intervento chirurgico invece sono uscito, perché ho capito che il mio posto non era più lì. Di fronte alla vostra storia di vita si è tentati di fermarsi al dramma. E invece la vostra testimonianza insegna che è giusto rilanciare, puntare in alto. Ti chiedo quindi: perché è importante puntare sulla vita, sul matrimonio e sulla famiglia? Ti rispondo prendendo come chiave di lettura il Cantico dei Cantici, dove si legge: «Forte come la morte è l’amore». Questo è quello che sperimento, e che ho sperimentato, in questi mesi dopo la morte di Elisa. Il dolore non vince sull’amore che io ho vissuto – e continuo a vivere – nei confronti di mia moglie.

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L’associazione Elisa Lardani Marchi. Corpo dato per Amore è nata per sostenere chi ha bisogno di aiuto, accogliere tutti, a partire dalle madri, in un luogo dove sia possibile respirare bellezza, arte e musica; organizzare incontri e seminari, per giovani e famiglie e promuovere attività di volontariato, anche in collaborazione e con l’ospedale di Orvieto.

Anzi, paradossalmente potrei direi che il nostro amore continua a crescere. Il mondo di oggi direbbe: «Rifatti una vita!». Ma quello che ho già detto in altre occasioni è che io non ho bisogno di “rifarmi” una vita, perché fondamentalmente questo è esattamente il progetto che avevamo costruito con Elisa: darci dentro fino all’ultimo giorno! E, tra l’altro, nella formula matrimoniale si dice che «Prometto di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita». Della “mia” vita, fino a quando avrò vita io! Quindi non è mai finito, ma continua. Com’è la tua vita oggi? Sull’essere ancora oggi sposo di Elisa ho basato la ripresa della quotidianità con i miei quattro figli, senza delegare ad altri la loro educazione. Con mia moglie abbiamo sempre scelto questo. I nostri figli ci sono stati donati e, come dice Gibran, «I figli sono frecce che si hanno nella faretra da lanciare nel mondo». Noi abbiamo il compito di prepararli a questo lancio e io non posso delegare questa responsabilità ad altri, anche se naturalmente ci sono tante persone che mi aiutano e mi sostengono. Però alcune cose devo farle io e basta, proprio nel rispetto del progetto che avevamo con Elisa sull’educazione dei nostri figli.

Tuttavia la vita ci pone di fronte eventi che fanno riflettere e, in occasione della morte di un caro amico, per l’ennesima volta mi sono reso conto che io non sono il padrone della vita e non sono io che posso decidere determinate dinamiche. E allora con Elisa abbiamo deciso di riaprirci alla vita. Elisa era insegnante di metodi naturali, quindi sapevamo benissimo quando la nostra unione poteva portare alla nascita di un figlio. Tutti e quattro i nostri bambini sono stati voluti e una cosa che ho sottolineato fin da subito con gli altri figli è che Maddalena non è la colpa della morte della mamma, ma che anzi anche lei ha rischiato di morire e, di fatto, per dieci minuti è stata morta con la mamma. Quindi Maddalena non ha nessuna colpa, anzi, è un dono grande e vederla crescere, sorridere e camminare (cosa che nessuno si aspettava, visti i danni riscontrati dalla risonanza magnetica) è una grande gioia. Quindi sì, è vero, il dramma di aver perso mia moglie c’è ed è molto doloroso. Ma quando guardo i nostri figli vedo dentro di loro Elisa e trovo dentro di loro tutto l’amore che, come coppia, abbiamo scelto di vivere attraverso di loro, nel dare loro la vita. Poterli crescere è veramente un privilegio, come mi aveva detto una volta Elisa durante le vacanze estive, quando la gestione dei bambini per tre mesi a casa può non essere facile: «È un privilegio. È un privilegio starci assieme tutto questo tempo. Dovremmo avere più tempo per stare con loro». Chissà, forse intuiva già qualcosa...

Rispetto alla questione dei figli ci sono due note importanti nella vostra storia. Da un lato la scelta di aprirvi alla vita e di fare tanti bambini; dall’altra il fatto che questa scelta di “dare la vita” ti ha tolto tua moglie. Come ti poni di fronte a questa (apparente) contraddizione? Innanzitutto è importante spiegare come siamo arrivati ad aprirci alla quarta figlia. Io all’inizio non me la sentivo, mentre Elisa dopo un anno e mezzo che avevamo avuto il terzo figlio era già pronta ad averne un altro e mi diceva: «Vorrei avere un altro bambino». Luca ed Elisa (foto di Zenit)

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Quello che ho sperimentato dopo la morte di Elisa è che il dolore non vince sull’amore. Anzi potrei direi che il nostro amore continua a crescere


Giuliano Giuliano Guzzo Guzzo

laureato in Sociologia e Ricerca Sociale, collabora con diverse riviste e portali web fra i quali Tempi.it, Libertaepersona.org, Campariedemaistre.com, Cogitoetvolo.it, Uccronline.it e Corrispondenzaromana.it. È membro dell’Equipe Nazionale Giovani del Movimento per la Vita italiano * giulianoguzzo@email.com @GiulianoGuzzo : www.giulianoguzzo.com

IL SUICIDIO HA UN SENSO?

Anna Maria Pacchiotti

Anna Maria Pacchiotti, presidente dell’associazione “Onora la Vita onlus”. : www.onoralavita.it

Le persone che si danno la morte sono sempre di più. Una tragedia che riflette il nostro vuoto esistenziale

I

l suicidio è uno dei fenomeni oggetto di studio per eccellenza della sociologia, che ha su questo versante un indiscutibile punto di riferimento nell’opera di Émile Durkheim (1858-1917) intitolata, appunto, Le Suicide, étude de sociologie (1897), a tutti gli effetti ormai un classico. Inoltre, a rendere il fenomeno particolarmente interessante a livello di ricerca, purtroppo, c’è un aspetto del quale faremmo tutti volentieri a meno: la sua attualità. Il suicidio, infatti, è una realtà tutt’altro che marginale o in via di estinzione: negli Stati Uniti, tra il 1999 e il 2014, si è verificato – stando ai dati diffusi dal Center for Disease Control and Prevention – un aumento addirittura del 24%, incremento che non si registrava da decenni; non va meglio in Gran Bretagna, se si pensa che è la prima causa di morte tra i minori inglesi. Confrontato con il panorama internazionale il nostro Paese risulta in una buona posizione, dato che l’Italia non solo figura fra i Paesi d’Europa dove ci si uccide di meno ma, con meno di 5 suicidi ogni 100.000 abitanti, sarebbe fra quelli al mondo meno esposti al rischio suicidario (AA.VV., World Health Organization, Preventing suicide: A global imperative, Luxembourg 2014, p.16). Tutto questo però non autorizza a sottovalutare il fenomeno del suicidio, sia perché anche un solo caso costituisce un enorme dramma umano e familiare, sia perché, ignorandolo, si finirebbe col non poterne studiare le cause e, quindi, con la possibilità di non poter immaginare adeguati programmi di prevenzione.

Il 10 settembre di ogni anno Giulia si celebra la Giornata Mondiale Tanel per la Prevenzione del Suicidio, su iniziativa dell’International Association for Suicide Prevention Laureata in Filologia e Critica Letteraria. (IASP) e dell’OMS Scrive per passione. Collabora con

libertaepersona.org e con altri siti internet e riviste; è inoltre autrice, con Francesco Agnoli, di Miracoli - L’irruzione del soprannaturale nella (Ed. Lindau). questa, storia inevitabilmente, la

Perché ci si uccide? È domanda dalla quale partire. Una domanda che non ammette una risposta chiara, dal momento che le motivazioni del suicidio, esaminate da vicino, variano grandemente a seconda dell’esperienza individuale di chi si toglie la vita, del suo contesto familiare, della sua cultura. Per rendere l’idea di siffatta varietà si può per esempio ricordare, sulla base di un recente studio specifico sull’argomento – basato su dati raccolti fra il gennaio 2015 e l’aprile 2015 –, come oltre un giovane inglese su tre, fra quelli che si sono tolti la vita, pare lo abbia fatto perchè si vergognava delle imperfezioni della pelle tipiche della pubertà: l’acne, in parole povere (Suicide by children and young people in England, University of Manchester, 2016). Un dato che, se da un lato potrebbe legittimamente sorprendere, dall’altro la dice lunga sulla vulnerabilità degli adolescenti, che è un dato da tenere sempre ben presente. N° 44 - Settembre 2016

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La fede concorre a prevenire il suicidio, e la fede cattolica sembra farlo meglio delle altre, in particolare di quella protestante

Quanto va considerato con grande e prioritaria attenzione è però il peso della componente familiare: sia perché, per esempio, avere un genitore depresso aumenta sensibilmente il rischio di suicidio, che è addirittura quintuplicato nel caso che il padre o la madre abbiano tentato di uccidersi (JAMA Psychiatry 2015;72(2):160-168); sia perché vi sono eventi che sembrano aumentare il rischio di suicidio: il divorzio, per esempio, espone i figli a maggiori tentazioni suicidarie (Psychiatry Research, 2011; 181(1-2):150-155). La stabilità coniugale, inoltre, non preserva solo i figli dal suicidio, ma anche gli stessi componenti della coppia (Demography, 2011; Vol.48(2):481-506; The Psychiatric Quarterly, 2008 Vol.79(4):275-85), anche se gli uomini, che sono il sesso più esposto a tentazioni suicidarie, sembrano beneficiarne più delle donne. L’incidenza protettiva del suicidio nel matrimonio, tuttavia, appare un dato chiaro quasi esclusivamente per la famiglia naturale e non sembra valere per altre tipologie di legame: gli uomini omosessuali “sposati”, per esempio, presentano un rischio di suicidio quasi tre volte maggiore rispetto agli uomini coniugati con una donna (European Journal of Epidemiology, 2016). E il fattore religioso? Che peso ha nella diffusione o nel contrasto del suicidio? Da quanto è dato sapere, non solo la fede concorre a prevenire il suicidio ma la fede cattolica sembra farlo “meglio” delle altre, in particolare di quella protestante: questo, almeno, il risultato di un accurato studio compiuto esaminando i suicidi avvenuti tra 1981 e 2001 in Svizzera dove, com’è noto, convivono la fede cattolica e quella protestante nelle sue varie denominazioni: si è visto che i protestanti sono più propensi al suicidio dei cattolici (Suicide and Religion: New evidence on the differences between Protestantism and Catholicism, Working/Discussion Paper, 2012; 1-41). 14

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Che cosa ci insegna questo insieme di dati sul suicidio? Per quanto la panoramica sia stata sintetica, direi che su alcuni elementi è comunque possibile riflettere. Il primo è la stabilità: l’uomo – ogni uomo – abbisogna di riferimenti certi. In ogni ambito: sociale, professionale, affettivo; ne consegue che tutto ciò che altera o elimina una stabilità – dal licenziamento con perdita del lavoro, al divorzio – costituisce una seria minaccia all’equilibrio personale. Un secondo fondamentale elemento di riflessione, non alternativo bensì conseguente al primo, è la famiglia: laddove la famiglia è unita – per condivisione di valori, comunanza di progetti e sostegno reciproco tra marito e moglie – il suicidio diventa una possibilità molto remota; viceversa, laddove la famiglia è in crisi o assente è quasi irrilevante il contributo di altre forme di stabilità: benché se ne parli meno, dunque, non è azzardato ritenere la stabilità affettiva anche più importante, sotto alcuni punti di vista, di quella professionale che pure, intendiamoci, ha una sua non irrilevante incidenza.

Per ogni aumento della disoccupazione pari al 10% si registra un aumento della mortalità da suicidio pari all’1,5%

Se si considerano fasce di età più elevate, naturalmente lo scenario cambia e si vede per esempio come disoccupazione e suicidio vadano tristemente a braccetto: per ogni aumento della disoccupazione pari al 10% – secondo uno studio – si registra un aumento della mortalità da suicidio pari all’1,5% (Association entre taux de chômage et suicide, par sexe et classe d’age, en France métropoliatine 2000-2010, Institut de veille Sanitaire).

Un terzo aspetto, anche questo non alternativo ai precedenti, sul quale vale la pena riflettere è l’importanza di Dio; si è poc’anzi visto come il fattore religioso costituisca un antidoto, per così dire, al suicidio. Sarebbe però sbagliato arrestarsi a questo singolo dato, dal momento che esiste una correlazione anche fra religione e maggior salute mentale e fisica (Handbook of Religion and Health, 2012), minore rischio di depressione (The American Journal of Psychiatry, 2012), di suicidi (American Journal of Public Health, 1986), e addirittura minori tassi di criminalità (More God, Less Crime, 2011); la stessa dimensione relazionale ed affettiva, con particolare riferimento alla stabilità coniugale, sembra risultare agevolata dalla religione (Journal of Family Psychology, 2001). Posto che la fede è e rimane un dono, a partire dal fenomeno del suicidio sarebbe importante avviare una riflessione a vari livelli sull’importanza della religione, così spesso “privatizzata” negli ultimi decenni, eppure ancora così centrale per aiutare l’uomo non solo a non rifiutare la propria vita, ma anche a darle un significato.


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presso la segreteria

sino una reazione psicoca”.

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DIRITTO DI ABORTO

O DIRITTO AL CONSENSO INFORMATO? 23-24 SETTEMBRE 2016

Auditorium San Filippo - Piazza Statuto, Casale Monferrato Questo convegno nasce dalla necessità di offrire ad un pubblico, spesso ignaro, le conoscenze scientifiche circa le ricadute negative che la donna subisce sia nel caso dell’aborto spontaneo, che, ancora più pesantemente, nel caso di quello provocato. L’aborto si inserisce in una condizione di fragilità quale la gravidanza, e può far insorgere meccanismi psicopatologici anche gravi e spesso a distanza di anni. Ascoliamo il dott. Nathanson nel “Grido silenzioso”: “Le donne sono anch’esse vittime, né più né meno dei bambini. Alle donne non è stata mostrata la vera natura del bambino prima di nascere, non gli è stato fatto vedere che cosa sia in realtà un aborto. Le donne, sempre più numerose, a centinaia, a migliaia, hanno avuto gli uteri perforati, infettati, distrutti; sono state sterilizzate e castrate, il tutto in seguito ad una operazione di cui non sapevano effettivamente nulla”. Nel suo libro “Amore e responsabilità” (anni ‘60) il futuro Papa Giovanni Paolo II prese molto sul serio la sofferenza delle donne che hanno abortito: “Lasciando da parte la questione morale, l’interruzione della gravidanza è in se stessa un gesto traumatico e sotto certi aspetti UNA REALTA’ CLINICA UNA REALTA’ CLINICA si può paragonare a quegli esperimenti che danno origine alla nevrosi. È una interruzione artificiale CHE CHENON NONSISIPUO’ PUO’PIU’ PIU’NASCONDERE NASCONDERE del ritmo biologico naturale con gravi conseguenze per la donna. Non ci sono parole per descrivere dalla didi Questo convegno convegno nasce nascenon dalla necessità necessità l’enorme risentimento che esso provoca nella psiche Questo femminile. Lei dimenticherà mai quanto le è offrire offriread adun unpubblico, pubblico,spesso spessoignaro, ignaro,leleconoscenze conoscenze UNA REALTA’ CLINICA CONVEGNO accaduto.CHE A parte le conseguenze fisiche, l’aborto provoca una nevrosi d’ansietà con profondi sensi di scienfiche circa le ricadute negave che la donna scienfiche circa le ricadute negave che la donna NON SI PUO’ PIU’ NASCONDERE subisce Dirio di aborto subisce sia sia nel nel caso caso dell’aborto dell’aborto spontaneo, spontaneo, che, che, UNA colpa, REALTA’eCLINICA CONVEGNO a volte persino una reazione psicotica”. ancora ancorapiù piùpesantemente, pesantemente,nel nelcaso casodidiquello quelloprovoprovo-

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Segreteria Segreteriadel delConvegno: Convegno:


Roberto Marchesini

EDUCARE I GIOVANI IN UN MONDO ALLA ROVESCIA

I nostri giovani sono i figli di due generazioni di educazione senza la terza dimensione, la metafisica, senza l’idea che esistano un bene o un male in sé

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ella nostra società, nella quale i valori cristiani sono sempre meno condivisi, sta emergendo un problema educativo che non è stato previsto. Com’è possibile dare ai figli un’educazione fondata sui valori spirituali, sulla modestia, sulla castità in un mondo nel quale gli imperativi sono il godimento, l’imbarbarimento, la bruttezza, la sciatteria e la provocazione dei valori? Quando il modello adolescenziale (con l’adolescenza protratta oltre i trent’anni) impone il tatuaggio, il piercing in posti più o meno visibili, i “party” più strani e trasgressivi, la musica tribale e triviale... ha senso resistere, opporsi? Non si rischia di far sentire il proprio figlio “strano”, una mosca bianca, un “disadattato” (mai parola indica più chiaramente il ribaltamento valoriale al quale stiamo assistendo)? Partiamo da alcuni punti fermi. Innanzitutto, il compito educativo spetta ai genitori. Non alla scuola, non allo Stato, non agli esperti: ai genitori. La responsabilità educativa dei figli spetta a loro. Sono quindi loro che devono scegliere il tipo di educazione da impartire ai figli, anche se il modello educativo che scelgono è discordante con (o in opposizione a) quello proposto dalla società. Secondariamente, il tipo di educazione proposto dalla nostra società è assolutamente deprecabile sotto molti punti di vista. Non so se sia mai esistita una società

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che intenzionalmente abbia cresciuto i propri figli nell’ignoranza della metafisica, del fatto che esista qualcosa oltre la materia. L’unico imperativo che la nostra società impone a ragazzi e ragazze è «Godi!». Questo è quanto insegna MTV. Questo è quanto chiedono padri e madri ai loro figli: divertiti, riempi la tua vita di piaceri di ogni tipo, dimentica le responsabilità, il sacrificio, le conseguenze del tuo godimento perpetuo. Ogni privazione, ogni frustrazione, ogni limite è un’ingiustizia intollerabile che mamme e nonne indignate s’impegnano ogni giorno a spazzare dalla strada dei loro figli e nipoti. Non è una novità, non è una rivoluzione: è semplicemente l’esito di un processo. Date alcune premesse, le conseguenze saranno necessariamente quelle. Se i genitori propongono ai loro figli un mondo in due dimensioni è perché essi stessi vivono in un mondo piatto, senza profondità metafisica. Non c’è motivo alcuno per cui dovrebbero proporre ai loro figli qualcosa che non conoscono. E non conoscono altro perché a loro volta sono stati educati così. L’Italia del secondo dopoguerra, che noi credevamo cattolica, tradizionalista e valoriale, è stata l’Italia che ha creato questa situazione. L’Italia che al posto dello smartphone aveva come status symbol l’autoradio, che viveva tutto l’anno in funzione della vacanza (non in Egitto, ma dai nonni in Calabria), l’Italia dei divani incellophanati e del servizio di N° 44 - Settembre 2016

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cristallo di dote perennemente chiuso nella vetrinetta in sala (anch’essa rigorosamente chiusa a chiave). L’Italia in cui l’importante era “la roba”, era mangiare bene e avere il figlio dottore. Ecco: i selvaggi che si aggirano per le nostre città, con la biancheria in bella mostra, l’esibizione di una pelle marchiata e borchiata e un linguaggio che farebbe vergognare il proverbiale scaricatore di porto sono il frutto di almeno due generazioni di educazione senza metafisica, senza l’idea che esistano un bene o un male in sé, e non solo per le conseguenze piacevoli o spiacevoli che hanno per me. Terzo: la crescita personale – la vocazione, in termini religiosi – costa. Diventare se stessi, realizzare il progetto che ci è stato affidato alla nascita è faticoso, è duro, non è né piacevole né gratuito. Diventare la persona che dovremmo essere, esprimere la nostra personalità, mettere a frutto i nostri talenti implica la solitudine, il pagamento di un prezzo, l’incomprensione o addirittura lo scherno. Essere veramente liberi, essere coerenti con i propri valori, puntare alla realizzazione della propria vocazione esige che ci si senta un “disadattato”, una mosca bianca.

Il modello adolescenziale oggi impone tatuaggi, piercing, la trasgressione, lo“sballo”: ha senso resistere, opporsi?

Tanto più in una società come la nostra, nella quale il conformismo è dittatoriale, e l’espressione di sé non significa esprimere la propria personalità quanto la mancanza di essa. Bisogna tuttavia considerare una cosa importante, almeno dal punto di vista clinico (lo scrivente è, appunto, uno psicologo clinico). Durante la crescita abbiamo bisogno di essere rassicurati, di sapere che “andiamo bene”, che siamo adeguati. Questo è un bisogno fondamentale che, se soddisfatto, costituisce la premessa per la costruzione 18

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di quella vera personalità, conforme al proprio progetto, di cui dicevamo sopra. La nostra adeguatezza deve però trovare conforto nel mondo dei pari. Non ci sentiamo adeguati confrontandoci con chi è completamente diverso da noi (con gli adulti, nel nostro caso), ma con chi è – o dovrebbe essere – simile a noi: il gruppo dei pari. Per questo gli amici sono così importanti per gli adolescenti: sono i coetanei che possono fare da specchio, non più i genitori. Sentirsi adeguati per gli adulti (genitori, nonni...) ma non per i coetanei non dà quella sicurezza della quale i ragazzi hanno bisogno (a meno di trovarci di fronte a ragazzi particolarmente strutturati, forti e sicuri; cosa sempre più rara anche tra gli adulti, al giorno d’oggi). Siamo dunque di fronte ad un dilemma insolubile? Veleggiamo tra Scilla (la massificazione edonistica) e Cariddi (il disadattamento)? Una soluzione, forse di difficile applicazione, c’è. Si tratterebbe di costruire attorno ai nostri ragazzi un ambiente di coetanei educati in modo cristiano, metafisico, valoriale; in questo modo la loro domanda di adeguatezza sarebbe soddisfatta, e crescerebbero con punti di riferimento diversi da quelli – deprecabili – proposti dalla nostra società. Gli oratori si svuotano, gli scout si uniformano al modello sociale, il mondo dello sport veicola messaggi ambigui sul gender e sulla sessualità? Forse è giunto il momento che i genitori si attrezzino per creare ambienti educativi in sintonia con i loro valori. Lo stanno facendo per la scuola: stanno sorgendo sempre più e sempre più belle scuole parentali; perché non creare degli ambienti educativi e ricreativi con gli stessi criteri? Non è facile, ma forse è più facile che istituire una scuola... Un’ultima riflessione. Tutto questo ci fa capire quanto sia importante, per la salvezza delle persone, una società a misura d’uomo, che permetta o favorisca il raggiungimento dei propri obiettivi vocazionali. Per questo motivo la Chiesa ha una Dottrina Sociale: perché non siamo isole. Se vogliamo che i nostri figli abbiamo meno difficoltà nella nostra società, torniamo a occuparci della società. Torniamo a essere il sale della terra e la lucerna nel lucernaio.

PRIMO PIANO


IL RUOLO EDUCATIVO DELLA SCUOLA

Enzo Pennetta

La scomparsa dell’insegnante come ‘maestro’ e della famiglia come riferimento porta a una cultura omologante: l’allievo è un automa, solo, che apprende quanto preordinato dall’alto

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arlare della scuola oggi è parlare di qualcosa di così disomogeneo che sarebbe più opportuno parlare di “scuole”. Fatta questa debita premessa è possibile però individuare delle linee generali che attraversano il sistema scolastico, determinandolo nelle sue pur molteplici realtà. In modo impercettibile, da alcuni anni è in atto una tendenza allo spostamento dell’azione della scuola da una funzione educativa a una funzione formativotecnica; si tratta evidentemente di una trasformazione profonda che ha importanti ricadute sul tipo di società che si va a costruire. Da qualche tempo si sta infatti diffondendo l’idea che l’insegnante debba cambiare il suo ruolo passando dall’essere qualcuno che educa e trasmette conoscenze, all’essere qualcuno che riveste un ruolo di “facilitatore” delle stesse.

Oggi, finché esisterà un’autonomia sull’applicazione di metodi e di modelli educativi, va difesa e tramandata la possibilità di svolgere un ruolo educativo

Com’è immediatamente evidente dalla semplice etimologia delle parole la funzione insegnante passerebbe dall’indicare gli obiettivi, a quella di rinunciare a questa funzione riducendosi ad aiutare lo studente nel conseguimento degli stessi. Scomparirebbe così la figura stessa dell’insegnanteeducatore per far posto a quella di un “tecnico” che funge da intermediario tra le specifiche caratteristiche del singolo studente e un sapere impersonale che diventa il vero interlocutore dello studente stesso. Dietro il proposito condivisibile di mettere lo studente al centro dell’opera educativa (ma perché finora per chi s’insegnava?), si fa passare l’eliminazione della figura del docente come “maestro”, cioè di colui che etimologicamente è il “più grande”, e in quanto tale è esempio da seguire. Nella scuola degli insegnanti “facilitatori” non c’è nessun esempio da seguire perché sono le proprie particolarità a diventare ciò cui la scuola deve adeguarsi e quindi seguire: sarà l’insegnante a seguire lo studente, e non viceversa.

PRIMO PIANO

Se nella scuola dei maestri si poteva correre il rischio di incontrare dei “cattivi maestri”, dai quali trarre un’esperienza di vita in ogni caso significativa, nella scuola dei “facilitatori” questo non avverrà più, ma non s’incontreranno neanche più dei buoni maestri. Il maestro prima di essere qualcuno che trasmette il sapere è qualcuno che trasmette un modo di essere. Questo ruolo è chiaramente reso dall’utilizzo del termine “maestro” nei Vangeli, dove la figura del Cristo più che essere identificata da quello che dice è un modello da seguire. Questa figura di docente ‘facilitatore’ non si è ancora affermata del tutto nelle nostre scuole, ma sapendo che tale è la tendenza possiamo capire quale dovrebbe progressivamente diventare il suo ruolo nel nostro sistema scolastico. Alcuni importanti indizi di uno spostamento della figura dell’insegnante verso un ruolo di facilitatore sono ravvisabili in una tendenza a un aumento del ricorso indiscriminato a personalizzazioni dello studio che avvengono per via di una dilatazione del numero e dei casi di situazioni specifiche che richiedono trattamenti, come BES (Bisogni educativi speciali), DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento) o ADHD (Disturbo da deficit di attenzione/ Iperattività). Si tratta di situazioni che certamente richiedono attenzione, ma che stanno dando luogo a un impiego – a detta di molti – eccessivo di personalizzazioni dello studio.

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L’effetto finale di questo spostamento è individuabile in un rischio di soggettivizzazione dell’apprendimento, che venendo incontro alle esigenze del singolo rischia di essere in qualche modo piegato a esse. Inoltre si va verso un’esaltazione di una cultura asettica e indiscutibile che viene proposta senza il filtro costituito dall’insegnante stesso, le cui considerazioni possono essere o no condivisibili ma che comunque rappresentano un esempio di pensiero critico.

La scuola deve adeguarsi e seguire le particolarità dell’alunno: sarà l’insegnante a seguire lo studente e non viceversa?

A questo orientamento si va sovrapponendo una seconda tendenza costituita dall’individuare nella scuola una semplice fornitrice di competenze lavorative, anziché luogo di formazione della persona e dispensatrice di cultura. A togliere ogni dubbio al riguardo è stata il Ministro Giannini che nel corso di un’intervista del maggio 2016 ha dichiarato: «L’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente ‘saper fare’. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica». Riassumendo, la scuola sta subendo delle spinte in

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direzione di un’omologazione ad altre realtà europee (e occidentali in generale) che vanno verso una progressiva perdita della funzione educativa tradizionale per orientarsi verso una forma di laboratorio di apprendimento di saperi preferibilmente orientati a un impiego pratico. Dal punto di vista della formazione si va assistendo, in definitiva, alla sottrazione della funzione educativa all’insegnante. Una tendenza che va di pari passo con quella che si va operando nei confronti della famiglia. La scomparsa dell’insegnante come “maestro” e della famiglia come riferimento, porta a una cultura omologante, in quanto il confronto resta tra il singolo allievo e le conoscenze/capacità da apprendere. Se la scuola come luogo educativo di formazione della persona andrà effettivamente perdendo terreno, il risultato saranno studenti cresciuti nell’omologazione alla cultura dominante e al tempo stesso accondiscendenti verso le proprie personali debolezze, purché esse non entrino in conflitto col sistema culturale proposto. Se l’attuale generazione di docenti lascerà il posto alla successiva senza mettere in discussione queste nuove tendenze, la rivoluzione della scuola – e con essa una rivoluzione antropologica – sarà compiuta. Oggi però la possibilità di svolgere un ruolo educativo è ancora possibile, e tale possibilità va difesa e tramandata finché esisterà un’autonomia sull’applicazione di metodi e modelli educativi. Per una scuola che continui a educare la persona, e non a omologarla acriticamente a dei saperi, è importante essere presenti a ogni livello come insegnanti, genitori e alunni. È in questo momento storico in cui la mutazione è in corso che si è chiamati più che mai ad avere il coraggio di essere dei veri maestri.

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#STOP UTEROINAFFITTO

ProVita lancia #STOPuteroinaffitto: una grande campagna di sensibilizzazione per fermare la compravendita dei bambini e lo sfruttamento delle donne. Aiutaci con una donazione, per realizzare questa campagna e agire legalmente contro le agenzie di surrogazione che promuovono l’utero in affitto in Italia.

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NEI SOTTERRANEI DELL’OSPEDALE SANT’ANNA

Anna Maria Anna Maria Pacchiotti Pacchiotti

Anna Maria Pacchiotti, presidente dell’associazione “Onora la Vita onlus”.

La presidentessa dell’Associazione Onora la Vita ci offre il racconto : www.onoralavita.it di un’esperienza vissuta in ospedale, dove difendere la vita è sempre più difficile

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nche presso l’Ospedale Ginecologico Sant’Anna di Torino, nel quale continua da anni ad agire indisturbato il primario dottor Silvio Viale – abortista convinto, che fu il primo sperimentatore in Italia della pillola omicida Ru486 – da alcuni anni si effettua la fecondazione in vitro, ovvero si “creano” bambini in provetta. L’ho saputo una mattina in cui ero andata nel reparto di ginecologia ad appoggiare alcuni opuscoli che spiegano in breve la crescita fetale e gli effetti deleteri dell’aborto sui tavolini delle sale d’aspetto, purtroppo sempre piene di ragazze, donne e coppie in attesa di abortire i propri figli. Passando, quel giorno, ho notato sulla parte destra del corridoio una porticina metallica con attaccato un piccolo cartello con la scritta “Fiv”: ho capito che ai già noti orrori connessi all’aborto, si era aggiunta un’altra lucrosissima specializzazione.

Il medico mi inseguì molto arrabbiato e mi scacciò dal reparto dicendomi che per entrare e distribuire volantini avrei dovuto avere l’autorizzazione da parte della direzione ospedaliera

Tempo dopo, tornata al Sant’Anna, ho portato con me numerosi pieghevoli inerenti le “Naprotecnologie”, un metodo di cura naturale della infertilità che dà altissime probabilità di successo. L’idea di poter avere un bimbo potendosi curare (con poca spesa), contrasta con quella di “fabbricarlo”: cosificandolo, gettando via gli embrioni soprannumerari o difettosi, selezionandoli, crioconservandoli: omicidi perpetrati nel nome del dio quattrino. A chi non è ben informato, la fecondazione in vitro pare essere un “miracolo” e perfino una “cosa buona”. Scesi nel reparto e iniziai a fare due chiacchiere con le coppie in attesa nel corridoio, porgendo loro i pieghevoli e illustrandone i contenuti. Sono riuscita a stupirli e a creare interesse in tutti gli ascoltatori, per la maggior parte di giovane età. 22

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Poco dopo uscì un’infermiera da una delle camere e iniziò a guardare con sospetto gli opuscoli che avevo depositato sui sedili della sala d’aspetto. Dopo dieci minuti uscì un “demiurgo” in camice verde che iniziò a discutereGiulia sulla mia presenza in quel luogo. Lo salutai cordialmente e Tanel salii al piano di sopra, dove c’erano altre camere, per continuare la mia azione informativa. Costui m’inseguì molto arrabbiato e mi cacciò dal reparto dicendomi che per entrare e distribuire Laureata in Filologia e Critica Letteraria. Scrive per passione. Collabora con volantini avrei dovuto avere l’autorizzazione da parte della libertaepersona.org e con altri siti internet e Direzione ospedaliera. Con sorrisi e scuse miautrice, allontanai da quelAgnoli, riviste; è inoltre con Francesco di Miracoli L’irruzione del soprannaturale luogo poco gradevole, felice di aver potuto informare qualcuno nella storia (Ed. Lindau). dell’esistenza di queste ottime tecniche naturali. Tempo fa ho conosciuto una giovane e bella sposa che, dopo una lunga serie di costosissimi tentativi, è riuscita a restare incinta di tre gemelli (che per fortuna non ha consentito a “ridurre”). Sono nati tre maschietti. Dopo qualche mese la povera donna ha scoperto di avere un tumore, partito dalle ovaie iperstimolate per poter procedere alla fecondazione artificiale. È stata operata più volte, ha effettuato cicli di chemioterapia, ma il cancro l’ha devastata ed è morta lasciando i tre bambini.

Questi sono i risultati che si ottengono quando si viola la legge naturale, quando l’uomo vuole sostituirsi a Dio nel dare e togliere la vita.


“TRANSUMANESIMO” E ACCETTAZIONE DELLA REALTÀ

Padre Giorgio Maria Carbone

«Bruciare il binario», cioè il sistema sociale basato su maschi e femmine: questo lo scopo dell’ideologia gender

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ltrepassare la “specie umana attuale” – si fa per dire – anche senza interventi genetici o organici, e andare al di là della dualità sessuale, femminile e maschile, sono gli obiettivi di una corrente di pensiero e di un nuovo stile di vita che si stanno attualmente diffondendo. In ambienti, come quello della moda e della musica, è diffuso l’ideale del genere fluido. Questo è definito così da uno dei suoi ideatori, Kate Bornstein: «La fluidità di genere è la capacità di diventare in modo cosciente e libero uno degli infiniti numeri di genere, per il tempo che vogliamo a ogni ritmo di cambiamento. La fluidità di genere non conosce limiti o regole di genere» (Gender Outlaw: on Men, Women and the Rest of Us, Rutledge, New York 1994, 115, citato in Carbone G.M., Gender. L’anello mancante, ESD, Bologna 2015). Le teorie della fluidità di genere ammettono che la persona umana si possa auto-plasmare e porsi liberamente all’interno di una curva di infinite identità, i cui estremi sono costituiti dal cosiddetto maschio identitario e dalla cosiddetta femmina identitaria. I punti di questa curva sono infiniti e soprattutto sono tutti ambivalenti: uno vale l’altro.

Per realizzare una società pacifica ed egalitaria bisogna abbattere ideologicamente la distinzione tra maschio e femmina

Quello che conta è la percezione di sé e l’esercizio della libertà senza limiti. In questa visione è la scelta svincolata dalla corporeità che crea la vera natura dell’individuo. Alle origini delle teorie del gender non c’è Judith Butler, come qualcuno continua a sostenere dalle pagine di qualche quotidiano nazionale. Judith Butler

ha contribuito in modo significativo a introdurre la prospettiva di genere nella politica internazionale soprattutto tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, ma non fa altro che usare la nuova accezione del termine gender coniato nel 1955 da John Money. È questo medico di Baltimora che inizia a separare sex da gender, cioè il sesso inteso come identità sessuata dal genere che egli definisce come «stato personale, sociale e legale di maschio, femmina o misto definito in base a criteri somatici e comportamentali più generali del semplice criterio genitale. [...] L’identità di genere è il vissuto privato del ruolo di genere, il ruolo di genere è la manifestazione pubblica dell’identità di genere di maschio, femmina o di individuo ambivalente (in misura maggiore o minore), quale viene vissuta in particolare nell’immagine di sé e nel comportamento. Il ruolo di genere è tutto ciò che una persona fa e dice per indicare ad altri o a se stessa il grado in cui è maschio, femmina o ambivalente: comprende l’eccitamento e la risposta sessuale, ma non è limitato a essi» (Money J., Amore e mal d’amore, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 298-299). Mentre «il termine sesso deve essere riservato a indicare ciò che attiene agli organi genitali e alle loro funzioni», «l’identità/ruolo di genere comprende tutto ciò che ha a che fare con le differenze comportamentali e psicologiche tra i sessi, indipendentemente dal fatto che siano intrinsecamente o estrinsecamente legate ai genitali» (Money J., Amore e mal d’amore, p. 32). Il genere, l’identità/ruolo di genere non sono una conseguenza derivante dall’insieme dei caratteri genetici, fisici, funzionali e fisiologici, ma possono discostarsi dall’identità genetica e fisiologica. Money sostiene che, come il sesso psicologico e i ruoli sessuali sono determinati dall’ambiente e dalla cultura, così anche il genere, il ruolo di genere e l’orientamento di genere sono determinati dall’ambiente e dalla cultura. Fa questa analogia: come i bambini imparano una lingua nella prima infanzia in ragione dell’ambiente e della lingua che ascoltano, così nella prima infanzia imparano il genere al quale appartengono sulla base N° 44 - Settembre 2016

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del nome con cui sono chiamati, dei vestiti che indossano, dei giochi che fanno (Cfr. Money J., Amore e mal d’amore, p. 30. Per un’analisi più approfondita e una valutazione critica delle tesi di Money rinvio a Carbone G.M., Gender. L’anello mancante, pp. 15-25). Dal punto di vista medico-scientifico la teoria di John Money fu un fiasco. Ma all’inizio degli anni ’70, sulla base dei dati falsi relativi all’esperimento condotto su Bruce Reimer, ebbe un successo larghissimo in ambito politico. Fu accolta come il “fondamento scientifico” di una tesi del femminismo radicale: la dicotomia uomo-donna non è fondata sulla natura, sulla biologia o sulla fisiologia, ma è una costruzione prodotta artificialmente dalla cultura e dalla società. Se – come sostiene Money – il dato biologico-genetico è irrilevante per l’identità di genere, se il genere di appartenenza è il risultato della cultura o della scelta, allora essere maschio o essere femmina non ha un fondamento biologico-genetico, ma è una distinzione di carattere sociale e culturale e quindi l’esser maschio o l’esser femmina può mutare come mutano la cultura e la società.

La Butler ha introdotto in filosofia la “prospettiva di genere”, ma il “gender”, diverso da sesso, è stato un’idea di Money

A breve distanza di tempo, all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, il pensiero femminista radicale statunitense vede nell’essere maschio e nell’essere femmina non un dato risultante dalla biologia e dalla genetica, ma due classi in lotta perenne. E quindi per realizzare una società pacifica e egalitaria si propone di abbattere la distinzione tra maschio e femmina. La teoria del gender di Money e ancor più la teoria del neutral gender o della fluidità di genere è funzionale a questi obiettivi politici. Si legga come esempio Shulamith Firestone (Cfr. Carbone G.M., Gender. L’anello mancante). Ma per rimanere in Italia è molto esplicito un nostro maitre-à-penser: «La specie umana si va evolvendo verso un ‘modello unico’, le differenze tra uomo e donna si attenuano e gli organi della riproduzione si atrofizzano. Questo unito al fatto che, tra la fecondazione artificiale e clonazione il sesso non è più l’unica via per procreare, finirà col privare del tutto l’atto sessuale del suo fine riproduttivo. Il sesso resterà, ma solo come gesto di affetto; dunque non sarà più così importante, se sceglieremo di praticarlo con un partner del nostro stesso sesso» (Veronesi U., Intervista, in Il Riformatore, 18 agosto 2007).

Thomas Neuwirt , in arte Conchita Wurst

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Judith Butler

Prescindendo da valutazioni morali circa il merito dei temi sollevati, e volendo restringere le nostre considerazioni solo agli aspetti antropologici, siamo davanti a una corrente di opinioni che propone una nuova sessualità in ragione del fatto che propone una nuova visione di uomo ‘modello unico’, direi unisex. Un esempio concreto e vivente di questo modello è Thomas Neuwirt, cittadino austriaco nato nel 1988, che quando si esibisce nel canto assume il nome di Conchita Wurst e si presenta vestito da donna in modo vistoso ed elegante, con tacchi alti, trucco e ciglia curatissimi, e con folta barba nera. Diventato icona dei diritti delle minoranze e promotore dello spirito di tolleranza, ha cantato nella sede delle Nazioni Unite di Vienna e davanti al Parlamento Europeo, fino a essere proclamato la Voce Europea del 2014. Nel video che egli stesso ha confezionato spiega il significato del suo soprannome:

«In Germania e Austria la parola wurst è usata per dire ‘non me ne importa niente’, ‘non è importante’. E questo è quello che voglio comunicare: ‘non importa da dove vieni o quale sia il tuo aspetto’. [...] La parola wurst è usata anche per indicare il pene, la parola conchita viene usata anche per indicare la vagina».

Per Veronesi si finirà col privare del tutto l’atto sessuale del suo fine riproduttivo, dunque non sarà importante con chi faremo sesso

«Dov’è il senso che per avere un figlio ci vogliano sempre e comunque un maschio e una femmina? [...] Dopotutto non pochi esseri viventi primordiali si perpetuano per autofecondazione. Certo, per specie evolute la dualità maschio/ femmina è apparsa sempre inderogabile. Ma possiamo dirlo ancora, dal momento che siamo capaci di manipolare il DNA e di clonare? Perché tanta paura della clonazione se l’abbiamo davanti agli occhi ogni volta che assistiamo a un parto gemellare? [...] Il desiderio sessuale cesserebbe così di essere uno dei maggiori elementi di competizione». Ognuno potrebbe vivere «quell’ansia di bisessualità che è profondamente radicata in noi» (Veronesi U., Giorello G., La libertà della vita, Cortina, Milano 2006, p. 91).

Considerando questo caso solo come fenomeno culturale, siamo ancora davanti a un’applicazione concreta e vivente dell’oltrepassamento della dualità sessuale, e di qualsiasi genere: in nome del rispetto e della tolleranza dell’altro – obiettivi plausibili, ma umanamente insufficienti – è proposta a livello culturale e mediatico una persona umana, che non è né maschio né femmina, oppure può essere tutte e due, ma in ogni caso non importa. Siamo arrivati all’indifferentismo sessuale, o all’indistinzione sessuata. N° 44 - Settembre 2016

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Gli esempi di cronaca potrebbero moltiplicarsi. Mi limito a ricordare sinteticamente alcuni rimedi. Per prima cosa bisogna obbedire, non ribellarsi, alla realtà. Quindi, come ci richiama la radice etimologica di obbedire, ascoltare la realtà, per apprezzarla e amarla. E la prima realtà è il mio corpo. Papa Francesco e papa Benedetto sono molto chiari: «L’ecologia umana implica anche qualcosa di molto profondo: la necessaria relazione della vita dell’essere umano con la legge morale inscritta nella sua propria natura, relazione indispensabile per poter creare un ambiente più dignitoso. Affermava Benedetto XVI che esiste una ‘ecologia dell’uomo’ perché “anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere”. In questa linea, bisogna riconoscere che il nostro corpo ci pone in una relazione diretta con l’ambiente e con gli altri esseri viventi. L’accettazione del proprio corpo come dono di Dio è necessaria per accogliere e accettare il mondo intero come dono del Padre e casa comune; invece una logica di dominio sul proprio corpo si

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Il mio corpo non è un optional che posso modificare a piacimento, ma sono io stesso, è parte sostanziale e integrante della mia identità

trasforma in una logica a volte sottile di dominio sul creato. Imparare ad accogliere il proprio corpo, ad averne cura e a rispettare i suoi significati è essenziale per una vera ecologia umana. Anche apprezzare il proprio corpo nella sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere se stessi nell’incontro con l’altro diverso da sé. In tal modo è possibile accettare con gioia il dono specifico dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore, e arricchirsi reciprocamente. Pertanto, non è sano un atteggiamento che pretenda di “cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa”» (Lettera Enciclica Laudato si’, 24.05.2015, n. 155). In secondo luogo, occorre riappropriarsi di una evidenza che lo sguardo tecnocratico ci ha fatto dimenticare: io sono il mio corpo. Il mio corpo non è un optional che posso modificare a piacimento, ma sono io stesso, è parte sostanziale e integrante della mia identità. Quindi io sono chiamato ad amare me stesso, anima e corpo, a saper leggere le leggi presenti nel corpo e a coltivare la contemplazione di questi mirabili doni.


F. Romana Poleggi

CURARE LA TRISOMIA 21 All’Università di Bologna – nonostante le difficoltà – continua la ricerca, sulle orme di Jérôme Lejeune

I nostri Lettori conoscono bene l’opera meritoria del grande genetista francese Jérôme Lejeune (1926-1994), il ricercatore che ha scoperto la trisomia 21: quel cromosoma in più che è all’origine di una serie di problemi fisici e psichici per i suoi portatori. Fino alla scoperta di Lejeune, tale handicap si riteneva causato dal comportamento errato e dai vizi dei genitori (per esempio l’abuso di alcol). Questa credenza gettava nello sconforto più totale le persone che avevano un figlio Down, pur conducendo una vita del tutto normale. La scoperta di Lejeune ha quindi anche contribuito, sottolineatura importante, alla rimozione del pesante senso di colpa che opprimeva da sempre i padri e le madri dei ragazzini handicappati. Recentemente la vita di Lejeune è stata narrata in un film – per ora disponibile solamente in inglese, su internet o in DVD – che s’intitola To the least of these (Ai più piccoli di questi, cfr. Mt 25,40). In esso si narra del dramma vissuto da Lejeune quando ha compreso che la sua scoperta sarebbe servita per la diagnosi precoce della trisomia 21, volta a perpetrare l’olocausto dei bambini Down attraverso l’aborto “terapeutico” eugenetico. È quello che puntualmente si sta verificando: oggi il 90% di loro viene eliminato prima della nascita. Lejeune, viceversa, ha combattuto strenuamente contro l’aborto. E per essersi opposto decisamente e pubblicamente ad esso, proprio negli anni ‘60 e ’70 quando dappertutto si propagandava la sua legalizzazione, ha consapevolmente capito di aver “perso” il premio Nobel…

Il grande scienziato era convinto che le ricerche potessero addivenire all’individuazione di strategie per migliorare le condizioni psico-fisiche dei portatori della sindrome di Down e, in particolare, per attenuare la disabilità intellettiva che tipicamente ne consegue. Il disturbo cognitivo, in effetti, è meno grave di quello che si ritiene comunemente: il problema prevalente è quello di espressione verbale, che Lejeune attribuiva a una “intossicazione cronica” delle sinapsi cerebrali causata da qualche prodotto del cromosoma in eccesso. Non solo. Lejeune e le ricerche successive hanno dimostrato che tutti gli individui umani portano un carico di mutazioni genetiche più o meno grande. Cioè, abbiamo tutti dei cromosomi in più da qualche parte. Diceva Lejeune: «Ammettendo che la presenza del 50 per cento di cellule mutate sia patologica, cosa diremo di chi ne ha il 40, il 20, o il 5 per cento?». E nel 2005 è stato effettivamente dimostrato che nei cervelli umani di individui normali il 2% dei neuroni ha trisomia del cromosoma 21 (e lo studio era limitato solo a questo cromosoma…). Quali sono allora i canoni di perfezione che giustificherebbero la selezione tra gli individui degni e non degni di vivere? Siamo tutti imperfetti!

Per essersi opposto decisamente e pubblicamente all’aborto, Lejeune ha consapevolmente capito di aver “perso” il premio Nobel…

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onostante l’ostracismo e la carenza cronica di finanziamenti, l’opera meritoria di Jérôme Lejeune continua. Non solo attraverso la Fondazione omonima, che opera in America e in Francia, ma anche qui in Italia: nel Laboratorio di Genomica del Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna, l’équipe coordinata dal professor Pierluigi Strippoli ha recentemente pubblicato – sull’importante rivista internazionale Human Molecular Genetics – un articolo che descrive in dettaglio la ‘regione critica’ del cromosoma 21, associata alla sindrome di Down.

Tornando agli studi del professor Strippoli, il lavoro della sua équipe è disponibile su internet. In esso si sostiene, per la prima volta, che la parte del cromosoma effettivamente responsabile dei sintomi principali della sindrome di Down sia estesa per meno di un millesimo del cromosoma 21 stesso, e ne vengono identificati i limiti esatti.

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Questa regione non contiene geni attivi conosciuti e si trova solo nell’uomo e nello scimpanzé. Il risultato è in linea con quanto sempre sostenuto da Lejeune, cioè che nella trisomia 21 ci sia una alterazione del metabolismo e che siano “poche le reazioni accelerate”. Gli esperimenti per identificarle sono già iniziati e il lavoro è in pieno svolgimento. Il meccanismo alterato, una volta conosciuto bene, potrebbe – in linea di principio – essere corretto a livello farmacologico. Le ricerche del professor Strippoli sono cominciate nel 1998: si accorse subito che gli studi dei meccanismi con cui il cromosoma 21 causa la sindrome di Down, dove è anormalmente presente in tre esemplari invece di due, erano davvero molto pochi relativamente alla frequenza e alla importanza di questa condizione genetica: sarebbe invece ragionevole investire in questa impresa, che per Lejeune era «meno difficile che spedire un uomo sulla luna»: non si può escludere che in futuro si possa riuscire a somministrare cure intrauterine a vantaggio dei feti con trisomia 21. Questa Redazione si è personalmente congratulata con il Prof. Strippoli e, nell’occasione, gli abbiamo chiesto se la tecnica CRISPR, che consente la manipolazione genetica degli esseri umani, può essere utile al fine di sostituire la parte del cromosoma 21 imputata. Gentilmente, il professore ci ha risposto spiegando che la CRISPR è una tecnica molto pericolosa: secondo le sue ricerche è più probabile che si addivenga, un domani, a una efficace cura farmacologica senza dover violare i limiti etici che, con la tecnica CRISPR, invece, vengono normalmente calpestati. 28

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Di fatto, tuttavia, all’équipe del professor Strippoli è possibile continuare questo tipo di studi solo mediante libere donazioni (fiscalmente deducibili). I nostri governi si sono sempre distinti per la penuria di stanziamenti in favore della ricerca. Sappiamo che le priorità di Renzi & Co., in particolare, sono altre: per esempio stanziare mezzo milione di euro per la strategia nazionale LGBT, dei quali ben 30mila euro destinati alla realizzazione del sito web “Portale di informazione antidiscriminazioni LGBT – Identità, diritti, informazione”.

Il meccanismo metabolico alterato, una volta conosciuto bene, potrebbe in linea di principio essere corretto a livello farmacologico

L’equipe del prof. Strippoli descrive in dettaglio la ‘regione critica’ del cromosoma 21, associata alla sindrome di Down

Jerome Lejeune

ProVita, quando può, devolve parte delle sue entrate per finanziare le ricerche del prof. Strippoli. In particolare gli gireremo i contributi che vorrete inviarci con specifica destinazione.

Diceva Lejeune: «La gente sostiene che il prezzo delle malattie genetiche è alto, che se questi individui potessero essere eliminati precocemente, il risparmio sarebbe enorme. Non può essere negato che il prezzo di queste malattie sia alto, in termini di sofferenza per l’individuo e di oneri per la società. Senza menzionare quel che sopportano i genitori. Ma noi possiamo assegnare un valore a quel prezzo: è esattamente quel che una società deve pagare per rimanere pienamente umana».


«MA IO, DOTTORE, SONO INCINTA!»

Giampaolo Scquizzato

A maggio, all’ultima Marcia Nazionale per la Vita, abbiamo potuto ascoltare la testimonianza di Carlo Mocellin, marito di Mariacristina Cella

A

veva sedici anni, nel 1985, Mariacristina, quando inizia il suo grande amore con Carlo: un amore sempre più intenso, che renderà i due uniti anche nella prova. Nell’estate del 1987, da poco compiuti i diciotto anni, compare un sarcoma alla gamba sinistra di Mariacristina, che la porterà a subire dolorosi interventi e cure, ma che, almeno inizialmente, verrà sconfitto. Anzi, nonostante i lunghi mesi di chemioterapia, la giovane ragazza riuscirà a superare brillantemente gli esami di maturità e poi ad iscriversi all’Università Cattolica di Milano, presso la Facoltà di Lingue. Carlo e Mariacristina si sposano il 2 febbraio 1991 e subito iniziano ad arrivare i figli: Francesco e poco meno di due anni dopo Lucia e, un anno dopo, ecco la terza gravidanza.

Non c’è sofferenza al mondo che non valga la pena di essere sopportata per un figlio

Purtroppo si risveglia anche il male: il sarcoma si riforma. Questa volta però c’è Riccardo nel grembo di Mariacristina e lei non ha dubbi sul da farsi. Con Carlo chiede ai dottori di essere sottoposta solo alle cure mediche che non avrebbero messo a rischio la vita del bambino. Nell’aprile del 1994 Mariacristina subisce un intervento chirurgico e la chemioterapia inizia subito dopo la nascita di Riccardo, ma il tumore ormai è già irrimediabilmente avanzato. Il 1995 è l’anno del calvario e della sofferenza, con periodi sempre più lunghi in ospedale. Mariacristina si abbandona nelle mani di Dio, sperando in un miracolo che però non arriva. Il 22 ottobre del 1995, a ventisei anni, Mariacristina si spegne all’ospedale civile di Bassano del Grappa. Una vita di amore, di fiducia e di abbandono, quella di Mariacristina, un sacrificio da cui è nata la vita e che è segno di speranza per tutti; ma anche, e soprattutto, una vita di fede in Dio, al punto che la Diocesi di Padova ha deciso, dopo aver raccolto molte testimonianze, di aprire la causa di beatificazione e oggi Mariacristina per la Chiesa è Serva di Dio.

DDal palco di Roma Carlo ha letto una lettera di Mariacristina, un vero inno alla vita.. Lo scritto, indirizzato a Riccardo, è del 24 settembre 1995. Caro Riccardo, tu devi sapere che non sei qui per caso. Il Signore ha voluto che tu nascessi nonostante tutti i problemi che c’erano… quando abbiamo saputo che c’eri, ti abbiamo amato e voluto con tutte le nostre forze. Ricordo il giorno in cui il dottore mi disse che diagnosticava ancora un tumore all’inguine. La mia reazione fu quella di ripetere più volte: ‘Sono incinta! Sono incinta! Ma io, dottore, sono incinta!’. Per far fronte alle paure di quel momento ci venne data una forza smisurata di volontà di averti. Mi opposi con tutte le forze a rinunciare a te, tanto che il medico capì tutto e non aggiunse altro. Riccardo, sei un dono per noi. In quella sera in macchina di ritorno dall’ospedale, che ti muovesti per la prima volta, sembrava che mi dicessi ‘Grazie mamma che mi vuoi bene!’. E come potevamo non volertene? Tu sei prezioso e quando ti guardo e ti vedo così bello, vispo, simpatico, penso che non c’è sofferenza al mondo che non valga la pena di essere sopportata per un figlio. Il Signore ha voluto ricolmarci di gioia: abbiamo tre bambini stupendi, che se Lui vorrà, con la sua grazia, potranno crescere come Lui vuole. Non posso che ringraziare Dio, perché ha voluto fare questo dono grande che sono i nostri figli: solo Lui sa come ne vorremmo altri, ma per ora è davvero impossibile. Grazie Signore

G. Klimt, Le tre età della donna (part.), 1905.

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LETTURE CONSIGLIATE Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi; o, come fanno gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere! (Gustave Flaubert) Enzo Pennetta

L’ULTIMO UOMO

Ed. Circolo Proudhon

Dalle teorie sulla popolazione di Thomas Robert Malthus alla lotta per la sopravvivenza dell’evoluzionismo darwiniano; dall’eugenetica al Brave New World di Aldous Huxley; dalla Royal e la Fabian Society fino al ruolo delle ONG nelle “rivoluzioni colorate”; dal New Age fino allo gnosticismo dei guru della Silicon Valley... Questo saggio è il racconto della nascita dell’ideologia progressista, a partire dai sogni e le utopie di Francis Bacon e Auguste Comte, fino ai più recenti esperimenti di ingegneria sociale: il birth control e la teoria gender. L’obiettivo è l’invenzione di un modello antropologico del tutto nuovo. L’ultimo inganno dell’ideologia è quello di far credere di non esistere: tutti coloro che si sono trovati a ragionare con chi è obnubilato dall’ideologia gender se ne saranno certamente resi conto.

M. Piattelli Palmarini, J. Sodor

GLI ERRORI DI DARWIN

Feltrinelli Editore

Due esperti mondiali di scienze cognitive, evoluzionisti e dichiaratamente atei, minano alle fondamenta l’ipotesi materialistico-meccanicista circa la nascita e lo sviluppo della vita. Il concetto di “selezione naturale”, il perno principale dell’intero costrutto darwiniano-darwinista, non spiega infatti i meccanismi dell’evoluzione della struttura vivente e attribuisce irrazionalmente al “caso naturale” azioni di tipo intenzionale tipiche invece di ciò che ha una “mente”. Decine di meccanismi biologici reali, che il libro documenta, sfuggono al criterio filosofico della “selezione naturale”. Dopo aver seguito i ragionamenti stringenti e le prove addotte, in questo saggio appare ben chiaro che l’evoluzionismo è un costrutto ideologico piuttosto che una valida, comprovata, teoria scientifica.


30 N. 42 - GIUGNO 2016

Avviso a paga

DIFENDI LA

FAMIGLIA

E I TUOI FIGLI

Alessandro Fiore, portavoce di ProVita, e Mario Agnelli, Il bene comune può essere realizzato solo attraverso la promozione senza compromessi della Vita portavoce dei Sindaci che hanno sollevato obiezione di coscienza alle unioni civili. e della Famiglia naturale fondata sul matrimonio. Notizie

aiutaci a crescere

ProVita ha pubblicato un “Patto per la famiglia naturale” con il quale i candidati Sindaci nei capoluoghi di Provincia e i candidati Sindaci e Consiglieri nei capoluoghi di Regione si impegnano

a difendere la Famiglia, la Vita e Saudita, i bambini e a lavorare nell’interesse e per il maggior bene di tutto offrire servizi in Mauritania, Arabia Yemen, il popolo della realtà territoriale in cui sono candidati. Somalia, in altri paesi dove l’omosessualità può essere Vai sul sito www.notizieprovita.it per leggere il “Patto per la famiglia naturale” e conoscere i nomi dei candidati “nel nomeche di lo chihanno nonsottoscritto! può parlare” punita con la pena di morte, e in Nigeria, dove il WWW.NOTIZIEPROVITA.IT comportamento omosessuale può essere punito con la fustigazione, la prigione, o la morte per lapidazione. 12. Salesforce, una società di software, ha minacciato che avrebbe ridotto gli investimenti in Georgia. Ma Salesforce opera serenamente in India dove Human Rights Watch spiega che il codice penale ha rafforzato l’idea che la discriminazione e i maltrattamenti delle persone LGBT sono accettabili. 13. Apple Inc.: protesta negli USA, ma produce in Cina e vende nei Paesi Arabi. 14. National Basketball Association (NBA): è preoccupata per l’omofobia in USA, ma organizza manifestazioni sportive in Sud Africa, dove il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha scritto in una relazione della sua preoccupazione per il razzismo e la xenofobia. 15. Netflix, leader mondiale della TV via Internet, ‘è una società inclusiva’, dice. Ma offre i suoi servizi per esempio in Libia, la patria delle violazioni del dirittoUTERO internazionale. SPECIALE IN AFFITTO di donne e bambini tollerato dalla “società civile” 16. Sony: ha un ufficio inIl mercato Kazakhstan, dove Amnesty International segnala che si pratica la tortura e dove le libertà di espressione, associazione e riunione pacifica sono limitate.

SOSTIENI POSTE ITALIANE S.p.A. | Spedizione in AP - D.L. 353/2003 | (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) | art. 1, comma 1, NE/PD | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00

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Anno IV | Rivista Mensile N. 37 - Gennaio 2016

PROVITA

Chi salva i bambini,

salva le madri Una testimone davvero eccezionale: Margherita Borsalino Garrone

Avanti per mlaigVliitaa! e per la Fa

Proposta di legalizzare l’eutanasia alla Camera

Molte grandi imprese si indignano per ‘l’omofobia’ dei governi federati (che riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza), ma che fanno affari d’oro fuori dagli USA, in Paesi dove l’omosessualità è addirittura reato, passibile di condanna a morte

9. General Electric Co., si dà da fare in Arabia Saudita, un Paese che criminalizza il comportamento omosessuale (nel 2014, un uomo saudita è stato condannato a WWW.NOTIZIEPROVITA.IT tre anni di carcere e 450 frustate: aveva usato Twitter per organizzare incontri con uomini). 10. The Coca-Cola Co.: nel 2006, gli impianti di imbottigliamento della Coca-Cola sono stati accusati di interferire con i problemi di irrigazione nelle regioni dell’India e America Latina che soffrono per scarsità d’acqua. Più di recente, la Coca-Cola è stata accusata di rifornirsi di zucchero beneficiando di espropri non etici. Il sito della Coca-Cola, però, elenca la bio-diversità, la tutela dei diritti delle popolazioni locali, la sostenibilità come valori fondamentali (oltre che ‘l’inclusività’). Anche essa ha levato vibrata protesta contro le leggi omofobe della Georgia ecc. 11. PayPal addirittura è intervenuta nella polemica sulla legge per i bagni unisex. Ma PayPal continua a

Gli attivisti LGBTQIA(...) pretendono che ognuno sia libero di andare nello spogliatoio o nel bagno ‘che si sente’: un uomo che apparentemente ha gli attributi da uomo, ma che ‘si sente donna’ dovrebbe poter andare nello spogliatoio (o nel bagno) delle donne

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Insomma, sappiamo bene quanto sia faticoso, per tutte queste grandi imprese, barcamenarsi tra gli ideali e il portafoglio. Ma, alla fine, tutto sommato pare che conti di più il dio quattrino, non è vero?

www.notizieprovita.it “nel nome di chi non può parlare”

cuore

Anno V | Rivista Mensile N. 41 - Maggio 2016

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Anno V | Rivista Mensile N. 39 - Marzo 2016

POSTE ITALIANE S.p.A. | Spedizione in AP - D.L. 353/2003 | (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) | art. 1, comma 1, NE/PD | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00

“nel nome di chi non può parlare”

5. La Weinstein Co., un grande studio cinematografico, ha minacciato che non avrebbe mai più girato un film in Georgia, ma gira e produce Shanghai, in Cina; No Escape in Tailandia. 6. AMC Networks Inc., produttrice della fortunata serie The Walking Dead, lavora in Russia, Paese ‘omofobo’ per eccellenza. 7. Time Warner: non avrebbe lavorato mai più in Georgia, ma a Singapore sì (un altro Paese che vieta penalmente l’attività omosessuale, secondo l’ International LGBTI). 8. La Walt Disney Co.: e la sua controllata Marvel Entertainment sono ‘aziende inclusive’, ma continuano ad espandersi in Cina, dove tra l’altro investono 5.5 miliardi di dollari per un parco a tema a Shanghai.

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