ProVita Marzo 2018

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MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

Notizie

Trento CDM Restituzione

Anno VII| Marzo 2018 Rivista Mensile N. 61

“Nel nome di chi non può parlare”

POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1, COMMA 1 NE/TN

Organo informativo ufficiale dell’associazione ProVita Onlus - Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale -

PERSONA: SOGGETTO DI RELAZIONE Donne e uomini, madri e padri

L’uomo, l’essere relativo

Relazioni virtuali

di Giulia Tanel, p. 8

di Emiliano Fumaneri, p. 16

di Enzo Pennetta, p. 38


MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES Notizie

Anno VII | Marzo 2018 Rivista Mensile N. 61 Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182 Redazione Toni Brandi, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel Piazza Municipio, 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti Cell. 329-0349089 Direttore responsabile Antonio Brandi Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi

EDITORIALE 3 NEWS 4 ARTICOLI 8 marzo per le madri, perché le madri sono donne

Women of the World

Donne e uomini, madri e padri

Giulia Tanel

Distribuzione

Hanno collaborato a questo numero: Marco Bertogna, Emiliano Fumaneri, Giuliano Guzzo, Miriam Incurvati, Teresa Moro, Enzo Pennetta, Gloria Pirro, Francesca Romana Poleggi, Clemente Sparaco, Giulia Tanel, Women of the World

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PRIMO PIANO

L’uomo, l’essere relativo

16

Emiliano Fumaneri

La vocazione dialogica dell’uomo

19

Clemente Sparaco

Famiglia, luogo di relazione, luogo di vera libertà

Giuliano Guzzo

La relazione coniugale è un bene per tutti

Francesca Romana Poleggi

Una relazione profonda, un legame eterno

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Gloria Pirro

Progetto e impaginazione grafica

Tipografia

6

Da due a tre: la relazione che genera

Teresa Moro

Regaliamo ai nostri figli un attaccamento sicuro

Miriam Incurvati

Relazioni virtuali

Enzo Pennetta

FILM: Quasi Amici

31

34 38

42

Marco Bertogna

Letture Pro-Life

43

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38 L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto. La rivista Notizie ProVita non ti arriva con regolarità? Contatta la nostra Redazione per segnalare quali numeri non ti sono stati recapitati e invia un reclamo online a www.posteitaliane.it Grazie per la collaborazione! Le immagini presenti in questo numero sono state scaricate legalmente da www.pixabay.it

Toni Brandi

EDITORIALE

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Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una nuvola venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te»: così scrisse Ernest Hemingway. Ogni persona è tale in quanto soggetto di relazione: questa è la riflessione che vi offriamo nel presente numero di Notizie ProVita. Una riflessione urgente in un mondo in cui l’uomo percepisce il limite e la dipendenza come un ostacolo alla realizzazione di sé. In una società dove s’idolatra la cosiddetta “autodeterminazione” con l’illusione di bastare a se stessi, di poter davvero decidere tutto della propria vita e della propria morte, a prescindere dagli altri (e a prescindere dall’Altro…). Sarà bene invece riflettere sul fatto che non si può delineare un “sé” se non si confronta con “un altro da sé”. Sarà bene riconoscere che le relazioni umane sono essenziali per dare un senso alla vita, per completarci, confrontarci, migliorarci. Cercare una relazione stabile e duratura, procreare dei figli che legano e limitano la libertà di “fare quel che mi pare” non va più di moda: si idolatra la “singletudine” – e si cade in depressione – e le nazioni ricche, viziate, edoniste e secolarizzate hanno intrapreso la china del suicidio demografico. Nel Regno Unito è stato istituito il Ministero della Solitudine, in Svezia un quarto delle persone muoiono in casa da sole, senza che nessuno se ne accorga; tanto che è stata istituita un’agenzia statale per liberare le case dai morti, senza incomodare parenti (lontani). Zygmund Bauman, il filosofo che ha definito la nostra società come una “società liquida”, diceva: «La felicità non viene da una vita senza problemi, ma dal superamento delle difficoltà. L’indipendenza non è la felicità; alla fine porta a una completa, assoluta, inimmaginabile noia». Le relazioni con gli altri – e con l’Altro – , cari Lettori, sono il sale e il senso della vita…


NEWS IMPIEGATI AL MINIVER

Il MiniVer, Ministero della Verità, è l’organo che controlla l’informazione, ai tempi del Grande Fratello orwelliano, cioè ai tempi nostri. È quello deputato a riscrivere la storia e la cronaca e a censurare tutto ciò che non è gradito al potere. I grandi social media sono stati assoldati da tempo dal MiniVer. Facebook ha deciso di tutelarci contro le fake news (si legga: notizie non allineate al politicamente corretto), riducendo con un apposito algoritmo il flusso di notizie provenienti da profili di informazione verso la nostra bacheca e privilegiando invece quelle che riguardano i nostri rapporti personali: più gattini, meno politica. Insomma: cercate la ex fidanzatina delle medie, che è meglio; non andate a interessarvi della controinformazione, digerite e assimilate solo le notizie che vi vengono selezionate e propinate con cura dalla grande stampa di regime... Anche Twitter lavora al MiniVer: con l’intelligenza artificiale monitora in modo globale i tweet ed è in grado di isolare, oscurare o bannare, foto, profili e contenuti che vanno contro il mainstream. Ne hanno avuto prova in USA coloro che non si allineano alla moda anti-Trump. In questo caso l’operazione liberticida e manipolatoria non è stata dichiarata ed è quindi doppiamente grave rispetto a quella di Facebook, che invece la dichiara apertamente (anche se cerca di spacciarla per altro). E, infine, tra gli impiegati del MiniVer non potevano mancare gli “esperti” dell’Unione Europea: un “gruppo di alto livello” messo in piedi dalla Commissione UE per bloccare definitivamente le voci dissonanti sotto il pretesto delle fake news. La strategia che loro – depositari della verità – stanno elaborando (per il nostro bene, s’intende) sarà presentata nel prossimo mese di aprile.

IL CONTATORE DEGLI ABORTI IN TEMPO REALE

Consigliamo di visitare, di tanto in tanto, il sito Worldometers (http://www.worldometers.info/abortions/) e fermarsi un momento a guardare il contatore che gira: una vita spezzata per ogni numero che passa sul vostro schermo. I dati sull’aborto visualizzati sul contatore Worldometers – dice il testo inglese – si basano sulle ultime statistiche mondiali pubblicate dall’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui ogni anno nel mondo ci sono circa 40-50 milioni di aborti. E non importa quali siano le circostanze che causano questi morti: si tratta di bambini, esseri umani unici, irripetibili, preziosi, che meritavano di vivere. Sono bambini ai quali è stata negata la possibilità di crescere e vivere, di sognare, di frequentare la scuola, di trovare l’amore della propria vita e di lasciare il loro ricordo nel mondo. Sono bambini che potevano diventare Cristiano Ronaldo, o Simone Biles, o Andrea Bocelli, o persone “qualsiasi”... In Italia, secondo gli ultimi dati ISTAT e la relazione del Ministero della Salute il numero totale di aborti eseguiti nel 2016 (dati più recenti) è stato di 84.874: si tratta di 232 bambini morti al giorno, in media. Quasi dieci bambini ogni ora, circa un bambino ogni cinque minuti. E sono dati che non tengono conto dei criptoaborti (aborti causati dalla cosiddetta “contraccezione d’emergenza” e dai metodi contraccettivi abortivi): l’AIGOC (Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici) ha calcolato, in base all’indice di fertilità e di abortività delle donne, che ai sei milioni di morti “ufficiali” vanno aggiunti altri 50 milioni di innocenti sterminati, nei quarant’anni passati dall’approvazione della legge 194. 4 N. 61


MEDICO, CURA, Medico: attinente alla medicina. Medicina: scienza che ha per oggetto lo studio delle malattie, la loro cura e la loro CARNEFICE, OMICIDIO prevenzione. Cura: complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche che hanno il fine di guarire una malattia (sinonimo di terapia, ma con significato e uso più ampi). Guarire: rimettere in salute un malato. Salute: stato di benessere fisico e di armonico equilibrio psichico dell’organismo umano. I Lettori scuseranno questo stralcio dal dizionario Treccani: dovranno tenerlo a mente perché presto, sotto la spinta della neolingua mortifera, vedremo cambiare queste definizioni. A noi pare che i morti non godano di buona salute… o no? E poi, «chi ha l’ufficio di eseguire le sentenze di morte», sempre secondo la Treccani, si chiama “boia” oppure “carnefice”. Invece, la legge canadese che ha introdotto il “suicidio assistito” chiede che i medici obiettori indirizzino i morituri a un collega disposto a fare il boia. Allora i “bioeticisti” e gli “opinionisti” insorgono: «Un pesante fardello sulle spalle di un numero ridotto di medici», dicono i detrattori dell’obiezione di coscienza. Che insistono sulla “professionalità” dei medici, che per loro significa: «Prendersi cura dei pazienti, indipendentemente dal tipo di assistenza richiesta». Cioè “ammazzare” è come prescrivere gli antibiotici: un modo come un altro di “prendersi cura”. C’è anche chi invita gli operatori sanitari che non sono disposti a uccidere a selezionare un settore della medicina, come la radiologia, che non li metta in situazioni che sono in conflitto con la loro moralità personale. Oppure a cambiare mestiere. La legge italiana sulle DAT/biotestamento (= eutanasia) ha risolto il problema perché non prevede affatto la possibilità di obiezione di coscienza per i medici (e qualcuno – qualche “cattolicone” – se n’è accorto: dopo che i buoi erano fuggiti, gridava che voleva chiudere la stalla…). Il bello è che i paladini dell’eutanasia dicono di battersi in nome della libertà e dell’autodeterminazione. Ma i medici, evidentemente, non hanno diritto né alla libertà, né all’autodeterminazione.

LA VERITÀ SULLA SENTENZA A proposito di fake news e di censura: l’attore premio Oscar Jon Voight e ROE VS. WADE IN UN FILM l’attore-produttore Nick Loeb stanno girando un film che racconta i retroscena della sentenza Roe vs. Wade, che ha legalizzato l’aborto in USA nel 1973. Il progetto coinvolge Alveda King, la nipote di Martin Luther King, e diverse altre personalità del mondo prolife americano. Il film parlerà delle bugie e delle manipolazioni che hanno caratterizzato (e continuano a caratterizzare) la propaganda degli abortisti e racconta la vera storia di Norma McCorvey, la donna che è passata alla storia (per motivi di privacy) come Jane Roe, ma che non ha mai avuto un aborto in vita sua (!) e che anzi è divenuta una fervente prolife. L’impatto che avrebbe un film con un attore famoso come Voight sull’opinione pubblica sarebbe molto forte, e la cultura della morte che si è infiltrata nei social media evidentemente questo non può tollerarlo: Facebook li ha censurati quanto ha potuto e ha persino bloccato le persone che condividevano i loro annunci a pagamento.

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8 marzo per le madri,

perchè le madri sono donne di Women of the World

Nonostante il fatto che all’origine della celebrazione della “Festa della donna” ci sia la colossale fake news delle donne bruciate in fabbrica (un’invenzione della propaganda leninista per gettare discredito sui capitalisti e alimentare l’odio tra i sessi), marzo è ormai diventato il mese della donna. In occasione dell’8 marzo, quest’anno, ci è sembrato giusto aderire alla Dichiarazione Mondiale delle Madri, lanciata dalla piattaforma internazionale Women of the World, nata per rendere le donne-madri protagoniste della celebrazione. Le madri sono il cuore, la forza “nutritiva” della famiglia e della società e il loro impegno e il loro lavoro gratuito h24 vorremmo fosse maggiormente visibile e valorizzato dalla politica, dalle istituzioni e dai media. Perché «la società ha bisogno di famiglie stabili per produrre figli sicuri e felici» e «la maternità è una delle occupazioni più importanti, gratificanti e stimolanti che una donna possa intraprendere». Viceversa, le donne nel mercato del lavoro spesso subiscono discriminazioni per aver scelto la maternità, anche se è dimostrato che essere madre non è mai un handicap, bensì un vantaggio per la produttività lavorativa a lungo termine di una donna.

«LA SOCIETÀ HA BISOGNO DI FAMIGLIE STABILI PER PRODURRE FIGLI SICURI E FELICI»

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DICHIARAZIONE MONDIALE DELLE MADRI

«Le donne danno un grande contributo al benessere della famiglia e allo sviluppo della società, che non è ancora riconosciuto né considerato nella sua piena dignità. L’importanza sociale della maternità e del ruolo dei genitori nella famiglia e nell’educazione dei bambini dovrebbe essere valorizzata» (Paragrafo 29 della Piattaforma di Pechino delle Nazioni Unite, 1995) «1. Le madri sono il cuore e la forza educatrice della famiglia e della società. Le madri forniscono l’empatia, la tenerezza e la capacità di recupero richieste da una società prospera. Dando vita e nutrendo i loro figli, le madri, in collaborazione con i padri, diventano la forza e il sostegno dell’umanità. Madri e padri svolgono ciascuno ruoli vitali in tutte le forme di società. 2. La società ha bisogno di famiglie stabili per generare figli sicuri e felici. I bambini cresciuti da madri dedite, in un ambiente familiare stabile, vanno a beneficio di tutta la società. 3. La maternità è una delle occupazioni più importanti, gratificanti e stimolanti in cui una donna possa impegnarsi; tuttavia la maternità è enormemente sottovalutata, sminuita e persino trascurata nel mondo di oggi. La società spesso discrimina la maternità ignorando e rigettando il suo valore intrinseco e l’insostituibile influenza che ha nel creare e sostenere società prospere. 4. Le donne nel mercato del lavoro spesso subiscono discriminazioni per aver scelto la maternità. Le madri meritano pari opportunità, considerazione e rispetto nel lavoro. 5. La maternità avvantaggia notevolmente le donne. Oltre alla possibilità di sperimentare molteplici capacità di leadership, comunicazione e vitalità, offre una sensazione essenziale di completezza di cui le donne di solito hanno bisogno. L’identità di una donna si realizza appieno quando diventa madre». «La maternità e l’infanzia hanno diritto a cure e assistenza speciali» (Articolo 25.2 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) Pertanto: I. Le madri con i loro figli devono essere rispettate e onorate come membri importanti della società. II. La maternità e la dedizione familiare richiedono e meritano riconoscimento sociale e politico. III. La piena dedizione alla famiglia deve smettere di essere sottovalutata e usata come motivo di stigma sociale. «La famiglia è l’unità di base della società» (Piattaforma di Pechino, 1995) e la maternità è il cuore della famiglia. Le madri devono essere rivalutate e rispettate nella politica, nella società e in casa.

Annalisa, sei una donna che è contemporaneamente moglie, mamma, «LE MADRI SONO IL CUORE, LA FORZA “NUTRITIVA” DELLA FAMIGLIA E DELLA SOCIETÀ»

Jérôm Gustav Klimt (1862 – 1918), Madre e figlio 7 N. 61


Donne e uomini,

MADRI E PADRI «Donne, realizzatevi nell’amore»

di Giulia Tanel

medico. Tanti “ruoli” diversi, o semplicemente diversi modi per rispondere alla vocazione femminile? Di certo si tratta di diversi modi per rispondere alla vocazione femminile. In tutti i miei “ruoli” la base di fondo è sempre la stessa: l’attenzione agli altri. Al marito, nel matrimonio; ai figli, nell’adesione alla maternità; e ai pazienti, nella mia professione di medico. Quindi in ogni ambito della mia vita c’è un’unità di base che è la stessa: amare l’altro, ovviamente in differenti modi, gradi e misure. Hai scritto due libri: Semplicemente una mamma e il

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Annalisa Sereni è moglie, mamma di una famiglia numerosa, medico... e ha un messaggio per tutte le donne

recentissimo Le mie ricette e altri guai. Sono testi che parlano della tua famiglia, dei tuoi figli, dei momenti felici e di quelli più difficili... che cosa li unisce e cosa li differenzia? Il primo libro, Semplicemente una mamma, si concentra di più sulla presenza della sindrome di Down nella nostra famiglia ed è nato proprio perché volevo spiegare di cosa si tratta e aiutare più persone possibili a vincere la paura nell’accogliere figli con questa sindrome. Perché la sindrome di Down è una variante genetica, ma si è comunque di fronte a una persona che vuole solo essere amata. Insomma, voleva essere

SUI BAMBINI CON SINDROME DI DOWN CI SONO UN SACCO DI STEREOTIPI CHE NON VANNO PRESI IN CONSIDERAZIONE


un modo per dare una testimonianza positiva in questo ambito. Il secondo libro, Le mie ricette e altri guai, è invece più concentrato sulla famiglia e, a dispetto del titolo, non è affatto un libro di cucina: semplicemente ho riportato le poche ricette che sono in grado di cucinare e che dicono qualcosa di ognuno di noi, della nostra famiglia per poi, partendo da lì, sviluppare altri ragionamenti. Rimanendo nella metafora culinaria, qual è la tua ricetta segreta per riuscire a fare tutto in ventiquattro ore? UNA VISIONE DI FONDO ORGANICA LA SI HA IN DUE, MOGLIE E MARITO, PERCHÉ CERTE COSE CHE A UNO SFUGGONO, LE COGLIE L’ALTRA E VICEVERSA

La mia ricetta personale, che forse non va bene a tutti, è l’egoismo: faccio solo quello che riesco, ma al meglio e mettendoci tutto l’amore possibile. Bisogna accettare il fatto che non si può rispondere sempre a tutte le richieste e non angosciarsi per questa nostra incapacità, ma viverla serenamente. I tuoi figli hanno età differenti e ognuno ha una sua indole e dei bisogni specifici. Qual è l’approccio educativo tuo e di tuo marito e come riuscite a declinarlo con ogni figlio? Penso che l’approccio

educativo migliore sia la conoscenza: sapere che ogni figlio è diverso e adeguarsi all’indole di ognuno. In educazione non si possono usare concetti stereotipati: ogni figlio ha la sua specifica “ricetta educativa”, come succede anche per i differenti gusti in cucina. Il trucco, quindi, è quello di provare a rispondere alle esigenze di ciascuno in maniera diversa. Veniamo a tuo marito. Secondo te quando conta per una donna, per quanto forte e autonoma, la presenza di un uomo, al suo fianco? E come ti ha trasformata il rapporto con lui? Il marito è assolutamente fondamentale! Una madre da sola schiatta. Inoltre non bisogna dimenticare che uomo e donna sono diversi, e questa è una ricchezza immensa. Io lo vedo quotidianamente, in tanti ambiti diversi: una visione di fondo organica la si ha in due perché certe cose, che a uno sfuggono, le coglie l’altro. Una cosa importante, che mi preme dire, è che non bisogna mai dimenticarsi del marito, anche quando ci sono (tanti) figli. Affinché i figli si sentano

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amati, occorre che vedano l’unione tra i genitori. Noi, per esempio, una volta al mese scappiamo fuori a cena da soli: per riposarci, certo, ma anche per ritrovarci. Il rapporto tra me e mio marito deve essere privilegiato, e per questo c’è bisogno di parlarsi. Nel quotidiano invece si rischia di perdere l’intimità della coppia, che però è sacrosanta e va preservata. Per quanto riguarda il “come” il rapporto con mio marito mi ha trasformata, direi che sono stata fortunata a trovare un uomo pazzo come me e che ha accettato di assecondare la mia voglia di maternità, anche se effettivamente forse non avevo esplicitato bene i numeri prima di sposarci... Comunque, lavorare assieme per un obiettivo comune è quello che permette di realizzare i sogni. Basta pensare che quando mi sono sposata non ero né laureata, né specializzata e senza mio marito non ce l’avrei mai fatta. AFFINCHÉ I FIGLI SI SENTANO AMATI, OCCORRE CHE VEDANO L’UNIONE TRA I GENITORI

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Torniamo ai figli. Del tuo settimo bimbo cosa vorresti dirci? Che è una meraviglia! Che è un amore profondo! Che permette di godersi ogni istante della maternità in modo più vero: ogni progresso, che magari con gli altri figli

era “scontato”, con lui è un successo. Sui bambini con sindrome di Down ci sono un sacco di stereotipi che non vanno presi in considerazione: sono solo persone uguali agli altri, con le loro caratteristiche e la loro personalità. Forse per noi il trucco è stato quello di trattarlo come gli altri, non come un bimbo con dei problemi e questo ha fatto sì che il suo sviluppo sia praticamente nella norma, come può essere per un bimbo con la sua sindrome. Noi vogliamo semplicemente che sia felice, per quanto gli sarà possibile. Concludendo, quale augurio vorresti rivolgere a tutte le donne? Di realizzarsi nella maternità, nella famiglia, nella vita. Specifico che la maternità non è necessariamente biologica, ma che è la capacità di accogliere, di dedicarsi, di guardare, di ascoltare... di amare. La maternità, intesa in questo senso, è essenziale per l’animo femminile. Inoltre, un fatto sottolineato forse troppo poco è che l’amore ti riempie se lo dai, molto più che se lo ricevi. Ecco quindi il mio augurio per tutte le donne: «Realizzatevi nell’amore».


«Per crescere uomini servono padri» Maschi e femmine sono diversi, hanno un loro specifico ruolo nella società e nella famiglia Il 19 marzo, nel giorno in cui la Chiesa ricorda la figura di San Giuseppe, si festeggia la “Festa del papà”. Ma che ruolo ha il padre nella vita di una famiglia e nell’educazione dei figli? Ed è vero che è una figura così in crisi? Per rispondere a questi interrogativi abbiamo contattato Paolo Ferliga, già insegnante di filosofia e storia, psicoterapeuta, allievo e collaboratore di Claudio Risé, autore di diversi libri e articoli sul tema dell’identità maschile e della paternità (www.paoloferliga.it).

Dottore, iniziamo con una domanda molto generale: dalla sua esperienza, di cosa sono carenti i giovani maschi di oggi?

Paolo Ferliga

È difficile rispondere in breve a una domanda così importante e coinvolgente. Oggi i giovani maschi sono molto in difficoltà, come ho potuto osservare nel mio lavoro di insegnante al Liceo classico Arnaldo di Brescia, ancora prima che come psicoterapeuta. In più di trent’anni di insegnamento ho visto un progressivo indebolimento dei giovani maschi, mentre le ragazze hanno – almeno sotto certi punti di vista – preso il sopravvento. Naturalmente è innegabile che nell’adolescenza ci siano differenze di sviluppo biologico e psicologico tra i maschi e le femmine, ma mi pare che la crisi che coinvolge i primi sia legata a qualcosa di più profondo e di nuovo, che si può legare all’assenza di chiari riferimenti maschili tra gli adulti.

Nel mondo della scuola, per esempio, i ragazzi patiscono l’assenza di insegnanti maschi che, anche quando ci sono, faticano nell’assumersi appieno la responsabilità della propria identità maschile. Oggi invece si tende a credere che l’appartenenza a un determinato sesso non sia importante nella definizione dell’identità personale. Nella società liquida, descritta dal sociologo Zygmunt Bauman, anche il sesso sembra essere fluido, come se non fosse inscritto nel corpo. In questa visione però si perde il valore simbolico e psicologico che la differenza di genere ha per lo sviluppo e la crescita spirituale di una persona. I giovani hanno bisogno di figure adulte che abbiano una solida identità, in modo da potersi identificare in loro, almeno fino a quando non riescono a trovare e sviluppare la propria identità personale.

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E le donne? Quale ruolo giocano nella vita degli uomini, siano essi i loro stessi figli o i loro mariti? Per quanto riguarda la madre, è innegabile che essa abbia un ruolo fondamentale nella vita dei figli, sia maschi, sia femmine, e questo soprattutto nei primi mesi di vita, quando prosegue la simbiosi naturale con i figli, iniziata durante la gravidanza. Per ogni figlio è di fondamentale importanza che ci sia una madre accogliente, accudente, affettuosa e anche fisicamente presente. Poi, però, è importante che la simbiosi finisca. Affinché la madre e il figlio possano separarsi è indispensabile la presenza del padre. Sia la madre, sia il figlio necessitano dunque di un “terzo” che li aiuti a superare la coppia simbiotica, che se dura troppo a lungo impedisce ai figli di crescere dal punto di vista psicologico.

In una coppia in cui entrambi i genitori si prendono cura dei figli, questo processo avviene naturalmente, ma quando il padre è assente l’uscita dalla simbiosi diventa molto difficile. Per quanto riguarda la relazione coniugale, uomo e donna rivestono un ruolo fondamentale ciascuno per l’altro. Nella relazione con la donna l’uomo impara a coltivare la sua Anima e a riconoscere il valore della propria sensibilità. Così come una donna nella relazione con l’uomo può arricchire il proprio Animus (termine coniato dallo psicologo analista Carl Gustav Jung per

definire l’anima della donna distinguendola da quella dell’uomo) e acquisire più sicurezza nelle proprie capacità. Nella società contemporanea però, caratterizzata da un progressivo indebolimento dell’identità maschile, spesso gli uomini cercano nella donna una nuova madre, che li accudisca e soddisfi i loro desideri. In questi casi si crea nella coppia un rapporto non equilibrato e il maschio diventa dipendente della figura femminile. Nei casi più gravi, l’uomo risponde a questa dipendenza (segno della fragilità dell’identità maschile) sviluppando aggressività nei confronti della donna, dalla quale avverte inconsciamente di dipendere completamente. Per questa ragione quattro anni fa ho fondato “Campo maschile”, un progetto di ricerca e azione sull’identità maschile, un luogo fisico e simbolico, dove gli uomini imparano a riconoscere il valore della propria identità maschile.

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Nella coppia e nella famiglia la differenza tra uomo e donna è un valore? Assolutamente sì, anche se molti oggi sostengono che le due figure sono intercambiabili. Maschio e femmina si pongono in maniera diversa nei confronti dei figli, e non solo nei ruoli. In particolare all’inizio la madre accoglie e accudisce il figlio, ne preserva la vita, mentre il padre lo aiuta a separarsi dalla mamma introducendolo in questo modo nel tempo, e iniziandolo al tema della morte. Anche quando svolgono gli stessi compiti, padre e madre lo fanno in modo diverso perché hanno corpi diversi. Per esempio, un padre che cambia il pannolino al figlio lo fa in modo molto diverso rispetto alla mamma. Il bambino avverte che le mani, l’odore, il tono della voce, l’energia del padre sono diverse da quella della madre. Le differenze non passano attraverso i ragionamenti e le parole, bensì innanzitutto attraverso il corpo.

In molti oggi sostengono che viviamo in un’epoca storica contraddistinta dall’assenza del padre. Qual è la sua opinione in merito? Mi sono occupato di questa cosa nel libro Il segno del padre (Moretti&Vitali 2005 e 2011). La situazione, da allora, è in parte cambiata perché c’è più consapevolezza dell’importanza che il padre svolge nello sviluppo psicoaffettivo dei figli, sia nel mondo scientifico, sia nel sentire comune: si è cominciato a riflettere sul fatto che non è vero che, per crescere un figlio, basti la sola madre...

In questo cambiamento vedo un segno di speranza: si è compreso che il padre non è “liquidabile” e si sta presentando una nuova figura di padre. Un padre che inizia, con amore, il figlio alla vita e che, nello stesso tempo, gli insegna l’importanza del sacrificio (sacrum facere) e della fatica, esperienze indispensabili per affrontare la vita e sviluppare in modo positivo la propria personalità.

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Una delle grandi questioni odierne è proprio quella cui accennava: a quale modello di padre guardare? L’eccesso del padre-padrone è stato, giustamente, superato, ma il risultato è spesso l’eccesso opposto: il cosiddetto “mammo”…

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Sono due estremi entrambi da rifuggire. Da un lato è importante che il padre dialoghi con i figli, senza imporre in modo autoritario le proprie decisioni. In particolare quando sono piccoli è indispensabile che avvertano anche la sua presenza fisica, che possano godere di un padre che gioca con loro e li accompagna nella natura. Dall’altra, però, il padre non deve gettare, assieme

all’autoritarismo,anche l’autorità. Il padre non può ridursi ad amico dei figli, deve saper mantenere una distanza e assumersi la responsabilità di educarli, di insegnare loro la differenza tra bene e male, di dare delle regole. Deve essere capace di tenere insieme un atteggiamento affettuoso con un atteggiamento che genera nel figlio rispetto e un po’ di timore.


A DIFFONDERE LA CULTURA DELLA VITA! Per abortire fino a sei mesi (e oltre) bisogna trovare una “buona scusa” (per esempio? Il piede torto, o il labbro leporino, o la Trisomia 21!...). Ma fino a dodici settimane la legge italiana consente l’uccisione dei bambini a richiesta, senza troppe spiegazioni. La spilletta colore oro che vedete è la riproduzione esatta della grandezza dei

piedini di un bambino alla dodicesima settimana di gestazione: per alcuni è ancora un «grumo di cellule» o il «prodotto del concepimento». Il bambino in plastica è invece la riproduzione di com’è un bimbo nella pancia a 10 settimane. Il portachiavi, infine, è un utile accessorio per ricordare i cinque anni della nostra Notizie ProVita.

VUOI RICEVERE I PIEDINI, IL BAMBINO IN PLASTICA O IL PORTACHIAVI? Scrivi alla Redazione collegandoti a www.notizieprovita.it/contatti specificando il numero di pezzi che desideri ricevere (fino a esaurimento scorte). Offerta minima consigliata (più spese di spedizione): spillette 100 spillette – 100€ 50 spillette – 75€ 10 spillette – 20€ “Michelino” portachiavi 2€ 2€

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DÉLIT D’ENTRAVE À L’IVG

E Fu

L’uomo,

di Emiliano Fumaneri

«reato di ostacolo all’aborto» è l’ultima conquista del totalitarismo e si cela dietro l’apparente democrazia francese

L’ESSERE RELATIVO

La natura umana è relazionale: lo vediamo dal nostro corpo, ma anche dall’uso libero della ragione

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psichiatria a scopi politici. Nell’ex Urss il dissen crive Eric Voegelin che nelle società moderne è dal credo marxista-leninista fu a lungo consider venuto alla luce un fenomeno inedito nella storia uomo è un essere ancora al livello se della un disturbo Qui dellasiamo psiche. Cos’altro non una del pensiero politico: il divieto di fare domande. relativo, dal tardo semplice zoé, la «vita naturale» mente malata poteva mai rifiutare il Diamat on si tratta semplicemente di resistere all’esame critico latino relativus, «che che accomuna tutti gli esseri [mat-erialismo dia-lettico, lle proprie opinioni. Una simile resistenza all’analisi si riferisce, che si riporta a animati, umani e NdR], animali,l’ideologia uffi dell’Unione empre esistita. Qui ci troviamo di frontequalche a un rifiuto cosa» (Treccani). La eSovietica? li distingue dagli esseri natura del nostro essere, la inanimati, vegetali e minerali. ù profondo. È un autentico rigetto della ragione. natura umana, è relazionale. Tuttavia l’uomo più che Non è un caso che siano glièeredi di questo pass «divieto di fare domande» nasce dalla consapevolezza La relazione è scritta politico, nel e pulsione un senso passato che nonanimalesca. vuol passare (oggi i e le proprie opinioni sono infondate. Occorre perciò nostro corpo. Per constatarlo è Ciò che lo rende capace di Cina molti dissidenti vengono rinchiusi nelle car tare che possano essere analizzate in maniera critica. sufficiente meditare sul nostro scelte libere – e che in ultima psichiatriche, le ankang, a causa una grave “ma ente domande, quindi. Voegelin individuava nel ventre. Fabrice Hadjadj, in istanza lo distingue dal di mondo mentale”: il desiderio dre del comunismo “scientifico” Karl Marx e incos’è una famiglia?, Ma che ci animale – èdila democrazia sua natura die di libertà), invita a guardare al centro del per legge essere nuovi razionale. L’uomo, imporre «divieti di fare domand uguste Comte, fondatore di quella religione della nostro corpo. vediamo? attraverso il logos, laoggi parola, archiviato il Diamat, è subentrata enza (o pseudo scienza) nota come positivismo, i Cosa viOrmai Il nostro ombelico, memoria vive in una «foresta di simboli» una nuova ortodossia intoccabile: quella dettat e capofila di questo atteggiamento che assoggetta il fisica della nostra condizione dove può accedere al mondo dei dall’agenda dei “diritti civili” e dall’ideologia d nsiero al potere, legittimando così ogni di da donna. di forma esseri nati significati, spingendosi ben oltre nsura ideologica. L’ombelico è il segnogender. della l’angusto orizzonte dei segnali-

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«L’OMBELICO È IL SEGNO DELLA NOSTRA ORIGINE. NON CI SIAMO FATTI DA SOLI. SIAMO STATI GENERATI (“GENITUM NON FACTUM”) DA ALTRE PERSONE»

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nostra origine. Non ci siamo fatti da soli. Siamo stati generati (“genitum non factum”) da altre persone. Abbiamo ricevuto la vita dalla relazione sessuale tra un uomo e una donna. Scendendo poco più in basso con lo sguardo scopriamo il nostro sesso. Anch’esso è segno che non siamo fatti per noi stessi ma per dare la vita ad altri.

stimolo.

Il linguaggio umano è simbolico: esprime concetti, non si limita a propagare emozioni e segnali. «Anche le amebe comunicano, ma non hanno parola: non hanno niente da dirsi» (Philippe Breton, Elogio della parola). La capacità di entrare in relazione, di

«Non è la libertà che manca. Mancano gli uomini liberi» Leo Longanesi

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avviare un dialogo, è il riflesso della “capacità metafisica” dell’uomo. È in forza del suo essere in relazione col Principio del genere umano e della realtà tutta che l’uomo ha la capacità di riconoscere l’essere delle cose. Per distinguere l’uomo dalla bestia (l’animale non razionale) la filosofia antica lo denominava come «animal rationale», l’«animale razionale». Si esprimeva così la coscienza del fatto che l’essere umano è più del concetto biologico di specie. La modalità con cui l’uomo è esemplare della sua specie si differenzia in maniera radicale dalla maniera con cui altri individui (le bestie) sono esemplari della propria specie. L’uomo è più che un esemplare della specie homo sapiens sapiens. L’uomo è persona perché la relazione tra l’uomo e l’essere uomo è del tutto particolare: «L’uomo non è uomo evidentemente allo stesso modo in cui il cane è cane, cioè come immediata istantaneizzazione del suo concetto di specie» (Robert Spaemann, Persone)

essere vivente nel mondo, e nessun altro. L’uomo sa di essere qualcuno, riflette su di sé (cioè rientra in se stesso). Ma, come è capace di entrare in sé, è anche in grado di uscire da sé, mettendosi in posizione ex-centrica. L’uomo parla di sé anche in terza persona. Ciò significa che «l’uomo esce dalla posizione centrale che ogni essere vivente naturale assume in rapporto al proprio ambiente, e si vede con gli occhi degli altri, come un evento nel mondo» .(R. Spaemann, cit.) Solo tra i viventi, l’uomo è capace di prendere una distanza da sé assumendo un punto di vista esterno a se stesso. In un certo senso, de-centrandosi, l’essere umano è capace di vedersi come un oggetto, essendo in grado di cogliersi

come essere relativo, cioè in relazione ad un altro sguardo. L’uomo è un essere referenziale, non solo auto-referenziale. È da questa capacità di decentrarsi che scaturisce il logos umano nel duplice senso di linguaggio e intelligenza. È grazie al logos che l’uomo può vivere in relazione con un ordine superiore di realtà, potendosi così rapportare con un orizzonte che lo trascende.

«SOLO TRA I VIVENTI, L’UOMO È CAPACE DI PRENDERE UNA DISTANZA DA SÉ ASSUMENDO UN PUNTO DI VISTA ESTERNO A SE STESSO»

L’uomo è una soggettività pensante e parlante che si differenzia dalla bestia nella misura in cui si riferisce a se stesso con un pronome personale: «Io». Io sono questo determinato Primo piano

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«L’UOMO È QUELL’ESSERE CAPACE DI SOLLEVARSI PER GUARDARE VERSO L’ALTO»

Segno distintivo dell’essere umano è proprio la sua capacità di vivere in relazione con un orizzonte trascendente. È questa specificità dell’uomo, che classicamente viene designata come “intelletto” o “apertura trascendentale”, a segnare la discontinuità tra l’uomo e gli altri viventi; “apertura trascendentale” che si riflette in diverse dimensioni, quali la libertà, la temporalità e la progettualità, la concettualità, il linguaggio simbolico e l’autocoscienza (Cfr. Paolo Pagani, Appunti sulla specificità dell’essere umano, in Luca Grioni (a cura di), La differenza umana. Riduzionismo e antiumanesimo). Lo sguardo umano sembra essere fatto per rivolgersi alle stelle, come se l’uomo non si fosse raddrizzato che per guardare al cielo. Per questo, nell’Antichità e nel Medioevo, la sua postura eretta veniva messa in rapporto con la contemplazione del cielo.

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L’uomo è quell’essere capace di sollevarsi per guardare verso l’alto. Il suo stesso desiderio – che secondo una nota etimologia si compone di de e di sidus (“stella”) – pare testimoniare di questa nostalgia per il cielo stellato. L’essere umano, a differenza del mondo non umano, desidera perché è un «animale teorico», dice Rémi Brague in Guardare il cielo: è un essere capace di interessarsi anche a ciò che non riguarda direttamente la propria esistenza. La natura umana è già apertura al piùche-umano. Scrive Brague: «È principalmente una questione sull’uomo, e ciò che lo distingue dagli animali. Gli antichi coglievano questa differenza attraverso un’immagine: l’animale striscia sul suolo dove, anche se si solleva sulle quattro zampe, non guarda che lui. È sul suolo che trova ciò di cui soddisfare la sua fame e la sua sete. L’uomo si libera da questo ancoraggio terrestre e guarda il cielo».

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IL NOSTRO PENSARE È, FIN DAL PRINCIPIO, UN COMUNICARE NON C’È VERA ANTROPOLOGIA, SE NON DOVE SIA RECUPERATA LA PIENEZZA DEL RAPPORTO CON ALTRI

La vocazione dialogica dell’uomo Solo nella dimensione dialogica si coglie la realtà non come dominio, ma come incontro di Clemente Sparaco

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l pensiero ebraico del ’900 (Rosenzweig, Buber, Lévinas etc.) ha riscoperto, nel seno stesso della tradizione biblica, la vocazione dialogica dell’uomo e l’ha riproposta in alternativa al soggettivismo. In particolare il referente polemico di questa riscoperta è l’idealismo di Hegel, ossia il sistema più compiuto del razionalismo moderno.

La critica alla compiutezza del sistema hegeliano è svolta da M. Buber in nome del recupero del valore dell’esteriorità, nella convinzione che la dialogicità, ossia il rapportarsi al Tu, sia costitutiva del soggetto: «Non è mediante il rapporto con il proprio “sé”, ma è mediante il rapporto con un altro “sé” che l’uomo potrà raggiungere la completezza. Questo altro “sé” può essere limitato e relativo quanto a se stesso, ma è in questo essereinsieme-con-l’altro che si rende possibile l’esperienza dell’illimitato Primo piano

e dell’incondizionato» (Il principio dialogico). Non c’è vera antropologia, se non dove sia recuperata la pienezza del rapporto con altri; se non dove, a una visione del soggetto come autarchico, si sostituisca una visione in cui la comunicazione si ponga come essenziale per il soggetto stesso. Solo così la prigionia dell’io è infranta e si coglie la realtà non come dominio, bensì come incontro. La relazione interpersonale esprime, quindi, la struttura originaria dell’essere, la profondità ontologica per la quale l’uomo non è solitudine, ma costitutiva apertura all’altro. «All’inizio è la relazione», scrive Buber in Io e Tu. La coscienza si situa all’interno di un’anteriorità che la precede, fatta di relazioni significative con persone e di contesti, nella quale si

inserisce e struttura. Questo è immediatamente percepibile nel fatto che la nostra identità fisica e mentale è frutto di una relazione di coppia. Nel bambino c’è infatti fisicamente la compresenza genetica dei genitori, a loro volta portatori di un’ereditarietà che richiama altre relazioni essenziali con persone vissute in precedenza. Nello sviluppo personale si riflette, poi, l’attuarsi di un progetto educativo a due (è drammatico quando per motivi diversi esso è impedito!).

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Il nostro pensare è così, fin dal principio, un comunicare, almeno fin da quando il bambino richiama con il suo piangere l’attenzione e la cura della mamma. L’identità personale è frutto di relazioni affettive significative, nonché di esperienze e influenze provenienti dall’esterno. Il nostro essere non è, quindi, un modello di autosufficienza. L’essere dagli altri e per gli altri è il presupposto ovvio di ciò che siamo. Anche la considerazione che possiamo avere di noi stessi, il nostro individuarci, è sempre in funzione di modelli identificativi che ci hanno

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segnato profondamente. Il pensare, più in generale, non è una costruzione meramente individuale, perché è un’esperienza vitale, condivisa con gli altri con cui si entra in comunicazione. Da questo punto di vista si può affermare che si appartiene sempre a un mondo, all’orizzonte intenzionale e affettivo, in cui si è posti. Né questa relazione con il mondo esterno e con gli altri smette mai di arricchirci e di provocarci. Un pensiero che pensa se stesso è una pura astrazione filosofica! Tutto questo non significa che la persona sia priva di una sua sussistenza individuale, ma che essa non può definirsi solo sul registro dell’essere per sé, ma deve sostanziarsi su quello dell’essere correlata ad altri. La persona umana è sussistenza individuale che, conservando la sua specificità e superando la sua solitudine ontologica, è strutturalmente in tensione ad aprirsi all’altro e alla totalità dell’essere. La persona, in quanto consistenza della propria singolarità, rifiuta ogni forma di oggettivazione che non la rispetti nell’interiorità e ogni forma di massificazione e manipolazione. Tuttavia, la persona

è anche comunicazione e relazione. «La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona: il tu […]. Quando la comunicazione si allenta o si corrompe, io perdo profondamente me stesso: ogni follia è uno scacco al rapporto con gli altri: l’alter diventa alienus, e io a mia volta divento estraneo a me stesso, alienato. Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite, che essere significa amare», ha scritto E. Mounier. L’amore realizza, quindi, la forma di comunicazione più profonda, che supera la distanza che ci divide dall’altro e, nello stesso tempo, dilata il nostro io al di là del proprio mondo chiuso. Nell’amore l’altro diventa il “nostro tu personale”, che ci chiama a fare esodo dal nostro egoismo, a superare le barriere dell’incomunicabilità e della diffidenza. E, dal momento che noi siamo il “suo personale tu”, occorre farsi prossimo, avendo la capacità di infrangere la prigionia della propria individualità. Perché «il mondo – come è scritto nel Talmud (il testo della riflessione teologica ebraica) – comincia da due».

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Famiglia: luogo di relazione, luogo di vera libertà La frammentazione è la cifra del vivere odierno. Ma le persone single sono veramente libere e felici?

Giuliano Guzzo

di Giuliano Guzzo laureato in Sociologia e Ricerca Sociale, collabora con diverse riviste e portali web fra i quali Tempi.it, Libertaepersona.org, Campariedemaistre.com, Cogitoetvolo.it, Uccronline.it e Corrispondenzaromana.it. È membro dell’Equipe Nazionale Giovani del Movimento per la Vita italiano

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n Italia una “famiglia” su tre è composta da single.

La notizia, emersa dall’annuario Istat diffuso lo scorso fine dicembre, avrebbe dovuto allarmare e invece è passata quasi inosservata, mescolata tra le centinaia di altre statistiche. Come mai? Le spiegazioni a questo silenzio sulla polverizzazione dei nuclei familiari, possono essere molteplici. C’è anzitutto, credo, la difficoltà a comprendere la posta in gioco. Una difficoltà che sorge dall’enorme equivoco che, da anni, ruota attorno all’essere single, presentato come modello esistenziale felice, libero, poco impegnativo, che consente al tempo stesso di vivere tanti e nessun legame, wireless. In realtà, anche trascurando la dimensione morale ed etica, c’è ben poco di realmente gratificante nella vita di chi è single e quindi, in fondo, vive per sé, appartato e isolato, senza la possibilità – se non Primo piano

* giulianoguzzo@email.com @GiulianoGuzzo : www.giulianoguzzo.com

tramite i social – di condividere le delusioni e le gioie quotidiane. Volendo essere più concreti, si può aggiungere come la vita da single, oltre che di dubbio appagamento, sia anche molto a pagamento, nel senso che è un’esistenza costosa, che azzera – dalle rate dell’auto, alle bollette; dalla spesa per il cibo, a tutte le altre – quella possibilità di risparmio tipica della coabitazione familiare. Meno condivisione e più spese comporta, tra l’altro, maggiore stress e minore possibilità di dividere ansie e preoccupazioni, aspettative e paure. Non è un caso che non siano i single bensì, dicono le statistiche, le persone sposate quelle caratterizzate da una maggiore longevità, da minori

tassi di depressione, più elevati livelli di gioia effettiva. Eppure, ciò nonostante il Anna Maria modello esistenziale del Pacchiotti single è costantemente oggetto di esaltazione da Pacchiotti, presidente parte deiAnna massMaria media, i quali dell’associazione “Onora la Vita onlus”. invece, se:possono, criticano e www.onoralavita.it ridicolizzano la famiglia. Come mai tutto questo?

Per la ragione che si diceva poc’anzi: perché il single è un consumatore più performante, e alla società del profitto interessa anzitutto questo: Giulia Tanel che si produca e, soprattutto, che si spenda. Ebbene, anche senza essere spendaccione Laureata in Filologia e Critica Letteraria. il single spende dipassione. più. InCollabora con Scrive per libertaepersona.org e condi altri siti internet e tutto. Di qui l’esaltazione riviste; è inoltre autrice, con Francesco Agnoli questo anomalo ossimorico di Miracoli -eL’irruzione del soprannaturale nel (Ed. Lindau). il modello storia di “famiglia” 21 N. 61


LE “FAMIGLIE UNIPERSONALI” SONO PASSATE DAL 38,7% DEL 2003 AL 45,6% DEL 2013

cui diffondersi allarma, a ben vedere, meno di quanto dovrebbe. Perché oggetto di una sponsorizzazione culturale permanente, e perché l’ascesa della “famiglia unipersonale”, come viene chiamata con una contraddizione “neolinguesca” evidente, rientra in verità in un processo in corso da anni. A questo proposito colpiscono i dati di una ricerca della sociologa Francesca Zajczyk che, per quanto riguarda l’Italia, ha messo in luce come, fra il 2003 e il 2013, tutte le coppie con figli siano percentualmente decresciute dal 27,2 al 22,5%, mentre la tipologia monogenitore con figli abbia conosciuto un debolissimo aumento (+0,9%) e le “famiglie unipersonali”, composte cioè da persone sole che non vivono all’interno di un nucleo familiare, siano «passate dal 38,7% del 2003 al 45,6% del 2013» con «risultati spesso sorprendenti anche per i ricercatori».

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Per quanto continua e impressionante, quella dei single è però un’affermazione tendenziale, spalmata negli anni, il che la fa apparire quasi rassicurante, quando invece rappresenta – per quanto riguarda la natalità – il rafforzarsi di un inverno demografico che, da noi e non solo, non ne vuole sapere di passare. Con il risultato che statisticamente l’alternativa vera alla famiglia cosiddetta “tradizionale” si conferma essere, appunto – ben più delle coppie di fatto e “arcobaleno” –, la “famiglia unipersonale”. Segno che laddove tramonta la vera famiglia non sorgono nuove famiglie, ma solo nuove solitudini. Eppure, per tornare a noi, tutto ciò non viene avvertito. Perché la “famiglia unipersonale” appare conforme e

utile al pensiero dominante e perché la sua ascesa è graduale – si è fin qui detto – , ma anche perché, in fondo, siamo un po’ tutti contagiati da un equivoco rispetto al significato della parola libertà, concepita come valore e bene proprio dell’individuo. Evoluzione curiosa delle cose se si considera come, storicamente, in antitesi all’interpretazione corrente, infatti, la libertà non è quasi mai stata considerata tratto caratterizzante ed esclusivo dell’individuo. Non solo. Sotto un profilo culturale la libertà ha, per così dire, “origini sociali”, in quanto anticamente non designava, come oggi, una generica liberazione “da”, quanto piuttosto una precisa appartenenza di carattere familiare ed etnico; sul piano prettamente terminologico, poi, sia il termine greco eleutheros, Primo piano


sia quello latino liber sembrano derivare da una comune radice indoeuropea – leudt – indicante le dimensioni della crescita e dello sviluppo, che a loro volta determinano la necessità dell’esistenza di una radice, di un’appartenenza originale. Ne consegue come il mito dell’autodeterminazione individuale – oltre a presentare non trascurabili criticità in ordine alle molteplici dipendenze, anche relazionali, delle quali si nutre la persona umana –manchi di radici filosofiche che non siano recenti ed altre da quelle dell’individualismo del diciassettesimo secolo. È dunque null’altro che una favoletta moderna, quella dell’autodeterminazione assoluta di cui, a ben vedere, si nutre l’apologia della vita da single. In questo senso non pare azzardato sostenere che,

allorquando si smetterà di credere al mito dell’autodeterminazione assoluta (senza per questo, sia chiaro, trascurare il pur importante valore della libertà personale), non solo riscopriremo il valore costitutivo delle relazioni – che emerge dal grembo materno e si conferma fino al tramonto dell’esistenza, quando la vecchiaia e la malattia rendono indispensabile l’assistenza – ma riusciremo anche tutti, vincendo ogni resistenza e invertendo la tendenza, a riscoprire realmente il valore della famiglia, luogo dove gli affetti si incrociano e si moltiplicano, dove passato e presente di ognuno si danno appuntamento e dove, grazie a Dio, germoglia il futuro.

IL SINGLE È UN CONSUMATORE PIÙ PERFORMANTE, E ALLA SOCIETÀ DEL PROFITTO INTERESSA ANZITUTTO QUESTO

VA RISCOPERTO IL VALORE DELLA FAMIGLIA: LUOGO DOVE GLI AFFETTI SI INCROCIANO E SI MOLTIPLICANO E DOVE GERMOGLIA IL FUTURO

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LA RELAZIONE CONIUGALE È UN BENE PER TUTTI Il matrimonio è una relazione privilegiata per la realizzazione della persona, per la sua salute psicofisica e per il bene di tutti di Francesca Romana Poleggi

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crivendo sull’importanza della relazione coniugale e sul benessere psicofisico e sociale che essa produce, è necessaria una premessa: il matrimonio non è per tutti. Ci sono delle persone che sono chiamate a realizzarsi seguendo un’altra strada. La scelta di non sposarsi – a volte obbligata, quando non si è incontrata l’anima gemella – può essere necessaria per la realizzazione di sé e di progetti altri, a volte misteriosi. Per i credenti potremmo dire che ciascuno ha la sua vocazione, ma anche in termini “laici” la ragione naturale basta a capire che non tutti possono e devono fare “tutto”.

Chiarito questo, ragioniamo su coloro che rifuggono il matrimonio perché secondo loro da single la vita è più libera e bella e che passano da una relazione all’altra con discreta facilità: il matrimonio, invece, non è facile, il “per sempre” fa paura, la fiducia nell’altro c’è… ma fino a un certo punto. E obiettivamente, dagli anni Settanta in poi, si è fatto di tutto per distruggere il matrimonio e la famiglia: dal divorzio, che nei decenni è divenuto sempre più breve e facile, alla costante, continua e progressiva vessazione fiscale, alla divinizzazione del lavoro per tutti e specie per le donne (quelle che vorrebbero fare

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figli da giovani vengono guardate male...), alla propaganda di stili di vita libertari e libertini che sono necessari e consustanziali alla “società liquida”, come l’ha definita Bauman: la società relativista, senza valori solidi di riferimento, nella quale è bene evitare di impegnarsi «finché morte non ci separi». Si promuove quindi una vita nella provvisorietà e nella solitudine. Invece sappiamo bene che l’essere umano si realizza nella relazione, che gli è ontologicamente connaturata. E la relazione naturale tra uomo e donna – che può cominciare per via dell’istinto alla riproduzione, ma può e deve essere addomesticata dalla razionalità che ci rende padroni di noi stessi e quindi meritevoli della dignità superiore agli animali che ci è propria – diviene del tutto speciale con il vincolo del matrimonio: va al di là del sentimento, è qualcosa in più dell’essere innamorato. Non è tanto un “voler essere felice

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con te”, ma un “volere che tu sia felice”. L’uomo e la donna sono in grado di fondersi in un’unità che non soffoca la diversità. L’amore coniugale annulla le distanze, ci completa in un’alterità che ci era estranea, diametralmente opposta da noi (e così, chi vuole capire, capisce perché un’unione tra due persone dello stesso sesso – per quanto possa essere piena d’amore – non sarà mai un matrimonio vero: infatti in Svezia, Paese non omofobo, Charlotte Björkenstam ha pubblicato una ricerca che evidenzia come aumentino i tassi di suicidi tra gli omosessuali che convolano a “nozze”).

Certamente la relazione coniugale non è facile: il Principe Azzurro o Cenerentola non esistono. Ma la “singletudine” è peggio. Vivere assieme favorisce la crescita personale e il benessere: una ricerca dell’Università di Tilburg, in Olanda, ha rilevato che nei primi quattro anni di matrimonio aumentano i livelli di autocontrollo e la propensione al perdono, fattori che incidono notevolmente sulla salute e il benessere del singolo, oltre che sulla relazione tra i coniugi. E il matrimonio fa bene anche alla salute fisica: Rahul Potluri, della Aston University, in Inghilterra, ha rilevato che le persone sposate hanno il 14% in meno di probabilità di morire di infarto rispetto ai single e ai divorziati. I benefici per la salute derivanti dal matrimonio dipendono dal maggiore 25 N. 61


LA RELAZIONE CONIUGALE NON È TANTO UN “VOLER ESSERE FELICE CON TE”, MA UN “VOLERE CHE TU SIA FELICE”

sostegno fisico e mentale che i pazienti sposati si offrono a vicenda. Scarlett Lin Gomez e Maria Elena Martínez, in California, hanno scoperto che i malati di cancro non sposati hanno tassi di mortalità più elevati rispetto ai pazienti sposati: è risultato determinante il poter condividere i problemi legati alla malattia con una persona fedele e presente, più che l’aver denaro in abbondanza. Alla Duke University di Durham, in Nord Carolina, hanno scoperto che il rischio di decesso dopo un ictus risultava del 71% maggiore per coloro che non erano sposati rispetto a chi aveva un matrimonio stabile. E neppure un secondo matrimonio pare che riduca il rischio per chi ha passato un divorzio o la vedovanza. Sarà sufficiente essere in una qualsiasi relazione amorosa, 26 N. 61

non necessariamente una relazione coniugale? O forse una relazione stabile, esclusiva, fedele e per sempre, atta a generare e che quindi si possa contornare di figli, nipoti, zii e fratelli, è meglio, perché dà più sicurezza? Altre ricerche hanno messo in evidenza i benefici che il matrimonio arreca a tutta la società. Uno studio apparso sul Journal of Marriage and Family – che riprende i dati della National Longitudinal Survey of Youth, condotta dal Centro per la ricerca delle risorse umane dell’Ohio – ha evidenziato che basta una prospettiva di matrimonio entro cinque anni per diminuire le probabilità di delinquere. La corposa ricerca di Fagan, Rector, Johnson e Peterson della Heritage Foundation, nel Massachusetts, mostra invece che il declino del matrimonio cominciato alla fine degli anni ’60 è coinciso

con l’aumento di una serie di gravi problemi sociali. I figli nati fuori dal matrimonio o quelli i cui genitori divorziano, hanno molte più probabilità di sperimentare povertà, episodi di abuso, problemi comportamentali o emotivi, depressione; hanno risultati scolastici peggiori e più frequentemente si drogano. Le madri single hanno maggiori probabilità di essere vittime di violenza domestica. Lo psichiatra Tonino Cantelmi afferma che l’idolatria della “singletudine” è la rinuncia alla “progressione magnifica”: esserci, “esserci-con”, “esserciper”. Partendo da un Io (l’esserci), ci si apre all’altro a un Tu (“l’esserci-con”) per giungere a un Noi (“l’esserci-per”): per la generatività, per la creatività e per l’oblatività. Forse, sostiene Cantelmi, oggi viene a mancare troppo facilmente il presupposto dell’esserci, si demolisce l’identità stabile della persona (basta pensare alla propaganda della fluidità del genere). Allora la relazione di coppia si riduce all’occasionale incontro tra persone che si usano per soddisfare i propri bisogni affettivi: l’egoismo e l’individualismo trionfano. E a rimetterci sono i giovani che non si sposano più, e con loro tutta la società. Primo piano


UNA RELAZIONE PROFONDA

UN LEGAME ETERNO La relazione madre-figlio è la più antica, la più misteriosa e la più complessa tra tutti i rapporti umani di Gloria Pirro

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u un piano puramente sentimentale siamo pronti a riconoscerlo: la scena di una madre che tiene tra le braccia il suo bambino appena nato è di certo uno degli spettacoli più belli al quale possiamo sperare di assistere durante la nostra vita. La relazione madre-figlio è la più antica, la più misteriosa e la più complessa tra tutti i rapporti umani. Essa tuttavia ha inizio molto prima della nascita, nel momento in cui il nascituro è ancora un “grumo di cellule” che lentamente e meravigliosamente prende forma nell’utero materno. Subito dopo la fecondazione, lo zigote inizia a “dialogare” con la madre, tramite un meccanismo che viene definito “cross talk”, “dialogo incrociato”. Il bambino (che intanto da zigote diventa morula) invia molteplici segnali chimici all’organismo materno, che stimolano la mucosa dell’endometrio materno ad adattarsi per accogliere l’embrione e permette

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la formazione della placenta, tramite la quale viene assicurato il normale scambio di ossigeno e nutrienti necessari alla sopravvivenza e alla crescita del feto. Il piccoletto chiede per esempio all’organismo materno di fargli strada tra i villi delle tube per agevolargli la discesa fino all’utero. E le comunica che è un “amico”, da non attaccare con gli anticorpi: il sistema immunitario materno lo riconosce infatti in parte come un “corpo estraneo”, perché possiede metà del patrimonio genetico del papà.

La placenta e il cordone ombelicale contengono cellule staminali: da molti anni si conosce l’utilità delle suddette cellule nella cura di numerose malattie. Le cellule staminali sono cellule non specializzate che hanno la straordinaria capacità di potersi sviluppare sia morfologicamente, sia funzionalmente, trasformandosi in diversi tipi di cellule specializzate. Le cellule staminali presenti nel cordone ombelicale sono dette “staminali cordonali”: sono capaci di rigenerare tessuti danneggiati

La placenta è il risultato più visibile di questo cross talk: una parte di essa è originata dall’organismo materno (ovvero dall’endometrio uterino, che durante la gravidanza prende il nome di “decidua”), mentre la parte restante ha origine dai villi coriali, cioè dai prolungamenti generati dallo strato esterno delle cellule embrionali.

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e organizzare processi di cura. Si distinguono in “cellule staminali ematopoietiche”, che sono coinvolte nella formazione delle cellule del sangue (globuli rossi e bianchi e piastrine) e in “cellule staminali mesenchimali”, che si occupano della formazione dei tessuti ossei, della cartilagine e delle cellule neuronali, pancreatiche o epiteliali. Le cellule staminali cordonali possono essere impiegate nella cura di numerose malattie, tra le quali il linfoma non-Hodgikin o il neuroblastoma. Un altro fenomeno, prova del profondo legame biologico 28 N. 61

tra la madre e l’embrione, è il cosiddetto “microchimerismo fetale”. Con il termine “microchimerismo” si definisce la presenza di un piccolo numero di cellule di un individuo in un altro: il nome deriva dalla mitologica Chimera, creatura composta da parti del corpo di animali diversi. È un evento che si può riscontrare anche dopo un trapianto o una trasfusione di sangue, ma è specifico del momento della gravidanza. Si tratta di un fenomeno bidirezionale, dalla madre all’embrione e viceversa, ma il passaggio di cellule fetali di diverso tipo (si tratta di staminali, di linfociti B o T…) nel circolo materno è senz’altro un fenomeno più massiccio. Le cellule fetali rimangono nell’organismo materno anche per decenni dopo il parto, se non per tutta la vita. Il microchimerismo si

riscontra anche nel caso di un aborto (spontaneo o volontario): le cellule del feto abortito che sono già passate nel corpo materno durante la gestazione vi restano anche se la gravidanza non viene portata a termine. Gli studi medici mostrano che il microchimerismo fetale può avere un effetto benefico sulla salute della madre (si parla allora di “good microchimerism”), nonostante sia possibile che le cellule fetali possano degenerare ed essere coinvolte nell’insorgenza di alcune malattie (“bad microchimerism”). Il passaggio di cellule fetali nell’organismo materno è importante in primo luogo per mantenere la gravidanza: sembra infatti che un numero insufficiente di cellule fetali nel circolo materno possa essere la causa di un aborto spontaneo, mentre un numero troppo elevato giocherebbe un ruolo nello sviluppo di alcune malattie, autoimmuni e non. Primo piano


I benefici delle cellule microchimeriche sono stati dimostrati nel caso di alcune malattie, come ad esempio la sclerosi sistemica (SSc). Le donne multipare presentavano un rischio minore di contrarre la malattia e di svilupparla in forma grave rispetto alle donne senza figli, come se la gravidanza avesse un effetto protettivo a lungo termine. La biopsia del fegato di una paziente affetta da epatite C (Johnson KL, Samura O,

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Nelson JL, McDonnell WM, Bianchi DW. Significant fetal cell microchimerism in a nontransfused woman with hepatitis C: evidence of long-term survival and expansion. Hepatology 2002; 36:1295-1297) ha mostrato la presenza di numerose cellule maschili, a una prima analisi indistinguibili dagli epatociti: ulteriori accertamenti hanno rivelato che si trattava di cellule microchimeriche provenienti da un feto abortito più di vent’anni prima, che stavano agendo alla stregua di staminali nel corpo della donna.

epito, Il piccolo conc tanti, fin dai primi is ne entra in relazio o con l’organism della madre istaurando un ciato”, “dialogo incro il cross talk

Il fenomeno del microchimerismo è stato notato rilevando la presenza di cellule maschili di origine ignota all’interno del corpo femminile: esse provenivano da fenomeni di microchimerismo fetale aventi per oggetto un embrione di sesso maschile.

E non finisce qui: il microchimerismo può avere un ruolo anche nella cura di alcune malattie cardiache, come ha mostrato uno studio del 2015 condotto su topi da laboratorio; ma sembrerebbe avere un

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Gli studi più aggiornati sono quelli che riguardano il cancro al seno: da un’indagine

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pilota condotta su 82 pazienti, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2002, si è potuto accertare la presenza di un microchimerismo fetale superiore nelle donne sane rispetto a quelle non sane; studi successivi hanno confermato le scoperte dello studio pilota. Le pazienti con un microchimerismo più alto sembrano rispondere meglio alle cure staminali dei tumori: il tasso di risposta terapeutico e le speranze di guarigione sono in diretta correlazione con un microchimerismo positivo. Poi il bambino nasce, il cordone ombelicale si taglia fisicamente e si deve tagliare, a poco a poco, anche in senso figurato, perché i figli devono imparare a condurre la propria vita in modo autonomo e indipendente anche dalla madre. Ma il legame tra la madre e i figli non si rompe mai. Qualche volta la vita riserva brutte sorprese e purtroppo capita che anche il rapporto tra madre e figlio si possa deteriorare, ma la natura ha creato un legame che va oltre qualsiasi conflitto di interessi.

«La relazione madre-figlio è la più antica, la più misteriosa e la più complessa tra tutti i rapporti umani»: in ogni istante di vita, fino alla morte – e forse anche oltre –, la mamma è sempre la mamma.

bino Anche un bam sciare abortito può la rno nel corpo mate ali e cellule cellule stamin he che microchimeric ire alla possono serv amma per salute della m ni lunghissimi an

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effetto benefico anche nella cura del cancro: nel carcinoma mammario, che ha un’incidenza minore nelle donne multipare, nel carcinoma della tiroide, nel cancro cervicale, nel melanoma. Nella maggior parte degli studi condotti sulla relazione tra microchimerismo fetale e cancro, il microchimerismo fetale mostra di avere un effetto benefico sulla riparazione dei tessuti e nella sorveglianza immunitaria, anche se si riscontrano alcuni casi (più rari) in cui esso può avere un’incidenza sulla comparsa di nuovi tumori.


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DA DUE A TRE: la relazione che genera di Teresa Moro

Q

uando si parla di relazione, si parla di generazione. Inevitabilmente, infatti, nel momento stesso in cui due persone entrano in contatto prendono forma situazioni, pensieri ed emozioni nuovi, inesplorabili dalla singola individualità. Questa constatazione assume una valenza del tutto particolare quando una relazione generativa si fa anche “carne”, ossia quando l’unione di uno più uno dà vita a un inedito terzetto.

L’ARRIVO DI UN FIGLIO È UN DONO: PER I GENITORI, MA ANCHE PER L’INTERA SOCIETÀ

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Le relazioni sono sempre generative, e non solo in senso fisico

L’arrivo di un figlio è un dono: per i genitori, ma anche per l’intera società, poiché ogni persona è unica e ha un proprio ruolo specifico, che nessun altro può portare a termine al suo posto. Tuttavia non si può ignorare che l’arrivo di un bambino segna, nella coppia genitoriale, uno spartiacque netto tra una vita “prima” e una vita “dopo” il concepimento di un figlio, e questo sia dal punto di vista esterno, sia – e forse soprattutto – nell’interiorità. Un figlio è una novità enorme... ed è per sempre! Naturalmente, è dato comune, il cambiamento di cui un figlio –soprattutto il primo – è portatore ha implicazioni differenti per la mamma e per il papà. Se è infatti vero che entrambi devono crearsi uno “spazio mentale” adatto per accogliere il bambino, la donna è chiamata a farsi culla del figlio anche dal punto di vista fisico e la sua presenza sarà fondamentale

almeno nei primi mesi di vita del neonato. In questo processo, le emozioni che una donna prova corrono e si rincorrono, con ambivalenze (come, ad esempio, la gioia dell’attesa mista alla paura del cambiamento) che non è corretto negare e con sbalzi d’umore che possono anche essere repentini e importanti. Di tutto questo parla la psicologa Silvia Vegetti Finzi in un libro che integra, con sensibilità e competenza, la narrazione con il commento: L’ospite più atteso – Vivere e rivivere le emozioni della maternità. Un testo che aiuta a fermarsi e a dedicare del tempo alla lettura delle diverse pieghe della maternità: un evento fondamentale della vita, ma al quale – sostiene l’Autrice – le donne di oggi faticano ad attribuire la giusta importanza, posponendolo a impegni lavorativi o ad altre forme di realizzazione personale. Sempre più spesso, oggi, il desiderio “biologico” di maternità non arriva a Primo piano


coincidere con la disponibilità mentale a fare spazio a un figlio. E questo va a discapito di quanto sottolinea la pediatra e psicoanalista Françoise Dolto, secondo la quale – affinché un bambino nasca – è necessario che tre desideri si trovino e si fondano in un unico progetto: il desiderio dei due genitori e quello del figlio, ossia del bambino che vive nella mente materna. Un figlio dunque spesso “nasce” – così si può affermare nella nostra epoca contraddistinta da un uso massiccio della contraccezione, dove le coppie costantemente aperte alla vita sono un numero esiguo – prima di essere fisicamente concepito: inizia a vivere innanzitutto nei pensieri e nei discorsi dei futuri genitori che, infine, si aprono anche fisicamente alla vita. E succede così che un rapporto sessuale all’apparenza uguale agli altri proietta miracolosamente nel futuro. «Al contrario degli animali, in quanto liberi da prescrizioni, noi – commenta in merito la Vegetti Finzi – non ci ri-produciamo ma procreiamo, mettiamo al mondo un bambino sempre inedito, prefigurato dalla fantasia ed evocato dal desiderio in un processo creativo che precede la nascita. Secondo la poetessa Marina Ivanovna Cvetaeva, il bambino nasce dentro di noi Primo piano

ancor prima del concepimento: “Ci sono gravidanze che durano anni di speranza, eternità di disperazione”» (op. cit., p. 69). Ecco quindi che, in un istante, “l’ospite più atteso” arriva. Nascosto nel ventre materno, piccolissimo, solo da alcune donne percepito fin dai primi giorni... una nuova vita prende forma, in uno sviluppo vorticoso calcolato in ogni minimo dettaglio. E fin da subito inizia la relazione madre-figlio, fatta di messaggi inviati a suon di ormoni, che non hanno nulla di razionale ma che già indicano un rapporto, una collaborazione generativa. Quando poi la donna e il suo uomo realizzano di essere “mamma” e “papà”, di strada il piccolo “ospite” ne ha già fatta molta e probabilmente è già annidato nell’utero. Inizia qui, per l’inedito trio, un periodo di movimentata attesa: nove mesi che non servono solo al bambino per crescere, ma che sono anche un tempo necessario alla mamma per prepararsi e ripensarsi, al papà per prendere coscienza del cambiamento in atto e, dato da non trascurare, alla coppia per rivedere le proprie geometrie in funzione della nuova vita che arriverà a integrare la loro famiglia. Più si avvicina il momento della nascita, poi, più crescono il

UN FIGLIO SPESSO “NASCE” PRIMA DI ESSERE FISICAMENTE CONCEPITO

desiderio di conoscere il proprio bambino e l’agitazione per quello che avverrà. La mamma e il suo bambino trascorrono assieme, «compenetrati e interconnessi», gli ultimi giorni in una relazione unica e fondamentale che terminerà nel momento stesso in cui i due corpi si separeranno, per evolvere verso una forma nuova, nella quale anche il padre è chiamato a giocare un importantissimo ruolo. Terminato quindi il periodo di gestazione, il “bambino della notte”, secondo la definizione della Vegetti Finzi, «[...] cede il suo posto al bambino del giorno, quello vero, reale, figlio dell’unione col padre» (op. cit., p. 76). Un bambino nato da una relazione generativa, che è già in relazione da mesi con i suoi genitori e che, dal momento del suo ingresso nel mondo, intesserà altri e molteplici rapporti. 33 N. 61


di Miriam Incurvati

REGALIAMO AI NOSTRI FIGLI un attaccamento sicuro Un bambino con un attaccamento solido cresce nell’autostima e nella sicurezza interiore

L’ATTACCAMENTO È QUEL PARTICOLARE LEGAME CHE SI STRUTTURA CON LA FIGURA PRINCIPALE CHE SI PRENDE CURA DEL BAMBINO SIN DAL MOMENTO DELLA NASCITA

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La teoria dell’attaccamento prende le forme a partire dagli studi di J. Bowlby a metà del ‘900. L’attaccamento è quel particolare legame che si struttura con la figura principale che si prende cura del bambino sin dal momento della nascita. Vari studi hanno dimostrato come esista una predisposizione biologica del piccolo verso la figura che gli assicura la sopravvivenza, occupandosi di lui. Dunque tutte le figure che si prendono cura del bambino, ma in modo particolare le persone più vicine. La mamma, innanzitutto, assume un ruolo centrale. Sin dal tempo gestazionale il piccolo impara a riconoscerla: sente la sua voce non solo attraverso le pareti esterne, come tutti gli altri suoni, ma dall’interno. La voce della mamma riecheggia esattamente come il battito del suo cuore, che compone una meravigliosa sinfonia insieme al ritmo del cuore del bambino.

E poi, alla nascita, finalmente il piccolo ha modo di conoscere la sua mamma anche attraverso la vista e, soprattutto, l’olfatto. Di lì in poi il legame cresce, si arricchisce e si consolida. Anche il papà assume un ruolo fondamentale, come dimostrano numerosi studi tra i quali quello di Main e Weston (1981). Il padre non solo può essere di supporto alla compagna, ma soprattutto può costruire lui stesso un attaccamento diverso da quello della mamma, e quindi funge da risorsa e modello di relazione affettiva. Così, nella relazione di cura quotidiana, genitori e bambino coltivano il legame.

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Come spiegava bene la volpe de Il Piccolo Principe: «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, io dalle tre io comincerò a essere felice. Con il passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro comincerò ad agitarmi e inquietarmi: scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... ci vogliono i riti» (A. De SaintExupéry). È infatti attraverso le routines di ogni giorno che i genitori possono dimostrare la loro disponibilità ad ascoltare, ad accogliere, ad amare. È la pazienza nei risvegli notturni immotivati, sono la costanza e l’incoraggiamento dimostrati nel seguire i figli mentre studiano, è la dedizione nell’accompagnare i bambini al parco nonostante una stancante giornata lavorativa, è la capacità di cogliere il bisogno del piccolo e di soddisfare quando possibile le sue necessità: sono queste piccole azioni che aiutano il bambino a costruire un legame solido. Primo piano

Nei primi tre anni di vita la mamma diventa una Base Sicura che assicura protezione, ma è anche un punto di partenza per esplorare e poi crescere nell’autonomia. La letteratura in materia distingue diverse tipologie di attaccamento. Semplificando molto i termini a scopo esplicativo, si può distinguere lo stile “sicuro” da quello “insicuro”. Nel primo caso il bambino costruisce una fiducia nella disponibilità e nella comprensione da parte del genitore e struttura una rappresentazione positiva di sé, quale persona degna di amore. Di conseguenza, il bambino segnala apertamente le emozioni, non nasconde lo stress. Diversamente, nell’attaccamento insicuro il bambino impara a minimizzare o a intensificare l’emozione

LA LETTERATURA DISTINGUE DIVERSE TIPOLOGIE DI ATTACCAMENTO: SEMPLIFICANDO MOLTO, SI PUÒ DISTINGUERE LO STILE “SICURO” DA QUELLO “INSICURO”

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e la manifestazione dei propri bisogni psicologici per mantenere la vicinanza con l’adulto. Il genitore non rappresenta una vera e propria base sicura per lui e per questo egli tende a non fare riferimento a lui o, al contrario, a esserne fortemente dipendente. I benefici di un attaccamento sicuro sono numerosi. Un clima familiare unito e relazioni affettive significative permettono di costruire una configurazione sicura intorno al bambinoragazzo, che gli permetteranno di crescere nell’autostima e nella sicurezza interiore. Tuttavia, è altresì vero che non si può affermare che la carenza di adeguate cure segni il bambino in modo indelebile. Non si può essere così categorici e, 36 N. 61

soprattutto, non si può ridurre un fenomeno tanto complesso quale il benessere di una persona lungo l’arco della vita a un unico fattore. I più recenti dati forniti dalle neuroscienze, e in particolare dall’uso di Functional Neuroimaging, dimostrano come anche altre relazioni affettive possano essere determinanti per la persona, purché significative: il rapporto con un’insegnante, amicizie importanti, una storia d’amore, un percorso psicoterapeutico sono in grado di riscrivere le connessioni cerebrali relative alle esperienze passate. Pertanto, nulla è mai perso: per ogni situazione, seppure difficile, c’è un rimedio.

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RELAZIONI

VIRTUALI

di Enzo Pennetta

I social media, la mutazione del pensiero, la disintegrazione del tessuto sociale

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el dibattito sugli effetti dei social, fin dal primo momento della loro comparsa si è molto discusso sul modo in cui essi hanno contribuito a cambiare le relazioni personali, ma solamente negli ultimi tempi si è cominciato a capire in modo più chiaro le implicazioni di alcuni aspetti fondamentali di strumenti come Facebook, Twitter, Whatsapp, Instagram e simili, aspetti che vanno molto oltre quello di cui si è dibattuto finora.

QUANDO SI USANO I SOCIAL NEL NOSTRO CERVELLO SI ISTAURA UN MECCANISMO DI RICOMPENSA A BREVE TERMINE CHE CREA DIPENDENZA

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Qualcosa di inaspettato è accaduto all’inizio di dicembre del 2017, quando Chamath Palihapitiya, ex vicepresidente Facebook, ha rilasciato un’intervista fortemente critica al punto di assumere le caratteristiche di un’autodenuncia nella quale sono stati evidenziati i danni che l’utilizzo di questi mezzi produce. Nell’intervista Chamath Palihapitiya ha usato parole

molto pesanti per definire gli effetti dell’uso di social come Facebook, mezzo che conosce particolarmente bene avendo contribuito a progettarlo. Ha parlato molto chiaramente di una capacità di “riprogrammazione”, termine riferito non solo alla possibilità di manipolare il comportamento di vasti gruppi di popolazione mediante la diffusione di contenuti opportunamente scelti: la cosa ancora più preoccupante è quella legata alle modificazioni dei meccanismi mentali del singolo soggetto, che inducono Palihapitiya a parlare molto nettamente di un pericolo di «disintegrazione del tessuto sociale». Quando si usano i social nel nostro cervello avvengono dei cambiamenti. In particolare, il più insidioso è legato all’instaurarsi di un meccanismo di ricompensa a breve termine. Infatti, ogni volta che viene messo


un “like” di gradimento per qualcosa che abbiamo scritto si produce la liberazione di una piccola quantità di un mediatore chimico denominato “dopamina”, che viene rilasciato in un centro nervoso cerebrale denominato “nucleo accumbens”, dove viene originata una sensazione di piacere che crea rapidamente una dipendenza simile a quella delle droghe e una conseguente coazione a ripetere. Il progettista di Facebook ha ammesso quindi che, in realtà, nel gruppo che ha creato il social erano consapevoli di andare a fare leva su questi meccanismi di piacere per rendere gli utilizzatori dipendenti dal loro prodotto, ma ha anche affermato che più o meno inconsapevolmente hanno fatto finta che la cosa non fosse poi molto grave. L’instaurarsi di questi meccanismi ricompensadipendenza era stata in realtà denunciato già da tempo, ad esempio nel 2015 Daniel Joseph Levitin, neuro scienziato del MIT di Boston, aveva pubblicato un libro dal titolo The organized mind, nel quale esponeva con chiarezza il meccanismo di piacere legato alla liberazione di dopamina ogni volta che riceviamo un piccolo riconoscimento sui social. Nei topi da laboratorio

Chamath Palihapitiya, ex vicepresidente di Facebook il rilascio di dopamina ha prodotto effetti drammatici, giungendo a indurre i soggetti interessati a dimenticare anche le necessità più fondamentali come quelle di mangiare e dormire. Questo dà un’idea di quanto siano potenti tali stimoli e la loro capacità di distrarre da un’attività continuativa, facendo prevalere l’impulso di controllo continuo dei vari messaggi e delle notifiche che giungono dai social: l’attenzione prolungata a una determinata attività diventa per tale motivo impossibile. Si comprende a questo punto in che modo attività come lo studio o la lettura di un testo lungo e complesso, come ad esempio quello di un libro o quello tipico dello studio scolastico, siano fortemente danneggiate dai meccanismi compulsivi di piacere che si instaurano con l’uso dei social. 39 N. 61


Su quale sia il modo per evitare questi effetti negativi, Palihapitiya non ha alcun dubbio: non esistono metodi efficaci, l’unica possibilità di salvarsi è quella di smettere di usare i social; un’affermazione drastica, che è ancor più drammatica provenendo da chi quei social li ha progettati.

UN DOMANI AVREMO NELLA SOCIETÀ INDIVIDUI GENETICAMENTE MODIFICATI? E I LORO FIGLI COME SARANNO? E SARANNO UN’ÉLITE DI “MIGLIORI”, O SARANNO SUBUMANI DA SFRUTTARE?

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Ma quanto s’instaura insieme a questo saltellamento da un’attività all’altra è anche un accelerato modo di comunicare, e infine di pensare. Come evidenziato dallo psicoterapeuta Mario Scardovelli in un’intervista sul canale Youtube di Byoblu, il parlare a ritmi accelerati impedisce di elaborare riflessioni, in quanto queste richiedono tempi molto più lenti: nella comunicazione tipica dei social si tende quindi a restare nella superficie di noi stessi e si è spinti di conseguenza a comunicare attraverso una “maschera”. Nel momento in cui è la maschera a comunicare, e nel social esse diventano una comunità, la relazione non è più quella tra dei “sé” autentici ma tra maschere per definizione inautentiche e superficiali.

In definitiva si giunge alla conclusione che le micro dosi di dopamina liberate con le piccole sensazioni di piacere che ne derivano e la superficializzazione del pensiero hanno come conseguenza il distacco del soggetto dai veri rapporti interpersonali, ne risulta una scomparsa della “coscienza civile” e del “senso di cooperazione”. Queste sono causa di una disgregazione sociale legata all’uso dei social: quello che sta avvenendo a livello globale è un’erosione dei rapporti personali e una mutazione del modo in cui le persone si comportano tra loro. Fondamentalmente a livello fisiologico e sociale gli effetti dei social sono analoghi a quelli dell’uso delle droghe. Si realizza così la continuità tra la cultura psichedelica della generazione hippie e la società dei computer, come ho riportato nel libro L’ultimo uomo: «Il collegamento tra mente e computer nasconde in realtà un filo rosso che ha la sua origine negli anni della


rivoluzione psichedelica. Nel periodo in cui la generazione degli hippie ripone nell’armadio i blue-jeans, gli eskimo e le borse di Tolfa per indossare i colletti bianchi degli yuppies, la nascente era dell’informatica raccoglie l’esperienza degli stupefacenti per convertirla in una dimensione virtuale ed elettronica. La comunicazione incorporea dell’epoca digitale ha un’anticipazione nell’esperienza psichedelica, completamente mentale, tipica dell’LSD. Le sostanze allucinogene sono, in quegli anni, il mezzo per liberarsi dalla pesantezza del corpo». E se la diffusione delle droghe negli anni Sessanta e Settanta ha avuto l’effetto desiderato di addomesticare la protesta

sociale (come dimostrato dai documenti desecretati sull’operazione Bluemoon), allo stesso modo oggi un analogo effetto psichedelico può essere ottenuto con i mezzi messi a disposizione dall’elettronica e quindi ancor più pervasivi e difficili da contrastare. Nessuno può sentirsi al riparo da questi meccanismi, neanche le persone che si ritengono dotate di una cultura superiore, è ancora una volta lo stesso Palihapitiya a dirlo: se vi ritenete delle persone di particolare intelligenza e quindi al di sopra del rischio di cadere nella riprogrammazione dei social siete tra le persone maggiormente a rischio di caderci.

L’uso dei social è dunque un rischio, una pratica che fa inevitabilmente male, un po’ come il fumo di sigaretta che non c’è verso che faccia bene, l’unica soluzione è smettere. In questa ottica l’uso dei social come mezzi di informazione alternativa e capillare è una pratica giustificata dal fine che si intende raggiungere, ma che comunque risulta negativa per chi la mette in atto. I danni da social sono una specie di malattia professionale per gli operatori dell’informazione e tutti coloro che usano i nuovi mezzi per diffonderla. Per tutti gli altri i social sono solo qualcosa di cui liberarsi il prima possibile.

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di Marco Bertogna

FILM...

Quasi Amici Titolo: Quasi Amici (Intouchables) Stato e Anno: Francia, 2011 Regia: Olivier Nakache e Éric Toledano Durata: 112 min. Genere: Commedia - Drammatico

Nel panorama del cinema odierno segnaliamo alcuni film “controcorrente”, che trasmettano almeno in parte messaggi valoriali positivi e che stimolino il senso critico rispetto ai disvalori imperanti. Questo non implica la promozione né l’approvazione globale delle opere recensite da parte di ProVita Onlus.

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Un sorriso. Alle volte per instaurare una relazione basta un sorriso; in certe situazioni per risolvere un malinteso o dissolvere una tensione durante una relazione, basta un sorriso; in determinati momenti, per salutarsi sapendo che potrebbe non esserci un domani, ci vuole un sorriso. Succede così nel film Quasi amici. È il sorriso di Driss (Omar Sy) ad aprire il cuore di Philippe (François Cluzet). Sì, perché Philippe è tetraplegico, ricco, severo ed esigente, ma ha bisogno di un uomo che gli “presti” le gambe e le braccia, dal momento che lui può muovere solo la testa; Driss, a sua volta, è un ladro che vive in un quartiere periferico di Parigi e che cerca di svoltare le giornate con il sussidio per la disoccupazione e qualche furto. Le vite dei due sono ovviamente molto più intense e sofferte di quanto si possa pensare in un primo momento, e quando s’incontrano entrambi pensano di non avere bisogno l’uno dell’altro. Ma la vita, alla faccia dei fautori dell’autodeterminazione, spesso propone delle situazioni nuove che hanno la capacità di stravolgere il tuo modo di pensare o le tue abitudini. È così che Philippe e Driss, persone diametralmente

opposte, si ritrovano a convivere e a diventare amici (… o quasi). Il sorriso di Driss gioca, in questo, un ruolo fondamentale: scioglie e modella il caratteraccio di Philippe, e i due finiscono per aiutarsi vicendevolmente, poiché Philippe si sblocca nelle relazioni interpersonali e in alcuni rapporti importanti della sua vita e Driss ammorbidisce e pulisce alcune sue “scivolate” comportamentali e movenze grezze. “Pragmatico”. Questo è il termine che i due (quasi) amici utilizzano in diverse situazioni e che ci aiuta a compiere insieme a loro il percorso dialettico con il quale impareranno a conoscersi e a entrare sempre più in relazione l’uno con l’altro. Quasi amici è ben realizzato. Le riprese e il montaggio sono al servizio di questo racconto ispirato a una storia vera; infatti le ultime immagini del film inquadrano i veri protagonisti della vicenda, raccontata in maniera efficace e delicata dai registi Olivier Nakache e Éric Toledano.


Letture Pro-life Francesco Agnoli

GLI SCIENZIATI DI FRONTE AL MISTERO DEL COSMO E DELL’UOMO - PICCOLI DIALOGHI SU GRANDI TEMI Dominus Production

Un libro sul mistero dell’Infinito secondo alcuni tra i più autorevoli astronomi, filosofi, matematici, fisici, medici, genetisti, ingegneri contemporanei. Li ha intervistati Francesco Agnoli e sono: Piero Benvenuti (astrofisico), Federico Faggin (informatico), Paolo Musso (filosofo della scienza), Mauro Stenico (filosofo della scienza), Giovanni Straffelini (ingegnere), Alfio Quarteroni (matematico), Enrico Bombieri (matematico), Francesco Malaspina (matematico), Gian Battista Vai (geologo), Dino Aquilano (cristallografo), Massimo Gandolfini (psichiatra), Luca Surian (neuroscienziato), Carlo Bellieni (neonatologo), Matteo Bertelli (genetista), Giuseppe Baldacchini (fisico) e Giulio Fanti (ingegnere). Il libro è ordinabile sul sito www.dominusproduction.com.

Silvana De Mari

ARDUIN IL RINNEGATO

Edizioni Ares

Arduin, anzi Arduink, è un orco che combatte per gli uomini. Nel narrare la sua storia si trattano temi cruciali, come la tragedia dei bambini soldato, dei bambini terroristi suicidi, della violenza sulle donne e sui bambini. Ma c’è anche un amore totale. Perché Arduin fa il sacrificio supremo: non solo è disposto a sacrificare la sua vita, ma anche la sua eternità, affinché non possa più succedere che i bambini siano torturati e uccisi e affinché la giovanissima principessa che ama possa vivere. Nel libro si tocca anche il tema dell’aborto eugenetico: quando la più piccola delle figlie di Arduin viene al mondo, storpia e con un braccio malformato, egli pensa che la sua sia una vita inutile, che sarebbe giusto sopprimere, come si farebbe tra gli orchi. Invece imparerà ad amare la sua bambina e scoprirà quanto la sua vita sia preziosa.

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