ProVita Febbraio 2018

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Trento CDM Restituzione

Anno VII | Febbraio 2018 Rivista Mensile N. 60

MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

Notizie

“Nel nome di chi non può parlare”

POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1, COMMA 1 NE/TN

Organo informativo ufficiale dell’associazione ProVita Onlus - Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale -

PER LA VITA: CHE NON SIA SOLO UNA GIORNATA! L’uomo, la bestia e il pudore

«A nessuno importava che io piangessi»

EMILIANO FUMANERI, p. 6

Elga Di Raimondo, p. 19

Quello che conta Teresa Moro, p. 30


MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES Notizie

Anno VII | Febbraio 2018 Rivista Mensile N. 60 Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182 Redazione Toni Brandi, Federico Catani, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel G r aMunicipio, f i c a i l l u s3t r- a39040 t r i c e Salorno (BZ) Piazza www.notizieprovita.it/contatti Cell. 329-0349089 Direttore responsabile FRANCESCA GOTTARDI Antonio g r a f iBrandi ca illustratrice Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi Progetto e impaginazione grafica

Tipografia

EDITORIALE 3 LO SAPEVI CHE...

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ARTICOLI L’uomo, la bestia e il pudore

6

Emiliano Fumaneri

Solo corpi, non esseri umani

Virginia Lalli

Perché non sono nato cagnolino?

Don Giuseppe Magrin

Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Marco Bertogna, Elga Di Raimondo, Emiliano Fumaneri, Giuliano Guzzo, Una mamma, Virginia Lalli, Don Giuseppe Magrin, Teresa Moro, Francesca Romana Poleggi, Lorenzo Ponziani, Luca Scalise, Aldo Rocco Vitale

La verità, l’aborto e le donne

Francesca Romana Poleggi

35,00 50,00 100,00 250,00 500,00

Sostenitore ordinario Promotore Benefattore Patrocinatore Protettore della Vita

Per contributi e donazioni a ProVita Onlus: • Bonifico banacario presso la Cassa Rurale Alta Vallagarina (indicando:Nome, Cognome, Indirizzo e CAP), IBAN T89X0830535820000000058640 • oppure c/c postale n. 1018409464

15

«A nessuno importava che io piangessi» 19

Elga Di Raimondo

La lettera di una mamma

21

Gianna Jessen in Italia

24

Famiglie numerose, politicamente scorrette 26

Giuliano Guzzo

Quello che conta Teresa Moro

28

Il malato: qualcosa, o qualcuno?

Luca Scalise

32

Dover pagare per non aver ucciso

35

Lorenzo Ponziani

Scienza al di là del bene e del male

Aldo Rocco Vitale

38

FILM: Fireproof 42 Marco Bertogna

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PRIMO PIANO

Distribuzione

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38 L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto. La rivista Notizie ProVita non ti arriva con regolarità? Contatta la nostra Redazione per segnalare quali numeri non ti sono stati recapitati e invia un reclamo online a www.posteitaliane.it Grazie per la collaborazione! Le immagini presenti in questo numero sono state scaricate legalmente da www.pixabay.it

Toni Brandi

EDITORIALE

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M

ai come quest’anno la celebrazione della Giornata per la Vita stride con la realtà in cui siamo immersi: la legge 194 del 1978 compie quarant’anni. In questi quarant’anni è stato ucciso – almeno – un bambino ogni cinque minuti. Hanno ragione i santi e i filosofi che hanno individuato nell’aborto legale la radice di tutti i mali moderni: laddove si consente a una madre di uccidere il bambino che porta in grembo, si può consentire ogni altra aberrazione perché qualsiasi prevaricazione dell’uomo sull’uomo non sarà mai così crudele e vile come la soppressione dell’essere più innocente e debole, incapace di difendersi. Tuttavia alla cultura della morte che in questi quarant’anni si è andata diffondendo non è bastato uccidere l’innocente: si è adoperata con successo a cancellarne radicalmente l’entità. Come scriveva tempo fa il professor Benedetto Rocchi, «oggi la gran parte degli europei, anche quelli che si dichiarano cattolici, spesso praticanti, talvolta anche sacerdoti, non riescono più a provare il giusto orrore che l’aborto dovrebbe suscitare. Ai loro occhi il bambino che viene ucciso con l’aborto non esiste più. All’aborto si attribuisce tutt’al più una vaga negatività, come se fosse una sconfitta della donna che lo decide, senza tuttavia che il suo diritto “all’autodeterminazione” venga minimamente messo in discussione. L’aborto non è più una questione di vita e di morte». Eppure gli stessi che vedono l’aborto solo come un diritto – o al massimo un problema – della donna, le negano la verità sull’aborto: non parlano mai dei suoi perniciosi effetti collaterali sulla sua salute fisica e psichica. Per colmare questa grave lacuna abbiamo prodotto il libretto allegato a questa Rivista: informare le madri è il primo passo verso una degna celebrazione della Giornata per la Vita. Infatti, più il male è grande e più propaga i suoi effetti di dolore e di morte. La gente per bene è con noi, gli italiani sono per la vita. Con la forza che ci dà questa certezza e con il vostro sostegno continueremo a promuovere la cultura della vita fino a quando l’iniqua legge 194 non verrà abrogata.


LO SAPEVI CHE...

4 N. 60

ABORTO FARMACOLOGICO FAI-DA-TE

La Francia ha annunciato l’intenzione di ritirare dal mercato – entro il marzo 2018 – il Misoprostol, commercializzato dalla Pfizer con il nome di Cytotec, destinato al trattamento delle ulcere gastriche, per via dei suoi gravi effetti collaterali (emorragie, infezioni). Un farmaco che causa anche le contrazioni uterine: contiene infatti lo stesso principio attivo della RU486. È noto che l’aborto farmacologico è molto più pericoloso dell’aborto chirurgico: le donne morte per RU486 (cioè Misoprostol, cioè Cytotec) sono dieci volte di più di quelle morte per aborto chirurgico. Eppure l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’aveva inserito nell’elenco dei farmaci essenziali (in quanto abortivo) fin dal 2005. Chissà se l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) prenderà in considerazione la cosa... vedremo se e quanto ha a cuore la salute delle donne e ci domandiamo: se il Misoprostol è pericoloso, perché la “santa” Emma Bonino, con tutti i suoi devoti, vuole la liberalizzazione della RU486?

UOMINI E DONNE: NATURALMENTE, PROFONDAMENTE DIVERSI

Le diversità tra uomini e donne non dipendono solo dal cromosoma Y. Tutti sanno che gli uomini hanno, in ogni cellula del corpo, cromosomi sessuali X e Y e che le donne hanno due cromosomi X. Uno dei 27 geni presenti nel cromosoma Y si chiama SRY: è presente nell’individuo fin dal concepimento e dà il via alla crescita dei testicoli già dodici settimane dopo la fecondazione. Fino a poco tempo fa si credeva che solo la presenza o l’assenza di questo gene SRY distinguesse gli uomini dalle donne. Tuttavia, una recente ricerca dei genetisti Gershoni e Pietrokovsk ha dimostrato che, al di là dei geni X e Y, ben un terzo (più di 6.500) degli elementi del nostro genoma si comportano in modo molto diverso negli uomini e nelle donne e che la maggior parte di questi geni non appartengono ai cromosomi sessuali Y o X. Queste scoperte potrebbero far fare un passo avanti alla “medicina di


genere” e far capire perché gli uomini e le donne siano spesso diversamente suscettibili alle malattie – ad esempio, un’altra recentissima ricerca ha appurato che è effettivamente vero che gli uomini influenzati soffrono di più delle donne – e rispondono diversamente alle cure. Per il parlamento dell’UE la Polonia è rea di troppa democrazia: il popolo polacco elegge i suoi rappresentanti che propongono leggi pro vita e raccoglie 830.000 firme per vietare l’aborto eugenetico a sostegno della analoga iniziativa legislativa del Governo (cosa che qui da noi sembra fantapolitica…) e gli arrivano le reprimende dell’UE. Infatti, vietando l’aborto eugenetico, la Polonia violerebbe i principi fondamentali dell’UE in materia di «diritti umani e valori democratici», tra i quali evidentemente rientra la selezione della razza. I meccanismi costituzionali polacchi poi, secondo l’UE, non garantiscono alla magistratura sufficiente indipendenza dagli altri poteri dello Stato; inoltre, il parlamento UE chiede alla Polonia di abrogare una recente legge promulgata dal presidente polacco Andrzej Duda che vieta la vendita senza ricetta medica della pillola del giorno dopo. La sanzione paventata è la sospensione a tempo indeterminato dei diritti di voto della Polonia nel Consiglio Europeo. Per essa, però, ci vorrebbe il consenso unanime di tutti gli altri membri del Consiglio il che non è affatto scontato, visto che l’Ungheria e la Croazia tendono a resistere a questo tipo di ingerenze dell’UE.

L’UE, LA POLONIA E LA DEMOCRAZIA

La violenza sulle donne da parte delle compagne lesbiche è una realtà grave, ma che forse sta venendo alla luce. A Bologna infatti, ci informa La Repubblica, è stata attivata una linea telefonica per le donne che subiscono violenza da altre donne (detta “linea lesbica”). «Il movimento Lgbt – recita un comunicato stampa di ArciLesbica Bologna – ha taciuto riguardo alla violenza e al conflitto all’interno delle relazioni same sex temendo che, in una realtà priva di riconoscimento, il far emergere gli aspetti negativi potesse allontanarci invece che farci avvicinare all’ottenimento dei diritti».

DONNE CHE FANNO VIOLENZA SULLE DONNE

La storia di Mya DeRyan non è solo la storia di una seconda possibilità di vita, ma è un avvertimento per i fautori della legalizzazione dell’eutanasia, anche sotto forma di biotestamento vincolante per i medici. Mya DeRyan pensava di avere una malattia terminale e ha deciso di suicidarsi. Si è gettata nelle acque gelate del mare dal traghetto che la portava a Vancouver, ma l’hanno vista e l’hanno ripescata. Dopo una settimana d’ospedale per ipotermia, i dottori le hanno detto che non era affatto malata terminale. La donna è rinata a nuova vita, si considera benedetta dalla fortuna (o dal Cielo, a seconda dei punti di vista) ed è tornata a casa dal figlio. Se avesse chiesto l’eutanasia, se avesse inserito la richiesta di morire in un biotestamento, ora sarebbe morta...

A TUTTO C’È RIMEDIO, FUORCHÉ ALLA MORTE

5 N. 60


L’uomo, di Emiliano Fumaneri

la bestia e il pudore Il pudore è necessario all’uomo, alla donna e al vivere civile

IL PUDORE È IL NATURALE SENTIMENTO DI RISERVATEZZA CHE SORGE IN NOI NEL MOMENTO IN CUI VIENE SVELATA AL PUBBLICO LA NOSTRA INTIMITÀ 6 N. 60

C’è qualcosa che appare paurosamente latitante negli innumerevoli progetti di educazione all’affettività. È il sempre più bistrattato senso del pudore, quel naturale sentimento di riservatezza che sorge in noi nel momento in cui viene svelata al pubblico la nostra intimità. Tutto in queste “lezioni” viene ridotto a tecnica di gestione della genitalità. E il pudore, anche qualora venisse menzionato, sarebbe banalizzato o assimilato a un’inservibile anticaglia. Non è un caso che il pudore scompaia nella misura in cui le relazioni intime sono ridotte ad amministrazione genitale. Vediamo perché. Il pudore è una componente indispensabile nell’amore tra i sessi. Lo testimonia un insospettabile come David Herbert Lawrence, l’autore de L’amante di Lady Chatterley e quindi decisamente poco sospettabile di pruderie. Proprio nel poscritto di quel romanzo scandaloso (soggetto a una lunghissima censura in Gran Bretagna) Lawrence sostiene,

in controtendenza, che solo le donne con scarsa vitalità sessuale hanno bisogno di scoprirsi per attirare gli uomini. Ma non è finita qui. Lo scrittore inglese elogia apertamente gli inviti al pudore della Chiesa che, così facendo, promuove una sana concezione del sesso. Per Lawrence anche la difesa cattolica del matrimonio merita un encomio, giacché impedisce alle famiglie di diventare una semplice appendice dello Stato (un giudizio, questo, condiviso anche da G.K. Chesterton). Anche per il maschio pudore, matrimonio e famiglia sono fattori protettivi. Senza di essi l’uomo regredisce nel pulsionale. Agitato da istinti viscerali, incapace di controllare le pulsioni immediate, diventa un essere violento e brutale. Il pudore è qualcosa di più della caricatura moralistica che sovente ci viene presentata. Differenzia l’uomo dall’animale. Una società


spudorata ritorna a essere un branco disorganico, animalesco. Gli Antichi ne erano consapevoli. Nel dialogo di Protagora, Platone racconta il famoso mito di Prometeo, incaricato dagli dei, assieme al fratello Epimeteo, di distribuire saggiamente delle “buone qualità” tra gli esseri viventi, fornendo loro i mezzi per sopravvivere. Sennonché Epimeteo (l’improvvido, colui che ha il “senno di poi”) chiede al fratello di poter ripartire da solo i doni divini, con il risultato che l’imprevidente Epimeteo esaurisce tutte le facoltà per gli animali, lasciandone sprovvisti gli uomini. Allora Prometeo, per salvare la specie umana, ruba ad Atena e a Efesto la sapienza tecnica e il fuoco, donandoli agli uomini. Zeus, infuriato, punirà severamente il furto del Titano. Questa la parte più nota del mito. Meno conosciuto è il seguito. Platone ci avverte che la sola potenza tecnica non basta a tenere assieme una società di uomini. Gli uomini grazie all’industria delle arti si procurano case, vestiti, cibo, sviluppano il linguaggio, la religione. Ma con la sola tecnica sono incapaci

di costruire la città, la polis. Pertanto vivono isolati, finendo per essere divorati dalle bestie feroci. Zeus allora, temendo per l’estinzione del genere umano, incarica Ermes di portare agli uomini il pudore (aidos) e la giustizia (dike) «affinché fossero ornamenti e vincoli, d’amicizia conciliatori». Pudore e giustizia, ammonisce Zeus, non vanno distribuiti come le arti. Non vanno concessi soltanto ad alcuni (cosicché taluni possiedono l’arte della medicina e altri no). No, pudore e giustizia sono virtù pubbliche. Tutti perciò devono esserne muniti. Il mito platonico contiene un insegnamento profondo: solo con il pudore il soggetto si “decentra” e arriva a tessere la trama della società. L’uomo pudico, l’uomo capace di con-tenersi mettendo lo slancio al servizio di un progetto, è l’opposto dell’uomo-bestia. Questi non è altro che un egocentrico, un piccolo dittatore del desiderio che aspira soltanto a saziare le proprie brame immediate. Acquisendo il pudore, l’uomo si apre all’altro, diventa un essere capace di relazione. Solo astraendosi dalla

propria situazione particolare (cioè dal proprio “io”) è in grado di praticare la giustizia. Finché gli uomini sono assorbiti dall’immediatezza miope non possono sentire la necessità della giustizia, la quale è la condizione stessa della vita in società. C’è perciò un legame profondo tra pudore e giustizia. Una società spudorata s’incammina sulla via della dissociazione anarchica. O sulla strada di una tirannia esercitata da un potere immenso e tutelare su una massa sconnessa di individui. È quanto accade in Noi, il romanzo distopico del russo Evgenij Zamjatin. Scritto tra il 1919 e il 1921, il racconto descrive una società 7 N. 60


Pudore, matrimonio e famiglia sono fattori protettivi per gli esseri umani

ridotta a una spaventosa prigione meccanizzata, dove un mostruoso Stato unico amministra “scientificamente” la vita dei propri cittadini, identificati come numeri. Attenzione: il sesso per lo Stato unico di Noi è considerato solo un bisogno fisico come un altro, perfettamente risolvibile dalla tecnica. Il sesso, si legge, «che per gli antichi era fonte di innumerevoli stupidissime tragedie, da noi è stato ricondotto a una armonica, piacevole e utile funzione dell’organismo allo stesso modo del sonno, del lavoro fisico, dell’alimentazione, della defecazione e simili». Anche la vita sessuale è stata organizzata matematicamente; vige infatti una lex sexualis, che recita così: «Ognuno dei numeri ha diritto, come prodotto sessuale, a un altro numero a fini sessuali. Il resto è soltanto una questione di tecnica». Ogni cittadino-numero deve recarsi per una visita nei laboratori dell’Ufficio Sessuale, dove viene determinato il contenuto degli «ormoni del sesso» nel sangue e stabilita per lui una tabella dei «giorni sessuali». Inutile dire che per avere i propri «giorni sessuali» è necessario presentare una richiesta all’ufficio competente, dal quale si riceve un

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corrispondente libretto rosa provvisto di talloncini. Nel mondo di Noi il pudore, neanche a dirlo, è stato semplicemente abolito: le abitazioni (e qualsiasi altro oggetto) sono state costruite esclusivamente in vetro e in materiali trasparenti, così che ogni individuo sia visibile (e controllabile) in qualsiasi momento della giornata. Quello che appare come il brutto sogno di uno scrittore si sta pericolosamente realizzando nella nostra società, brulicante di corpi in vetrina, esposti alla luce del sole, dove il messaggio rilanciato dai mass media è inequivocabile: il sesso, ci viene ossessivamente ripetuto, è una pura attività di intrattenimento. Si sta realizzando con la numerazione “parentale” (Genitore 1 – Genitore 2), con i corsi di “educazione sessuale” che equiparano l’esercizio della sessualità a un bisogno fisiologico, nella cornice di un semplice problema “tecnico”. In verità mancano ancora le tabelle sessuali e il libretto con i talloncini, ma possiamo stare certi che alcuni zelanti funzionari pubblici stanno già lavorando per Noi…


A DIFFONDERE LA CULTURA DELLA VITA! Per abortire fino a sei mesi (e oltre) bisogna trovare una “buona scusa” (per esempio? Il piede torto, o il labbro leporino, o la Trisomia 21!...). Ma fino a dodici settimane la legge italiana consente l’uccisione dei bambini a richiesta, senza troppe spiegazioni. La spilletta colore oro che vedete è la riproduzione esatta della grandezza dei

piedini di un bambino alla dodicesima settimana di gestazione: per alcuni è ancora un «grumo di cellule» o il «prodotto del concepimento». Il bambino in plastica è invece la riproduzione di com’è un bimbo nella pancia a 10 settimane. Il portachiavi, infine, è un utile accessorio per ricordare i cinque anni della nostra Notizie ProVita.

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Solo corpi,

di Virginia Lalli

NON ESSERI UMANI

Stupro a pagamento è un libro di Rachel Moran, ex prostituta irlandese che si batte per le donne e contro la legalizzazione del meretricio Il libro-testimonianza della giornalista Rachel Moran, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione (Round Robin Editrice, Roma 2017), sfata molti miti comuni sulla prostituzione e fornisce l’occasione per un confronto tra la legislazione italiana in materia e quella di altri Paesi.

Henri de Toulouse Lautrec, Au salon de la rue Moulins, 1894

L’Autrice nel libro si definisce una sopravvissuta alla prostituzione, essendo stata – giovanissima – per sette anni nel giro. Ci tiene a sottolineare che è più esatto il termine “prostituite”: una donna infatti può essere una prostituta soltanto quando è stata prostituita da qualcun altro, fatto che non si può ignorare. L’ingresso di Rachel nella prostituzione è stato determinato dalla situazione di disagio familiare, dallo svantaggio educativo e dall’emarginazione. Inizia per lei, senza esserne consapevole, una grave forma di dipendenza verso una forma di vita

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sregolata, nella quale assume un atteggiamento autodistruttivo dovuto alla mancanza di autostima e alla depressione. Ricordando le tante prostitute che sono state uccise e che si sono suicidate spiega che l’industria del sesso funziona come un mondo alla rovescia, dove dominano il paradosso e la mistificazione. «La prostituzione costringe all’invisibilità, ti fa credere che tu ti sia cercata o meritata la violenza subita perché alla fine è stata la tua scelta». Il trucco: incolpare la vittima, per far sparire il carnefice. Cancellare l’abuso facendolo diventare “scelta”. Gli abusi ripetuti li chiamano “servizi sessuali”, lo sfruttamento sessuale sistematico e violento è “lavoro sessuale”, l’abuso subito nell’industria del sesso è “un diritto umano da tutelare”, i bordelli “luoghi di lavoro sicuri”. Anche per la prostituta d’alto bordo l’umiliazione


è comune: il suo corpo viene usato quotidianamente al chiuso molto più di quello delle prostituite in strada. Il sesso che viene comprato dalle prostituite è lo stesso tipo di sesso che viene rubato nello stupro: esistono solo corpi, non esseri umani, e sono sempre gli uomini ad esercitare il controllo. La donna quindi vive tutti i sentimenti negativi che derivano dalla violenza sessuale, ma li accetta e si costringe al silenzio. La vergogna e la colpa le impediscono di rivendicare i suoi stessi sentimenti. Ecco perché le strategie di sopravvivenza delle prostitute sono la rabbia, l’auto-inganno, l’abuso di sostanze stupefacenti, il rifiuto della verità: per anestetizzare il proprio sé. Scrive la Moran che le prostitute soffrono regolarmente di depressione ma che, quando si rivolgono a un medico, questi pensa di dover mantenere efficiente il loro corpo (libero da infezioni, etc.) e non al fatto che le donne possano avere bisogno di sostegno psichiatrico.

facendo rafforzavano, senza volerlo, la mia posizione all’interno della prostituzione; ma non ho ricevuto alcuna assistenza che mi permettesse di uscire dalla prostituzione». Il libro vuole denunciare la commercializzazione della violenza sessuale implicita nel sesso a pagamento che non viene mai riconosciuta. La Moran afferma: «Non mi sono mai e poi mai imbattuta in una donna per la quale vendere il proprio corpo fosse motivo di felicità. La prostituzione è violenza sessuale, violenza sessuale retribuita». All’età di ventidue anni l’Autrice si libera di quella vita grazie alla sua forza interiore e al ricordo di quel poster appeso dalla madre

«LA PROSTITUZIONE COSTRINGE ALL’INVISIBILITÀ, TI FA CREDERE CHE TU TI SIA CERCATA O MERITATA LA VIOLENZA SUBITA PERCHÉ ALLA FINE È STATA LA TUA SCELTA»

alla parete della cucina, che raffigurava uno scalatore su una montagna con ghiaccio pericolosamente scoscesa. La didascalia era: «Dove c’è volontà, c’è possibilità». Rachel Moran si laurea, diventa giornalista, vince il premio Hybris. Attualmente tiene conferenze a livello internazionale sulla prostituzione e la tratta. È una delle fondatrici di SPACE International, acronimo

«Mi è stato offerto un sacco di aiuto mentre ero nella prostituzione – scrive la Moran –, se per aiuto intendiamo regalare preservativi e offrire test per le malattie sessuali. Così 11 N. 60


per “Sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica”.

Rachel Moran

L’idea che la depenalizzazione e la regolamentazione servano a proteggere le donne è un altro dei miti da sfatare. Secondo la Moran: «Regolamentare la prostituzione significa legittimare l’umiliazione di essere prostituita e assolvere coloro che la infliggono».

In Australia, da quando è stata regolamentata la prostituzione, la tratta di donne a scopo sessuale è esplosa (M.L.Sullivan, S. Jeffreys, Legalisation: The Australian Experience, Violence Against Women, 8,9, pp. 1140-1148, 2002). Ha inoltre provocato una crescita vertiginosa del numero dei bordelli, che sono diventati la culla del crimine organizzato, della corruzione e di ogni forma di costrizione. Anche le ricerche internazionali di Kathleen Barry, Female Sexual Slavery LA PROSTITUTA VIVE (1979) e The Prostitution L’ESPERIENZA QUOTIDIANA of Sexuality (1995), DELLA VIOLENZA dimostrano la stessa cosa. SESSUALE, MA L’ACCETTA E SI COSTRINGE AL La Svezia ha SILENZIO. LA VERGOGNA E introdotto nel 1999 LA COLPA LE IMPEDISCONO DI RIVENDICARE I SUOI una legislazione STESSI SENTIMENTI all’avanguardia che proibisce l’acquisto di 12 N. 60

servizi sessuali e, al contempo, ha messo in atto tutte quelle misure necessarie per assistere le donne (istruzione, tirocini per inserirsi nel mondo del lavoro): la prostituzione in strada si è dimezzata. La Norvegia l’ha imitata dopo poco tempo. Poi l’Islanda. Attualmente il modello nordico è in discussione in Israele, Gran Bretagna, Finlandia e Francia. Viceversa, in Germania, dove hanno regolamentato la prostituzione, è accaduto che alcune donne disoccupate abbiano rischiato di perdere l’assegno di disoccupazione perché si rifiutavano di “lavorare” nei bordelli. C’è voluta una sentenza della Corte federale tedesca per chiarire la questione. Per la legge, infatti, la prostituzione è un “lavoro” come un altro! In Italia è stata presentata una proposta di legge il 13 luglio 2016, con prima firmataria l’On. Bini, concernente l’introduzione di sanzioni per chi si avvale delle prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione. S’intende così combattere la tratta e lo sfruttamento. Si stima che qui da noi siano tra le 75.000 e 120.000 le donne che


Il libro della giornalista Julie Bindel, Lo sfruttamento della prostituzione: abolire il mito delle lavoratrici del sesso è un’indagine condotta in più di 500 bordelli in diversi Paesi del mondo; giunge alle stesse conclusioni della Moran: legalizzare e regolamentare la prostituzione è un danno enorme per la sicurezza, la salute e la dignità delle donne

si prostituiscono. Il 65% è in strada, il 37% è minorenne, tra i 13 e i 17 anni. «Colpire la domanda», afferma la Bini, «significa ridurre anche l’offerta di un mercato abietto, in cui le vittime sono soggetti deboli e vulnerabili». L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII ha anche aperto una petizione a sostegno di questa proposta, che s’intitola “Questo è il mio corpo”. La criminalizzazione del cliente lo costringe ad accettare la realtà del suo ruolo di abusante, una realtà che gli uomini che usano le prostitute rifiutano, negano e in misura massiccia ignorano. Un’altra delle bugie create per normalizzare la prostituzione è l’idea che la presenza della prostituzione diriga l’aggressività maschile lontana dalla popolazione femminile non prostituita. Susan McKay, l’ex direttrice del National Women’s Council of Ireland ha demolito questo mito quando

ha detto: «Studi dimostrano che gli uomini che usano regolarmente le prostitute sono più inclini a diventare violenti con le donne con le quali sono in relazione. Gli uomini che usano le prostitute sono uomini che non rispettano le donne». Quello che serve alle prostitute è sapere che non sono sole, che ci sono persone che le compatiscono, che vogliono restituire loro dignità, aiutandole a riscattarsi. «Una delle visioni più rincuoranti che mi sia capitata – dice la Moran – è stata quella di un gruppo di uomini seduti insieme in prima fila, durante una campagna di criminalizzazione della domanda della prostituzione in Irlanda. Erano uomini: artisti, scrittori e dirigenti di unioni sindacali.

Facevano parte della coalizione Turn off the Red Light (Spegni la Luce Rossa), che chiedeva lo sradicamento della prostituzione in Irlanda». «Spero di vivere abbastanza da vedere – continua la Moran – che i programmi alternativi di fuoriuscita dalla prostituzione finanziati con fondi pubblici siano accessibili tanto quanto lo è ora la prostituzione, per le donne, perché soltanto in un mondo del genere le donne e le ragazze, così come l’adolescente che sono stata, potrebbero vivere la possibilità di fare alcune di quelle “scelte” di cui il mondo continua a parlarci». 13 N. 60


In Italia abbandonare un animale è reato, mentre uccidere un bambino è legale...

Perché non sono nato

cagnolino?

di Don Giuseppe Magrin Mamma, papà dal mondo dove vivo ancora vi domando perché m’avete spento a nove settimane dal mio concepimento… Non volevo morire ancora prima di nascere e vi scuotevo le manine in germe ed i piedini e urlavo il mio silenzio inutilmente né valse il ricordarvi il primo bacio che vi deste in fronte. Cattivi consiglieri v’hanno aiutato a condannarmi a morte ed il chirurgo mi raschiò via dal grembo come si raschia il fondo d’un paiolo. Ero forse una crosta in più rimasta al fondo dell’amore vostro? Povera mia testina frantumata e risucchiata come spazzatura con tecnica e premura, violenza rivestita di bianchi camici ed impunita. Mamma, papà perché m’avete fatto e poi distrutto? Ditemi il male che ho commesso, ditemi che ho fatto a voi ed alla società?

14 N. 60

Embrione appena ero già vita umana irreversibile benché invisibile ero persona come nonno e nonna, come la sorellina e il fratellino che ride e v’accarezza dal suo lettino. Non ero né ammalato né deforme né questo basta per rifiutarmi amore; e quando percepii che il mio destino era segnato non vi chiedevo che d’ospitarmi in grembo per nove mesi e d’essere adottato dove la vita è attesa come un sogno. Avrei veduto anch’io un pò d’azzurro le nuvole e gli uccelli in libertà i pulcini che seguono la chioccia dolce, sollecita ed i gattini che allattano alla mamma mentre pulisce i loro corpicini. Ora per voi non sono che l’ombra errante d’una coscienza infranta, ormai smarrita! Ma che vuol dire aborto terapeutico

disagio psicologico fecondazione omologa, eterologa od assistita ed embrione manipolato per guarire gli altri? Mamma, perché l’abbandonare un cane nell’estate per la legge è reato e per l’umanità una vergogna ed espellere un feto di tre mesi o un embrione appena concepito non è reato e per l’umanità non è vergogna? Legge sinistra che proteggi i cani e uccidi i feti e gli embrioni umani legge ammantata di scientificità che ci rifiuta d’essere persone, per te non siamo che un oggetto freddo di sperimentazione semplice materiale farmaceutico! Cuori omicidi siete e tali rimanete voi, genitori miei, che dall’eterno attendo e guarderò negli occhi con lacrime d’amore e compassione voi e chi propose e chi firmò la legge chi vi protegge gente perbene col sorriso in volto che preferisce ai bimbi i cagnolini.


La “Bocca della Verità”, in Vacanze Romane

La verità, di Francesca Romana Poleggi

L’ABORTO E LE DONNE È giusto tacere la verità sull’aborto per rispetto alle donne che hanno abortito?

LE DONNE CHE HANNO ABORTITO VANNO ACCOMPAGNATE, CURATE, AFFINCHÉ POSSANO RENDERSI CONTO, ELABORARE IL LUTTO E POSSANO PERDONARSI: LA VERITÀ FA MALE, MA POI FA GUARIRE Primo piano

Alcuni mesi fa un sacerdote di Bologna ha osato postare su Facebook la domanda se avesse più morti innocenti sulla coscienza Totò Riina (condannato per duecento omicidi) o la Bonino, che si arroga il merito di aver promosso e fatto passare la legge 194, nel ’78: da allora si uccidono “ufficialmente” e legalmente quasi 100.000 bambini all’anno (in realtà sappiamo bene che sono molti di più. Esistono ancora moltissimi aborti clandestini – il che è uno dei più evidenti fallimenti della 194 stessa, che doveva “eliminare la piaga” – e con le pillole e i sistemi contraccettivi abortivi, come la spirale, la Norlevo ed ellaOne il numero dei morticini diventa impressionante). Negli stessi

giorni, a Roma, un sedicente gruppo “Pro Life” ha affisso dei manifesti che ricordavano quei sei milioni di morticini. Apriti Cielo: si è scatenato un putiferio mediatico dai toni melodrammatici, tutto incentrato sull’offesa tremenda arrecata alle donne e ai loro diritti, etc. Il bello è che alle proteste a volte sguaiate dei radicali &Co si sono accompagnate anche critiche più pacate – ma ferme – da parte di alcuni che si definiscono pro-life. Mi è così tornata alla mente una conferenza sulla storia del Movimento femminista tenuta anni fa dalla illustre professoressa Lucetta Scaraffia. Ricordo con un certo sgomento, ma nettamente, che nel 15 N. 60


rispondere a una domanda disse queste testuali parole: «Non si può dire che l’aborto è un omicidio». E spiegava il perché: per rispetto delle donne che hanno abortito. Esprimeva un pensiero diffuso, già allora, anche in ambienti pro-life.

COM’È POSSIBILE DIRE LA VERITÀ SULL’ABORTO SE NON SI DICE CHE L’ABORTO UCCIDE UN BAMBINO? 16 N. 60

Come i nostri Lettori sanno bene (e se non lo sanno possono leggere il libretto allegato a questa rivista), però, l’aborto fa male anche alla madre, sia dal punto di vista fisico, sia – e soprattutto – dal punto di vista psicologico. Gli effetti collaterali dell’aborto sono costantemente taciuti alle donne che vanno al consultorio o in ospedale per “risolvere il problema” della gravidanza indesiderata. Per questo ProVita Onlus ha lanciato una petizione in tal senso, che ha raccolto decine di migliaia di firme. Ma – secondo il pensiero unico dominante – la verità dell’aborto è scomoda e fa male, quindi va taciuta. Quanto alle donne che hanno abortito, esse vanno accompagnate e curate, affinché possano rendersi conto di ciò che hanno subìto e di ciò che hanno fatto. Solamente così possono elaborare il lutto

e perdonarsi: a partire dalla verità di ciò che è stato (il tutto ovviamente è molto più facile nell’ambito di un cammino di fede). Anche in questo caso è bene tenere distinto il peccato dal peccatore. Le donne che abortiscono sono molto spesso costrette dalle circostanze, confuse, vittime di cattivi maestri che le hanno indotte a compiere un gesto atroce, un grande male, il quale però, in qualche modo si può sconfiggere attraverso il bene. Dice in proposto l’Evangelium Vitae, al n. 99: «Un pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete fatto ricorso all’aborto. La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s’è trattato d’una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s’è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l’avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: Primo piano


il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con l’accoglienza e l’attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell’uomo». L’aborto, però, per quanto possano esserci delle attenuanti a favore di chi lo ha compiuto, resta un fatto orrendo, senza «se» e senza «ma». Un santo sacerdote, tempo fa, ci scrisse che «Non c’è bisogno di dire esplicitamente a una donna che sarà un’assassina se abortirà. Ci sono tanti modi per farla sentire giudicata, tante sfumature di tono della voce, tante espressioni del volto per tenere il nostro cuore a distanza dal suo cuore, farle credere che noi stiamo amando suo figlio più di lei, farle percepire che stiamo tentando di salvare il bambino da lei...». Quindi ci ha suggerito «di utilizzare questo criterio. Se io sto facendo un discorso, oppure scrivo un articolo, o espongo una Primo piano

predica, o pubblico una locandina, m’immagino che sia presente una donna che ha abortito e mi chiedo: “Come si sentirà questa donna, di fronte al mio messaggio?”. Se la risposta è: “Si sentirà in qualche modo giudicata”, allora ho bisogno di un aiuto per correggere il mio messaggio altrimenti perdo tempo e faccio più danno che bene». Dunque dire che l’aborto uccide un bambino, dire che la mamma che abortisce uccide il suo bambino, non è corretto? Il problema è serio: com’è possibile dire la verità sull’aborto, se non si dice che l’aborto uccide un bambino? Quali parole possiamo usare? La verità dell’aborto è atroce. E la verità spesso fa male, si sa. Le parole che la descrivono non si

possono edulcorare, a meno che non ci adeguiamo alla neolingua orwelliana, per cui parliamo di «prodotto del concepimento» o di «materiale abortivo» anziché di «bambino». L’iniqua legge 194 insegna: in tutto il testo non c’è mai la parola «figlio»; la parola «madre» c’è solo una volta, non c’è mai la parola «bambino», e perfino la parola «aborto» – che comunque ha una connotazione negativa – compare solo una volta. “L’IVG” resta, però, nella sostanza l’uccisione di un innocente, perfino nell’ipotesi un cui lo «stato di necessità», ex art.54 c.p., esima del tutto la madre dalla responsabilità (sia legale, sia morale).

I manifesti abusivi affissi da un sedicente gruppo “Pro Life” e che secondo alcuni avrebbero «offeso le donne»

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capito cosa è l’aborto. Ora chiedo a Gesù “Fa’ di me un tuo strumento, fa’ che io possa aiutare le donne a non abortire”».

Le immagini crudeli dell’aborto non si devono mostrare? Noi le mettiamo in una sezione a parte del nostro sito web www.notizieprovita.it, con un avviso ben chiaro che spiega che non sono immagini per tutti. E io, personalmente, fino a poco tempo fa ero assolutamente contraria a mostrarle, soprattutto per rispetto di quei poveri piccoli morti. Poi mi hanno fatto cambiare idea proprio alcune donne che avevano abortito. Ci ha scritto una mamma che, dopo 23 anni, ha ancora una ferita profonda che sanguina: «In base a quello che ho sentito e che sento dentro al cuore e allo stomaco, bisogna dirla la verità sull’aborto, anche in modo crudo e anche con le immagini. Ditela, e ancora ditela, perché io credevo di andare incontro alla risoluzione di un “problema”, non avevo 18 N. 60

Anche lei, come altre donne che ho conosciuto personalmente, dice che bisogna mostrare a tutti l’orrore dell’aborto, perché le madri non sanno e ci cascano, e quando si rendono conto è troppo tardi, sono già sul lettino dell’ospedale circondate dagli strumenti di morte... Ripetiamo: le donne sono vittime dell’aborto tanto quanto i figli. I piccoletti muoiono, ma le mamme vivono per sempre con una ferita nel cuore che difficilmente si rimargina. E quando si rimargina lascia comunque una brutta cicatrice. È proprio il caso di dire che è meglio prevenire, perché poi è difficile curare. Ed è proprio la verità che fa male, quella che poi fa guarire. Non si salva il bambino “dalla” madre, ma si salva il bambino “con” la madre: chi salva un bambino salva anche la madre. Primo piano


Riceviamo e pubblichiamo una storia dolorosa, ma vera. E speriamo, con l’Autrice, che serva a salvare la vita di qualche bambino e di qualche mamma

«A nessuno importava che io piangessi» di Elga Di Raimondo

Sono davvero felice che la mia testimonianza sia pubblicata: le sofferenze bisogna condividerle, se possono essere d’aiuto. Dio è con me, non ho paura. Ringrazio ProVita per quello che fa: inneggiando alla vita ridà la vita a me. Scrivo da un piccolo paesino dell’Abruzzo. Dopo ventitré anni trovo il coraggio di scrivere la mia storia, una testimonianza dolorosa che spero aiuti a far capire alle donne quale sia la scelta giusta qualora si dovessero trovare di fronte a un bivio: la scelta di far nascere il proprio bambino o di abortire. Se potessi tornare indietro, sceglierei la vita, perché il 6 luglio 1994 è morta la mia Miriana nel mio grembo, e anche io con lei. La mia è stata una lenta morte interiore che mi ha portata sull’orlo del suicidio. Pezzo per pezzo il mio corpo moriva giorno dopo giorno, fino a quando ho chiesto aiuto a Dio e Lui ha risposto. Ero fidanzata da tre anni con il mio attuale marito. Vivevo una vita semplice, ma spensierata. A seguito di un mio ritardo decisi di fare il test di gravidanza e risultò positivo. Buio. Avevo ventuno anni e due genitori alcolisti: senza soldi e senza una via di luce, decidemmo di non portare a termine la gravidanza. In realtà, io penso di non aver mai deciso. Iniziammo le varie visite, soli con la paura che ci scoprissero: mio padre era molto violento… In tutte le visite ricordo che cercavo un dottore che mi dicesse: «Se hai bisogno di aiuto a ripensarci, rivolgiti a un centro che ti sostenga anche economicamente». Nessuno lo fece ed ero sempre più sola. Una mattina, con la scusa di dover fare una gara di atletica leggera (ero una brava atleta), preparai il borsone: al piano di sotto l’occorrente per Primo piano

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portare a termine il mio scellerato piano e al piano di sopra del borsone tuta e scarpe chiodate con le quali avevo fatto i campionati italiani una settimana prima, con la mia bimba in grembo. Arrivammo in ospedale, io e il mio fidanzato. Lui faceva finta di sorridere e io ero in balia del terrore. Ricordo che nella stanza alcune donne scherzavano e giocavano a carte; io piangevo, con la speranza che entrasse un angelo che mi portasse via. Mi misero l’ovulo. A nessuno importava che io piangessi. A causa di lancinanti dolori mi portarono di corsa nella sala dell’orrore. Nell’attesa che venisse il dottore io graffiavo la parete con le unghie. Ricordo che si spezzarono. Mi sembra ancora di rivederli quei solchi sulla pittura. E piangevo, piangevo. Il mio ultimo ricordo è quella ciotola di acciaio in fondo al lettino con le forbici: poi il buio. Al risveglio dissi «Grazie», ma ancora non so perché lo dissi. Non lo so, piccola mia, non lo so. Tutto ciò che si era impregnato di sangue lo buttai in autostrada in un cesto, insieme – pensavo – ai ricordi. Al ritorno a casa nascosi i medicinali dentro le pagine ritagliate di un libro, come nel film Fuga da Alcatraz. La mamma mi disse: «Elga, raccontami della tua gara», e io risposi: «Mamma, sono sfinita, fammi dormire». Finì lì la mia carriera di atleta. Lasciai tutto quello che mi faceva stare bene con la convinzione di non meritare più la felicità. Il ricordo non andava via, anzi, apriva sempre di più la mia ferita, come quando su internet vidi un video su come veniva soppressa la vita, pezzo dopo pezzo. Presto caddi in depressione. Non sorridevo più e pensavo di continuo al suicidio. Un anno fa, mentre andavo al lavoro, mi sono fermata su un ponte, ma grazie a Dio sono stata vigliacca. Decisi allora di chiedere aiuto a Dio e di confessarmi. Sapere che potevo battezzare nel desiderio la mia piccola mi ha fatto rientrare nella mia coscienza positiva. Ora lei è al mio fianco: Dio non mi ha punita perché mi ha dato poi due figlie meravigliose e le mie ragazze sanno che lei esiste. Mio marito non vuole mai aprire l’argomento. Gli ho dato per anni la colpa, causando in me solo altre ferite. Se solo una persona mi avesse detto in quei giorni: «Elga ti aiuto io», sono sicura che non avrei abortito. Per questo vorrei si aprissero più centri di ascolto e di aiuto concreto. L’aborto non è un diritto. È solo la via più semplice che porta alla distruzione. Grazie a Dio ora sono rinata, nel momento in cui ho capito che Miriana esiste. Aiutate le donne, vi prego, non lasciatele sole.

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di Una mamma

Quanto è facile abortire Una lettera piena di gratitudine al Centro di Aiuto alla Vita che l’ha aiutata a salvare il suo bambino (e se stessa) dall’aborto Questa testimonianza stride fortemente con quella di Elga, pubblicata nelle pagine precedenti. Serva a darci speranza, serve a farci notare che tante volte il bene vince sul male e noi non ce ne rendiamo conto (perché il bene non fa notizia…). Serva a tributare il giusto omaggio all’opera meritoria dei CAV e di tutti i volontari che si adoperano in favore delle mamme in difficoltà. Ma serve anche a farci capire quanto sia facile, oggi come oggi, per le donne compiere un gesto tanto crudele, molte volte senza rendersi bene conto di quello che stanno facendo. Anzi: in tempi in cui si predicano in ogni dove “l’autodeterminazione” e il “consenso informato”, alle donne incinte in difficoltà si prospetta l’aborto come una soluzione facile – se non l’unica – a ogni problema.

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E non si spiega loro quali e quanti effetti collaterali l’aborto può avere sulla loro salute psico-fisica. E non si spiega loro che ci sono delle alternative. Compiuto il misfatto, le donne restano sole con gli stessi problemi che le affliggevano prima dell’aborto e in più scoprono, presto o tardi, che non hanno “evitato” la maternità bensì che sono madri di un bambino morto. La petizione di ProVita Onlus affinché le donne siano adeguatamente informate sui rischi che corrono con l’aborto sta raccogliendo decine di migliaia di firme: aiutateci a incrementarle ancora. Dobbiamo dimostrare concretamente al Ministero della Salute che gli italiani sanno bene cosa vuol dire avere realmente a cuore la salute delle donne.

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FIRMA anche tu perchÊ le donne siano davvero informate sull’aborto. sito:www.notizieprovita.it


GIANNA JESSEN Novembre 2017 Altro grande successo per il tour autunnale di Gianna Jessen in Italia, realizzato da ProVita Onlus in collaborazione con diverse realtà locali. Ecco alcune foto delle sette affollatissime serate, durante le quali Gianna ha portato la sua toccante testimonianza sul valore della vita, contro l’aborto.

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LECCO RAVENNA

GEMONA

TRIESTE

MILANO SERRAVALLE (RSM)

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PIACENZA

Stiamo già lavorando alle date del tour primaverile di Gianna Jessen... Non perderti gli aggiornamenti, seguici sul sito www.notizieprovita.it e su Facebook @ProVita Onlus

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, e s o r e m u n e li ig Fam

di Giuliano Guzzo

E T T E R R O C S E T N E M A POLITIC rché resistono

no e vanno ringraziate pe

sto Le famiglie numerose esi

Per quanto possa sembrare paradossale, molte volte gli stessi difensori della famiglia finiscono per non soffermarsi su una realtà davvero importante ma della quale, a ben vedere, non si parla quasi mai: la famiglia numerosa. Una dimenticanza che, da parte della cultura dominante, è però omissione voluta, dal momento che si è sempre più soliti guardare le famiglie numerose con sufficienza, quasi con fastidio, come una realtà marginale che è bene che resti tale.

LE FAMIGLIE NUMEROSE SONO FAMIGLIE NATURALI, CON UN PAPÀ MASCHIO E UNA MAMMA FEMMINA…

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Si badi che questa non è un’impressione soggettiva: uno studio pubblicato nel 2014 sul Journal for Communication Studies, con cui si sono esaminati 1.100 articoli pubblicati dalle testate tedesche tra il 2011 ed il 2012, conferma che i media, oggi, parlano delle famiglie numerose solo in relazione a problemi (troppi oneri finanziari, conflitti di convivenza

e alloggi precari) e in oltre il 40% dei casi offrono, tra l’altro, un’immagine negativa o critica della cosiddetta “famiglia naturale”. Ora, dinnanzi a una simile marginalizzazione e stereotipizzazione della famiglia – e in particolare di quella numerosa –, viene spontaneo chiedersene le ragioni. Perché di queste famiglie è così difficile parlare? A ben vedere, le ragioni per cui poco si parla delle famiglie numerose, e per cui è invece urgente farlo, sono almeno cinque, interconnesse e non alternative tra loro, e tutte meritano, sia pure sinteticamente, di essere esplorate. La prima ragione di scorrettezza politica delle famiglie numerose sta nel fatto, ovvio anche se non ci si fa spesso caso, che esse sono “famiglie naturali”. Il che contrasta una cultura la quale, come ben Primo piano


sappiamo, guarda alle “famiglie tradizionali” con sospetto, quasi fossero un fossile, un residuo del passato del quale sbarazzarsi. Le famiglie numerose, poi, possono essere ritenute le famiglie tradizionali tra le famiglie tradizionali, nel senso che testimoniano la sopravvivenza di assetti ed equilibri che credevamo estinti. Dà fastidio poi il fatto che le famiglie numerose siano esplicitamente aperte alla vita, sfidando così, di fatto, una mentalità oggi dominante che concepisce non solo la famiglia, non solo il matrimonio, ma pure la coppia e in generale la relazione in chiave meramente edonistica, fondando cioè un rapporto sul piacere individuale. Ebbene, le famiglie numerose vanno nella direzione completamente opposta rispetto a questo quadro, e per questo sono indubbiamente scomode. C’è poi da dire – come terzo aspetto – che le famiglie numerose sono più che mai espressione di sacrificio. Intendiamoci: ogni padre e ogni madre, in realtà, sarebbero pronti a sacrificarsi per il proprio figlio, ma è chiaro che nel momento in cui – accettando quell’apertura alla vita di cui si diceva poc’anzi – uno sposo e una sposa aprono Primo piano

all’idea di poter avere (e cercano di avere) tanti figli quanti gliene invia la Provvidenza, si mettono anche economicamente in una condizione di sacrificio. E il sacrificio rientra tra quelle realtà oggi non solo genericamente scomode, ma del tutto bandite. Inoltre, le famiglie numerose sono mal viste perché, appunto, sono numerose. E, benché purtroppo in declino (dal 1994 al 2014 sono passate con l’essere dall’8,4 al 5,4 del totale dei nuclei familiari in Italia, secondo l’Istat), resistono, testimoniando un messaggio forte: è ancora possibile fare figli. Nonostante la crisi e nonostante un quadro economico non sempre felice. Anzi, risulta che tra le famiglie povere quelle numerose siano ben rappresentate, tanto è vero

che spesso si trovano, oggi, nelle regioni del sud Italia. Infastidisce il pensiero dominante, infine, il fatto che le famiglie numerose – come ha osservato Benedetto XVI – diano «un esempio di generosità e di fiducia in Dio». Non ci si apre, infatti, alla vita e non ci si rende pronti al sacrificio come coppia, se non si ripone una grande e dichiarata fiducia in Dio. Una provocazione bella e buona per un mondo che, di Dio, non vorrebbe più sentir parlare e un altro motivo per cui, a ben vedere, le famiglie numerose andrebbero da tutti ringraziate, per il luminoso messaggio che così visibilmente incarnano. 27 N. 60


Chi ha ancora paura delle persone con la sindrome di Down?

QUELLO CHE CONTA

di Teresa Moro

Silvio, 45 anni, diploma di scuola secondaria di primo grado, lavora nell’amministrazione del San Raffaele, una grande struttura ospedaliera romana, ogni mattina dalle 8 alle 14. Il viaggio con i mezzi pubblici sia all’andata, sia al ritorno dura un paio di ore. Ma Silvio non si lamenta: «Mica possiamo volare!». Prima di essere impiegato all’ospedale lavorava in uno stabilimento balneare, vicino casa. Monta a cavallo fin da quando era bambino. Quando ha tempo, in ospedale, di sua iniziativa e in piena autonomia, passa a trovare i bambini che stanno male: «Perché?», gli abbiamo chiesto. «Li faccio giocare un po’». Volevamo anche sapere se guadagna abbastanza. Ha risposto: «Certamente, ma non è quello che importa. La cosa più importante è che dopo quattro lunghi anni mi hanno finalmente promosso sul posto di lavoro. Ne sono davvero orgoglioso e soddisfatto».

LA FIDUCIA NELLE POTENZIALITÀ DELLE PERSONE CON TRISOMIA 21 DÀ RISULTATI SORPRENDENTI 28 N. 60

L’alterazione a livello del 21esimo cromosoma deve il nome con cui è nota al medico britannico John Langdon Down, che a metà dell’Ottocento iniziò a classificare la malattia sulla base del quoziente intellettivo e dei tratti somatici. In sostanza, Down riteneva che in queste persone vi fosse un cambiamento qualitativo del messaggio ereditario, con una regressione verso le forme primigenie (Darwin docet, sic!).

Questa tesi non fu mai presa per vera dal fondatore della genetica moderna Jérôme Lejeune, il quale riteneva che la mutazione genetica si collocasse a un livello quantitativo: speculazione, questa, che trovò conferma nel 1958, quando lo scienziato scoprì il 47esimo cromosoma, identico al 21esimo paio. Lejeune, grande medico cattolico appassionato della vita, era solito affermare che «Un Primo piano


Jérôme Lejeune (Montrouge, 13 giugno 1926 - Parigi, 3 aprile 1994) è stato proclamato Servo di Dio dalla Chiesa cattolica.

uomo è un uomo»: nella sua ottica, l’importante scoperta fatta doveva essere messa a servizio dei suoi pazienti. Invece i seguaci della cultura della morte non fecero passare molti anni prima di strumentalizzare la sua ricerca e porla al servizio della morte, incentivando la diagnosi prenatale e l’aborto selettivo, a scopo eugenetico. Questo travisamento dei suoi intenti fece molto soffrire il genetista, che si schierò pubblicamente contro l’aborto e si giocò la possibilità di vincere il Nobel, pur di rimanere fedele alle sue idee. Primo piano

Oggi noi, a oltre vent’anni dalla sua morte, vediamo le conseguenze di tutto questo: le persone con la sindrome Down sono sempre di meno perché vengono uccise prima di vedere la luce. I Paesi più “progrediti” in tal senso sono quelli del nord Europa: in Islanda, negli ultimi cinque anni, il 100% dei bambini con la sindrome di Down sono stati abortiti; la Danimarca mira a essere “Down Free” entro il 2030 (nel 2016 sono nati solo quattro bambini con la trisomia 21) e la Gran Bretagna la segue a ruota.

In Italia le cose non vanno molto meglio, anche se mancano le statistiche con dati ufficiali, dal momento che l’aborto è “a richiesta” e quindi non si indaga sul motivo per cui si è compiuto l’omicidio del bimbo nel grembo materno. Lo scorso autunno, nell’ambito di un convegno presso l’Università Statale di Milano dal titolo La morte sfida il diritto, l’illustre pubblico ministero della Procura della Repubblica di Milano, dottoressa Luisa Baima Bollone, ha detto che il diritto alla vita, nell’ambito 29 N. 60


«L’AMORE NON CONTA I CROMOSOMI»

dei diritti inviolabili dell’uomo, andrebbe ripensato e specificato: bisognerebbe intenderlo come “diritto a una vita dignitosa”. Se questa mentalità si fa strada, la conseguenza è che chi non ha una vita dignitosa non ha neanche diritto di vivere. La selezione eugenetica degli esseri umani che ne conseguirebbe farebbe impallidire persino Alfred Rosemberg e i suoi maestri (il marchese Joseph Arthur de Gobineau, Houston Stewart Chamberlain e Madison Grant, razzisti meno noti del loro allievo forse perché non erano nazisti). E chi avrà il compito di decidere quale vita è degna di essere vissuta e quale no? Anche i poveri – per fare un esempio – potrebbero condurre una vita indegna: qual è la soglia del reddito pro-capite necessaria per vedersi riconosciuto il “diritto alla vita”? Torniamo alle persone con trisomia 21: la qualità di vita delle persone con la sindrome Down e la loro indipendenza è migliorata moltissimo. E la scienza vera, che è scienza buona, sta facendo passi avanti nel trattare la diagnosi

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precoce di trisomia 21 fin dal grembo materno, in modo da limitare il ritardo mentale e gli altri problemi che incontrano le persone con la sindrome Down rispetto ai cosiddetti “normodotati”. Ci stanno lavorando l’équipe del prof. Strippoli all’Università di Bologna e i medici della Fondazione “Il Cuore in una Goccia”: lo sanno i Lettori che hanno contribuito alla nostra campagna di Natale «Aiuta a far nascere il Bambino». Non solo: l’educazione e l’istruzione – cioè la fiducia nelle potenzialità di queste persone – danno risultati sorprendenti. Limitandoci all’esperienza italiana, da Nord a Sud si registra l’apertura di case in “autogestione”, dove potersi sperimentare nella quotidianità in condivisione con altre persone; di bar, ristoranti e hotel interamente gestiti da persone con la sindrome di Down; di società e competizioni sportive, anche di alto livello, pensate appositamente per questi atleti speciali (con tanto di FISDIR - Federazione Italiana Disabilità Intellettivo Relazionale); con Primo piano


progetti, anche pubblici, che prevedono una specifica collaborazione con l’Anfass e che si rivelano di utilità per l’intera comunità, come è stato per la realizzazione della Guida Turistica della città di Trento. Potremmo stilare un lunghissimo elenco. Di fatto, una volta imparato a conoscere queste persone che – come tutti i “diversi” – inizialmente possono attivare un distanziamento relazionale e/o psicologico, si è scoperta la loro abilità, anche intellettiva, in moltissimi contesti: sono sì persone “diversamente abili”, ma molto brave nel fare le cose che amano e che hanno imparato a fare. E sono persone con un’indole gioiosa ed estremamente affettuose, capaci di scrutare aldilà della prestanza fisica e dell’apparire “bello e ricco”, capaci di vedere come il nostro Silvio quello che conta: sono capaci di vedere con gli occhi del cuore, perché «l’amore non conta i cromosomi». Primo piano

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IL MALATO: qualcosa, o qualcuno? L’11 febbraio di quest’anno si celebra la XXVI Giornata Mondiale del Malato di Luca Scalise Anche quest’anno, l’11 febbraio, sarà celebrata la Giornata Mondiale del Malato, istituita da papa Giovanni Paolo II nel maggio del 1992. Si tratta, indubbiamente, di una ricorrenza di cui non si parla molto e che è, per questo, spesso dimenticata, proprio come il soggetto cui è rivolta.

TOGLIAMO DALLE NOSTRE MENTI QUELLE MALATTIE INVISIBILI CHE CONFONDONO LA REALTÀ E GUARDIAMO AI MALATI CON OCCHI NUOVI E CON CUORE APERTO E DISPONIBILE AL MISTERO DELLA SOFFERENZA 32 N. 60

Siamo infatti abituati a vedere la figura del malato con un certo distacco, come fosse un dipinto dotato di precise caratteristiche e chiavi di lettura ben note. Si tende sempre di più a prendere in considerazione la malattia trascurando il malato che ne è portatore. Sempre più spesso siamo portati a non considerare il malato stesso nel suo essere persona viva, senza stereotipi.

E così, pensando al malato, ci vengono in mente le immagini di chi è affetto da un grave morbo che pian piano lo consuma, o di chi, persa la propria autonomia, dipende interamente dalle cure di chi lo assiste, o di chi si affida a un supporto (carrozzelle, deambulatori e quant’altro) utile per sopperire alle proprie difficoltà fisiche. Tutte immagini piene di profondità, di coinvolgimento emotivo, ed intrise di una sofferenza che spesso suscita la nostra compassione. Ma la nostra partecipazione attiva al dolore altrui potrebbe non essere poi così sana come sembra. Per capire meglio il perché di questa affermazione è necessario operare qualche riflessione su ciò che rende il malato tale, ossia la malattia. Primo piano


Quest’ultima, infatti, prima ancora di assumere denominazioni specifiche che caratterizzano le sue differenti manifestazioni negli individui, si configura anzitutto come una alterazione di un organismo vitale o delle sue funzionalità. In parole povere, un organismo può essere definito malato in un aspetto se, in esso, non corrisponde più a come dovrebbe essere. Questa sostanziale difformità, però, non si verifica unicamente in ambito fisico, come siamo soliti incorniciarla nel nostro classico

immaginario del malato. Infatti, senza nulla togliere ai tanti mali che possono affliggere il corpo, vi sono malattie ben più gravi, anche se non evidenti esteriormente. Non mi riferisco soltanto a quelle tante che colpiscono la psiche umana, ma anche a quelle che alterano una nostra corretta concezione del reale. Questo avviene molto spesso quando ci ostiniamo a chiamare le cose con un nome diverso dal loro proprio. Per scendere più nel concreto, immaginiamo che un uomo, attivo e brillante per tutta la sua vita, si ritrovi improvvisamente colpito da una malattia paralizzante e degenerativa, magari anche dolorosa. Immaginiamo l’umiliazione del dover dipendere da qualcun altro, del non poter più prendere iniziativa alcuna. Indubbiamente dev’essere notevole la portata del dramma che vive chi si trova in una tale situazione. Non pochi, in quelle

condizioni, penserebbero che sia meglio “farla finita”, per non dover gravare sui propri cari e per non andare incontro a dolori ancora più atroci con l’avanzare della malattia. Offrirgli dunque sul piatto d’argento la possibilità di morire sarebbe, a detta di molti, un atto di carità volto a liberarlo finalmente dalle sofferenze. L’eutanasia sarebbe così una “dolce morte” (anche se pochi sanno che non si tratta sempre di una pratica indolore, anzi spesso provoca un’agonia atroce) e chi la procura sarebbe dunque un uomo che, resosi conto del disagio del paziente, si muove a pietà nei suoi confronti. Oppure immaginiamo (secondo il criterio delle D.A.T.) che una persona abbia espresso, in un determinato momento della sua vita, il proprio testamento biologico, tale da vincolare il medico a una eutanasia omissiva nei suoi confronti. Poniamo che,

L’11 febbraio è stata scelta come data per la Giornata Mondiale del Malato perché è l’anniversario della prima apparizione di Lourdes, avvenuta nel 1858. La Grotta è divenuta presto una delle mete più frequentate dai malati che cercano conforto spirituale. In centosessant’anni sono state riconosciute 69 guarigioni inspiegabili, dopo processi che durano anni e pretendono prove inoppugnabili che non ci possa essere alcuna spiegazione umana, razionale o scientifica della guarigione. L’ultima guarigione miracolosa è del 2013: un’italiana della provincia pavese, Danila Castelli, che oggi ha sessantotto anni, è guarita da una serie di dirompenti forme tumorali maligne. Il processo che ha acclarato il miracolo è durato ventitré anni.

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dopo qualche anno, si trovi nel malaugurato caso di non potersi esprimere, ma di aver maturato comunque un forte attaccamento alla vita, pur non potendo manifestarlo. Penseremmo che chi lo lascia morire di fame e di sete stia facendo la cosa giusta per il solo fatto che questo era stato stabilito anni prima nel testamento biologico? Con la vita non si scherza. È assurdo pensare di poterne essere i padroni indiscussi. 34 N. 60

Smontiamo il falso mito dell’autodeterminazione che, in modo così vile, finisce per uccidere proprio chi di esso si è avvalso, come fosse un’arma vincente, e ne è rimasto ingannato. E allora parliamo chiaro. Perché non chiamiamo omicidio bensì “bella morte” lo staccare le macchine che tengono in vita una persona? Perché dire a qualcuno che la sua vita non è degna di essere vissuta non viene chiamato “istigazione al suicidio”? Perché consideriamo l’alimentazione e l’idratazione delle “terapie”? Che compassione è mai quella che porta a uccidere? Non sono queste forse gravi alterazioni della natura propria delle cose – dicasi anche “malattie”? E allora ecco che ci si può accostare al malato in un modo del tutto “malato”. Ecco che lo si può continuare a osservare a distanza, rivestiti di una compassione ipocrita e continuando a mettere al centro i propri interessi. Ma è doveroso dire anche che, fortunatamente, ci sono tante persone che, invece di fare da spettatori della sofferenza dei malati e sentenziare sulla dignità delle loro vite,

si compromettono con loro. Non li lasciano soli in quella triste immagine di sofferenza senza speranza, ma si “sporcano le mani” in loro aiuto. Sono coloro che hanno capito che non esiste alcuna forma di vera compassione senza partecipazione attiva e concreta. Sono quelli che, da professionisti o da volontari, invece di far sentire il malato come un peso, si preoccupano di fornirgli la migliore assistenza medica e un buon supporto psicologico, oltre alle cure e all’amore di cui ogni uomo ha bisogno. Solo loro possono sperimentare quanta gioia può donare il sorriso di un infermo o il “grazie” di un anziano. Solo loro possono capire profondamente che l’amore vero o è gratis o non è tale, e magari scoprire che anche un malato può essere davvero felice. La XXVI Giornata Mondiale del Malato ci spinga a togliere dalle nostre menti quelle malattie invisibili che confondono la realtà e ci aiuti a guardare i malati con occhi nuovi e con cuore aperto e disponibile al mistero della sofferenza. Primo piano


DOVER PAGARE per non aver ucciso di Lorenzo Ponziani

Con la legalizzazione del biotestamento gli ospedali sono spinti a uccidere

La famiglia di una donna di ottantuno anni ha ricevuto un congruo risarcimento per il danno morale subito dall’ospedale George Eliot, a Nuneaton, nel Warwickshire, nel Regno Unito. Il danno è derivato dal fatto che l’ospedale non ha ucciso la signora quando avrebbe potuto e dovuto!

È FACILE CHE UN ANZIANO POSSA AVERE PAURA DI RIMANERE IN VITA PERCHÉ HA PAURA DI ANDARE IN UNA CASA DI CURA Primo piano

La signora Brenda Grant aveva redatto un testamento biologico nel quale affermava che temeva di più una vita indegna e degradata, piuttosto che la morte. L’ospedale in cui era ricoverata ha smarrito il documento e ha messo alla signora Grant una sonda per il nutrimento artificiale. Poi è stata ricoverata in una casa di cura. Era molto agitata e spesso necessitava di contenzione. Il medico della signora,

però, ha avvisato la famiglia dell’esistenza del testamento biologico. Sicché dopo ventidue mesi di alimentazione artificiale, Brenda Grant è morta di fame e di sete il 4 agosto 2014. La famiglia ha fatto causa all’ospedale e ora l’ha vinta. La figlia della signora Grant ha detto alla BBC che la madre aveva paura di rimanere in vita perché aveva paura di andare in una casa di cura: «Non ha mai voluto essere un peso per nessuno, quindi non avrebbe voluto che nessuno di noi si prendesse cura di lei». Fin qui la triste vicenda. Ora ci sembra opportuno ragionarci su: sia dal punto di vista umano, sia dal punto di vista legale. Dal punto di vista umano, tutti coloro che hanno avuto a che fare con persone anziane o malate dotate di carattere 35 N. 60


le pazienza. o vu i c i n a zi n a li g Con da affetto sincero, ti a d n o c ir c o n so e S ano oppure le loro “bizze” cess e di sostanza h c a rm fo i d iù p o diventan

indipendente e giustamente orgogliose sanno bene che quando esse divengono in qualche modo non autosufficienti non sopportano di “essere un peso”, tanto da divenire difficilmente gestibili, o addirittura insopportabili. C’è però un “ma”. Come la figlia stessa della signora Grant ammette, si tratta di “paura”: un sentimento comprensibile, ma sul quale si può ragionare e vincere. Quando le persone anziane in condizioni critiche sono circondate da amici o parenti che si armano di santa pazienza e dimostrano il loro amore sincero e gratuito, le “bizze” degli anziani cessano, oppure diventano molto più di forma che di sostanza. A volte basta un nipote che dimostri di tanto in tanto di aver piacere di trascorrere un po’ di tempo con il nonnino. Il problema è forse che oggi non ci sono più figli, quindi neanche nipoti. Gli anziani sono soli. E i figli che ci sono spesso sono stati

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educati alla cultura dello scarto e del divertimento a tutti i costi. Quindi per l’anziano, nella loro vita, non c’è posto. Dal punto di vista legale, la vicenda della signora Grant ci insegna che con il biotestamento le strutture sanitarie, in presenza di un paziente non capace di intendere e di volere, sono incentivate a uccidere, sospendendo nutrimento e idratazione, per non dover essere condannati a risarcire congrue somme di “danni morali”. Ecco perché con il testamento biologico la morte dilaga.

Ecco perché, vista la deriva mortifera che i nostri legislatori hanno assecondato irresponsabilmente, l’azione culturale cui siamo chiamati tutti, e ciascuno di voi cari Lettori, è essenziale. Bisogna dissuadere le persone care dal redigere il testamento biologico. O – quanto meno – è necessario che nel documento sia chiaro che il paziente confida nella scienza e coscienza dei medici che eviteranno l’accanimento terapeutico, ma che non si presteranno a causare la loro morte sospendendo cibo e acqua.

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6/02/2007

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DI LÀ DEL BENE udental.it -AL info@bludental.it «Ché per un dono che ai mortali io porsi, sotto il giogo sono io di tal destino: la furtiva predai fonte del fuoco nascosta entro la fèrula, che agli uomini maestra fu d’ogni arte, ed util sommo. Di tal misfatto pago il fio, nei lacci, a cielo aperto, turpemente avvinto»: così si doleva Prometeo nell’omonima opera di Eschilo, confessando la propria colpa e riconoscendo la meritevolezza del castigo patito.

CON RELATIVAMENTE POCA SPESA, E CON UNA TECNICA ABBASTANZA SEMPLICE, GLI SCIENZIATI SONO IN GRADO DI TAGLIARE E MODIFICARE IL DNA 38 N. 60

Avendo derubato il fuoco agli dei per avvantaggiare gli uomini Prometeo viene punito, ma non già per il furto in sé parimenti a qualunque altro furto, quanto piuttosto per aver alterato i rapporti e le proporzioni tra creature e creatori, tra mortali e immortali, tra gli uomini, appunto, e gli dei. Con la ricettazione del bene oggetto del furto compiuto da Prometeo, gli uomini superano i propri limiti, riducendo l’innata distanza che li separa all’un

Aldo Vitale

Aldo Vitale è avvocato. Dottore di ricer Diritto Europ la Facoltà di Giurisprudenza dell’Un Roma Tor Vergata e cultore della Biogiuridica e in Filosofia del diritto.

di Aldoe Rocco Vitaledel Teoria generale

E DEL MALE

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tempo dagli animali e dagli dei, distaccandosi più dai primi e avvicinandosi più ai secondi. L’antica saggezza classica, cristallizzata dal mito di Prometeo e dall’arte poetica dell’antica tragediografia, assurge così a schema paradigmatico per la ricostruzione di quel titanismo morale che tanto contraddistingue l’essere umano in genere e quello dell’epoca contemporanea in particolare. Del resto, non a caso lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche, recependo e tramandando la visione prometeica, predica l’avvento del superuomo, cioè dell’uomo che, come corda annodata tra lo stadio di animale e quello di superuomo, deve imparare a superare i propri limiti poiché, in definitiva, per Nietzsche «l’uomo è qualcosa che deve essere superato».


Su tale prospettiva s’innesta buona parte della scienza contemporanea e delle recenti applicazioni tecniche nel campo della biomedicina. Tra le tante esemplificazioni che possono essere considerate spiccano maggiormente quella del cosiddetto “gene-editing”, cui è connessa quella del cosiddetto “bio-hacking”. Il gene-editing, semplificando il più possibile, altro non è che la possibilità di modificare il DNA dell’essere umano per correggerne mutazioni e patologie genetiche. Il biohacking, invece, è l’utilizzo di tecniche come quella del geneediting per modificare a proprio piacimento il proprio DNA. Il gene-editing si pone, in buona sostanza, come l’ultima frontiera della terapia genica che, se non pone eccessivi problemi nel caso di applicazione consapevole su adulti consenzienti avendo anzi raggiunto ottimi risultati terapeutici per diverse patologie, apre comunque scenari distonicamente eugenetici nel caso in cui venisse praticata su embrioni umani. Conseguentemente, il bio-hacking pone problematiche di carattere etico e giuridico, specialmente nel caso in cui si diffondesse un po’ per moda, un po’ per ideologia, un po’

Gli X Men, i mutanti della fortunata serie della Marvel (nella foto, Wolverine), sono forse meno fantastici di quanto pensassero i loro creatori?

per convenienza economica l’idea che si può bio-hackerare il proprio organismo per raggiungere i propri obiettivi (estetici, lavorativi, esistenziali, economici) altrimenti irraggiungibili. Se con la selezione embrionale e la diagnosi genetica preimpianto si possono, fin qui, scegliere gli embrioni ritenuti più idonei e corrispondenti alla propria idea di perfezione filiale, ma pur sempre entro i limiti dati dalla “lotteria” imposta dalla natura, con il gene-editing si può “barare” e vincere la partita contro il caso naturale, progettando letteralmente la propria prole modificandone il DNA secondo le proprie scelte ed esigenze che possono,

dunque, anche esulare da motivazioni di carattere strettamente terapeutico. Prova ne sia, per esempio, quanto riportato dalla nota rivista Scientificamerican secondo cui gli scienziati hanno recentemente modificato il DNA del “Parhyale hawaiensis”, cioè una sorta di gamberetto delle Hawaii di appena un centimetro di grandezza che ha tre tipi di zampe disposte in ordine dalla natura, rispettivamente dal muso verso la coda: quelle per saltare, quelle per nuotare e quelle per ancorarsi; utilizzando il gene-editing, e modificando specificamente il gene cosiddetto “Hox”, cioè quello che controlla il piano corporeo e la simmetria 39 N. 60


di un embrione determinando il tipo di appendici (antenne, gambe, ali o vertebre nel caso dell’uomo) che si sviluppano in un dato segmento del corpo, hanno dapprima invertito l’ordine delle zampe del gamberetto rispetto all’ordine naturalmente stabilito e poi sostituito le zampe per saltare con quelle per camminare e quelle per nuotare con quelle per ancorarsi. Il quadro, che già s’intuisce biologicamente strabiliante ed eticamente preoccupante (cosa accadrebbe se si decidesse di fare lo stesso con l’uomo o se qualcuno rivendicasse il diritto di volere che il proprio figlio avesse quattro, e non soltanto due, braccia?), si complica se si considera, come riferito dalla rivista Newscientist, che la relativa semplicità del gene-editing sta cominciando a diffondersi in senso privatistico e individualistico tramite il bio-hacking, con cui ciascuno già da ora può apportare modifiche al proprio DNA come, per esempio, ha già fatto in streaming su Facebook il biochimico Josiah Zayner, diventando la prima persona ad aver modificato se stesso utilizzando privatamente 40 N. 60

la tecnica del gene-editing con un kit acquistato per appena duecento dollari per corrispondenza. Il gene-editing funziona iniettando una proteina (chiamata Cas9) che ha la triplice funzione di finder (cercatore), blocker (bloccatore) e cutter (tagliatore), con cui si può individuare un segmento di DNA difettoso, tenerlo fermo e tagliarlo o per eliminarlo del tutto o per sostituirlo con un segmento nuovo e non difettoso; sostanzialmente un “copia (ripara) e incolla” genetico. Se la tecnica – da un punto di vista strettamente terapeutico, cioè successivo all’insorgere della patologia e della, di questa, diagnosi – può apparire senza dubbio promettente, come in effetti è entro certi

limiti, per esempio per guarire molte persone affette da gravi malattie genetiche quali il morbo di Huntington, la distrofia muscolare o diverse patologie neurodegenerative, ma anche per eliminare gli allergeni dalle arachidi, o rendere il grano resistente all’attacco di particolari funghi, per altro verso può prestarsi altresì alle più disparate finalità eugenetiche, come si intuisce senza troppe difficoltà, rivelandosi in grado addirittura di modificare le stesse dinamiche sociali e relazionali. Si pensi, come ulteriore esempio, alla modifica genetica (pubblicata sulla prestigiosa rivista Cell nell’agosto del 2017) che è stata apportata ad alcune formiche, le Harpegnathos saltator e le Ooceraea biroi, disattivando il gene


soprannominato “Orco” che ne controlla i feromoni, alterando il comportamento sociale delle stesse nelle rispettive colonie e facendo sì che non vi fosse più alcuna distinzione tra la regina del formicaio e le formiche operaie, divenute così anch’esse potenzialmente fertili... con la conseguenza che si sono registrati immediatamente comportamenti asociali di formiche che hanno abbandonato il gruppo, o di altre che hanno smesso di assolvere ai propri compiti per il bene della colonia, o di altre che non si sono più curate della prole. Da tutto ciò, inevitabilmente, sorgono degli interrogativi tanto sul piano etico quanto su quello giuridico. I dubbi etici sono inevitabili: si può e si deve modificare il DNA soltanto a scopo terapeutico, o anche per altre finalità astrattamente ipotizzabili come motivi estetici, edonistici, bellici, economici? La modifica del DNA sarà usufruibile da parte di tutti o soltanto a vantaggio di pochi? Che

rapporti e che diritti e doveri vi saranno in una società in cui alcuni individui saranno con il DNA modificato e altri invece no? Quali saranno le ripercussioni sulle future generazioni in assenza di studi sulle conseguenze di lungo periodo di una simile applicazione tecnica? I dubbi giuridici sono conseguenti: occorre vietare o legalizzare la prassi del gene-editing e quindi anche del bio-hacking? Occorre prevedere norme di portata generale nell’interesse della collettività o chi vorrà potrà procedere individualisticamente rivendicando il diritto alla privacy e la non ingerenza dello Stato nella sua decisione di editare il proprio DNA? Le

spese e i costi saranno sostenuti dai servizi sanitari nazionali o dai privati? Sarà un diritto o un dovere modificare il proprio DNA? E nel caso divenisse un dovere e qualcuno si rifiutasse per sé e i propri figli? Sarebbe sempre valida la clausola dell’obiezione di coscienza? Con il sorgere di una simile nuova potentissima tecnica, dunque, a meno di accettare passivamente di ritrovarsi al tramonto dell’uomo e della sua stessa natura, occorre accettare di ritrovarsi dinnanzi all’alba di nuovi interrogativi etici e giuridici che devono ancora essere approfonditi poiché, come ha osservato Edgar Morin, non è insolito che «le tecniche nate dall’umano gli si ritorcono contro».

UN DOMANI AVREMO NELLA SOCIETÀ INDIVIDUI GENETICAMENTE MODIFICATI? E I LORO FIGLI COME SARANNO? E SARANNO UN’ÉLITE DI “MIGLIORI”, O SARANNO SUBUMANI DA SFRUTTARE? 41 N. 60


FILM...

Fireproof di Marco Bertogna

Titolo: Fireproof Stato e Anno: Stati Uniti, 2008 Regia: Alex Kendrick Durata: 122 min. Genere: Sentimentale

Nel panorama del cinema odierno segnaliamo alcuni film “controcorrente”, che trasmettano almeno in parte messaggi valoriali positivi e che stimolino il senso critico rispetto ai disvalori imperanti. Questo non implica la promozione, né l’approvazione globale delle opere recensite da parte di ProVita Onlus.

Quante volte avete sentito parlare della crisi del settimo anno della coppia? Quante volte avete sentito discutere dell’importanza della famiglia come struttura principale e portante del tessuto sociale? Quante coppie di sposi conoscete che si sono separate? Sono proprio questi i temi, forse “scomodi”, che formano gli ingredienti principali del film Fireproof. Caleb fa il vigile del fuoco mentre la moglie Catherine lavora come manager in ospedale; sono sposati da sette anni e non hanno figli. Il matrimonio si trascina stancamente: Caleb passa molto tempo su internet a vedere filmati porno e sogna di acquistare una barca, per la quale sta mettendo via i soldi da molto tempo; Catherine, delusa e ferita dalle distrazioni del marito, si dedica molto al lavoro e proprio in ospedale incontra un medico che sembra avere le giuste attenzioni e sensibilità nei suoi confronti. Gli ingredienti giusti affinché il matrimonio crolli ci sono tutti. Dopo l’ennesima discussione con il marito, Catherine decide di chiedere il divorzio. Ma qui arriva

il primo “turning point” del film: consapevole della crisi che sta attraversando il figlio, il padre gli dona un diario scritto di suo pugno e gli propone di eseguire precisamente per quaranta giorni ciò che c’è scritto. Seppure senza convinzione, Caleb inizia a fare ciò che è indicato nel diario: un giorno lava i piatti, un altro giorno compra dei fiori per la moglie, un altro ancora le dice qualcosa di carino, e così via. Purtroppo Catherine, a sua volta distratta dalle avance del medico, non (ac)coglie le attenzioni del marito e procede con la domanda di divorzio. Ci vorrà una vera conversione di Caleb per penetrare il cuore di Catherine. La fede, che si era assopita come il matrimonio, dà all’uomo la forza di compiere altri gesti importanti nei confronti della moglie, andando ben oltre a quelli scritti nel diario. L’amore per Catherine e le sue necessità, il rispetto della promessa coniugale, il desiderio di portare avanti un progetto comune... queste sono alcune delle cose che Caleb riprende e che gli fanno riscoprire il significato di essere dono per sua moglie e per gli altri. Questo è un film pro-matrimonio, è un film pro-famiglia, è un film ProVita.


Letture Pro-life «La lettura è per la mente quel che l’esercizio fisico è per il corpo» (Joseph Addison)

Assuntina Morresi

CHARLIE GARD - EUTANASIA DI STATO L’Occidentale

Assuntina Morresi ha ripercorso come in un diario quei lunghi mesi durante i quali tutto il mondo ha trepidato per la sorte del piccolo Charlie Gard. Per «rendere consapevoli tutti noi che abbiamo combattuto per Charlie, che la vicenda non sarebbe diventata planetaria senza la nostra mobilitazione, ed è importantissimo che ci si renda conto di che cosa ha scatenato la ribellione: è molto ingeneroso parlare di una semplice “reazione emotiva”. No… è stata una reazione umana». I medici del GOSH non volevano che scoppiasse la vicenda e nemmeno se lo aspettavano. Secondo loro ci sono casi in cui la vita non merita d’essere vissuta, casi in cui è meglio morire. La vita di Charlie doveva essere interrotta perché di “scarsa qualità”…

Carlo Caffarra

A cura di Lorenzo Bertocchi e Giorgio Carbone O.P.

PREDICHE CORTE, TAGLIATELLE LUNGHE. SPUNTI PER L’ANIMA ESD

Un florilegio di brevi ed efficaci pensieri del compianto cardinale, tratti dai suoi discorsi e dalle sue omelie. Si tratta di coscienza e di teologia morale, della felicità di chi ha incontrato Gesù Cristo e si arriva a parlare del senso della vita e della bellezza della vita coniugale, del matrimonio, della famiglia. Il magistero del cardinal Caffarra è stato ricco, vasto e profondo. Scrivono i curatori del libro: «Una grande tavola imbandita con ogni ben di Dio. In questo libro c’è un bel piatto di tagliatelle che da solo può già saziare, perché dice con chiarezza quello che bisogna dire. Semplici, generose e saporite, le tagliatelle sono un piatto popolare, buone per tutti i gusti. Sono spunti per l’anima offerti da uno chef d’eccezione, un grande emiliano cardinale». Prefazione di Mons. Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo di Bologna.


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