La misura dell'inespresso • Dialogo tra due mondi lontani - Nuova Meta 39

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39 la misura dell'inespresso dialogo tra due mondi lontani

Raffaella Nobili


la misura dell'inespresso dialogo tra due mondi lontani

Yamamoto Masao, Dance E, 2012, stampa alla gelatina d'argento incorniciata, cm 71x60.

La misura dell’Inespresso prende le mosse dall’incontro a metà strada di due mondi lontani per storia e cultura che, accostati per il caso fortuito di questo evento, ci fa interrogare sulla possibilità o meno di un dialogo tra le parti. Decidere di confrontare due artisti così può apparire un azzardo. Molto diverse appaiono, seppur in epoca di cultura globale, le premesse che animano le ricerche dei due artisti in questione. Sebbene ci si muova in un mondo in cui le distanze in termini di kilometri e la facilità di accesso alle informazioni siano state notevolmente accorciate, così non è quando ci si accosta ai tempi e alle modalità del mondo artistico che sembrano seguire percorsi non lineari e soprattutto tempi diversi. La vicinanza apparente tra i due è frutto più di una disposizione interiore comune, empatica, verso una certa visione della natura che a uno studio minuzioso e reciproco dei caratteri tecnici che regolano la produzione artistica di entrambe. Premessa fondamentale è che i due artisti non conoscevano reciprocamente l’uno il lavoro dell’altro. Sorprendente infatti, per tutti i coinvolti, è stato accorgersi di quanto lo sviluppo delle tematiche ma soprattutto la sensibilità con cui quelle tematiche sono state trattate e distillate pazientemente nel manufatto artistico, siano facilmente apparentabili e simultanee nei tempi; addirittura in alcuni casi quasi sovrapponibili. Questa stretta aderenza, nonostante le mille sfumature etniche, può essere spiegabile richiamando il punto cruciale che sembra essere il minimo comun denominatore tra

i due: la predisposizione interiore; numerosi studi riguardanti l’estetica orientale sottolineano quanto l’opera d’arte sia legata strettamente all’esercizio della pratica quotidiana e alla ripetizione infinita di movimenti che, sapientemente interiorizzati e immagazzinati nella memoria corporea, colgano l’afflato emotivo, originario e grezzo che anima l’impulso artistico, per convogliarlo più consapevolmente nell’esercizio creativo. Attraverso questo processo che potremmo azzardare definire alchemico per la sua qualità trasformativa, il corpo stesso dell’artista diviene luogo, ideale e concreto, dell’accadere di un evento che transita attraverso i gesti (cit. L’estetica giapponese moderna, Marcello Ghilardi). Condizione indispensabile dell’accoglimento da parte dell’artista del fenomeno artistico è la sospensione del punto di vista egoico. Solo attraverso questo atto infatti si ha accesso a quella parte più profonda dell’io interiore capace di entrare in risonanza con l’esterno, facendo così cadere quel velo che ci fa percepire corpo, movimento e oggetto artistico come momenti slegati l’uno dall’altro. Un continuo ed eterno fluire tra gesto sapiente, medium e natura procede dalla corporeità dell’artista che si fa contenitore e amplificatore del fenomeno fino a ricalcare ed entrare esso stesso nel processo di accadimento naturale delle cose. La naturalezza e la spontaneità sono dunque qualità fondamentali che devono avere sia il manufatto che il suo creatore. Tale approccio è comune a molte delle arti tradizionali giapponesi quasi come se l’opera d’arte non si esaurisse nell’oggetto concreto, ma iniziasse molto prima nella preparazione stessa dell’artista facendo così coincidere etica con estetica. In questo senso non esiste divisione tra vita quotidiana e vita artistica poiché il tempo antistante alla creazione è comunque tempo dell’arte. In Cina come in Giappone tutto ciò è codificato e diffuso attraverso testi tradizionali scritti dagli artisti stessi ribadendo anche in questo caso che la disanima artistica non è disgiunta né dalla pratica né dall’esistenza. Tornando alla premessa iniziale, la predisposizione interiore appare essere una condizione essenziale per entrambe. Il rimando frequente a una natura misteriosa e silente non è semplice coincidenza tematica; indica invece un atteggiamento contemplativo che si accorda con un’abitudine del vivere che predispone l’animo all’istante creativo per entrambi gli artisti; il fare un passo indietro, la riduzione dell’ego al lumicino, il non palesarsi, non appaiono come rinunce a un punto di vista soggettivo quanto scelte che aiutano l’emersione di alcuni aspetti importanti. Sia in Masao che in Frani infatti l’aspetto umano non è distaccato né è a discapito della natura ma in comunione totale con essa; non si perce-


meta osservatorio

Raffaella Nobili pisce rottura tra opera e osservatore. Ciò significa che l’uomo è compreso all’interno del processo di accadimento delle cose, di cui il fenomeno artistico non è che uno dei molteplici aspetti. In entrambi gli artisti coesiste il desiderio appena sussurrato di indagine, di approccio rispettoso alla natura e all’arcano che la abita. Spesso infatti sia la pittura di Frani che la fotografia di Masao indugiano a descrivere le zone di confine, quelle aree in cui l’indefinitezza diventa la cifra decisiva di riferimento dell’opera. Guardando di Frani: Il Grande canto, piuttosto che la serie Il velo del mondo il tema non è più il soggetto stesso ma ciò che sta nelle pieghe, seminascosto: il limes tra cielo e terra in mutevole cambiamento e il rapporto simbolico e chiaroscurale tra il dentro e fuori alla soglia del bosco. L’utilizzo del nero in sottrazione con la filiazione infinita dei grigi stesi per velature, ribadisce otticamente l’importanza attribuita alle zone d’ombra, concettualmente ed esteticamente. L’aderenza pittorica alla riproduzione quasi fotografica della realtà di Frani gioca ambiguamente con gli aspetti pittorici insiti nella fotografia di Masao. Più in particolare ciò che colpisce al primo sguardo è la mimesis di cui Frani si serve nella riproduzione puntuale del mondo fenomenico, mostrando una perizia tecnica di altri tempi che non si esaurisce mai in un esercizio di stile puro e semplice. Ciò che riesce appunto a trasferire sulla tavola, è infatti citato nel titolo della mostra: l’inespresso. Grazie al non detto la pittura descrittiva del reale

allude a una sfera simbolica più profonda, divenendo massimamente evocativa di valori spirituali che attengono all’ambito del sacro. La descrittività miniaturistica non è che un mezzo espressivo ben lontano dall’esaurire il senso ultimo delle sue opere. Il comune sentire è dunque palpabile e intelligentemente avvalorato dalle scelte curatoriali in sede di allestimento. È altrettanto però evidente, in seconda battuta, quanto in Masao l’idea del tempo, non disgiunta da quella di spazio, ricalchi l’eterna ciclicità non solo nei soggetti scelti quanto nella fissità immota in cui gli elementi naturali sono immersi. Come se l’infinito fosse una somma di momenti presenti in successione perpetua. Fotografie quali Unite, Dance E o Free at last condividono simultaneamente l’aspetto della quotidianità e l’aspirazione all’eterno riuscendo nell’impresa titanica di far coesistere la sensazione di immobilità siderale che proviamo contemplando le stelle, e di movimento, dandoci la misura di quanto, di contro, alcune opere di Frani rimandino invece all’aspetto più fugace della realtà. Il sentimento di stupore e commozione che percepisce il fruitore è sintomo di compartecipazione emotiva e silente alla bellezza del mondo che diventa sensazione chiara, netta e sensibile di come le cose sono ed evolvono instancabilmente e, non ultimo, il nostro farne parte. In questo senso sembra che i due si completino e esaltino reciprocamente mostrando come tra similitudini e differenze, un puzzle più grande e alla fine unitario vada formandosi. Ettore Frani, Il dono, 2017, olio su tavola laccata, cm 70x100 (foto di Paola Feraiorni.)


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