Originale, copia, riproduzione, edizione.

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36 Originale, copia, riproduzione, edizione. Fausta Squatriti


originale, copia, riproduzione, edizione.

Man Ray, Cadeau, 1921-1974. 5000 esemplari ciascuno corredato da un certificato numerato e firmato. Luciano Anselmino Editore, Torino.

Il valore dell’opera d’arte è la sua unicità di linguaggio, ma sono solo le arti visive che legano il proprio valore all’unicità fisica dell’opera. Perfino l’architettura vale in quanto unica. Le ricostruzioni, per quanto accurate, denotano quasi sempre la diversa epoca storica, mani che hanno pensato diversamente. Per la musica è tutto un altro discorso, essa esiste solo attraverso la sua esecuzione, vale a dire interpretazione. In una concezione piramidale, uno è in cima a tutto quello che dall’uno discende, similmente a come viene spiegata la creazione. Ne deriva che il valore dell’unicità si estende, dal concetto della divinità ad ogni altro bene, desiderabile tanto più in quanto raro. Di quel valore carismatico dell’uno, vogliono potere godere, partecipare, in tanti, e ancor prima della civiltà industriale dove il valore del grande numero soppianta, come indispensabile surrogato, il socialmente ingiusto privilegio dell’uno, si sono inventati vari tipi di espedienti, originando altre forme d’arte, quella dell’artigianato e delle grandi manifatture seriali, porcellane e tessuti, delle stam-

pe, del libro, delle copie, e, dagli anni sessanta in poi, delle opere d’arte tridimensionali create appositamente per essere in più esemplari, ognuna avente lo stesso valore dell’altro, e fu la gallerista parigina Denise Renè, fedele alla tendenza geometrica e cinetica, ad editare, tra i primi, i Multipli dei suoi artisti, contribuendo alla loro popolarità. Ma anche Daniel Spoerri, artista del gruppo Nouveau Realisme editò vari Multipli, sotto la sigla di Edition Mat, attorno al ’62, e verso il ’64 io e Sergio Tosi ci dedicammo in pieno alle edizioni di Multipli. Ma per tornare al tema della moltiplicazione dell’originale, si può dire che nel rapporto tra l’originale e la sua replica (e varie sono state e sono le maniere di replicarla) stia quel tanto che dell’opera originale non si riesce a disperdere, vale a dire il pensiero che si designa al suo interno, necessario all’artista per rendere oggettuale il movente primigenio dell’opera, portatore dell’ aura che sparisce non appena si copia o riproduce l’opera che la possiede, privandola della bellezza. Ma la fame di bellezza escogita da sempre vari accorgimenti per poterla replicare, ben sapendo che la contemplazione riservata a chi si reca colà dove l’opera si trova, e dal vero stabilire con lei un intimo rapporto, è tutt’altro. La potenza evocativa dell’arte è stata capita da tutte le religioni che se ne avvalgono come tramite per toccare il cuore dei credenti ed elevarli verso la divinità della cui magnificenza è metafora e simbolo, così come, assai più grossolanamente, si servono dell’arte i regimi totalitari. L’immagine, anche parzialmente distolta dal suo essere strumento di base all’arte, occupa nel contesto sociale un ruolo assai importante anche oggi, quando il tema-problema del linguaggio visivo si è allargato rovesciando la scala dei valori, per assumere valore proprio in virtù della ripetibilità di un’opera visiva simil-artistica prodotta da una squadra di esperti, che uniscono nozioni di psicologia, comunicazione, linguaggio, per stimolare quell’ immaginario assai complesso che ci rende influenzabili da questo bombardamento emozionale, sia pure di basso rango. Questa metodica, sviluppatasi nel linguaggio pubblicitario, è stata acquisita di rimando da quello artistico, da cui era, in modo diverso, partita con le avanguardie storiche che ci hanno abituato al sottinteso, al non detto, al nulla eloquente, dando luogo ad opere concettuali, dove vale assai più il ragionamente, a discapito dell’emozione, in una fusione delle esperienze linguistiche di cui probabilmente non si può più fare a meno. L’immagine pubblicitaria colma il desiderio collettivo di esteticità, fornendogliela sotto mentite spoglie, più digeribile, comodamente in ogni luo-


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Fausta Squatriti go della città e degli schermi, sostituendosi alle riproduzioni fedeli-infedeli, di opere nate per essere uniche e divenute paradigma del sentimento collettivo del bello. Per alcune opere d’arte famosissime, l’accanimento protrattosi sulla loro icona, Gioconda, angioli di Raffaello, la testa di Adamo della Cappella Sistina, tanto per citarne alcune, rende quasi insopportabili anche gli originali. Da tempo anche Magritte, Mirò, Dalì, Man Ray, sono entrati nell’iconologia di massa. Assai meno Picasso, probabilmente troppo secco; rimangono favorite immagini “leccate”, dalle quali è più facile slittare allo stilema di un gusto che cerca anche oggi, nell’arte, il sublime e non il violento, il sognato e non la denuncia. Fino alla riproducibilità dell’immagine con mezzi fotomeccanici, nella seconda metà dell’ottocento ma evolutisi dalla metà degli anni cinquanta ad oggi in maniera straordinaria, l’immagine per essere diffusa in più copie aveva bisogno di un altro artista, incisore, che la copiasse diligentemente sulla lastra di rame, trasformando in tratti ogni lumeggiatura di colore osservata nell’originale. I risultati, ovviamente in bianco e nero, sono straordinari, perché ci dicono anche del sentimento dell’artistaincisore di fronte all’originale da copiare, e dunque, si presume, anche del sentimento dell’epoca nella quale l’incisore ha vissuto. E queste copie servivano da modello ai pittori di provincia, al cui bagaglio culturale si aggiungevano, probabilmente, i racconti di coloro i quali avevano avuto la fortuna di viaggiare e vedere gli originali dal vero, e ne sapevano raccontare i colori, le suggestioni, con quella precisione necessaria a chi non ha altri mezzi se non la propria memoria. Di copia vera e propria non si può parlare, per la diversissima strumentazione adoperata, per il cambio di supporto, dimensione, e, come già detto, cromia. E si tratta di modelli idealizzati, nel settecento, quando la committenza si allarga ai borghesi di media ricchezza, che alla veduta realistica preferiscono quella di fantasia, mentre la passione per il viaggio iniziatico dilaga in tutta Europa. Il commercio delle stampe è stato fiorente nei secoli passati, prima dell’industrializzazione, lo è massimamente oggi, nell’epoca della riproducibilità tecnica, perché questa è in grado di saziare la fame di “visione” a proposito di qualsiasi argomento, diventando il perno della comunicazione. La tecnica della riproduzione fotomeccanica, figlia della vecchia litografia, ha conosciuto i propri momenti di splendore anche artigianale, dalla fine degli anni cinquanta fino agli anni novanta. In questo lasso di tempo l’editoria d’arte ha vissuto un grande sviluppo e si sono stampate riproduzioni di altissimo livello per una editoria così detta di lusso,

in quanto i costi della buona riproduzione e della buona stampa sono elevati. La buona qualità è stata possibile dall’azione congiunta di figure professionali scomparse, specie quella del cromista, in grado di apporre ritocchi manuali alle pellicole, alle lastre, osservando e interpretando il fotocolor fornito per la selezione cromatica, e nei casi migliori confrontando quest’ultimo con l’originale. L’evoluzione tecnologia ha portato ad avere macchine che fanno tutto da sole, macchine con le quale non si riesce ad interloquire tecnologicamente, non lo si sa fare, non c’è tempo per farlo.

Marcel Duchamp, L.H.O.O.P., 1919 (replica 1930). Ready made rettificato, matita su una riproduzione della Monna Lisa.


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osservatorio

René Magritte, Tete d'homme, s.d. Calcografia.

Ma la digitalizzazione del sistema riproduttivo ha reintrodotto, oggi, la possibilità di intervenire, simil-manualmente, nelle scale cromatiche, e così si potrebbe anche ripristinare la sensibilità e il desiderio di riproduzioni il più fedeli all’originale possibile, se questo desiderio non si fosse in gran parte perduto, sostituito dalla rapidità. Gli artisti si servono delle tecnologie digitali, sostituendole, conseguentemente alle proprie esigenze espressive, ai tradizionali pennelli e colori, peraltro già massimamente obsoleti da almeno mezzo secolo, anche se vari ritorni alla ragione hanno reintrodotto, anche con successo, i mezzi tradizionali nel repertorio tecnologico dell’artista. Ed è così che le tecniche digitali, se pure fotografiche e riferite a un soggetto dedotto dal reale, usate dall’artista producono l’unico originale esistente,

sia pure stampabile in gran numero come la vecchia fotografia, la quale, già ai primi del novecento viene intuita da parecchi artisti come opera d’arte capace di rendere l’immagine del reale più sublime del reale stesso, e conosce la propria consacrazione, non più soltanto come arte collaterale alla pittura, con Steglitz, Man Ray, Moholy Nagy, tanto per fare pochi nomi. Ma il problema della tiratura si pone agli occhi del collezionista, ancora desideroso di avere un’opera unica e irripetibile, mentre la fotografia, come la stampa, è nata per esistere in più copie, e proprio in questo sta il suo successo. Il problema dell’unicità o della molteplicità attiene di conseguenza anche al valore venale con cui si soppesa il pregio dell’opera d’arte. Si pone infatti il problema se una foto di Man Ray faccia parte della tiratura originale, anche se raramente se ne conosce l’esatta tiratura, prima che venisse l’obbligo di numerare e firmare le tirature fotografiche così come quelle delle stampe così dette originali, o se faccia parte di una seconda tiratura voluta dallo stesso Man negli anni cinquanta, oppure se si tratti di una anche più tardiva. Ma va detto che nella poetica dadaista il concetto di unicità viene messo in crisi, e che lo stesso Man autorizzò parecchie tirature, per esempio del suo ferro da stiro con i chiodi, considerandole ogni volta ragionevoli ed originali, ricominciando la numerazione da uno. E’ all’inizio degli anni sessanta che si diffondono maggiormente le edizioni numerate, cartelle di grafiche originali con testi appositamente scritti da poeti, oppure accostati per simpatia e concomitanza di poetica, e sempre negli stessi anni si inventano i cosìdetti “Multipli”, oggetti tridimensionali firmati e numerati, massimamente costruiti da artigiani semi-industrializzati, senza avere mai l’intervento manuale dell’artista, che da artefice si trasforma in progettista. Nascono inoltre i “Libri d’artista”, che si avvalgono di una totale commistione dei generi, e possono sia essere realizzati manualmente dall’artista stesso che per interposta persona. In ogni caso rappresentano un linguaggio che si rapporta liberamente a quello del libro illustrato, dove parole e immagini convivono e collaborano all’unico progetto libro. La sfida operata negli anni sessanta, anni di espansione economica, di ottimismo, di piacere al rovesciamento dei valori così rigidamente mantenuti per secoli, e di grandi utopie economiche e sociali, in parte realizzatesi, ha funzionato, a mio avviso, portando la conoscenza dell’arte ad un maggior numero di persone, anche se l’opera d’arte rima-


meta osservatorio Andy Warhol, Man Ray. Serigrafia (editore Anselmino - tiratura di 250 copie), 1975.

ne non destinata ai grandi numeri. Si sono edite, sempre verso il 65/66, alcuni multipli in edizione dichiarata illimitata, ma l’iniziativa non ha avuto il successo sperato, vuoi perché, per abbassare i costi

di produzione, i progetti si sono impoveriti, vuoi perché quel retaggio di desiderio di possedere, solo tra gli umani, quell’opera d’arte, non è mai del tutto morto, e credo sia giusto così.

Fausta Squatriti, Libro d'artista, 2012 Realizzato in tecnica mista in unico esemplare firmato con l'ausilio di Marco Parini per la copertina metallica.


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