BIMESTRALE ECONOMICO FINANZIARIO
Poste Italiane Spa - Sped. abb. post. DL 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma1, C/RM/22/2013 del 19/06/2013
Anno 2015 Numero 2 MARZO APRILE
EXPO 2015 VERSO IL COUNTDOWN
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AL CAPEZZALE DELL’EUROPA JOSEPH STIGLITZ (Premio Nobel)
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econdo i dati economici più recenti, sia gli Stati Uniti che l’Europa stanno mostrando segnali di ripresa, anche se è presto per dichiarare la fine dalla crisi. Tuttavia, nella maggior parte dei Paesi dell’Unione europea, il prodotto interno lordo (Pil) pro capite è ancora inferiore al periodo precedente la crisi: un intero decennio perduto. (segue a pagina 4)
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IL PUNTO La fine (non) è nota
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ANNIVERSARIO I cento anni della Menarini
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Il Punto La fine (non) è nota Tra Grecia e moneta unica Al capezzale dell’Europa Expo 2015 Rush finale Economia La spinta dei fattori esterni I cento anni della Menarini Il farmaco al primo posto Di scena le telecamere Anagrafe contro la violenza Ministero per il Mezzogiorno Non fiori, ma opere di bene La moda torna a sorridere Dopo Milano si sfila a Parigi Grecia, sconfitta per l’Europa Intervista al Professor Dosi della “Normale” Camere di commercio Dialoghi istituzioni-imprese Acquistare la prima casa Mutuo facile alla BCC Roma Il bilancio si fa integrato Comunicare il valore Morto un patto, se ne fa un altro I rischi del voto plurimo Dottrina sociale della Chiesa Un mercato di valori Come utilizzare l’Art Bonus Mecenati? Sì, grazie Dentro la macchina del tempo Cern, vicini al Big Bang
Ginevra La macchina del tempo a pag 34
Nuova Finanza
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Eleonora Giorgi Diva, divina e anche …”pop”
40 42 44 46 47 48 50
Tutti pazzi per Niki Cinema: Toh…la censura! New York chiama Narni Le tre rose di Eva Una critica umanistica Lourdes, là dove arde la fede Il ciuccio di Pasqua
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IL PUNTO del direttore
LA FINE NON È NOTA
U
n giorno Margareth Thatcher. L’altro Nichi Vendola. Procedendo a zig zag. Un andamento che, nella migliore delle ipotesi, non è il più rapido per collegare due punti. A Matteo Renzi non manca un ego forte. E questo è sicuramente un punto a suo favore e uno dei motivi del suo successo, dopo tanti anni di “politici tentenna”, appassiti prima ancora di fiorire. Ma, perlomeno in economia, questo ego sembra averlo anche diviso. Come sta dimostrando nella pratica. Magari su dossier dalla natura simile. L’acciaio, a esempio. A Taranto si nazionalizza l’Ilva e poi si vedrà se i Riva vinceranno in tribunale, se i parametri ambientali saranno rispettati, se i livelli di produzione permetteranno di non andare in perdita. Ma a Piombino sulla Lucchini si lascia mano libera agli algerini di Cevital e poi si valuterà il piano industriale, si sorveglieranno i livelli occupazionali, si verificherà se l’acquisizione non sia un “Cavallo di Troia” con motivazioni logistico-commerciali più che manifatturiere. Per non dire della “rivoluzione” sulla banda larga, un evergreen della politica industriale italiana mai decollato, tra privatizzazioni-farsa (ma non per chi ci ha speculato e guadagnato) e
di Pietro Romano
progetti farlocchi. Un evergreen lanciato ancora una volta con enfasi ma del quale, ancora una volta, non si conoscono progetto dettagliato, costo effettivo, effettivo finanziatore. Roma vorrebbe che una mano consistente la desse Bruxelles, accollandosi anche più della metà dei 14 miliardi (ma c’è chi ne ha azzardati 18) necessari. Senonché non sembra, al momento, che l’Unione europea nelle sue varie declinazioni abbia deciso di allentare i cordoni della borsa per favorire tale progetto. E’ stata anche ipotizzata la richiesta di attingere al Piano Juncker, ma di questo Piano, per ora, si sa solo che l’Italia, per avviarlo, verserà un contributo di 8 miliardi, messi a disposizione dalla Cassa depositi e prestiti. Una enormità, se paragonata ai 10 miliardi promessi dai tedeschi e al miliardo e mezzo garantito dagli spagnoli. Senza conoscere ancora quale tornaconto ne avrà il sistema Paese. Il peggio, sul fronte dell’economia all’epoca degli annunci via twitter, si è però raggiunto con le banche. Da un verso, c’è la vicenda del Monte dei Paschi di Siena. La cassaforte della Toscana non riesce a rimborsare i Monti bond? Niente paura. Ci pensa Pantalone a ripagarli attraverso il Tesoro, che ne diventa azionista di riferimento. Una decisione che congela la
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vita del Monte, nazionalizzandolo di fatto. Ed evita (provvidenzialmente?) di chiarire un nugulo di misteri che, negli anni a venire, è destinato facilmente a diventare per gli autori di fanta-cronache un soggetto più redditizio degli Illuminati. In attesa delle ricostruzioni (più o meno) romanzate sarebbe stato meglio ottenere risposte ufficiali, plausibili e soprattutto rapide, su alcune domandechiave. Chi ha affidato la banca a dirigenti che non avevano lavorato nemmeno un giorno nel mondo del credito? Sono stati controllati adeguatamente (per esempio, dalla Banca d’Italia) i conti della AntonVeneta che, una volta acquisita, ha affondato il Monte? Sono stati vagliati i rapporti tra controllori e controllati, soprattutto pubblici e nel territorio di riferimento, nelle vicende della banca più vecchia del mondo? All’opposto del comportamento tenuto dal governo sul Monte, però, emerge quello sulle banche cooperative. Per decreto legge il governo ha deciso di rivoluzionarle, trasformandole in spa. Per ora, si comincia a normalizzare le più grandi. Poi si vedrà. Eppure, non esiste alcuna evidenza empirica al mondo che sostenga l’idea su cui si fonda la riforma, vale a dire che, per essere efficiente, una banca debba essere una società per azioni. Né, dai dati di bilancio, emerge che le banche cooperative abbiano accumulato un gap con le banche spa sia in tempi normali, vale a dire prima del 2008, sia negli anni della crisi. Anzi, sono proprio le banche cooperative, popolari o Bcc, ad aver finanziato più cospicuamente l’economia reale (famiglie e mondo delle imprese, in specie micro, piccole e medie)
negli anni della crisi. Del resto, questo tipo di banca esiste in tutti i Paesi industrializzati e in nessuno vengono penalizzate in quanto tali, come si vuol fare in Italia, tracciando una linea che non tiene nemmeno conto della quotazione o meno in Borsa ma solo, arbitrariamente, della capitalizzazione. Nel frattempo, in barba alla legge che tutelerebbe i settori strategici italiani, il nostro Paese esce da comparti importanti per la ricerca e il manifatturiero e destinati, secondo gli strateghi economici, a un grande futuro. E’ il caso del ferroviario, con la vendita delle imprese trainanti alla giapponese Hitachi (dopo averle risanate spendendoci miliardi, come per Ansaldo Breda) che, per ora, non ha nemmeno presentato un piano industriale. Invece di limitarsi alle “grida” sui settori strategici da difendere (che ricordano tanto quelle dei governanti spagnoli a Milano riportate da Alessandro Manzoni) sarebbe stato più opportuno facilitare gli investimenti per tenerne in Italia la testa e il cuore e per irrobustirle, con investimenti e acquisizioni all’estero. Una strada poteva essere quella degli incentivi a questo genere di investimenti riconosciuti
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alle Società di gestione del risparmio o alle Casse previdenziali. Si tratta di quasi mille miliardi di euro che avrebbero potuto fare la differenza per il sistema Paese. Ma, ancora una volta, in Italia si è scelta una politica passiva rispetto alla competizione globale. Se l’esperienza non inganna, la fine è purtroppo, ancora una volta, nota. A meno che Renzi, ancora una volta, non ci spiazzi. Non sarebbe il primo caso. Negli anni della crisi, imprese e famiglie hanno perso circa 100 miliardi di crediti non rinnovati dalle banche. Se il premier riuscisse a far confluire, davvero, all’economia reale una parte consistente del Quantitative Easing convogliato dalla Banca centrale europea verso il nostro Paese si potrebbe innescare un ciclo positivo su cui potrebbe poi verificarsi l’effettiva qualità di provvedimenti come il Jobs Act. L’Italia ha enormi potenzialità inespresse, a esempio nella manifattura e nell’agro-alimentare. Forse basterebbe poco per portarle alla luce.
Matteo Renzi
TRA GRECIA E MONETA UNICA
AL CAPEZZALE DELL’EUROPA Joseph Stiglitz*
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econdo i dati economici più recenti, sia gli Stati Uniti che l’Europa stanno mostrando segnali di ripresa, anche se è presto per dichiarare la fine dalla crisi. Tuttavia, nella maggior parte dei Paesi dell’Unione europea, il prodotto interno lordo (Pil) pro capite è ancora inferiore al periodo precedente la crisi: un intero decennio perduto. Dietro alle fredde statistiche, ci sono vite rovinate, sogni svaniti e famiglie andate a pezzi (o mai formatesi), un futuro quanto mai precario per le generazioni più giovani, mentre la stagnazione – in Grecia la depressione – avanza anno dopo anno. L’Ue vanta persone di talento e con un alto grado di istruzione. I suoi Paesi membri contano su forti quadri giuridici e società ben funzionanti. Prima della crisi, la maggior parte aveva persino economie ben funzionanti. In alcuni Paesi, la produttività oraria – o il suo tasso di crescita – era tra le più alte del mondo. Ma l’Europa non è una vittima di errori altrui, come spesso si legge. Certo, l’America ha mal gestito la propria economia, ma il malessere dell’Ue è in massima parte auto-inflitto, a causa di una lunga serie di pessime decisioni di politica economica, a partire dalla creazione dell’euro. Sebbene
l’intento sia stato quello di unire l’Europa, alla fine l’euro l’ha divisa: i Paesi più deboli (caratterizzati da alta inflazione, dualismo territoriale, deficit della bilancia dei pagamenti e di bilancio pubblico, alta disoccupazione e notevole quota di economia sommersa, ora con malcelata arroganza indentificati come Piigs) sono riusciti, per ora, a rimanere nell’euro a prezzo di disoccupazione e deflazione salariale, crollo della domanda interna e aumento del “sommerso”. In assenza della volontà politica di creare istituzioni in grado di far funzionare una moneta unica - innanzi tutto una politica fiscale unica - nuovi danni si aggiungeranno ai danni già prodotti. Gli squilibri in Europa sono aggravati dalla divergenza nelle esportazioni nette, e solo una politica fiscale comune può far in modo che i flussi commerciali del Portogallo verso l’Olanda diventino simili a quelli dell’Oregon verso il Missouri o del Brandeburgo verso la Baviera. La Grande
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Recessione deriva in parte dalla convinzione che il liberismo di mercato avrebbe riportato le economie su di un sentiero di crescita “adeguato”. Tali speranze si sono rivelate sbagliate non perché i Paesi dell’Ue non siano riusciti a realizzare le politiche prescritte, ma perché i modelli su cui hanno poggiato quelle politiche sono gravemente viziati. In Grecia, a esempio, le misure intese a ridurre il peso debitorio hanno di fatto lasciato il Paese più indebitato di quanto non fosse nel 2010: il rapporto debitoPil è aumentato a causa dello schiacciante impatto dell’austerità fiscale sulla produzione. Il Fondo monetario internazionale ha ammesso questi fallimenti politici e intellettuali. Verrà anche quel tempo per la Troika. Speriamo non, come si dice in Italia, “a babbo morto”. I leader europei restano convinti che la priorità debba essere la riforma strutturale. Ma i problemi che menzionano erano evidenti negli anni precedenti la crisi, e non avevano fermato la crescita allora. All’Europa serve più che una riforma strutturale all’interno dei Paesi membri. All’Europ a serve una riform a
della struttura dell’eurozona stessa, e l’inversione delle politiche di austerity, che non sono riuscite a riaccendere la crescita economica. Condividere una moneta unica costituisce ovviamente un problema poiché così facendo si rinuncia a due dei meccanismi di aggiustamento: i tassi di interesse e il cambio. Se si aderisce a una moneta unica, la rinuncia ad alcuni strumenti di politica economica può essere compensata sostituendoli però con qualcosa d’altro, come una politica fiscale comune e condivisione dei debiti, mentre ad oggi l’Europa non ha messo in campo altro che il fiscal compact. Serve un cambiamento strutturale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa sopravvivere: o ci sarà l’Europa politica (Stati Uniti d’Europa) o non ci sarà l’euro. Coloro che pensavano che l’euro non avrebbe potuto sopravvivere si sono ripetutamente sbagliati. Ma i critici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga riformata la struttura dell’Eurozona, e fermata l’austerity, l’Europa non si riprenderà. Il dramma dell’Europa è ben lungi dall’essere concluso. Uno dei punti di forza dell’Ue è la vitalità delle sue democrazie. Ma l’euro ha lasciato i cittadini – soprattutto nei Paesi in crisi – senza voce in capitolo sul destino delle loro economie. Gli elettori hanno ripetutamente mandato a casa i politici al potere, scontenti della direzione dell’economia, ma alla fine il nuovo governo continua sullo stesso percorso dettato da Bruxelles, Francoforte e Berlino.
Ma per quanto tempo può durare questa situazione? E come reagiranno gli elettori? In tutta Europa si è assistito alla crescita di partiti nazionalistici estremi, mentre in alcuni Paesi sono in ascesa forti movimenti separatisti. E potranno le economie dei paesi periferici sopravvivere ad una unione monetaria incompleta e asimmetrica? Ora la Grecia sta ponendo un altro test all’Europa. Il calo del Pil greco dal 2010 è un fattore ben più grave di quello registrato dall’America durante la Grande Depressione degli anni trenta. La disoccupazione giovanile supera il 50%. Il governo del primo ministro Alexis Tsipras ha ottenuto che venga abbandonato l’insano obiettivo – assunto dal precedente governo di Atene – di triplicare l’avanzo primario, anche recuperando parte dell’evasione fiscale. Forse Syriza aveva acceso aspettative diverse sul piano interno. Ma l’Europa tutta deve ora cogliere l’occasione greca per completare il disegno dell’euro. Il problema non è la Grecia. È l’Europa. Se l’Europa non cambia – se non riforma l’Eurozona e continua con l’austerity – una forte reazione sarà inevitabile. Forse la Grecia ce la farà questa volta. Ma questa follia economica non potrà continuare per sempre. La democrazia non lo permetterà. Quant’altra sofferenza, però, dovrà sopportare l’Europa prima che torni a parlare la ragione? (www.sbilanciamoci.info) *Premio Nobel per l’Economia nel 2001
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PRESENTI OLTRE 140 PAESI
EXPO 2015, RUSH FINALE Sandro Neri*
M
ILANO. L’argano che sale lento, la difficile manovra di avvicinamento, lo sguardo dei presenti fisso al cielo, sotto gli elmetti bianchi. Il fiato sospeso. Poi, festoso e liberatorio insieme, l’applauso, a suggellare la piena riuscita dell’operazione. È iniziato così, con la posa della chioma in cima al tronco dell’Albero della Vita, il rush finale dei lavori sul sito espositivo. L’Expo 2015, la kermesse che riunirà a Milano i rappresentanti di oltre 140 Paesi di tutto il mondo attorno al tema «Nutrire il pianeta, energia per la vita», gioca l’ultima parte della sua sfida più impegnativa: arrivare puntuale all’appuntamento del primo maggio, giorno del taglio del nastro. Affidato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che si è candidato a farlo, e forse anche al presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha definito l’Expo di Milano il simbolo della ripartenza del Paese. Nel cantiere del sito espositivo - un’area di un milione di metri quadrati di superficie, tra le città di Milano e Rho - la corsa contro il tempo impegna oltre 4.000 persone ogni giorno, tra tecnici e operai. E con la posa della chioma dell’Albero della Vita, l’icona del Padiglione Italia, il progresso dei lavori è ora visibile anche da lontano. Dalle due autostrade che corrono parallele al sito. Con i suoi 35 metri di altezza, l’Albero della Vita è la costruzione più alta dell‘intera Expo. Realizzata in acciaio e legno di larice, la
chioma è stata costruita e issata gratuitamente, a tempo di record, da Orgoglio Brescia, il consorzio di aziende costituito per dare forma al progetto di Marco Balich: 45 metri di diametro, non è stata issata con una gru, ma con un sistema di argani e carrucole. Un’operazione senza precedenti che ha richiesto un paio d’ore. Per costruire l’Albero, che con una serie di effetti speciali diversi per il giorno e la notte garantirà 260 giochi di luce nei sei mesi dell’Esposizione universale, sono servite 90 tonnellate di legno e 150 tonnellate di acciaio. Ora saranno posizionate anche le piante che saranno inserite su tronco e chioma e tutti i macchinari per gli effetti speciali, inclusi 7 chilometri di led. L’Albero - che riprende un simbolo presente in «tutte le culture, dalla Bibbia ad Avatar», come spiega il suo ideatore Marco Balich - è ispirato al mosaico del duomo di Otranto, ma soprattutto al pavimento di piazza del Campidoglio progettato da Michelangelo, di cui sarà creata una versione in 3D.
Il padiglione Italia
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Tutt’intorno, cresce l’immenso parco tematico che darà forma e colori all’Expo di Milano. A poche settimane dall’inaugurazione, i contorni dell’intero progetto sono perfettamente riconoscibili. Molti i Paesi che hanno già finito di edificare il Padiglione e sono agli allestimenti: la Repubblica Ceca, il Bahrain (che aspetta la primavera per piantare
le palme), la Svizzera, l’Uruguay, l’Azerbaijan. L’Austria ha traslocato un bosco, il Vietnam è circondato di colonne di legno che diventeranno una giungla, l’Angola ha terminato di montare la sua maxi-scritta in 3D, la Bielorussia il suo mulino. Sono all’ultima fase anche i Cluster, i nove padiglioni tematici dedicati a cacao, caffè, frutta, mare e isole o zone aride. L’appalto da oltre 44 milioni di euro (diviso in tre lotti) è in dirittura d’arrivo. Sulle scatole specchiate del cluster del riso, ad esempio, già si
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riflette l’acqua delle vasche dove sarà piantata una risaia. Si lavora sotto le cupole del Padiglione Zero, che accoglierà la mostra simbolo sul rapporto tra uomo e cibo nella storia. «Sono due i padiglioni in ritardo, l’Ecuador e la Turchia, ma contiamo che arrivino comunque a completare i lavori e se qualcosa rimarrà in termini di finiture ci sta anche: ricordo che il visitatore si troverà di
fronte un’ottantina di padiglioni», fa sapere Giuseppe Sala, commissario unico e ad di Expo. Che rassicura sul rispetto del cronoprogramma: «I lavori proseguono frenetici. L’ultima fase sta diventando ovviamente convulsa, con 4.800 persone al lavoro. Tuttavia continuo ad essere sereno che al 1 maggio arriveremo in condizioni di aprire bene l’Expo: alle 12 del 1 maggio avremo un sito splendido dal punto di vista architettonico, ben attrezzato e funzionante». L’Expo aprirà al pubblico alla presenza di molti capi di Stato stranieri. Per questo, ha annunciato Sala, servirà «un controllo speciale» di sicurezza. E non solo quel giorno. Chiunque entrerà sarà controllato, anche grazie alle duemila telecamere posizionate lungo il perimetro. In questi giorni è iniziato il collaudo dei tornelli ai quattro ingressi da cui entreranno i visitatori, che dovranno passare controlli con archi e metal detector come in aeroporto. E anche i camion subiranno un controllo con «sistemi radiogeni» di cui si occuperanno in un’area del sito i 600 militari in arrivo a Milano per l’Esposizione. Superata l’ansia per i ritardi sulla tabella di marcia del cantiere, quello della sicurezza è il nodo più importante. L’elenco delle personalità attese sul sito è ancora incompleto e coperto da una certa riservatezza. Ma per il primo maggio è data per certa la presenza della cancelliera Angela Merkel, il 16 ottobre ci sarà il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e inviti sono stati inoltrati a Michelle Obama e a Papa Francesco. Vladimir Putin, accogliendo l’invito del presidente del Consiglio Matteo Renzi, parteciperà all’evento il prossimo 10 giugno, nella giornata che l’Expo dedicherà alla Russia. Lo stesso Renzi, prima di annunciare l’arrivo del presidente russo, a colloquio con il premier Dmitri Medvedev nel palazzo delle cerimonie del Governo di Mosca, ha confessato di aspettarsi «una buona presenza» di russi in Italia. L’interesse per l’ Giuseppe Sala, commissario Expo Expo 2015 cre-
sce di settimana in settimana: la pagina Facebook dell’evento milanese ha superato il milione di like, mentre su twitter l’esposizione universale è già seguita da 374 mila persone. A due mesi dall’apertura sono stati venduti otto milioni e mezzo di biglietti: oltre il 60 per cento, cioè 5 milioni e 200 mila ticket, sono stati acquistati all’estero; tre milioni e 300mila in Italia. Solo in Cina, ha avuto modo di precisare Sala, «sono stati venduti un milione di biglietti e altri 700mila negli Stati Uniti, dove contiamo di arrivare a un milione». Il New York Times, d’altronde, ha definito Milano la prima meta turistica del 2015. «Quell’articolo ha dato un boost straordinario», ammette il commissario unico. «Sugli Stati Uniti lavoriamo anche sugli italiani di seconda generazione. Siamo in corsa per arrivare a 10 milioni di biglietti entro il primo giorno». Dal 6 marzo scorso il sito dell’Expo ha anche una stazione dedicata. Si chiama «Rho Fiera Expo Milano 2015». Nei sei mesi della kermesse fermeranno qui, ogni giorno, 19 Frecciarossa, 18 Frecciabianca, quattro Intercity notte e 26 treni da e per Svizzera e Francia. Potenziata anche l’offerta ferroviaria regionale gestita da Trenord. In totale saranno 615 i treni messi in pista dalle ferrovie italiane per facilitare l’arrivo dei visitatori. «Centomila», ha dichiarato Vincenzo Soprano, ad di Trenitalia, «i biglietti già venduti, 5.000 dei quali ai ragazzi delle scuole». Il semestre di Expo, inoltre, coinciderà anche con l’arrivo su binari ad alta velocità del Frecciarossa 1000 che Fs definisce «il più moderno e tecnologico treno veloce europeo», capace di viaggiare a 350 chilometri orari. E tre convogli ad alta velocità, vestiti dei colori e del logo dell’Expo di Milano, viaggeranno lungo le principali tratte italiane per promuovere l’appuntamento. *Caporedattore de “Il Giorno”
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ECONOMIA: RIPRESA SÌ, RIPRESA NO
LA SPINTA DEI FATTORI ESTERNI Alberto Mazzuca
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ipresa sì, ripresa no? Certo, dopo tre anni di recessione, prima o poi una minima svolta doveva esserci anche a casa nostra. E il segnale c’è stato quando il nostro Pil ha mostrato dopo tanto tempo un segno positivo dello zero virgola. È tanta la voglia di vedere la luce in fondo al tunnel o, per dirla in maniera più romantica, di ammirare la bellezza dell’arcobaleno come ha twittato il premier Renzi, da trasformare una serie di indicatori (finalmente positivi) nei segnali che spingono l’Italia fuori dalla crisi. A creare questa speranza di crescita hanno contribuito tutti fattori esterni: la svalutazione dell’euro (un buon 20% in un anno) che dà una bella spinta all’export (e l’export vale un terzo del
nelle mani di Draghi, le Borse salgono, lo spread Btp-Bund scende sotto la soglia psicologica dei cento punti e quindi come prima della crisi, la fiducia dei consumatori e delle imprese cresce. Insomma, ci siamo risvegliati. Per merito degli altri, è vero, ma qualcosa si è mosso. E ha ribaltato la situazione. Se non è ancora del tutto vera ripresa, siamo comunque di fronte ad una
mentre per il restante 80% le eventuali perdite graveranno sulle rispettive banche centrali; prevede nell’eurozona una crescita dell’1,5% per il 2015, mezzo punto in più delle stime di dicembre. E il
Il Premier Renzi, in visita allo stabilimento di Melfi
Pil); la riduzione del prezzo del petrolio; l’avvio della politica di stimolo della Bce, il cosiddetto Qe, “quantitative easing”. E grazie proprio a questo “bazooka”
realistica speranza di ripresa. Dal 9 marzo la B c e stampa 60 miliardi al mese di quattrini freschi (45 miliardi per gli acquisti di titoli di Stato, anche con rendimento negativo, 15 miliardi di obbligazioni); si espone al rischio di perdite solo sul 20% degli acquisti
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trend è destinato a prender velocità: nel 2016 il Pil dell’eurozona salirà dell’1,9% (contro l’1,5%) e del 2,1% per il 2017. Sul fronte dei prezzi l’inflazione frenerà ancora quest’anno fino a zero, sotto la pressione del calo dei prezzi energetici che, chiarisce Draghi, «ha senz’altro effetti positivi ma può comportare in un secondo momento effetti negativi». Ma ora, grazie a questa politica di stimolo, nel 2016 i prezzi saliranno dell’1,5% per poi arrivare all’1,8% nel 2017. Entro due anni il tasso di inflazione sarà poco sotto il 2% e se così non fosse, la politica di stimolo andrebbe avanti anche dopo il settembre 2016. La grande iniezione di liquidità voluta da Mario Draghi nonostante gli occhi feroci dei tedeschi ci garantisce quindi
un certo periodo di tranquillità, c’è chi sostiene quanto meno un anno, perché l’esperienza ricavata dalle politiche di stimolo effettuate dalle altre banche centrali a partire dal 2008 ci dice che un po’ tutti ne traggono benefici. Soprattutto le Borse. Grazie a questi miliardi di euro c’è così la speranza che in Italia la recessione diventi un ricordo, che le banche riprendano a prestare soldi una volta che non sono più impiombate da Bot e Btp e nemmeno bloccate dalle tante sofferenze (350 miliardi) che dirotteranno in una “bad bank” non ancora in dirittura d’arrivo ma quasi (salvo intoppi), che le imprese (tutte, non solo quelle che guadagnano con l’export) investano, che gli italiani mettano mano al portafoglio e spendano, che i consumi interni riprendano. E che quindi questo vecchio elefante intorpidito che è l’Italia dia qualche segnale di vita e incominci a crescere. Può annoverare a suo favore anche una spinta in più: dall’autunno ad oggi le scorte nei magazzini si sono esaurite. Un anno di tranquillità è sempre qualcosa di piacevole. Coincidenza vuole che questa aspirina di Draghi sia stata somministrata proprio negli stessi giorni in cui è diventato da noi operativo il “Jobs Act”, e cioè il massimo sforzo prodotto da questo governo ma insufficiente per ridurre la disoccupazione. Certo, le promesse sono tante dopo questa violenta spallata ai diritti dei
lavoratori, la Fiat parla di 1500 assunzioni a Melfi, la Telecom di quattromila nuovi contratti in due anni, il centro studi Unimpresa sostiene che entro l’anno potrebbero esserci 250 mila nuove assunzioni. Vedremo. Ma intanto questi nuovi contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti sono solo un pezzo di una riforma più complessiva e difficilmente favoriscono la mobilità in quanto si applicano ai nuovi assunti. Quindi, anche se ora ci sono prospettive potenziali di crescita per la nostra economia, la strada da percorrere per arrivare ai livelli pre-crisi è ancora lunga. Già, perché la macchina dello Stato è quella che tutti conosciamo, farraginosa, lenta, burocratica, spreca risorse, corrotta. E con una macchina di questo tipo, guidata per di più da una classe politica di non eccelso livello, non si può fare molta strada. Oltre a tutto nel mondo i venti non soffiano a favore. Un discreto numero di paesi, dall’Australia alla Cina sino al Giappone, ha fatto o sta facendo ricorso all’arma della svalutazione competitiva. Secondo uno studio JP Morgan, ben diciotto banche centrali su trentatre prese in esame hanno utilizzato questa strategia. Ma se tutti fanno la stessa cosa, ben presto gli effetti positivi si annullano. E non solo le uniche perplessità, ci sono anche quelle che arrivano dalle esperienze pre-
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cedenti: sei anni di ben tre robusti Qe della Fed americana hanno fatto macinare record solo alle Borse, rendendole dipendenti alla grande quantità di denaro a costo zero. Al di là di quel che è successo con la Grecia e il suo debito non ripagabile in questa vita nemmeno con la migliore buona volontà, vediamo cosa accade altrove. Tutte le manovre di stimolo giapponesi, la cosiddetta “Abenomics”, hanno prodotto un forte deprezzamento dello yen ma non sono riuscite a scalfire il debito, ormai vicino al 300% del Pil. L’impressione è anzi che la luna di miele prodotta dall’Abenomics stia finendo: la Borsa di Tokyo è ai massimi da quindici anni ma il tasso dei senza lavoro è cresciuto al 3,6%, sono sempre in ribasso le vendite al dettaglio grazie anche all’aumento dell’Iva, le spese dei giapponesi sono crollate. La Cina, l’unico paese a crescere ma con un forte rallentamento rispetto al suo standard, ha venduto miliardi di dollari di titoli Usa, ha acquistato oro arrivando ad avere riserve auree seconde solo agli Stati Uniti e ha imposto lo yuan come moneta benchmark sul mercato degli scambi commerciali in contrapposizione al dollaro. La Russia sta effettuando una dedollarizzazione piuttosto seria, con più di no-
vanta banche russe a testare e a sostituire il sistema di pagamento internazionale Swift con uno equivalente ma proprio. Infine l’economia Usa, basata al 70% sui consumi e solo al 13% sull’export, sembrava avere ripreso a correre con un Pil schizzato al 5% (grazie anche al trucchetto della ricalendarizzazione delle spese legate al programma Obamacare) ma ora sta invece frenando di brutto con il Pil crollato al 2,3%. Certo, la disoccupazione americana è scesa al 5,5% e questo è un fatto estremamente positivo. Ma ci sono anche altri dati decisamente negativi, dal tonfo nelle vendite alla diminuzione degli ordinativi, dalla serie di default tra i piccoli produttori di shale gas al calo dei profitti aziendali. È un quadro, dicono gli esperti, che difficilmente porterà la Fed americana ad alzare i tassi né a giugno né a settembre. Di conseguenza c’è da sperare, almeno fino a quando gli Usa manterranno il dollaro forte, che la tranquillità sia per noi assicurata. Ma non è proprio il caso di stappare lo champagne. Al-
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meno non ancora. Il nostro governo sostiene che con le riforme economiche appena approvate avremo un aumento aggiuntivo del Pil del 3,6% in cinque anni. Ed anche l’Ocse è più o meno dello stesso avviso. Benissimo, quindi, il peggio è davvero alle spalle. Poi, con un po’ di calma, s’inquadra meglio la situazione. Risultato: l’incremento del 3,6% in cinque anni si aggiunge alle previsioni di crescita fatte senza tener conto delle riforme, vale a dire poco sopra l’1% ogni anno. Sommiamo ed avremo una previsione di crescita complessiva del Pil attorno al 9% nel periodo 2016-2020. Cioè meno del 2% medio annuo. Significa deindustrializzazione e disoccupazione sempre alta. Nonostante il passo da corsa voluto da Renzi, significa trovarci ancora con il bicchiere semi vuoto o, se si vuole, semi pieno. Per fortuna che, stando ad una ricerca della Confindustria, le imprese italiane non hanno mai perso la propensione ad investire e innovare per cui, su questo piano, in Europa sono seconde solo a quelle tedesche e nel mondo sono tra le prime. Godiamoci allora questo anno di tregua in attesa che il sistema bancario si risani definitivamente e rapidamente.
I CENTO ANNI DELLA MENARINI
QUALITÀ DEL FARMACO AL PRIMO POSTO
C
orreva l’anno 1886, un farmacista, Archimede Menarini, aprì nel centro di Napoli, una farmacia che chiamò “Farmacia Internazionale”. Internazionale: oggi appare una denominazione normale, anche un po’ scontata. Ma nel 1886, l’Italia - cioè il Regno d’Italia era nato da poco più di 20 anni e pensare già in termini di “internazionale” dimostrava una visione davvero lungimirante
Lucia Aleotti, Presidente della Menarini
per l’epoca. In particolare se si pensa che la piccola farmacia è diventata oggi una multinazionale. Trasferitasi a Firenze nel 1915, probabilmente per la vicinanza ad Empoli, grande produttrice - in quegli anni - di vetro per le fiale e per le bottiglie dei farmaci, ebbe la sua crescita esponenziale dal 1964 con l’arrivo del Dott. Aleotti. Lucia Aleotti Presidente del Gruppo Menarini: “Nostro padre oltre a consolidare Menarini sul territorio italiano, ha iniziato l’espansione all’estero di Menarini. Il primo paese è stato la Spagna per vicinanza culturale, dove furono creati i “Labora-
torios Menarini”, continuo’ con altri paesi dell’Europa e nel 1992, nostro padre fece la grande scommessa con Berlin Chemie. Berlin Chemie è stata trasformata da azienda statale della Germania Est, ad industria dinamica che oggi è “testa di ponte” con tutti i Paesi dell’est”. Continua il fratello, Alberto Giovanni, vicepresidente: “ Ad oggi l’ultima acquisizione nel 2011 in Asia Pacific, dove abbiamo comprato un Gruppo farmaceutico con sede a Singapore e presente in 13 Paesi (Singapore (sede), Cina, India, Australia, Corea del Sud, Taiwan, Tailandia, Filippine, Indonesia, Vietnam, Nuova Zelanda, Hong Kong e Malesia) con 3.000 dipendenti e un fatturato che supera i 270 milioni di dollari. Oggi si chiama Menarini Asia Pasific.” Oggi il Gruppo Menarini è presente in oltre 100 Paesi con un fatturato che supera i 3,3 miliardi di euro. Un’azienda con 5 centri di ricerca e sviluppo e biotecnologia, 3 in Italia, uno in Germania e uno in Spagna, dove vengono portati avanti studi nelle aree terapeutiche di oncologia, dolore-infiammazione, cardio-vascolare, metabolismo. Nell’ambito della collaborazione tra Berlin Chemie/Menarini e l’inglese OBT (Oxford BioTherapeutics ), stipulata nell’ottobre 2012 il Gruppo Menarini ha siglato un importante accordo per 5 anticorpi in ambito oncologico, per un impegno di ricerca di oltre 800 milioni di Euro in un arco di tempo pluriennale. La prima molecola in studio è stata il MEN1112, per il trattamento della leucemia mieloide acuta e il secondo il MEN1309 per i linfomi Non Hodgkin e per i tumori solidi. Una produzione farmaceutica organizzata in 14 stabilimenti (3 in Toscana, 1 a L’Aquila e 1 in Lombardia, a Barcellona, in
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Lucia e Alberto Giovanni con il padre Alberto Aleotti
Irlanda, in Indonesia, 2 a Berlino e 1 a Dresda, uno in Centro America, Russia, e Turchia) , con la distribuzione nei cinque continenti di 580 milioni di confezioni l’anno. Con grande soddisfazione, commenta Lucia Aleotti, possiamo dire oggi che il Gruppo Menarini è diventato il primo gruppo farmaceutico italiano, il 16° in Europa su 5.291 Aziende e 36° nel mondo su 19.042 aziende (fonte IMS). “Il gruppo farmaceutico e il capoluogo toscano “sono ormai legati - ha proseguito Aleotti - anche se stiamo sempre più crescendo all’estero, come in Asia, cresciamo anche a Firenze: solo nella sede centrale dal 2009 a oggi abbiamo creato 200 nuovi posti di lavoro qualificati. Alimentiamo un indotto anche grazie alle persone che ci vengono a
trovare da tutto il mondo. Abbiamo commissionato uno studio ad hoc sull’effetto economico dell’azienda sulla città e i dati preliminari sono davvero importanti. Quest’anno festeggeremo “un secolo di fiorentinita’” commenta
Lucia Aleotti, 100 anni in cui Menarini è cresciuta con Firenze. Questo è stato sempre il grande orgoglio della nostra famiglia, crescere in Firenze. Quando nostro padre entró in azienda con questa filosofia, nel 1964, Menarini aveva solo 188 dipendenti, oggi è una multinazionale di oltre 16.000 dipendenti. Io e mio fratello Alberto Giovanni portiamo avanti questa medesima grande tradizione, radici solide nella nostra città ed espansione nel mondo. Questa la ragione per cui abbiamo deciso di celebrare i nostri 100 anni fiorentini. Un primo evento dedicato all’arte, perché Firenze è arte, che accompagna l’azienda con la tradizione delle sue meravigliose monografie e con la sua storica rivista “Minuti Arte”. Ma tante altre saranno anche le iniziative di questo centenario, dedicate al sociale, ai bambini, ai giovani, al lavoro, allo sport, ambiente... sempre tenendo presente il nostro obiettivo: Qualità del farmaco al primo posto!” (Ka.Ge)
Il Sindaco di Firenze Nardella e il vicepresidente della Menarini, Alberto Giovanni
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DI SCENA LE TELECAMERE
ANAGRAFE CONTRO LA VIOLENZA Germana Loizzi
F
rancesco Tagliente, prefetto di to che nella Città della Torre “ci sono Pisa, ha da poco dato alle stampe aree difficili da sorvegliare se non con “Buone pratiche a Palazzo Medici le telecamere» e che è “fondamentale – Il nuovo passo della Prefettura”, che potenziare questo tipo di controllo”. racconta la sua esperienza nella Città Ormai non passa giorno in cui le teledella Torre. Nato nel ’49 a Crispiano, camere non documentino un fatto di in provincia di Taranto, il prefetto Tacronaca, o siano lo strumento di soluzione gliente è entrato nel ’67 nell’Amminidi un caso per le forze dell’ordine. strazione della Pubblica Sicurezza. Nella Sull’argomento di grandissima attualità sua carriera ha curato la pianificazione abbiamo voluto sentire le valutazioni e la gestione di grandi eventi nazionali di uno dei massimi esperti in controllo e internazionali e coordinato le attività del territorio: il Prefetto Francesco Tadi pubblica sicurezza a livello nazionale. gliente, già Questore di Firenze e Roma, Questore di Firenze dal 2006 al 2010 e che per un decennio è stato al vertice di Roma fino al 2012, quando è stato della Sala Operativa della Questura della nominato prefetto a Pisa. Capitale, da direttore dell’Ufficio Ordine I sistemi di videosorveglianza sono una Pubblico del Ministero ha scritto il derisorsa straordinaria per la sicurezza. Un creto interministeriale sulla videosorvecensimento delle telecamere può essere glianza negli imutile anche per il contrasto della crescente pianti sporminaccia terroristica. tivi e da Le recenti minacce terroristiche hanno Prefetto a richiesto il rafforzamento delle misure Pisa, ha di sicurezza per gli obiettivi sensibili: messo in dal Vaticano al Ghetto ebraico, dalle campo un Ambasciate alle Basiliche e alle scuole. progetto Anche le redazioni dei giornali sono il primo state invitate a dotarsi di blindature di reaingressi, metal detector e sistemi di videosorveglianza da collegare con le sale operative delle Forze di Polizia. Tutte le aree ritenute a rischio o più affollate sono gia videosorvegliate: sedi istituzionali, aeroporti, stazioni, metropolitane, impianti sportivi, supermercati, centri storici cittadini. Il Prefetto di Pisa, in una Francesco Tagliente recente intervista ha det-
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lizzato in Italia - che ha consentito di censire tutte le telecamere, comprese quelle dei privati, che insistono sulle aree pubbliche. I sistemi di videosorveglianza sono una risorsa straordinaria per la sicurezza. Un censimento delle telecamere può essere utile anche per il contrasto della crescente minaccia terroristica. Prefetto Tagliente perché ha pensato all’anagrafe delle telecamere? L’anagrafe delle telecamere, con il censimento di tutti i sistemi di videosorveglianza, rappresenta una risorsa straordinaria per la sicurezza. E’ uno strumento utilissimo, polivalente e a costo zero. Che ruolo può avere per la gestione della minaccia terroristica? La video sorveglianza si presta a usi diversi: dalla prevenzione e contrasto delle varie forme di illegalità e dalla crescente minaccia terroristica alla ricerca delle persone scomparse. Il Censimento delle telecamere installate da enti pubblici e di proprietà privata, che riprendono aree pubbliche, consentono tra l’altro ai proprietari degli impianti di conseguire la massima utilità dagli investimenti sulla sicurezza e alle Forze di Polizia di destinare più operatori all’attività operativa e investigativa e, di conseguenza, ridurre i costi di gestione delle indagini. Ritiene possibile mutuare e replicare anche su altre aree del territorio italiano il progetto di anagrafe delle telecamere? Alla luce degli attuali scenari internazionali è doveroso adottare ogni possibile strategia di prevenzione e contrasto. Questo progetto è importante ai fini di
polizia per varie ragioni. In primo luogo perché è a costo zero. È infatti sufficiente mettere in campo un po’ di energie per censire tutte le telecamere attive, inserire le informazioni acquisite nel sistema e metterle a disposizione delle Forze di Polizia, in modo che, quando si verifica una situazione di grave pericolo o si ritiene utile monitorare il territorio in fase preventiva, non si debbano sprecare le risorse con operatori di polizia costretti a una verifica su strada, a chiedere ‘porta a porta’ se in un certo luogo è presente una telecamera, se è funzionante, a chi appartiene e se è rintracciabile il gestore del trattamento. Con l’anagrafe delle telecamere, in tempo reale l’operatore di polizia incaricato può vedere dall’Ufficio quali sono quelle presenti e funzionanti, quale area riprendono e contattare il referente per farsi mettere a disposizione i filmati, eventualmente anche in orari notturni e festivi. Quali procedure sono state seguite per la raccolta dei dati delle diverse telecamere dislocate sul territorio? E’ stata preventivamente fatta una riunione con tutti i rappresentanti delle amministrazioni, degli enti, delle aziende e delle associazioni che in qualche modo dispongono o hanno informazioni relative alla loro presenza. In tale occasione è stato reso noto il progetto ed è stato rappresentato il valore di questo censimento, che si pone anche come attività di verifica della reale funzionalità dei sistemi attivi sul territorio. Ha registrato resistenze o disagi da parte dei responsabili dei sistemi di videosorveglianza? Assolutamente no. Anche perché ne hanno tratto tutti beneficio: in taluni casi si è rilevato che chi aveva investito in sicurezza, talvolta non conosceva nemmeno l’esistenza di alcune telecamere, né era a conoscenza del loro effettivo funzionamento. Gli enti
pubblici hanno quindi dovuto in parte rivedere i propri sistemi di videosorveglianza per renderli funzionanti, ottimizzando così l’investimento pubblico. Sul fronte privato le associazioni delle categorie economiche hanno fornito tutti gli elementi relativi alle telecamere dei privati installate nei luoghi pubblici senza alcuna resistenza, anche perché il progetto è passato previamente al vaglio del Garante della Privacy. Soprattutto è stato colto un messaggio importante: a noi serve conoscere la rete di quelle che sono attive ed esistenti ai fini di sicurezza, non ci serve una banca dati. Il rapporto tra telecamere e tutela della riservatezza è un tema caldo. Che cosa ne pensano i cittadini di questo progetto. Che cosa dicono a proposito della videosorveglianza in relazione con la tutela della loro riservatezza? I cittadini sentono la necessità di essere e sentirsi protetti e, allo stesso tempo, quella di difendere la propria sfera privata. Nel bilanciamento dei diritti alla sicurezza e alla riservatezza ormai risulta prevalente il polo della sicurezza. La minaccia non lascia margini di incertezze. Per la tutela della privacy abbiamo la fortuna di poter contare sull’impegno del Garante, sempre pronto a dare le risposte e che in questi anni si è dovuto pronunciare ripetutamente su una moltitudine di casistiche, tanto da dover emanare anche specifici provvedimenti generali, prima nel 2004 e poi nel 2010. Comunque, per rassicurare i dubbiosi in occasione della presentazione del progetto alla Città, ho avuto accanto un autorevole rappresentante dell’Ufficio del Garante. La Citta della Torre ha fatto parlare di se’ anche per il caso Ragusa. Prefetto che ruolo può avere l’anagrafe delle telecamere censite per agevolare le ricerche delle persone scomparse? Nell’immediatezza della scomparsa, la Forza di polizia che riceve la denuncia deve sentire le persone di famiglia e quelle che per ultime hanno visto o avuto contatti con chi si è allontanato, deve ispezionare la casa e i luoghi di vita, deve richiedere i tabulati telefonici ai fini della localizzazione e del tracciato di telefonate e messaggi, ma deve nell’immediatezza visionare le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza. L’anagrafe delle telecamere risulta di grande utilità anche su questo fronte.
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MINISTERO PER IL MEZZOGIORNO
NON FIORI, MA OPERE DI BENE Alfonso Ruffo
S
pingere il dado di una partita senza fine sull’inesorabile punto di partenza in un rinnovato gioco dell’oca. Un punto di partenza che, oggi, è un Ministero per il Sud. Sì, proprio l’istituzione governativa che era stata cancellata con la giustificazione, pure comprensibile, che il Mezzogiorno non è affatto un’entità separata dal resto del Paese e che dunque merita di essere governata alla stregua del Nord, con leggi ordinarie capaci di restituire responsabilità e opportunità a un’area per troppo tempo ritenuta speciale e per questo sottosviluppata nell’approccio culturale prim’ancora che nel portafoglio. Poi qualcosa non ha funzionato. L’approccio ordinario non ha portato i risultati sperati e la tentazione da parte del centro di sottrarsi al dovere di equi investimenti delegando ai finanziamenti europei il compito d’intervenire nelle industrialmente desolate lande meridionali è stata così forte che ha avuto la meglio su ogni altra considerazione. E così, con la scusa del cattivo uso dei fondi strutturali da parte delle Regioni, il governo si è potuto salvare l’anima. Non fino al punto, evidentemente, di non accorgersi che è improponibile essere competitivi come Paese se persiste l’anomalia di un’economia duale tra Nord e Sud senza eguali in Europa e forse nel mondo con la popolazione di un’area che vive in media con 17mila euro l’anno e il resto del Paese che può contare su un reddito esattamente doppio. Troppa disparità non può essere ignorata e poi il rischio di tensioni sociali che possano rovesciarsi sul tentativo riformatore sta diventando drammaticamente attuale.
E allora, come un coniglio dal cappello di un prestigiatore, ecco venir fuori il caro vecchio ministero con il compito di sistemare, ordinare, coordinare le attività distribuite tra troppi soggetti peraltro inefficienti o costretti a esserlo per la somma di incredibili pratiche burocratiche e impedimenti alla spesa dovuti al rispetto del patto di stabilità nella logica di un rigore che solo i tedeschi continuano a considerare portatore di sviluppo piuttosto che di depressione. L’annuncio della bella novità non ha però sortito l’effetto sperato. Questa
mentatori più attenti e riflessivi, pronti a cogliere il sentimento del territorio che questa volta sembra non accontentarsi di promesse e anzi manda a dire chiaro e tondo che è più prudente ripensarci. “Quello di cui abbiamo bisogno – spiega per esempio il presidente della Svimez, Adriano Giannola – è una politica industriale degna di questo nome che sappia dare valore ai punti di forza che restano sul territorio per accentuarne il ruolo aggregante anche a beneficio delle piccole e medie imprese”. L’economista Amedeo Lepore, economista
volta i primi a restare scettici sono stati proprio i destinatari del regalo presunto, i meridionali irriconoscenti che dopo aver sperimentato variegate forme d’intervento più che alle formule vorrebbero credere ai poteri reali collegati al rinnovato interesse per la loro sorte. Insomma, se dicastero deve essere che sia con portafoglio e capacità vera d’influenzare il flusso degli investimenti. Sull’argomento si sono esercitati i com-
e opinionista, invita a fare chiarezza sull’esistente prim’ancora di ingombrare il campo con nuove figure dal tratto salvifico. Chi dovrà fare e che cosa tra Agenzia per la coesione, Dipartimento per lo sviluppo, Invitalia nel suo ruolo di attrattore d’investimenti, ministero redivivo? Pur apprezzando il fatto che si sia tornati ad affrontare il problemone nazionale occorre evitare il rischio di un nuovo isolamento, invita a riflettere Pino Soriero
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autore sull’argomento di “Vent’anni di solitudine”. Un ministero dedicato, infatti, può essere un’opportunità ma può funzionare anche da gabbia e alibi. Attenzione, dunque, a non restare confinati nel quadrato di un istituto “che sviluppa più dubbi che certezze” come avverte Nando Santonastaso dalle colonne del “Mattino” di Napoli quasi in sintonia con Lino Patruno che sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” afferma come il Sud non abbia bisogno di un ministero ma di uno strumento che sappia valutare l’impatto di tutte le decisioni per evitare grandi annunci e scarsi risultati. E’ indubbio, comunque, che il percorso verso una maggiore coesione debba essere compiuto se, come avverte l’ex premier Romano Prodi, vogliamo davvero puntare sulla ripresa lasciandoci alle spalle sterili polemiche e vacche magre. Tra gli osservatori più attenti, Massimo Lo Cicero invita a tener conto del ruolo da attribuire alle banche per il rifinanziamento delle imprese in considerazione della manovra espansiva decisa e attuata dalla Banca centrale europea sotto la
guida di un Mario Draghi in fase di smarcamento dalla rigida impostazione della Germania. E spera che possa entrare in gioco la Banca europea per gli investimenti a reificare il piano d’investimenti unitario promesso dal neo presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, nello scetticismo generale.
Meglio alzare lo sguardo, insomma, che tornare a guardarci l’ombelico anche per evitare una nuova possibile stagione di favoritismi di cui non si avverte per nulla il bisogno. Della necessità di costituire un parco progetti di pronta spendibilità è convinto l’economista Paolo Savona che insiste sull’opzione culturale ammettendo che tanti anni di politiche ordinarie e straordinarie hanno fallito l’obiettivo se ci ritroviamo a discutere
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sempre delle stesse cose. Fare tesoro delle migliori esperienze internazionali è il consiglio del sociologo Domenico De Masi autore di un volume monstre (mille pagine) sui modelli di funzionamento delle principali società al mondo. Invece che insistere su ipotesi già sperimentate e chiaramente insoddisfacenti vale la pena d’importare modelli che altrove - in Brasile, per esempio, nel difficile contesto delle favelas - hanno avuto successo. Insomma, le proposte sono tante a dimostrazione che nonostante lo scoraggiamento derivante da anni di risultati mancati c’è ancora molta voglia di partecipazione. Ma, attenzione. Ministero o più leggera Cabina di regia – per la quale soluzione sembra probabile che alla fine si deciderà - un pericolo deve essere assolutamente scongiurato: che i fondi per le aree svantaggiate siano davvero spesi al Sud e non usati come un bancomat per gli ammortizzatori sociali, il Comune di Roma, i terremoti di Umbria-Marche-Abruzzo-Emilia, il Mose di Venezia e molto altro. Come il Sud ha già sperimentato a più riprese.
LA MODA TORNA A SORRIDERE
DOPO MILANO SI SFILA A PARIGI Allegra Contoli
S
i è conclusa il 2 marzo la settimana della moda di Milano dedicata alle tendenze per l’autunno/inverno 2015/2016 ed ecco che il fashion system si è già spostato nella Ville Lumière per la fashion week di Parigi. L’edizione di Milano è stata una delle più interessanti e stimolanti degli ultimi tempi: grandi debutti, splendide collezioni e una grande voglia di (tornare a) respirare positività. Il calendario, organizzato in 6 giorni, era molto fitto: 68 sfilate, 80 presentazioni per presentare le oltre 150 collezioni dedicate al prossimo inverno, in più, nella zona del Quadrilatero della moda milanese, 24 tombini “vestiti” da 24 stilisti diversi per il progetto Tombini Art ed infine l’immancabile zona del Fashion Hub, triangolata tra Palazzo Giureconsulti, Palazzo Reale e Palazzo Clerici. La settimana si è conclusa con la sfilata di Giorgio Armani che ha dichiarato di aver dedicato la collezione a donne toste, aggressive, che vogliono imparare a reagire e difendersi in un mondo sempre più violento. Trionfo di eleganza, declinata nei suoi classici ed eterni colori non colori blu, grigio e nero e nei suoi tagli sartoriali di manifattura unica. Così come la donna Versace, decisa e determinata, che osa con colori accesi e che, come ha dichiarato Donatella, «quando tutti dicono A, dice Z». Un mood grintoso, come le lettere che ricoprono gli abiti da sera a formare il nome del brand. Da Prada, invece, protagonista l’accessorio con grandi borse di ispirazione bon ton che accompagnano una collezione iperfemminile, dove deliziosi abiti a palloncini e tailleur pantalone illuminano la passerella con le loro sfumature pastello, delicate ed eleganti. Da non dimenticare, poi, i grandi debutti: da Alessandro Michele, con la sua prima collezione firmata Gucci dopo l’addio di Frida Giannini, che omaggia lo spirito bohèmien con capi che richiamano al romanticismo liberty in un mix di maschile e femminile, tra fiori e chiffon a Vivetta, scelta da Armani per sfilare nel suo teatro,
che racconta di essersi ispirata ai " segni psichedelici che si uniscono a motivi Liberty rendendo omaggio a fluidità e dinamismo e reinterpretando i volumi degli anni '60". Senza dimenticare Lorenzo Serafini, al suo debutto per Philosophy. Si riconfermano straordinari Fausto Puglisi e Stella Jean, il primo con la sua donna rock, tra stampe, pelle e borchie, la seconda con la sua immancabile esplosione di colori che sempre guardano ai colori della terra africana. Trionfo di amore, invece, da Dolce&Gabbana con una sfilata spettacolare ed il loro “I love you mamma”, slogan che celebra l’amore materno e che compare su meravigliosi abiti di seta o, insieme a disegni e pensierini infantili, ricopre vestiti a ruota colorati e pieni di messaggi d’amore per la figura materna. Accessori preziosi, come le cuffie per ascoltare la musica, ricoperte da pietre, cristalli e perle e modelle-madri, capitanate dalla splendida Bianca Balti, in dolce attesa, dunque perfetta incarnazione di madre. Non poteva mancare la creatività estrema firmata Jeremy Scott. A partire dall’invito alla sfilata, a forma di mutande maschili, fino alla collezione per il prossimo inverno, con cui lo stilista ha scelto di rendere omaggio ai Looney Tunes, che spiccano su mini abiti, maglie oversize e canotte da basket, ovviamente tutto rigorosamente coloratissimo. Butta un occhio al passato, invece, la collezione (le voci dicono l’ultima ma non ci sono conferme o smentite) di Peter Dundas per Pucci che porta in passerella grandi donne, come Eva Herzigova, eternamente bellissima. Poco colore, molto bianco, molto nero e grandi grafismi. E ancora, Ermanno Scervino che pensa alle rigide temperature invernali con la sua gonna-piumino, Alessandro dell’Acqua che caratterizza la collezione N°21 con cappotti che sembrano opere d’arte, Ferragamo con i suoi intarsi in pelliccia, Blumarine con i tessuti in lurex in stile anni ’70. Insomma, Milano è soddisfatta.
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DOSI SULLA GRECIA
UNA SCONFITTA PER L’EUROPA
L
a sconfitta di Atene sarebbe una sconfitta per l’Europa intera. Ne è certo il direttore dell’istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Giovanni Dosi, già vice presidente della società degli economisti italiani e condirettore della task force sulla politica industriale della Columbia University dove ha collaborato a lungo con il premio Nobel Joseph Stiglitz. Keynesiano di ferro sostiene che le politiche dell’austerità sono fallite e che finalmente c’è un Paese nell’Unione, la Grecia, che ha avuto il coraggio di dire che il Re è nudo. Insieme ad altri 300 economisti e studiosi europei e statunitensi ha sottoscritto un appello ai governi dell’ Unione europea chiedendo di evitare la bancarorra ateniese, perchè questa porterebbe ad una lenta agonia di tutto il Vecchio Continente. Nella lettera pubblicata il 6 febbraio dal giornale di inchiesta francese Mediapart i professori sostengono che il debito ellenico non potrà mai essere rimborsato, ma che ciò non comporterà alcuna perdita per gli Stati europei e i loro contribenti. “C’è questa idea che i Paesi siano come una drogheria e che se un cliente fa un debito questo deve essere pagato, altrimenti viene pignorata la motocicletta. Ma l’idea che ci sia un isomorfismo tra Stati e attori di mercato non è reale”, sottolinea il professor Dosi. “I prestiti tra Stati sono virtuali. Se non vengono ripagati, sul bilancio verrà scritta una perdita. Punto e a capo”. Al di là delle teorie economiche,
cosa dobbiamo aspettarci in pratica dal caso Grecia? “Difficile pensare a qualsiasi tipo di compromesso. O il debito viene rinegoziato, ma questo allora costituisce un precedente, oppure l’Unione Europea come unità politica scompare. Ricordiamo, comunque, che la Grecia, tra tante sofferenze, è arrivata ad avere un avanzo primario”. Cosa significa? “Che le sue entrate tributarie sono superiori alle spese. Quindi se il Governo non dovesse pagare gli interessi
Il professor Giovanni Dosi
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sul debito avrebbe soldi a disposizione per le partite correnti senza bisogno di andare sui mercati internazionali a chiedere prestiti”. Chi la spunterà? “Il mio cuore sta con la Grecia. La conclusione dipende molto anche da come si comporteranno gli altri Paesi europei. In cuor loro italiani, francesi e spagnoli stanno dalla parte dei Greci, ma non osano confessarlo” Quali gli scenari possibili per l’economia? “Se vince la Grecia si apre una stagione
espansiva per l’economia europea. La Spagna seguirebbe l’esempio della Grecia e forse anche l’Italia. Se invece vince la Germania e la Grecia fa bancarotta, allora esplode la struttura stessa dell’istituzione economica europea” Addio euro? “Il fatto è che l’euro è fatto così male che non esistono clausole di uscita dalla moneta unica. E’ prevista l’uscita dall’Unione Europea, ma nessuna clausola prevede l’uscita dall’euro”. Quanto tempo ci vorrà per sciogliere il nodo? “Qualche mese, forse. Il primo segnale lo avremo presto, in occasione delle scadenze per restituzione di una tranche del debito alla Banca Centrale Europea. Poi c’è la questione della troika: non credo che i greci accetteranno mai di sottostare ad un nuovo esame. Potrebbero chiedere una tregua e rinviare tutto a luglio”. Il Quantitative easing, la Germania che impone le regole, la Grecia che non intende rispettarle, l’intera Europa in recessione. Ma cosa sta succedendo? “Succede che ci stiamo facendo male da soli con una politica deflattiva. Il Qe va bene, è sempre meglio che niente, ma è un po’ come prendere un’aspirina quando si deve curare un tumore. Da solo il Qe non basterà a risolvere la situazione. Perché il pro-
blema dell’Europa è l’assenza di domanda. Per rilanciarla bisogna spendere di più in consumi e in investimenti”. Quali? “Grandi opere pubbliche, ricerca, ma anche spese per l’innovazione in campo tecnologico nell’area ambientale, ad esempio, o nel campo della salute. Invece ora succede che c’è un ‘business’ normale in Germania e nell’Europa del Nord e ci sono solo tagli nei Paesi dell’Europa mediterranea”. No all’austerità? “Basta con l’austerità. Obama ha assolutamente ragione. Solo il fanatismo liberale si ostina a dire che l’austerità fa bene”. Meno tasse, allora? “Più che meno tasse, più spese da parte dei Governi dell’Unione Europea. Ricordiamoci che ogni euro di spesa in più da parte di un Governo
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si traduce in 2 o 3 euro in più di reddito per i cittadini. Gli investimenti, infatti, mettono in moto un meccanismo moltiplicativo che instaura un circolo virtuoso. Aumentare il reddito significa infatti un ritorno maggiore di tasse per i Governi”. Ma l’Europa è un ostacolo o un valore aggiunto? “L’Europa è necessaria e potrebbe avere un enorme valore economico e sociale. Questa Europa dei salassi, però, è un disastro. E comunque si dovrà andare anche verso un’unione politica: non è mai esistito nella storia una moneta unica che non è legata ad un unico potere politico”. Se lei fosse Renzi che cosa farebbe? “Mi metterei completamente dalla parte di Tsipras. Il peso dell’Italia sarebbe assolutamente decisivo”. Quali sono le prospettive dell’Italia? “Se andiamo avanti così non usciamo dalla depressione. Quest’anno cresceremo qualcosa al di sotto dell’uno per cento, che non è molto. La crescita vera è ancora lontana e non la raggiungeremo se non ci liberiamo dal fastello del debito”. Quanti siete a pensarla così? “In Italia i keynesiani come me sono una piccola minoranza. In America siamo molti di più” . Valeria Caldelli
CAMERE DI COMMERCIO
DIALOGO ISTITUZIONIIMPRESE Ferruccio Dardanello*
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er fronteggiare le nuove e più complesse sfide della competizione globale, il mondo imprenditoriale è in continua trasformazione. Sotto i nostri occhi. E, ora più che mai, ha bisogno di istituzioni amiche con le quali dialogare e trovare soluzioni inedite per costruire con coraggio e fiducia il futuro. Nel tempo, le Camere di commercio hanno già contribuito a semplificare questo dialogo tra pubblica amministrazione e mondo imprenditoriale. Ne abbiamo dato prova, a esempio, con il Suap, lo sportello unico autorizzativo che oggi oltre 3.300 Comuni hanno affidato alle Camere, e con il Registro delle imprese, un vero modello a livello europeo grazie anche all’eccellenza della nostra rete telematica gestita da Infocamere. Ma non solo. Perché con il nostro lavoro abbiamo contribuito a tutelare e valorizzare la filiera del Made in Italy nel mondo, facilitare l’accesso al credito delle Pmi, ridurre i tempi della giustizia italiana attraverso l’uso degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, a promuovere l’imprenditorialità e la formazione del capitale umano. In questi anni il Sistema camerale ha dimostrato dunque di funzionare bene, ma siamo consapevoli che può e deve essere ulteriormente migliorato. È per questo che nonostante le Camere di commercio godano già ora, tra gli enti pubblici, della fiducia più elevata da parte degli italiani, come evidenzia una recente indagine di autorevole istituto terzo come Swg - sono pronte a cambiare per rispondere meglio ai veloci mutamenti che devono essere affrontati dalle imprese. Penso alle nuove regole del gioco dei mercati globali, alle sfide dell’innovazione tecnologica, alle grandi opportunità dell’economia digitale. Oggi, dunque, siamo chiamati a laFerruccio Dardanello vorare su una riforma seria e pro-
fonda del Sistema camerale. Ma una vera riforma non può che partire dalla condivisione di una “nuova” visione dello sviluppo e da una chiara visione di politica economica. La visione che noi diamo passa dalla valorizzazione dei nostri territori e delle comunità che in essi vivono e lavorano. Perché è attraverso la ricchezza delle sue diverse realtà territoriali che l’Italia sta dando prova di poter uscire dalla crisi. Unendo tradizione culturale e modernità, qualità delle produzioni e benessere sociale. Ed è dunque dai territori che, ancora una volta, bisogna ripartire per ridare una speranza al nostro domani. In questo contesto, le Camere di commercio, che sono storicamente istituzioni radicate nei territori, possono svolgere un lavoro ancora più importante per contribuire a costruire un moderno “rinascimento” economico e sociale del nostro Paese. Ecco perché crediamo che la ripresa e la modernizzazione dell’Italia non possano prescindere da una riforma delle Camere di commercio che sappia rafforzarne il ruolo di presidio permanente sui territori a sostegno delle Pmi. E per questo siamo pronti a cambiare. Tanto è vero che abbiamo già avviato su base volontaria un cammino di riorganizzazione. E lo stiamo facendo con impegno e tempestività e non senza sacrifici, tagliando i costi, facendo economie di scala, qualificando la spesa. Perché vogliamo fare meglio ed essere ancora più utili al Paese. Un lavoro di riorganizzazione accolto con soddisfazione dal Governo che, per bocca del ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, ha chiesto di continuare, accelerando sulla strada degli accorpamenti. Un percorso che noi riteniamo debba essere portato avanti salvaguardando il legame indissolubile con i territori e le economie locali.
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alle Camere di commercio permettendo alle Camere, magari, di assumerne altre che si rendessero necessarie anche in seguito alla revisione dell’assetto istituzionale del nostro Paese. A partire dai servizi per favorire l’occupazione e dallo sviluppo di un punto unico di accesso per le imprese alla Il Ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi Pubblica amministrazione. Ma per I dati dimostrano che un bacino di svolgere compiti e funzioni servono utenza intorno alle 80mila imprese risorse. L’ultima riscrittura della rirappresenta senz’altro un riferimento forma proposta dal reutile per raggiungere maggiori ecolatore al Senato ha nomie di scala. Tuttavia la ridefiniscongiurato l’abolizione delle circoscrizioni territoriali zione del diritto cadelle Camere non può rispondere solmerale – che costituitanto al criterio della “soglia minima” sce ad oggi la di imprese. Occorre, quindi, perseprincipale fonte di figuire l’obiettivo delle economie di nanziamento del siscala attraverso un bacino di utenza stema – ed evitato il adeguato, ma considerando in matrasferimento del Reniera altrettanto importante il binogistro delle imprese. mio indissolubile tra equilibrio finanMa ci sono ancora alziario e specificità geo-economiche, tre criticità sulle quali scongiurando il rischio della desertioccorre intervenire. ficazione istituzionale dei territori. Tra queste, è necessaPer questo siamo pronti a rivedere rio senz’altro rivaluanche compiti e funzioni. Interventi tare con più equilibrio che devono avvenire evitando dupliil previsto dimezzacazioni con altri enti e valorizzando mento a regime del le competenze che sono già in capo diritto annuale conte-
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nuto nel decreto legge 90, approvato lo scorso mese di agosto. Basti pensare che già quest’anno il taglio del 35% si tradurrà in una perdita di interventi per le economie locali di circa 300milioni. Noi siamo pronti a riscrivere il nostro futuro. Per questo, chiediamo al Governo e al Parlamento una riforma in tempi rapidi, che dia certezze sulla missione e sulle risorse del sistema camerale. Valorizzando appieno la ricchezza dei territori attraverso Camere di commercio sane sotto il profilo finanziario, forti ed efficienti dal punto di vista organizzativo, efficaci nelle loro azioni. Grazie alle competenze e professionalità specialistiche che le caratterizzano e che vanno salvaguardate. *Presidente Unioncamere
ACQUISTARE LA PRIMA CASA
MUTUO FACILE ALLA BCC ROMA
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a Banca di Credito Cooperativo di Roma ha aderito al Fondo di garanzia del ministero dell’Economia e delle Finanze per mutui finalizzati all’acquisto della prima casa, con importo massimo di 250mila euro e garanzia del Fondo nella misura del 50%. Una conferma dell’impegno che la Banca di Credito Cooperativo mette in campo per sostenere i territori su cui è insediata. BCC Roma ha aderito al Fondo di garanzia per la prima casa istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro. Il Fondo ha una dotazione finanziaria di circa 650 milioni di euro per il triennio 2014/2016 e prevede la concessione di garanzie a prima richiesta su mutui fondiari, o su portafogli di mutui fondiari, dell’importo massimo di 250 mila euro, per l’acquisto o interventi di ristrutturazione e accrescimento dell’efficienza energetica di unità immobiliari da adibire ad abitazione principale del mutuatario. La garanzia del Fondo è concessa nella misura massima del 50% della quota capitale di mutui ipotecari. E’ prevista una priorità di ammissione alla garanzia ed un tasso calmierato del finanziamento (non superiore al tasso effettivo globale medio) per le seguenti categorie: - giovani coppie coniugate o conviventi (che abbiano costituito nucleo familiare
da almeno 2 anni) con o senza figli in cui almeno uno dei due componenti non abbia superato i 35 anni alla data di presentazione della domanda di finanziamento; - nuclei familiari monogenitoriali con figli minori conviventi; - conduttori di alloggi di proprietà degli istituti autonomi per le case popolari;
mutuatari in difficoltà con i pagamenti delle rate dei mutui, ha previsto la possibilità, per i mutui garantiti dal Fondo Prima Casa, di sospensione delle rate per la sola quota capitale fino ad un massimo di 12 mesi. La sospensione ha effetto nel caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, di decesso e qualora subentrino condizioni di non autosufficienza del mutuatario. Con questa iniziativa BCC Roma (forte di 1300 dipendenti, 180 sportelli e circa 30mila soci) conferma il suo impegno a fianco delle famiglie e delle piccole e medie imprese dei territori su cui è insediata. E continua a farlo perché anche in questi anni di crisi ha confermato il suo trend di crescita. Un’azienda sana, che da sessant’anni rimane un punto di riferimento per le comunità locali e che si muove, e si muoverà nel futuro, coniugando la sana e prudente gestione con lo sviluppo. Il mensile specializzato “Banca Finanza” ha infatti confermato BCC Roma al secondo posto, nel 2014, tra le banche di media dimensione per solidità. Solidità che ha permesso a BCC Roma di continuare a erogare prestiti a famiglie e imprese in Mauro Pastore, Dg BCC di Roma misura decisamente maggiore rispetto al trend del sistema ban- giovani di età inferiore a 35 anni, ticario nazionale. Dal 2008 in poi, anni tolari di un rapporto di lavoro atipico di crisi, la Banca ha sviluppato gli imdi cui all’art. 1 della legge 28.06.2012, pieghi di ben il 70%, a fronte dell’inn. 92. cremento complessivo registrato dal siBCC Roma, come offerta distintiva e stema bancario di circa il 15%. ulteriore agevolazione nei confronti dei (Re.NF)
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E ORA IL BILANCIO SI FA INTEGRATO
COMUNICARE IL VALORE Ornella Cilona
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l bilancio integrato è passato rapidamente dal sogno di pochi a una realtà consolidata in molte grandi società. Sui criteri che devono guidarne la redazione e sui suoi contenuti permangono, tuttavia, numerosi interrogativi. Nonostante le esperienze condotte da importanti realtà industriali e finanziarie, manca, infatti, un approccio pienamente condiviso a livello globale. Il bilancio integrato (integrated reporting) non è un documento che somma all’usuale bilancio di esercizio quello di sostenibilità. “E’ un processo” spiega Emilio Conti, docente della Green Business Executive School dell’Università Iulm di Milano “che permette di integrare la rendicontazione economico finanziaria tradizionale con quella delle performance ambientali, sociali e di governance attraverso un unico bilancio annuale, con l’obiettivo di comunicare il valore creato dall’organizzazione. Il report integrato può aiutare il management a prendere decisioni più sostenibili e consente agli investitori e agli altri stakeholder di avere un quadro completo delle reali performance dell’organizzazione”. Sono ormai tredici anni che si parla di bilancio integrato. Nel 2002, infatti, l’azienda danese di biotecnologie Novozymes unì per la prima volta in un solo documento la rendicontazione finanziaria e
quella di sostenibilità. Fra il 2010 e il 2013, secondo i dati forniti dall’organizzazione internazionale Global Reporting Initiative (Gri), circa 750 aziende hanno seguito in tutto il mondo l’esempio di Novozymes. La costituzione di un International Integrated Reporting Council (Iirc), con l’obiettivo di preparare un modello di bilancio integrato valido a livello mondiale, ha accelerato l’elaborazione teorica sul tema. Ai lavori dell’Iirc partecipano i maggiori esponenti mondiali del mondo delle imprese, della ricerca economica e della consulenza. L’Iirc ha pubblicato alla fine del 2013 le prime Linee guida per una rendicontazione unica degli aspetti finanziari, sociali, ambientali e di governance: “il bilancio integrato” vi si legge “è una comunicazione sintetica che illustra come la strategia, la governance, le prestazioni e le prospettive di un’organizzazione consentono di creare valore nel breve, nel medio e nel lungo termine”. Al centro vi sono gli indicatori chiave di prestazione (i Key Performance Indicator, KPI), che possono essere di natura finanziaria o socio ambientale. Tramite questi indicatori
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un’organizzazione può misurare come Borsa brasiliana ha chiesto alle società nee guida dell’Iirc. In particolare, il abbia raggiunto i propri obiettivi e quotate di redigere bilanci integrati, gruppo Generali coordina, insieme con l’impatto sul capitale economico, secondo il principio noto come “Rel’olandese Aegon, il gruppo di lavoro umano, sociale e di relazioni, naturale. port or explain” (pubblica una rendidell’Iirc sul settore assicurativo. “Le Linee guida” avverte Laura Girella, contazione o spiega perché non lo fai). Le Linee guida dell’Iirc sull’integrache si occupa dell’Italia per conto delL’Italia è fra i Paesi più avanzati nel zione fra bilancio finanziario e rendil’Iirc “non prescrivono, però, quali incampo del bilancio integrato. Sette orcontazione socio ambientale non sono, dicatori chiave di prestazione utilizzare ganizzazioni, di cui cinque società quoperò, accettate da tutti. Alcuni esperti né metodi di misuraimputano loro, infatti, zione o di rendicondi sancire l’”annestazione su singoli sione” del bilancio di aspetti”. Attualmente sostenibilità da parte l’Iirc sta costituendo di quello di esercizio. gruppi di lavoro setA pensarla così è, a toriali che studiano esempio, Mark McElcome applicare le Liroy, direttore del Cennee guida ai differenti ter for Sustainable Orcomparti. Per ora ganizations (Cso), il sono stati costituiti quale in un articolo sul quattro gruppi, risito Greenbiz, comguardanti i settori parso a novembre bancario, pubblico, dell’anno scorso, afassicurativo e dei ferma che “il bilancio fondi pensione. integrato ha gettato la Sudafrica e Brasile sostenibilità sotto l’ausono stati i primi tobus”. La sua tesi è Paesi a convincersi che, secondo le regole della necessità di rendell’Iirc, le consedicontare in modo guenze delle azioni e integrato. Il Sudafrica decisioni di un’organel 2009 ha pubblinizzazione sulla società cato il codice di goe sull’ambiente devono La Borsa di San Paolo ha chiesto alle quotate bilanci integrati vernance chiamato essere divulgate in un King III, dal nome bilancio integrato soldel giudice della tanto quando hanno Corte suprema Mervyn E. King, a capo tate del calibro di Atlantia, Enel, Eni, un collegamento con le conseguenze di un comitato sulla corporate goverGenerali e Terna, hanno partecipato ai sul valore del capitale finanziario. nance. Il codice chiede alle imprese sulavori dell’Iirc e almeno venti imprese “Questa forma di rendicontazione indafricane di unificare il bilancio finanitaliane hanno già pubblicato un bitegrata” nota McElroy “si concentra ziario con quello sociale, in una visione lancio integrato. In quattro (Atlantia, solamente sui bisogni e sugli interessi olistica. Ad aprile dell’anno scorso, la Eni, Generali e Terna) utilizzano le Lidi uno degli stakeholder (chi fornisce
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il capitale finanziario) e con un solo capitale in mente, quello finanziario”. Il direttore del Cso non boccia del tutto, però, l’idea di arrivare a un’integrazione fra rendicontazione economico finanziaria e di sostenibilità, a condizione che entrambi siano considerati allo stesso modo. E’ certo, tuttavia, che il bilancio di sostenibilità, separato da quello finanziario, è ora in una fase di stallo. Secondo l’Ong SustainAbility, che ha intervistato l’anno scorso oltre cinque-
cento esperti in materia, le potenzialità del bilancio sociale non sono sfruttate pienamente, anche perché esistono differenti strumenti internazionali, i cui principi in parte si contraddicono fra loro. Alle Linee guida dell’Iirc per la redazione della rendicontazione integrata si affiancano, infatti, le Linee Guida G4 per la redazione dei bilanci di sostenibilità del Global Reporting Initiative e gli standard messi a punto dallo statunitense Sustainability Accounting Standards Board (Sasb).
IL PIANO INDUSTRIALE DI TERNIENERGIA
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erniEnergia punta ad affermarsi come la prima “smart energy company” indipendente italiana attiva nei settori dell’energia da fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, del waste e dell’energy management, grazie al nuovo modello di business e all’integrazione nel Gruppo di Free Energia. Confermata l’evoluzione della struttura organizzativa, che sarà basata su 4 business lines funzionali: Technical Services, Cleantech, Energy management ed Energy saving, con il completamento della fusione per incorporazione di Lucos Alternative Energies in TerniEnergia. Il nuovo piano “Fast on the smart energy road” fonda i suoi presupposti di carattere industriale su: - backlog di commesse nel settore fotovoltaico già acquisite e in via di acquisizione all’estero; - incremento dell’attività di energy management in Italia, grazie all’allargamento del perimetro dei clienti di Free Energia, gran parte dei quali ricorrenti e fidelizzati; - sviluppo di rilevanti opportunità commerciali “cross-selling” nei settori dell’efficienza energetica (in forte crescita) e della vendita di energia; - forte diversificazione del business di TerniEnergia in settori anticiclici e completamento delle attività “core” del Gruppo lungo l’intera catena del valore dell’energia, dalla progettazione di impianti fino ai servizi evoluti post-vendita; - scouting per l’individuazione di potenziali operazioni di M&A volte a favorire la crescita per linee esterne nei settori Gas&Power, anche a livello internazionale; - ricerca di possibili partnership nel settore EPC fotovoltaico, al fine di valutare la possibilità di dare vita a una piattaforma industriale “leader italiana” per il conseguimento di grandi commesse all’estero; - ottimizzazione delle condizioni di profittabilità degli impianti di produzione da energia rinnovabile, anche attraverso la vendita di olio vegetale tracciato e sostenibile; - ingresso nel settore dello sviluppo e produzione industriale di soluzioni e tecnologie smart per l’efficienza energetica e il cleantech. Dal punto di vista strategico, TerniEnergia conta di poter ottimizzare la struttura finanziaria alle esigenze operative, mettendo a leva l’energia prodotta per ridurre il peso di quella acquisita sul mercato per l’attività di energy management, aumentando la possibilità di rilasciare garanzie corporate, facilitando i rapporti con il mondo del credito, grazie alla ripresa di business ad elevata generazione di ricavi in Italia. Il nuovo piano industriale, infine, prevede il rafforzamento del programma di acquisto azioni proprie per dotare la Società di un portafoglio azionario da utilizzare come corrispettivo per eventuali operazioni straordinarie e la proposta del voto maggiorato.
Generali Facciata sede Trieste-Imc
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MORTO UN PATTO, SE NE FA UN ALTRO
I RISCHI DEL VOTO PLURIMO Andrea Giacobino
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orse è vero che sia finito il capitalismo italiano dei “Salotti Buoni”, quello che ruotava attorno a Mediobanca e ispirato al principio del suo fondatore Enrico Cuccia secondo il quale “le azioni si pesano, non si contano”. Significando, con ciò, che se anche qualcuno - un grande fondo o un investitore singolo - possedeva molte azioni ma non faceva parte del “Salotto Buono”, era destinato a rimanere fuori dalla stanza dei bottoni delle aziende quotate ove gli azionisti “doc” si blindavano con il sistema dei patti di sindacato. Accordi, cioè, che escludevano il libero mercato a favore del controllo eserci-
tato da pochi. Ora questi patti, dalla stessa Mediobanca a Rcs, sono perlopiù defunti. Tuttavia, quasi un anno fa sono stati introdotti nel nostro ordinamento due nuovi istituti che modificano sensibilmente i diritti degli azionisti delle società quotate: il governo ha sancito infatti la possibilità per le società di introdurre nei propri statuti le azioni “a voto plurimo” e “a voto maggiorato”. I due nuovi istituti, presenti solo in alcuni ordinamenti e utilizzati da una minoranza di società, scardinano il principio “una azione, un voto”, ossia un sistema di voto proporzionale al capitale investito, de-
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stando così la preoccupazione degli investitori istituzionali poiché tali innovazioni legislative riducono i diritti della generalità degli azionisti e le tutele delle minoranze. Non solo: leggendo il “Report on the Proportionality Principle in the European Union”, che contiene l’esito di uno studio commissionato dall’Unione Europea nel 2007, si dimostra che le azioni a voto plurimo e quelle a voto maggiorato creano nella maggior parte dei casi una distorsione tra la proprietà e il potere di voto. In particolare, il riconoscimento del voto maggiorato a singoli soggetti, sulla base di un possesso continuativo
di almeno due anni, può comportare Ovvero: esistono azionisti di serie A un sensibile effetto distorsivo in e altri di serie B. Il rischio è che una quanto riduce il peso nelle delibere minoranza, esercitando il suo potere assembleari di tutti i soci le cui azioni di voto, riesca ad imporre la propria restano a voto singolo, ragionevolmente proprio gli investitori istituzionali. Infatti, per poter ottenere il voto addizionale, gli azionisti dovranno richiedere l’iscrizione in un elenco speciale appositamente costituito, ciò che rende di fatto inutilizzabile tale istituto per gli investitori istituzionali: costoro non utilizzeranno la maggiorazione di voto sia perché tecnicamente incompatibile con le loro procedure di investimento, sia perché non hanno interesse, o ne sono preclusi, ad assumere il controllo delle società nelle quali investono. Vale notare che a causa della complicazione procedurale della registrazione delle azioni, degli obblighi di segnalazione di vigilanza delle partecipazioni qualificate e della verifica dei limiti al Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca controllo degli emittenti, non si ha notizia di alcun azionista istituzionale che abbia utilizzato il voto maggiorato nelle poche giurisdivolontà ad una maggioranza. Alla faczioni che lo prevedono. cia della competitività e di chi sagMedesima distorsione la provoca il giamente vorrebbe che l’Italia torvoto plurimo e a farne le spese sanasse ad attrarre investitori stranieri. ranno i soliti comprimari, gli azionisti E’ importante sottolineare, tuttavia, paria, l’eterno “parco buoi”: Questo che gli investitori istituzionali in Italia perché i soci di aziende quotate che qualche pugno sul tavolo hanno codetengono azioni da almeno 24 mesi minciato a batterlo, almeno per cergodranno appunto di un diritto di care di migliorare la “corporate govoto plurimo. In tal modo viene, de vernance”. Negli Stati Uniti i fondi facto, violata la parità degli azionisti. hedge “attivisti”, oggi di gran moda,
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mandano a gambe all’aria interi consigli d’amministrazione perché, così facendo, puntano a far crescere il valore delle azioni su cui hanno investito. Nel nostro Paese dai primi interventi nelle assemblee di alcune società quotate, negli anni Novanta, sono stati compiuti numerosi passi in avanti dalle Sgr (Società di gestione del risparmio) che oggi, grazie al Comitato dei gestori, un organo a geometria variabile composto da rappresentanti delle associate e da un numero crescente di investitori istituzionali italiani o esteri, possono vantare risultati significativi in termini di candidati di minoranza eletti nei vari consigli delle società quotate. Dati alla mano, dal 2007 a oggi l’attività delle Sgr è aumentata notevolmente e il numero di liste presentate è quintuplicato. Nel 2014 i componenti del Comitato dei gestori hanno depositato 27 liste per l’elezione o la cooptazione dei candidati di minoranza in 17 società quotate e stati eletti ben 34 dei 36 candidati presentati. Per quanto riguarda, invece, il collegio sindacale, il Comitato dei gestori ha presentato 12 liste in altrettante società quotate ottenendo l’elezione di 25 candidati su un totale di 26 presentati. Non è poco, considerando che molte di quelle Sgr sono emanazione di gruppi bancari che con le società quotate hanno rapporti di affidamento e di azionariato…
DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
UN MERCATO DI VALORI Vladi Lumina L’enciclica “Caritas in Veritate” e l’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” indicano un percorso per un rinnovato sistema economico e finanziario. In particolare, l’Esortazione Apostolica sottolinea la necessità di proporre soluzioni concrete e non solo analisi teoriche. Il richiamo all’etica nell’economia e nella finanza è costante e sembrerebbe sufficiente per costruire un sistema migliore e più equo. Personalmente ritengo che il riferimento all’etica, per quanto necessario come dimensione antropologica, debba essere adeguatamente interpretato. Infatti la parola “etica” non ha valore assiomatico e univoco. Ogni cultura possiede una diversa concezione del concetto di etica e il problema sono i fondamenti dell’etica stessa. È del tutto evidente che un’etica laica, o atea, sia diversa da un’etica religiosa e la diversità emerge anche tra le stesse religioni e/o filosofie. In questo contesto, l’etica cattolica rappresenta il nostro punto di riferimento, nel quale anche da parte dei non cattolici è possibile trovare moltissimi elementi condivisibili e propedeutici alla costruzione del sistema economico conforme alla Dottrina sociale della Chiesa (Dsc), il cui nucleo è la giustizia sociale. Una giustizia sociale rispetto alla quale, nella realtà storica attuale, esiste una profonda contraddizione tra i valori enunciati nelle costituzioni dei Paesi occidentali (che hanno avuto origine dallo spirito del liberalismo classico) e il risultato prodotto dall’insieme delle leggi e delle norme che dovrebbero essere coerenti con lo spirito e le norme
delle stesse costituzioni. Ormai il problema di una migliore ridistribuzione delle ricchezze è al centro del dibattito politico e sociale in tutto il mondo. La Chiesa potrebbe essere parte attiva in questa ricerca? Credo di sì e penso che, anzi, dovrebbe farsi motore per la proposta e la creazione di nuovi modelli economici e finanziari, possedendo a tale scopo l’autorità, l’autorevolezza, le competenze, i mezzi e le strutture ed essendo radicata in ogni parte del mondo. Potrebbe costituire il polo aggregante degli economisti e, più in generale, di quanti stanno attivamente elaborando progetti in questa direzione. E poiché la “Evangelii Gaudium” invita a porre in atto quanto proposto dalla Dsc, superando gli appelli a una generica solidarietà e i generici richiami all’etica e alla cooperazione, è arrivato il momento di studiare e proporre un vero sistema economico e finanziario “Dsc compliant”, a partire dalla gestione
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degli asset ecclesiali. La Chiesa, in campo economico, non ha proposto modelli specifici di riferimento, preferendo semplicemente enunciare principi generali. Un comportamento singolare, se si pensa che propone modelli su molte questioni, dalla famiglia alla vita sessuale e all’assistenza sociale. Certo, si potrebbe osservare che la Chiesa testimonia uno stile di vita o un modo di operare più che indicare modelli. Perché non fare altrettanto
per l’economia, che, intesa come possibilità di sostentamento, è parte integrale della dignità della persona? Per ora, perfino gli enti religiosi trovano difficile a operare secondo i principi della Dsc. Non esiste, in realtà, un mercato di riferimento entro cui le strutture della Chiesa possano operare secondo modelli economici conformi alla Dsc. E’ prioritario, quindi, creare un “mercato” che riconosca tali valori.
In questi ultimi mesi i media hanno spesso parlato della riforma del sistema economico della Santa Sede con la creazione di un nuovo organismo centrale di indirizzo e controllo. Al di là degli indubbi vantaggi nell’applicazione di “best practices” nella gestione degli asset grazie alle economie di scala e alle masse critiche adatte anche alla potenziale creazione di un “mercato” si pongono immediatamente problemi più grandi e complessi di risk management e soprattutto di compliance con la Dsc. Sempre più spesso vengono affidati a laici, che in molti casi non hanno un’ adeguata formazione religiosa, importanti decisioni sulle modalità degli investimenti. E’ indispensabile, invece, fornire riferimenti certi ai gestori di asset religiosi e un chiaro perimetro operativo rispettoso della Dsc. Ma chi stabilisce quale investimento è “Dsc compliant”? Come si può facilmente intuire esiste un serio problema di indirizzo e di sorveglianza da parte dei vescovi affinché non venga svilita l’azione pastorale ed evangelizzatrice della Chiesa stessa, pericolo più volte sottolineato da Papa Francesco. Il problema ovviamente
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non riguarda solo la Santa Sede, ma più in generale il mondo religioso cattolico. La Chiesa, anche attraverso i suoi numerosi enti religiosi, potrebbe costituire il motore di questo nuovo sistema economico e finanziario che, per essere attuato, necessita della creazione di un “mercato” in grado di recepire nuove tecniche e modalità operative e credo non possa più esimersi dallo scendere apertamente in campo e “sporcarsi le mani” con le questioni economiche come con le questioni di carattere umanitario Dobbiamo quindi costruire un processore di segnale che possa tradurre i segnali “analogici” del mondo religioso (che contengono cioè la dimensione trascendente o metafisica) in segnali “digitali” (codice binario con cui funzionano le logiche matematiche e gli algoritmi finanziari) comprensibili dal sistema economico e finanziario, creando standard operativi, benchmarck, sistemi di rating, modalità di accesso alle risorse (termine che concettualmente preferisco rispetto a quello di redistribuzione delle risorse). Il valore “etico” dovrebbe diventare sinonimo di moltiplicatore di valore. In questo contesto sarà possibile avanzare delle proposte concrete coniugando la Dsc, per esempio, con i lavori degli economisti Joseph Stiglitz e Amartya Sen sul cambiamento dei parametri economici calcolati sulla base del Pil come sul nuovo indice basato su valori aggregati (ecologia, qualità di vita, etc) e per verificare la fattibilità di un nuovo modello economico “Dsc compliant”.
COME UTILIZZARE L’ART BONUS
MECENATI? SÌ, GRAZIE Renato Pedullà
L
’Italia possiede il patrimonio culsul modello dell’Eco Bonus, e prevede detrazioni fiscali per i mecenati. Viene turale più importante e più ricco una serie di incentivi fiscali per i privati prevista, infatti, una detrazione del mondo. Il nostro Paese è e per le società che decidono di fare liIrpef/Ires (a seconda che si tratti di perstato, attraverso la romanità, la culla beralità per il restauro di beni culturali. sona fisica o di società ) per le erogazioni della diffusione della cultura classica: Tale decreto, non rivoluzionario ma liberali alla cultura pari al 65% sugli ne deriva la provenienza in gran quanmolto interessante, destinato a inceninterventi effettuati nel 2014 e nel 2015 tità di antiche testimonianze di straortivare i privati e le aziende a intervenire e al 50% nel 2016. Questo bonus non dinaria bellezza, che l’intero mondo ci maggiormente nei beni culturali itapotrà essere superiore al 15% del redinvidia. dito imponibile comLa vera ricchezza delplessivo, da ripartire in l’Italia, oltre al fascino tre quote annuali (difatti dei territori, è proprio il più conveniente dell’ suo immenso patrimoEco Bonus che invece nio artistico: il nostro prevede una ripartizione “petrolio” è costituito in dieci rate annuali). dalle migliaia di basiliSupponendo, quindi, che, fori, piazze, monuche nel 2014 i ricavi in menti, quadri, che gauna società commerciale rantiscono unicità di siano ammontati a un bellezza al nostro Paese. milione, per una liberaPurtroppo, questa riclità di 10mila euro chezza non solo non è l’azienda potrà benefistata messa legittimaciare di un credito di mente a frutto, ma adimposta di 5mila euro ( dirittura è andata spesso il famoso limite del 5x sciupata e sprecata. Più mille dei ricavi – 5mila di recente, per fortuna, euro – è infatti minore sta, però, emergendo rispetto al 65% del veruna diversa consapevosamento pari a 6.500 lezza. euro). Questo credito In questo contesto di ripotrà essere utilizzato in lancio del patrimonio tre rate da 1.667 euro artistico italiano nasce il l’una, anche in compenRealizzazione del San Giovanni Battista, eseguita grazie al finanziamento decreto legge 83/14, sazione con altri tributi. (mecenatismo) del principe Thun, nella foto a sinistra. convertito modificato La nuova detrazione nella legge 106/14, che contiene diverse liani, prende spunto da una normativa spetta in “deroga temporanea triennale” misure in favore dei mecenati che fanno adottata precedentemente in Francia, alle disposizioni del Testo Unico. In donazioni alla cultura. dove ha dato risultati molto incoragparticolare per le persone fisiche e per Questo “decreto cultura”, fortemente gianti. gli enti non commerciali, l’Art Bonus voluto dal ministro Dario Franceschini, Con l’entrata in vigore del nuovo despetta, come accennato, nel limite del già all’articolo 1 introduce l’Art Bonus, creto si delinea un cambio di rotta sulle 15 % del reddito imponibile, mentre
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per le società va compreso nel limite del 5x mille dei ricavi annui. Le erogazioni liberali delle persone fisiche (“Private Fund Raising”) e le erogazioni liberali delle società (“Corporate Fund Raising”) per trasformarsi in sconti fiscali devono avere destinazioni specifiche. In particolare, a beneficiare dell’agevolazione sono le somme donate per interventi di manutenzione, protezione o restauro di beni di interesse artistico-culturale oppure per il sostegno degli istituti e dei luoghi di cultura di appartenenza pubblica, come musei, biblioteche, parchi archeologici. Bisogna tener presente che l’agevolazione riguarda esclusivamente le erogazioni liberali in denaro, sono escluse quindi tutte le forme di finanziamento “in natura”. Rimane inteso che ogni versamento per queste categorie di erogazioni deve seguire il principio “della trasparenza” ed essere effettuato tramite pagamenti tracciati: bonifici bancari o postali, carte di credito, di debito o prepagate, assegni circolari o bancari. Di contro, i soggetti che beneficiano delle erogazioni liberali devono comunicare, mensilmente, al ministero l’ammontare delle erogazioni ricevute avendo cura di specificare le generalità complete del soggetto erogatore e le “finalità” o “attività” o “ri-
feribilità” per le quali le stesse sono elargite. I beneficiari, inoltre, sono tenuti a rendere pubblico, anche mediante comunicazione sui loro siti web, le liberalità ricevute e la loro destinazione. Il decreto è “perfezionabile”: allo stato attuale le detrazioni fiscali sono previste solo per un triennio, occorrerebbe invece allungare il termine o eliminarlo del tutto, in modo tale che chi spende ingenti somme per un progetto di restauro così come contemplato dalla norma, possa pianificare l’investimento su una durata più lunga di quella finora prevista. Sotto il profilo dell’agevolazione fiscale, sarebbe stato preferibile, inoltre, un maggiore coraggio da parte del legislatore: le percentuali di detrazione sono molto basse, mentre gli adempimenti burocratici rimangono complessi, in linea con il cattivo stile burocratico “italiano”. Tutto ciò, è legittimo temere, non incentiva le grandi aziende a utilizzare l’Art Bonus così come attualmente strutturato. Detto questo, un primo passo è compiuto (e va salutato come tale) e ora è opportuno attendere i primi report ministeriali a sei mesi dall’attuazione del decreto per le verifiche sul campo.
A DISNEYLAND SBOCCIA LA PRIMAVERA A Disneyland Paris sboccia la primavera: un’esplosione di fiori, colori, profumi e musica fino al 31 Maggio 2015. Approfitta della nuova offerta di Disneyland Paris per vivere al meglio questa magica stagione.* Dopo una prima edizione di successo Disneyland Paris ospita, anche quest’anno, la coloratissima festa primaverile per celebrare la meraviglia dei fiori e risvegliare i sensi. Nuovi spettacoli musicali, scenografie ancora più ricche di fiori, Personaggi Disney vestiti nei loro magnifici costumi primaverili e un’atmosfera estremamente allegra rendono l’esperienza degli ospiti ancora più entusiasmante. E’ PRIMAVERA! Simbolo di questa nuova stagione un fiore allegro e delicato che rimanda all’amore e alla fedeltà: la margherita. Ne è adorna la stazione di Main Street all’ingresso del Parco Disneyland, in segno di benvenuto a grandi e piccini. Una volta nel Parco Disneyland gli ospiti entrano gradualmente in un universo creato da fiori, topiarie incantate, colori e musica dal vivo: un’immersione totale nella magia della primavera. * In occasione della stagione della Primavera e dell’Estate Frozen Disneyland Paris lancia una nuova offerta per agevolare le famiglie italiane nell’acquisto di un pacchetto soggiorno. L’offerta comprende uno sconto fino al 20% sul pacchetto soggiorno a partire da 3 giorni/2 notti combinato con la mezza pensione gratuita e i bambini sotto i 7 anni non pagano. La promozione, prenotabile entro il 5 maggio, si applica su un periodo molto ampio con arrivi dall’1 aprile al 31 ottobre 2015.
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DENTRO LA MACCHINA DEL TEMPO
CERN, VICINI AL BIG BANG Dall’inviato
Valeria Caldelli
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INEVRA - Tutti pazzi per la materia oscura. Se, da una parte, il nuovo acceleratore Lhc andrà a cercarla a velocità esponenziale facendo scontrare i protoni a cento metri sotto terra, l'Antimatter Spectrometer, in breve Ams02, va invece a caccia delle particelle ignote al di là dell'atmosfera. Dal maggio 2011 questo gigantesco macchinario, anch'esso progettato al Cern e 'spedito' in orbita dalla Nasa è infatti ancorato alla stazione spaziale internazionale che ruota intorno alla Terra, dove adesso si trova anche l'astronauta italiana Samantha Cristoforetti. Il suo compito è 'spiare' quello che succede nell'Universo e inviare i dati a Terra, all'esame dei ricercatori. “Controlliamo la nostra galassia, ma riceviamo segnali anche dalle altre galassie”, spiega Franco Cervelli, uno degli scienziati che ha scoperto il Top Quark e progettato Ams. “Dal 2011 ad oggi, esaminando i raggi cosmici, ci siamo accorti che ad alta velocità il numero di antielettroni è più alto di quanto si prevedeva. Si tratta di un effetto inatteso che potrebbe essere generato proprio dalla materia oscura. Se così fosse, potremmo cominciare a conoscere alcune sue caratteristiche, come ad esempio la massa delle particelle che la compongono. Ma c'è bisogno di ulteriori approfondimenti: la scienza non deve correre se non vuol rischiare di prendere fischi per fiaschi”. La scienza non deve correre, è vero, però comincia a 'covare' qualche speranza di risolvere un rompicapo fino ad
oggi rimasto insoluto. Non è il solo, comunque. Un altro enigma è legato all'antimateria, vale a dire a quelle particelle che hanno caratteristiche opposte a quelle della materia. Dunque, se l'elettrone ha una carica negativa, l'antielettrone avrà invece una carica positiva. Niente di sconosciuto, allora, nelle caratte-
ristiche dell'antimateria. Il problema infatti è un altro: nessuno riesce a capire perché questa sia quasi totalmente scomparsa dall'Universo. Il professor Cervelli ce ne racconta la storia: "Al momento del Big Bang materia e antimateria erano presenti in parti uguali. Ma pochissimi istanti
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dopo lo 'scoppio' l'antimateria è scomparsa. O meglio ne è rimasta molto poca, solo quella prodotta da cataclismi galattici, come,
ad esempio, l'esplosione di una stella. Ma se all'inizio ne esisteva tanta quanta la materia perché è
scomparsa? Il Modello Standard non dà una spiegazione esauriente: ci deve essere qualche processo in più che noi non conosciamo”. L'An-
timatter Spectrometer è nello spazio anche per questo, cioè per catturare un po' dell'antimateria primordiale.
“Per il momento non l'abbiamo rintracciata, ma sappiamo che è rara e quindi non ci scoraggiamo. In più anche non trovarla è un indizio importante. Significa che il processo che ha portato alla sua sparizione è stato molto violento, più di quanto non ci si aspettasse”. La scomparsa dell'antimateria dall'Uni-
verso è davvero importante perché in realtà è proprio grazie alla sua uscita di scena che noi esistiamo. Se questa fosse ancora presente nella stessa quantità della materia, l'Universo sarebbe incredibilmente diverso e noi non esisteremmo. “Siamo il risultato di una asimmetria”, dice Fran-
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co Cervelli. “Materia e antimateria in uguali proporzioni generano solo energia che si materializza e si riscompone di nuovo senza creare niente di stabile. Ad un certo punto, invece, e dobbiamo ancora capire perché, si è creata una piccola asimmetria in cui la materia ha preso il sopravvento sull'antimateria, togliendola di mezzo. E' così che è stata possibile la formazione dei pianeti e delle stelle fatti di materia. Insomma la formazione di un Universo stabile da cui siamo nati anche noi. Senza questa asimmetria non saremmo mai potuti esistere”. Il fascino del mistero ci accompagna fuori dai confini del sapere. I pionieri della scienza si lanciano alla conquista di nuovi territori, lasciando però dietro di loro una serie di vittorie che escono dal campo della ricerca per entrare in quello della società civile. Gli stessi acceleratori di particelle, in ben più modeste dimensioni rispetto al gigante del Cern, hanno un uso sociale importante. “Nel mondo ce ne sono 20.000, ma solo 200 servono alla ricerca. Gli altri vengono usati per applicazioni mediche o per l'industria”, spiega Cervelli. “Ad esempio la sterilizzazione delle siringhe è fatta con gli acceleratori, e, su progetto del Cern, all'ospedale di Pavia ce n'è uno appositamente dedicato a terapie contro i tumori”. Nella foto Atlas, uno dei 4 rivelatori del Cern. Scatta 40 milioni di foto al secondo.
COSTUME & SOCIETÀ DIVA, DIVINA E ANCHE ... “POP” (a pag. 38)
Foto di Rocchi Bello
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COSTUME & SOCIETÀ LE GRANDI INTERVISTE
ELEONORA SI RACCONTA
di Donatella Miliani
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IVA LO è stata. Divina lo è ancora, per fascino, classe, eleganza, cultura e intelligenza. Eleonora Giorgi nei suoi quarant’anni di carriera ha interpretato più di 47 film come protagonista, numerose fiction, è stata lei stessa regista, sceneggiatrice e produttrice, ha avuto un enorme successo anche a teatro dove ha saputo reinventarsi dopo una lunga pausa voluta da lei ma anche in parte conseguente a logiche ‘epurative’ dello star system italiano. Per il pubblico, che continua ad amarla e apprezzarla proprio per quel suo tratto gentile e delicato, resta la cara adorabile Nadia Vandelli del pluripremiato «Borotalco» di Carlo Verdone, visto addirittura senza sottotitoli anche negli Stati Uniti da star hollywoodiane come Jack Nicholson, Warren Betty e tanti altri. Un personaggio femminile intrigante, divertente oltre che «autonomo» che le valse il Davide di Donatello. Regina indiscussa degli anni ’80, con pellicole di grande successo accanto ad Adriano Celentano e Renato Pozzetto, Eleonora Giorgi ha lavorato anche con un gigante come Marcello Mastroianni nel film di Liliana Cavani «Oltre la porta» (1982). In carriera si è cimentata con ruoli diversi sia nella commedia brillante che in ruoli drammatici: «L’ Agnese va a morire», «Lo Scialo», «Inferno», il film del 1979, «Dimenticare Venezia», al fianco di Mariangela Melato ed Erland Josephson. Dai suoi esordi, assolutamente casuali (debuttò a 17 anni) al film della celebrità «Appassionata» con Ferzetti e la Muti. Poi Brusati, Manfredi, Lat-
tuada, fino al David, la Grolla d’oro e il Nastro d’argento per «Borotalco». Poi un lungo allontanamento dai set per realizzarsi come madre per poi ritornare, provando la gioia di ritrovare il proprio pubblico, i registi e la gente del cinema da cui si era allontanata per una scelta di vita. «Fino ai primi anni ’80 – dice – ho lavorato moltissimo, quasi fossi un’auto lanciata a folle velocità. Da un lato una fortuna dall’altro qualcosa che contrastava con la mia natura di donna riflessiva. In-
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somma ho vissuto e trasmesso un ruolo e un’immagine che in realtà non mi appartenevano». E’ il matrimonio con Angelo Rizzoli ma soprattutto la nascita del primo figlio Andrea (l’altro, Paolo, lo avrà più tardi dall’attore Massimo Ciavarro) a indurla a trasferirsi in campagna e a cambiare vita. «Avevo bisogno di disintossicarmi, di ritornare alla mia vera natura. Ci sono riuscita, oggi sono una donna molto diversa». Il pubblico non l’ha mai dimenticata però. Lei resta la bionda più amata dai cinefili italiani. «E’ vero e mi fa molto piacere. Ricevo mail da tutto il mondo – confida –, perfino dal Giappone. Gente che mi ringrazia ed esprime la sua gratitudine per quello che ha avuto dai miei film ed è questo che mi motiva ad accettare le nuove sfide professionali che oggi non sono più solo al cinema ma, dopo una faticosa anche se fortunatissima parentesi teatrale, in tv e nella scrittura». Ha in cantiere un libro? «Sì. Sarà scalettato sull’onda del ricordo». Oggi anche il pubblico televisivo dimostra di apprezzare molto il garbo con cui esprime le sue opinioni. Ha mai pensato a una conduzione? «Mi sarebbe piaciuto fare un pro-
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gramma di Buone Notizie, ma lo dico con umiltà sapendo che ci sono in questo ambito tanti professionisti con una lunga esperienza alle spalle». Lei ha anche una rubrica di posta di grande successo. «E mi fa tanto piacere. Anche perchè è su una delle testate storiche della Rizzoli, Novella 2000, anche se oggi è edito da altri. Me l’ha proposta il direttore Roberto Alessi. Ho iniziato con una pagina, siamo arrivati a tre. Mi ci dedico davvero molto ed evidentemente la gente lo capisce. Gran successo hanno avuto anche degli articoli ‘vintage’ dove mi sono divertita a fare ritratti di certi personaggi come Patty Pravo, Helmut Berger e così via». Padre italiano e madre ungherese. Nonni inglesi e poi una grande famiglia allargata molto internazionale. Eppure non è mai stata percepita dalla gente, dal suo pubblico come una snob. «Io mi sento molto pop – dice –, mi piace il contatto con le persone. Quando mi fermano per strada ne ho grande rispetto e cerco di dimostrarlo non solo a parole ma anche ad esempio nel modo di comportarmi e di vestire. Non ho più l’idea del divismo. Quando il successo dà alla testa ci si sente al centro del mondo e si perdono di vista tante cose. Per questo ad un certo punto ho scelto di allontanarmi, di andare a vivere in campagna, di crescere i miei figli, e diventare un’altra persona, quella che sono oggi appunto». Ha sviluppato un sano senso di autoironia? «Credo di sì. Che distinguo però nettamente dal sarcasmo, io non amo la satira perchè ha sempre un fondo di cattiveria». C’è qualche ruolo che avrebbe voluto
interpretare nel cinema? «Di sicuro mi sarebbe piaciuto essere l’attrice protagonista dei film di Hitchcock o la Bergman in Casablanca. Ma anche la Maryl Streep di Kramer contro Kramer». Molto internazionale. «Beh io, come la Vitti e prima ancora Virna Lisi non abbiamo mai incarnato la tipica bellezza italiana, quella alla Loren o della Bellucci per intenderci. Per cui inevitabilmente non riesco a pescare nel cinema italiano». Il teatro continua a corteggiarla e c’è anche chi la tenta di nuovo al cinema. «E’ vero ma non riesco ad accettare per ora. Vedremo...». Il suo ex marito ci è andato, lei accetterebbe mai di partecipare a un reality come l’Isola dei Famosi? «Non credo. Massimo ci è quasi morto, mi sono così spaventata. Però seguo il programma. Adoro Mara Vernier alla quale sono molto affezionata. Io però non sarei in grado né fisicamente né psicologicamente di vivere da naufraga sull’isola. Credo che finirei col piangere tutto il tempo da sola sotto una palma...». Trasformarsi dalla più irrequieta attrice del nostro cinema alla più, diciamo borghese, le è costato molto? «Semmai sono stata la più incasinata perché ho scelto di vivere, sono sempre stata una donna attaccata alla vita e al desiderio di avere una famiglia. Volevo altre cose oltre al cinema e al successo. Infatti, a un certo punto, mi sono presa una lunga pausa. Mi sono ‘disintossicata’, sono cambiata diventando una signora pop - conclude – e mi piace. Comincio davvero a sentirmi bene nella mia pelle...».
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TUTTI PAZZI PER NIKI
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utti pazzi per Niki. Per lei e le sue bambolone di cartapesta, le grandi Nanà dalla testa piccola e senza volto che saltellano allegramente sulle loro cosce potenti. Battagliere, eppure sexy, annunciavano un mondo nuovo, quello regolato e governato dalle donne, alla ricerca di una società migliore che doveva nascere dalle ceneri del fallimento delle due opposte esperienze di capitalismo e comunismo. Niki ci credeva e alla sua arte aveva affidato il compito di diffondere un’idea che era insieme politica e culturale, una sfida al conformismo da giocare con i colori e con le forme, più che con le parole. Forse proprio questo progetto e l’irriducibilità nel perseguire i suoi obiettivi hanno finito per mettere nell’ombra un’artista che negli anni Sessanta era invece riuscita a farsi spazio passando in continuazione dal linguaggio della pittura a quello della scultura, e ancora dall’architettura al cinema, mescolando il femminismo alla femminilità, la gioia alla rabbia, il gioco alla violenza. Ci hanno pensato due grandi istituzioni, il Grand Palais di Parigi e il Museo Guggenheim di Bilbao, a riscoprire il volto pop di una donna eccentrica e anticonformista e ad assegnarle un posto di rispetto nella storia dell’arte del secolo appena trascorso. Una grande mostra sul-
l’opera di Niki de Saint Phalle si è infatti appena conclusa nella capitale francese e dal 27 febbraio è trasferita in Spagna, a Bilbao, in uno dei massimi centri di arte moderna e contemporanea, dove resterà fino al 7 giugno.
Due retrospettive che espongono oltre 200 opere, di cui molte inedite, che la incoronano come la prima grande artista femmi-
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di Valeria Caldelli
nista del XX secolo. Francese di nascita e statunitense di formazione, Niki unisce lo spirito innato della rivolta al sangue blu della sua famiglia. Chaterine Marie-Agnes Fal de Saint Phalle è il vero nome della fanciulla che trascorrerà nei castelli i suoi primi anni di vita fino a quando la Depressione lascerà senza soldi i genitori, così costretti ad emigrare in America. Ma non sono le felici condizioni economiche perdute a segnare Niki, quanto un clima familiare in cui regna la violenza: sua madre picchia le figlie con una spazzola per capelli e sua padre abusa sessualmente di lei quando ha 11 anni. Di una bellezza conturbante, la giovane rampolla di uno dei più antichi casati francesi, diventa prima modella, poi sposa uno scrittore americano e dà alla luce la prima figlia. Dopo tenta il suicidio. E’ durante il lento recupero dalla malattia psichica e dalla sofferenza che Niki trova l’arte. Anzi, forse è l’arte a trovare Niki e a percorrere con lei, radicale e ribelle, i sentieri rivoluzionari delle avanguardie dei suoi tempi. Non a caso per dipingere usava le armi, anzi, un’arma: la carabina. Con quella sparava alle uova e ai sacchetti di colore appesi in alto su una tela bianca o precedentemente dipinta. Lasciava che i liquidi colassero e poi via....altri tiri fino a quando il colore aveva invaso l’intero spazio. In questo modo, e per sua stessa ammissione, colpiva
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la società e le sue ingiustizie. Lei, che fin da bambina voleva vestire i panni dell’eroe interpretando una nuova Giovanna d’Arco o un Napoleone in gonnella, si trasforma, invece, in una Calamity Jane del Nuovo Realismo, il gruppo francese che negli anni Sessanta rivaleggiava con il Pop americano. “Ho tirato su mio padre, sulla società, la Chiesa, la scuola, la mia famiglia, mia madre, tutti gli uomini e me stessa”, spiegava. “Ho tirato perché mi affascinava vedere il quadro sanguinare e morire. Ho ucciso la pittura. Lei è resuscitata. Guerra senza vittime”. Ma saranno le donne a calamitare la sua attenzione. Quelle dee della fecondità che arrivano dalla preistoria, trasformate in amazoni moderne, tutte sesso e rotondità, imponenti e saltellanti, sono le sue Nanà. La loro arma è solo la borsetta che tengono in mano, ma la forza delle loro idee è gigantesca. Nascono nel 1965, quando in Francia viene approvata per la prima volta la legge che permette alle donne di lavorare senza l’accordo del marito e di gestire liberamente i loro beni aprendo un conto in banca a proprio nome. Niki interpreta i tempi, quasi anticipa i cambiamenti, porta la bandiera del femminismo e inneggia alla nascita di una società gestita dalle donne raccontata attraverso le Nanà. Appena un anno dopo al museo di Arte moderna di Stoc-
colma arriva Hon, la Nanà-casa, che altro non è che una gigantesca donna sdraiata sul dorso, con una grande vagina in cui accoglieva i visitatori. Una versione pop dell’ ‘Origine del mondo’ di Courbet, ironica e allegorica, incarnazione della Grande Madre che combatte tutti i tabù del mondo. Ma dall’inventario femminile di Niki non mancano le ‘madri divoratrici’, né le ‘maritate’, ruoli negativi della donna che esplora con doloroso sarcasmo dando vita ad immagini poco rassicuranti, grottesche ma terribili soprattutto se avvolte negli abiti bianchi da sposa da cui, insieme a fiori e figli, spuntano sotto forma di immondizia anche il conformismo, i soprusi e i torti che l’artista voleva denunciare. Mostra insolita quella dedicata alla Saint Phalle con numerosi filmati e immagini, testimonianze dirette dei molti messaggi civili, sociali e politici che lei, irremovibile nei suoi obiettivi, voleva inviare attraverso l’arte, sia pure sempre in forma gioiosa e colorata. Insolita anche l’ idea di creare opere pubbliche per trasmettere allegria e voglia di vivere a tutti. In Italia, nel sud della Toscana, vicino a Capalbio, prese corpo così la sua impresa più importante, ‘Il giardino dei Tarocchi’, realizzato in 20 anni di lavoro e interamente finanziato dall’artista grazie alla vendita di un profumo e di bijoux di sua creazione. Nello stesso periodo, a pochi chilometri di distanza, stava crescendo la centrale nucleare di Montalto di Castro, che però venne chiusa poco dopo. “L’arte è sopravvissuta al nucleare”, commentò Niki entusiasta. Il Giardino dei Tarocchi è sopravvissuto anche a lei e ancora regala emozioni alle migliaia di turisti che ogni anno lo visitano.
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TOH...LA CENSURA
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ntervista all’avvocato Francesca Fera, presidente di una delle sezioni della commissione per la revisione cinematografica. LA CENSURA al cinema ai tempi di Internet. Chi pensava che fosse scomparsa (visto quello che gira in Rete) sbagliava. A Roma infatti è tutt’ora attiva un’apposita commissione di esperti (divisa in sette sezioni), che periodicamente si riunisce per visionare in anteprima i film in uscita nelle sale cinematografiche italiane. Ma, visto che oggi il “comune senso del pudore” è sicuramente cambiato e ciò che scandalizzava trent’anni fa oggi non fa più scalpore, abbiamo chiesto all’avvocato Francesca Fera, penalista di professione ma anche grande appassionata di cinema da sempre che di una delle sezioni della commissione per la revisione cinematografica, la settima per la precisione, è presidente, che cosa ci si preoccupa di “censurare” oggi. Diciamo che la commissione si preoccupa di applicare i criteri selettivi stabiliti dalla legge in materia. Perchè dovete sapere che ogni film prima di approdare sul grande schermo in Italia deve avere un nostro Visto. Una sorta di ‘lasciapassare’ che tutela in modo particolare i minori di 14 e 18 anni. Pensi che in
altri Paesi esiste anche il divieto ai minori di 10 anni o 12, perchè appunto certe tematiche o certe scene possono turbare il loro equilibrio...
Come funzionano le sezioni e perchè proprio sette? “Intanto sono composte da un presidente, che in genere è o un avvocato o un magistrato, uno psicologo-pedagogo, due esperti di cultura cinematografica, due rappresentanti di associazioni di genitori, due rappresentanti di categoria, e un animalista. Nove persone in tutto. Ma il numero legale è quattro più il
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presidente il cui voto, in caso di parità vale doppio. Sette sezioni perchè i film da vedere sono parecchi e quindi se ne riunisce una per ogni giorno della settimana. Essendo un compito che viene svolto ormai a titolo gratuito...”. E se il produttore non dovesse essere d’accordo con il divieto posto dalla commissione? “Può appellarsi, presentando un ricorso che consente la visione del film da parte di due altre sezioni. Oppure rivolgersi al Tar. O, come accade non di rado, ripresentarsi alla stessa commissione dopo aver effettuato tagli al film”. Si è mai trovata a dover decidere con il voto doppio, e se sì sulla base di cosa ha deciso? “Beh quando succede, spesso capitano film difficili, ascolto molto il parere dello psicologo. Un parere tecnico fondamentale in questi casi”. Che cosa dice esattamente la normativa al riguardo di ciò che può essere ammesso e ciò che invece non può passare sui maxi-schermi italiani? “Le posso dire che sui minori il pericolo più grave è l’emulazione. E quindi oltre ai film palesemente porno, che escono con il divieto per i minori di 18 anni, si
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‘censurano’ diciamo così, quei film in cui si possa intravedere l’istigazione a certi abusi... all’alcool o alla droga ad esempio, ma anche alla violenza. La maggior parte dei film esce con il divieto ai 14 anni, sono i più piccoli quelli da proteggere. Perchè a volte non hanno ancora gli strumenti per poter recepire correttamente il messaggio. Mi spiego, anche i film che creano troppa pressione, troppa ansia a volte vengono vietati ai minori di 14 anni. Certo, dovremmo poter consigliare la visione con un adulto. Ma per il cinema questa possibilità non esiste”. Però poi capita che il film vietato nelle multisale passi poi in prima serata in tv... “E’ vero, purtroppo. Ecco perchè spesso i produttori si appellano e cercano di evitare il divieto perchè quando le emittenti acquistano i diritti se sono vietati ai 18 anni non possono essere trasmessi in prima serata. Sono le contraddizioni del sistema”. Ma come è cambiato negli ultimi anni il criterio di divieto? “Beh abbastanza. Ci si adegua ai tempi. Ormai sul web passa di tutto. Però le norme sono chiare. Certo, quando uscì tanti anni fa “Lo Squalo” generò il panico su intere generazioni e venne vietato ai minori di 18 anni. Oggi probabilmente passerebbe senza divieto alcuno...”. E il sesso? “Di solito le scene di sesso, anche esplicito, non vengono più censurate a meno che non si tratta di film porno o di sesso violento...” . Esiste anche un ‘orientamento’ per così dire politically correct? “No, di solito non sappiamo cosa è stato censurato in altri Paesi. E non ce ne preoccupiamo più di tanto”. Facciamo qualche esempio. Quali censure e su quali film sono state applicate recentemente (magari su titoli famosi
degli ultimi anni)? “Beh un film che ha avuto diversi problemi in tal senso è stato Vallanzasca. Lo vietammo, ci fu poi l’appello. In ogni caso un film da vedere a mio avviso. Ma potrei anche dirle di Ninphomaniac, che uscì la prima volta al cinema col divieto ai minori di 14 anni. In realtà doveva essere vietato ai 18. E così in effetti è stato per il secondo”. Il comune senso del pudore... Ricorda il meraviglioso finale del film Premio Oscar di Tornatore “Nuovo cinema Paradiso”, in cui vengono mostrate le scene di bacio più celebri della storia... che erano state fatte tagliare, nella storia, dal parroco? “Un capolavoro assoluto...Oggi quei baci non farebbero storcere il naso a nessuno. Però tutt’ora i produttori per evitare divieti preferiscono tagliare le scene diciamo così incriminate. Un tempo lavoravano sulle pizze, oggi si fa direttamente sulle chiavette usb...E comunque nessuno oggi fa più censura. Infatti le commissioni operano solo una revisione”. Siamo più o meno rigidi di Inglesi, Francesi e Tedeschi? “Sicuramente siamo più elastici...meno bacchettoni diciamo va....”. Si diverte? “Sì, io li vedrei tutti i film. La mia è una vera passione, altrimenti non andrei in commissione un pomeriggio a settimana sottraendo tempo al mio llavoro. Noi tra l’altro visioniamo anche i cortometraggi e persino la pubblicità che passa al cinema”. Ma il film più bello che ha visto nell’ultimo anno? “Ce ne sono diversi. Ma per varie ragioni menzionerei The Judge con Robert Duvall e Robert Downey Junior”. Donatella Miliani
LA TANA DEL FAJETTO Un romanzo eroico, affascinante, intenso "La Tana del Fajetto" di Nino Greco. Una narrazione che cattura il lettore e lo immerge in tempi letterari forti che ricordano quelli della Sicilia di Elio Vittorini per la tempra e la passione che vi si ritrovano dentro e quelli della Calabria di Corrado Alvaro per gli ideali e l'energia che regalano cromatismi alla storia.
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NEW YORK CHIAMA NARNI
U
mbria-New York e ritorno, così potremmo intitolare la carriera di Cristiana Pegoraro, artista poliedrica, partita in giovane età dalla sua città d’origine Terni, in Umbria, alla volta di una grande esperienza internazionale, esperienza che genera fin dai suoi inizi molte risonanze nel territorio italiano. Cultura umbra fatta di radici, genuinità, sostanza e tradizione e mood newyorkese all’insegna di organizzazione, logica, innovazione ed ampio respiro consentono a Cristiana lungo tutto il suo percorso professionale di creare un qualcosa di unico ed irripetibile. Il lato più interessante e particolare di questa artista, ciò che la rende non paragonabile ad altri, è proprio la sua capacità di fondere insieme una grande tecnica, appresa grazie ad una applicazione continua, un forte talento alimentato da una radicata passione ed una evidente dote manageriale, che le permette di esportare la sua musica all’estero con un successo incondizionato e di ritornare in Italia con una nuova ricchezza, trasmettendo al pubblico ulteriori sfumature, accolte ogni volta con maggiore soddisfazione. Cristiana si avvicina al pianoforte sin dall’età di quattro anni e da quel momento i due sono inseparabili. Grazie infatti al supporto della famiglia, Cristiana viene assecondata nella sua passione e già a sedici anni è lontana da casa per perfezionare gli studi, prima a Salisburgo, poi a Berlino e a New York. Si fa ben presto notare nel panorama dei giovani talenti, popolato principalmente da uomini, per la sua bravura ma anche per la tenacia, la determinazione e la voglia di non mollare mai. La durezza della vita da concertista, che richiede ad ogni musicista una salute di ferro, un grande spirito di adattamento, capacità di concentrazione, sacrificio e perseveranza, non spaventa assolutamente Cristiana, che procede spedita verso la Cristiana Pegoraro
realizzazione del suo sogno, avendo modo di dedicarsi anche alla composizione e alla scrittura di poesie ispirate alla Grecia, una terra da lei molto amata. L’attività nelle maggiori sale da concerto del mondo diventa sempre più ampia per Cristiana, tra le più importanti il Lincoln Center di NY (ad uno dei suoi dieci concerti tenuti in questa mecca della musica, Cristiana riceve dal Circolo Culturale Italiano delle Nazioni Unite il prestigioso riconoscimento “World Peace Award” per il suo particolare impegno nel promuovere la Pace nel mondo), il Musikverein di Vienna e l’Auditorium Parco della Musica di Roma davanti a 3.000 persone. Cristiana vanta un repertorio davvero vasto, che spazia dalla musica classica a quella sudamericana e ai tanghi di Astor Piazzolla. Per Cristiana unire diversi stili in un unico programma ben calibrato è il mezzo per far avvicinare ai suoi concerti un pubblico eterogeneo, creando il clima giusto e la curiosità necessari affinché anche i giovani si accostino con maggiore interesse ai concerti per pianoforte. Cosa che ancora più colpisce è che Cristiana sia l’unica donna al mondo ad aver eseguito l’integrale delle 32 Sonate per pianoforte di Beethoven, oltre ad essere la prima pianista italiana a tenere concerti di musica classica in Bahrain, nello Yemen e in Oman. Una delle chiavi del suo successo è la straordinaria capacità di comunicazione verbale che Cristiana instaura con il pubblico durante i propri concerti. È una particolarità certamente personale e molto originale nell’ambito dei concerti per pianoforte: un modo per interagire con l’ascoltatore raccontando della vita dei compositori e spiegando i brani che verranno eseguiti, sottolineandone le caratteristiche innovative e le specificità stilistiche o evocative. Attraverso questo tipo di comunicazione, Cristiana crea con il pubblico un contatto vivo ed un’atmosfera di insolita attesa e partecipazione. Un’artista a tutto tondo, Cristiana, che dichiara che se non fosse diventata una musicista, sarebbe stata una veterinaria, cosa che evidenzia la sua sensibilità,
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la sua attenzione per gli altri, dimostrata in molte occasioni che l’hanno vista al fianco dell’Unicef (di cui è testimonial) e di altre importanti organizzazioni umanitarie. E l’amore per la sua Umbria viene coltivato in maniera costante. Cristiana, infatti, è testimonial per la campagna di turismo dell’Umbria nel mondo e, oltre a questo, si impegna quotidianamente anche a distanza nella direzione artistica dell’ormai rinomato festival che si tiene ogni estate a Narni, il Narnia Festival, grande contenitore d’arte a 360 gradi che racchiude in sé una vasta proposta di offerte: concerti e spettacoli, conferenze, lezioni, masterclass e w o r kshop, corsi di alto
perfezionamento artistico di musica, danza e teatro sotto la guida di docenti provenienti dalle più importanti università del mondo, tra cui la Juilliard School di New York e il Mozarteum di Salisburgo, programmi di lingua e cultura italiana in collaborazione con l’Italian American Committee on Education, ente gestore che per conto del Ministero degli Affari Esteri si occupa di promuovere la lingua e la cultura italiana negli Stati Uniti, nonché programmi di cultura e piacere per turisti e iniziative mirate alla conoscenza del patrimonio storico, architettonico e spirituale dell’Umbria. Il Narnia Festival (www.narniafestival.it), che vanta nel comitato d’onore personaggi come Katia Ricciarelli, il tenore Marcello Giordani, le attrici Maria Rosaria Omaggio e Lisa Gastoni, il giornalista e conduttore RAI Massimo Giletti, la cantautrice Mariella Nava, il campione olim-
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pionico Massimiliano Rosolino e la ballerina Natalia Titova, nonché il celebre sceneggiatore, regista e scrittore Enrico Vanzina, nel 2014 ha ricevuto la medaglia del Presidente della Repubblica. “L’idea è nata proprio grazie a due aspetti che convivono dentro di me” - dichiara Cristiana Pegoraro - “a 16 anni sono partita e tutt’ora vivo all’estero, ma sono cresciuta tra le meraviglie di un paese medievale, dove cultura e arte sono a portata di mano, si possono respirare anche solo passeggiando per le vie del centro storico o guardando i bellissimi Auditorium San Domenico e il Teatro dell’Opera”. Da una parte l’amore per la sua terra e dall’altra lo spirito organizzativo tipicamente Made in U.S.A. hanno portato Cristiana a far conoscere la magia di un territorio ricco di storia e unire cultura, didattica e turismo in un’unica proposta culturale inserita nella splendida cornice del suo paese d’origine. Il segreto del suo successo? Quello di aver reso la musica e la cultura, anche quella più ricercata, amica di tutti e proprio per questa caratteristica è un successo che tende all’infinito. Marta Mentasti
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LE TRE ROSE DI EVA
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n primavera Beppe Convertini farà il suo ingresso nella fiction di canale 5 (terza edizione) Le tre rose di Eva, insieme ad Anna Safroncik, Roberto Farnesi e Luca Capuano. Lui, Beppe Convertini interpreta uno dei nuovi personaggi della fortunata fiction che ancora una volta sarà ambientata a Villalba dove Aurora è diventata una delle donne più ricche del paese, mentre Alessandro si ritroverà a ricominciare da zero. Veronica invece uscirà dal carcere e si ritroverà ad essere tra i protagonisti con l’intenzione di vendicarsi di Aurora Taviani. Ne Le Tre Rose di Eva 3 ci sarà un matrimonio… Allora Convertini, lei è un personaggio a trecentosessanta gradi. Cinque film all’attivo, teatro, trasmissioni radiofoniche e televisive, quale sarà il suo ruolo? «Sarò Franco, un boss di night, un tipo sempre elegante ma losco che trama alle spalle di Capuano che nella storia interpreta Edoardo Monforte. Ovviamente – aggiunge – c’è sempre di mezzo una donna, contesa, un intreccio di cui non posso dire di più. La serie torna in onda i primi di Aprile». E intanto? «Intanto sto lavorando in radio a Radiodue con “Italiani in continente”, in onda la domenica dalle 13.40 alle 15.00 e sto iniziando le riprese del film “L’aria del tempo”, regista Perrotta con Lando
Buzzanca nel ruolo del protagonista: l’agente Zanardelli». Sempre immerso sui set di storie d’amore, gioie e dolori? «La vita di tutti noi - dice - in fondo e’ fatta di storie d’amore, gioie e dolori. In realtà tutti siamo protagonisti di una soap, la cui trama è la nostra vita. Certe volte vorrei che fosse davvero una finzione quello che sto vivendo,
forse perche’ vorrei eliminare le sofferenze a cui non posso sottrarmi in altra maniera. Ho scoperto che l’unico modo è affrontare con positività ed autoironia i momenti difficili...». Teatro, cinema, tv, radio. Quale preferisce? «Diciamo che ho un debole per tutto ciò che mi
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consente un contatto diretto con il pubblico. Fin dal debutto ne Il Passerotto con Mastelloni a Taormina nell’89, quell’emozione intensa, immediata è stata una folgorazione. Difficile farne e meno». Comunque la sua è una vita abbastanza piena, sempre in movimento tra Milano, Roma, Napoli, la Sicilia, la Puglia. Eppure riesce anche a impegnarsi socialmente. Come fa? “E’ un’esigenza che sento dentro. Ad Haiti come in Abruzzo o in Nigeria intervenire per cercare di essere utile, fare qualcosa per gli altri. Certo, una goccia nell’oceano, ma, come diceva Madre Teresa di Calcutta, se non ci fossero gocce non ci sarebbe l’oceano. Sono membro di Terre des homme. Sono stato anche in un campo profughi siriano. Porterò con me sempre gli sguardi dei bambini. Per questo continuerò a partecipare a iniziative di raccolta fondi. I bambini sono il futuro del pianeta, ovunque...”. Insomma la sua carriera è in ascesa ma a quanto pare non si è lasciato travolgere dalla fama e dal successo. “Io credo che il volontariato e in particolare l’impegno per i più fragili, anziani e bambini, sia un dovere... Il successo è importante ma mai perdere il contatto con la realtà che a volte, purtroppo può essere molto crudele proprio con chi è meno fortunato...”. D.M.
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UNA CRITICA UMANISTICA
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usanna Tamaro: attenzione perdalla spesso fuorviante vulgata budduta e dominio della tecnica. dhista), con particolare riferimento Per una critica “umanistica” della all’universo giovanile. La mitologia postmodernità. giovanilista è purtroppo smentita dai La penetrazione della tecnica in ogni fatti: eppure resiste nell’immaginario ambito dell’esistenza, che alcuni, ancollettivo. che tra i cosiddetti “cattolici”, si ostinano a definire “progresso”, sta determinando un profondo depauperamento dell’uomo occidentale. L’”umanesimo” moderno si risolve, paradossalmente, nella crisi dell’individuo: in ultima analisi, la glorificazione dell’io ha prodotto la virtualità e, presso i più sensibili, la percezione del suo radicale artificio. Già Cristina Campo e La scrittrice Susanna Tamaro Simone Weil misero in luce la centralità dell’attenzione come Effettivamente, come la Tamaro scrive, “tecnica” spirituale. La questione è i nostri ragazzi sono spesso lasciati stata ripresa recentemente da Susanna soli nella palude dei “mi piace” (rifeTamaro (ancora una donna!), che in rimento patente all’ubiquo “Facebovari articoli ha evidenziato la stretta ok”: “Corriere della sera”, 17/2/2014). connessione tra la tecnica (e le sue Un tale squilibrio colpisce l’uomo applicazioni “tecnologiche”) e la pernel profondo – la virtualità introdudita dell’attenzione (“concentrazione”, cendo al regno dell’assurdo e del non in termini più popolari e mediati senso –, ed è quindi peggiore di qual-
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di Marco Toti
siasi dittatura (che, peraltro, si può facilmente mascherare da democrazia: i vari governi di plutocrati e tecnici, inflessibili chirurghi dell’usurocrazia). Contro ciò la Tamaro propone, da circa venti anni, una spiritualità non “istituzionalizzata”, ma che attinge a fonti svariate, laiche e religiose: sussistono anche qui dei rischi, insiti nella stessa critica “umanistica” del postmoderno. Eppure, almeno, sembra che il discorso dell’autrice triestina si opponga con sincerità e chiarezza ad una deriva che rischia di essere esiziale. É qui questione, pure, di una critica che oltrepassa le stantie categorie di destra e sinistra, inserendosi in un dibattito in certo senso “sotterraneo”; contro questa visione, paradossalmente ma significativamente, si pongono alcuni settori “teocon”, anche cattolici, che glorificano l’Occidente e quindi la religione del dominio.
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LOURDES, LÀ DOVE ARDE LA FEDE
di Katrin Bove
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ellegrino solitario, o venuto in gruppo a Lourdes, chi non ha mai provato una viva emozione davanti alla grotta di Massabielle? Chi, pregando ai piedi di quella statua di marmo bianco, non ha sentito la presenza, sempre attuale, dell’Immacolata Concezione? Chi, esponendole le proprie richieste, non è stato convinto che il suo cuore di Madre l’avrebbe sentito? Ecco Lourdes c’è, esiste perché si è espresso con le estasi della piccola Bernardette Soubirous. I sorprendenti accadimenti di cui fu protagonista hanno fatto di Lourdes uno dei principali luoghi di pellegrinaggio per quanti professano la fede cattolica. L’undici febbraio del 1858 all’allora quattordicenne Bernardette Soubirous apparve “la Signora vestita di bianco” divenuta nota poi come Nostra Signora di Lourdes. Secondo la sua testimonianza, quel giorno Bernardette scorse “un mucchio di rami e di rovi che andavano e venivano…mentre nulla si muoveva intorno”. All’interno di quella cavità vide “un chiarore sovrumano” in mezzo al quale apparve “una bella signora” che “sembrava molto giovane”. Indossava “un vestito bianco, una cintura blu e una rosa gialla su ogni piede”. Era ricoperta da “un velo bianco che le copriva la testa, scendeva lungo le spalle e le braccia quasi fino al fondo del vestito”. Seguirono 18 apparizioni da febbraio a luglio, precisamente il 16 di luglio cade l’ultima visione. Tra queste le più significative sono segnate dalla data del 25 marzo, quando l'apparizione si mostrò a Bernadette e disse in occitano
bigordino (la lingua che parlava Bernadette), alzando gli occhi al cielo e giungendo le mani: «Que soy era immaculada concepciou». E da quella del 7 aprile, quando avvenne il cosiddetto "Miracolo del cero". Bernadette teneva fra le mani una candela che, durante la visione, bruciò del tutto: fu riferito che la fiamma rimase a diretto contatto con la sua pelle per più di quindici minuti, ma ella apparentemente non mostrava nessun segno di dolore o ferita. Dal giorno in cui Bernadette portò alla luce la sorgente, 68 guarigioni tra quelle verificate dall'Ufficio medico di Lourdes, e classificate come "inspiegabili", sono state riconosciute miracolose dalla Chiesa cattolica. La commissione di Lourdes, che esaminò Bernadette dopo
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le visioni, eseguì anche un'analisi accurata dell'acqua, trovando soltanto un alto contenuto di minerali e nulla di straordinario che potesse spiegare le guarigioni. Bernadette stessa disse che la fede e le preghiere avevano curato i malati. Oggi il santuario di Lourdes è ancora
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meta di incessanti pellegrinaggi che, con continuità e sempre maggiore affluenza, vivono e sorreggono questo luogo. Sono tante le storie che circondano il Santuario, piene di tristezza, di miseria, di dolore, ma tutte contemporaneamente
assetate di speranza e di misericordia. Chiunque arriva a Lourdes, arriva con il desiderio nascosto nell’anima di sentirsi protetto ed esaudito nelle proprie intenzioni. Non mancano i semplici curiosi che si avvicinano con lo scetticismo di chi cerca un segno tangibile di presenza divina. Ma in questo piccolo paese, emblema di carità, il primo grande miracolo è sempre quello di sentirsi autentici, la vita assume una dimensione più vera, si diventa “umani”, persone alla pari, fatte di sentimenti, vive dentro, capaci di guardarsi con gli occhi dell’anima. Uomini di alto profilo, personaggi dello spettacolo, grandi imprenditori come persone poco abbienti, gente umile
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ed ultimi della società si livellano in un abbraccio solidare di mutuo soccorso. “Quando si va verso un obiettivo, è molto importante prestare attenzione al cammino…è il cammino che ci insegna sempre la maniera migliore di arrivare e ci arricchisce mentre lo percorriamo”, questo descrive Paulo Coelho in un suo famoso libro. Lourdes può rappresentare l’inizio di un cammino che aprirà nuove strade illuminate da una presenza costante di amore e gioia, bisogna armarsi di Fede Speranza e Carità per affrontare le avversità del mondo. E lì si ritrova questa forza, che si manifesta con segni vivi di pace interiore e negli incontri con persone “nuove”. La sensazione è di protezione, di amorevolezza, di amicizia, di unione e di condivisione, non si è più rinchiusi nei propri egoismi, non si è più soli nella vita. Uno dei grandi doni di Lourdes è rappresentato dalla profondità della ricerca interiore, la conversione dell’anima, quella sensazione come di abbandono alle braccia materne che ti avvolge totalmente, alimentando la fede e la speranza nel proprio cuore. Incontrare persone che riescono a trasmetterti gioia e voglia di nuova vita, a rigenerare le proprie emozioni, a sostenere il prossimo anche solo con un semplice gesto o un sorriso. Questo è un suo grande miracolo. E i miracoli cominciano ad avverarsi proprio quando cominci a crederci in pieno. Nella foto la processione-fiaccolata dedicata, ogni sera alla Vergine
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IL CIUCCIO DI PASQUA
di Alessandro Spolvi (Scrittore)
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erò noi, i figli della Cicogna, avevamo da festeggiare solo quella e non Babbo Natale. Non c’erano regali, il 25 dicembre. Aspettavi in piedi la mezzanotte del 24 giocando a tombola. Per noi il massimo era fare tardi, ma questo divertimento ci era concesso due volte l’anno: il 24 sera, Natale, e il 31 per festeggiare il nuovo anno. Il giorno dopo, con gli amici facevi il fanatico giocando su chi fosse andato a dormire più tardi. “Io all’una e tu?” “Alle due” “Non ci credo, addirittura alle due di notte!” “Sì, e ho pure vinto cento lire a tombola” “Che fortuna...”. La stessa storia si ripeteva con il cenone di fine anno dove guai se mancavano le lenticchie a tavola, perchè beneauguranti e portatrici di soldi, così dicevano gli esperti. Io ho mangiato intere piantagioni di lenticchie tanto da dover essere fatto cittadino onorario di Castelluccio, ma sempre er trenino beccavo dalla Befana, tanto da chiedermi, anno dopo anno, se mi padre avesse quarche parente alle Ferrovie dello Stato. Passate le feste natalizie aspettavamo con impazienza la Pasqua. Primo perchè chiudevano le scuole, secondo perchè c’era il rito delle uova di cioccolato con la sorpresa dentro. Mamma faceva in casa la torta pasquale. Io e mio fratello con le mie sorelle, invece dipingevamo con i colori ad acqua le uova sode per la colazione, da mangiare con la torta e il salame, tutti insieme come vuole la tradizione.
Io mangiavo di corsa perchè non vedevo l’ora di aprire il mio uovo di cioccolato, ma papà diceva: “Li aprite tutti insieme!”. Così dovevo aspettare gli altri, che lo facevano apposta a mangiare al rallentatore, specialmente Giancarlo che, come pochi, si metteva a mangiare le briciole della torta per metterci più tempo e farmi arrabiare. Mi ricordo una Pasqua, quando, come sempre, mamma prese le uova invitandoci a scegliere il colore preferito. Quando ognuno di noi fece la propria scelta, cominciammo a scartarle e a romperle a turno. Mio fratello fu il primo a romperlo e trovò come sorpresa un orologio di plastica da polso, giallo, con i numeri neri e le lancette che dovevi girare con le dita. Rossana trovò un braccialetto con un ciondolino d’ottone, mentre Giuliana un paio d’orecchini di plastica rossi. Toccava finalmente a me. Ruppi l’uovo battendo sapientemente il cioccolato con il manico del coltello del salame e ...ecco qua: un bel ciuccio celeste! “... E chi ce l’ha messo dentro 'sto coso!” E cominciai a piangere dalla disperazione mentre Giancarlo mi prendeva in giro insistendo a volermi mettere il ciuccio in bocca. Ero incavolato con il mondo intero perchè potevo capire il trenino alla Befana, ma il ciuccio a Pasqua, questo proprio no! Con Pasqua le feste erano finite, meno male! Rimaneva soltanto il Ferragosto, ma lì dentro il cocomero, non c’era nessuna sorpresa.....potevo sta’ tranquillo!!!
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