BIMESTRALE ECONOMICO FINANZIARIO
Poste Italiane Spa - Sped. abb. post. DL 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma1, C/RM/22/2013 del 19/06/2013
Anno 2014 Numero 2 MARZO APRILE
CULTURA FERITA: CHE FARE? UNA PROPOSTA
Nella foto il cedimento delle mura di Volterra
a pag. 4
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IL PUNTO Banche: il futuro
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FISCO Un metodo facile
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QUOTATE Buone notizie dai mercati
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Il Punto Una banca per amica
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Patrimonio artistico Gioielli da salvare
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Modelli di sviluppo Fame di cultura
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Delega fiscale La riforma del catasto
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L’anniversario La BCC di Roma ha 60 anni
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La ripartenza/1 Padoan il traghettatore
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La ripartenza/2 Crescita e stabilità
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Eccellenze italiane Il Sant’Anna di Pisa
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Cosmo in rosa L’italiana nello spazio
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Livelli qualitativi Come evitare i tagli
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Una nuova frontiera Dinamismo di Maremma
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Grande distribuzione L’agroalimentare tira
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Commercio estero Il mercato italo-arabo
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Alitalia Loyalty Coccolando, volando
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La grande spoliazione I nemici del risparmio
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La moneta dell’Expò Futuro in bellezza
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Costume & Società Dai Salesiani all’Oscar Il “Carapace” entusiasma
SOCIETÀ QUOTATE a cura dell’Ufficio Marketing
44 46 48 50 52 52
ANSALDO STS RENO DE MEDICI CREDITO BERGAMASCO AUTOSTRADE MERIDIONALI BANCA CARIGE BENI STABILI
Banca di Credito Cooperativo di Roma Capitale in crescita. Da 60 anni. (a pag. 14)
Nuova Finanza
Bimestrale Economico - Finanziario Direttore Editoriale
Francesco Carrassi Direttore Responsabile
Pietro Romano Direzione Marketing e Redazione
Katrin Bove Germana Loizzi
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IL PUNTO del direttore
BANCHE, EUROCRATI IN AFFONDO di Pietro Romano
L
o scontro è stato di quelli inusuali. Anche se gli (altri) organi d’informazione hanno provveduto a smorzarlo. Accusare la Banca centrale europea di non essere “sufficientemente pronta al suo ruolo di supervisore bancario” e in crisi di “personale, idee, standard” – come ha fatto il quotidiano economico tedesco “Handelsblatt” - è quanto meno irrituale. L’istituto di Francoforte ha replicato che “l’articolo è basato su una serie di inesattezze”. Che i tempi previsti dall’Eba (European banking authority) saranno rispettati. E che sono “oltre 200 gli impiegati attualmente al lavoro”. Duecento per avviare la nuova vigilanza bancaria europea? E non sono pochi? In realtà, la struttura periferica della vigilanza non è destinata a venir m e n o. S o l o che, incredibilmente, non sarà più
un’esclusiva delle banche centrali. Agli istituti come la Banca d’Italia, infatti, si affiancheranno entità private (società di consulenza, revisori ecc). Nel nostro Paese, a esempio, il consiglio dei ministri ha già dato il via al reclutamento di questi esterni e già ricorrono nomi come Deloitte e Kpmg. Ragionando con la pancia, si potrebbe dire: meno male! La vigilanza italiana negli ultimi anni non ha brillato per efficienza, come dimostrano alcuni casi eclatanti, non certo banche di provincia o di paese, di istituti finiti al (dis)onore delle cronache per la cattiva gestione. Nel contempo, si potrebbe anche, in tempi di revisione della spesa e di tagli estremi, chiedersi perché mai, allora, i contribuenti italiani siano ancora costretti a pagare i lauti stipendi erogati dalla Banca d’Italia. Si blocchi perlomeno il turn over, diventa lecito chiedersi. Ma il discorso è molto più complesso e non lo si può limitare ai dipendenti in, eventuale, eccesso. Piuttosto va osservato che le società di consulenza non ga-
Andrea Enria Presidente Eba
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rantiscono la loro estraneità ai conflitti d’interesse: c’era proprio bisogno, allora, di introdurre questa novità in un mercato già tanto indebolito dalla crisi? Non è questa l’unica doglianza sullo stato dei rapporti tra gli organismi europei e le banche italiane. In cima alla lista c’è il ruolo dell’Eba che, per paradosso, dal marzo 2011 è guidato dall’italiano Andrea Enria. Perfino il compassato “Sole 24 Ore” lo ha accusato di emettere “norme che hanno indotto gli istituti finanziari italiani a scelte draconiane con ripercussioni drammatiche su cittadini e imprese”. Le nuove regole sugli affidamenti introdotte appunto dall’Eba possono strangolare l’economia reale, altro che ripresa! L’Autorità vuole impedire a un istituto di intervenire a sostegno di un cliente in difficoltà più di una volta, altrimenti lo dovrà automaticamente classificare come “non performing”, dichiararlo in “default”, accantonare le somme a credito. Altrettanto devastanti potrebbero essere le conseguenze della inflessibilità sui fidi, che sanziona con la dichiarazione di “default” del cliente anche lo sconfinamento di un solo euro per oltre 90 giorni. Insieme queste due norme da un lato aggraveranno ulteriormente la stretta creditizia, dall’altro potranno costringere a nuovi accantonamenti le banche, le quali magari non ne avranno la disponibilità e potrebbero finire a loro volta in “default”. Insomma, mentre l’economia chiede maggior credito, dall’Europa arriva la spinta verso un’ulteriore stretta. Non è l’unico
colpo proibito che Francoforte e Bruxelles stanno assestando al sistema bancario italiano. Un sistema – va detto – che ha reagito molto meglio di quello degli altri Paesi europei e soprattutto del “sistema unico anglosassone” cui le istituzioni europee stanno obbligando gli istituti italiani. Non è casuale che i contribuenti italiani siano stati costretti a versare finora (sia pure a titolo poco chiaro di “anticipo”) oltre 58 milioni di euro per salvare le banche di altri Paesi europei, senza che le banche italiane ricevessero un centesimo in cambio. Nel mirino, ora, è entrata la governance di quella “banca diversa” che è la banca cooperativa. Un altro genere di “banca diversa”, quella regionale tedesca, rimane nel frattempo fuori dai controlli… Sia ben chiaro, un rafforzamento del buon governo di impresa rappresenta una battaglia utile alla stabilità e allo sviluppo dei sistemi finanziari ed economici. Questo vale anche per le banche cooperative, ovvio, che già nel 2011 hanno riformato lo statuto tipo delle Bcc, introducendo una serie di innovazioni che hanno anticipato quelle europee. Senonché, gli eurocrati stanno dando l’idea di essere mossi non da motivazioni funzionali, ma ideologiche. Eppure, il pluralismo è un valore per i cittadini e per il mercato, andrebbe favorito, non ostacolato. Accresce la concorrenza e favorisce la stabilità. Ma non sembra che sia questo l’obiettivo
delle vestali dell’ortodossia (bancaria) a senso unico dell’Europa delle banche (a senso unico). Non si spiegherebbe, altrimenti, perché mai le autorità europee stiano lanciando con frequenza crescente avvertimenti alle banche popolari e cooperative, anche quando sono meglio capitalizzate, più stabili, con quote di mercato maggiori della concorrenza. E nonostante – è appunto il caso di quelle italiane – negli anni di crisi non abbiano ridotto il flusso creditizio, in particolare verso le famiglie e le imprese medio-piccole. La questione, allora, assume dimensione politica, più che economico-finanziaria. Mette in discussione il futuro stesso dell’economia e dell’autonomia italiana. Che non può essere lasciato alla mercé di un pugno di eurocrati, ancorché di passaporto italiano, che non si comprende a quali interessi rispondano.
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PATRIMONIO ARTISTICO
R DOSSIE
SALVIAMO I NOSTRI GIOIELLI Riccardo Lorenzi*
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uò partire da un’idea Toscana intervento di somma urgenza e sono il rilancio dei tre settori chiave stati chiamati a raccolta i vari ministeri della nostra economia: Il turiche con ogni probabilità faranno la loro smo, la cultura e l’edilizia. parte. Bene, ma accanto a questa valuI recenti crolli delle mura medievali di tazione sicuramente positiva viene da Volterra hanno veramente colpito al aggiungerne anche altre assai più preoccuore un po’ tutti, non solo gli abitanti cupanti. Non tanto la scontata domanda della città etrusca. Quelle voragini aperte “Si poteva evitare?” o anche la banale nella cinta muraria, infatti ci inquietano “Quanto ci costa in più intervenire ora?” perchè non costituiscono solo materialquanto quella che davvero è fonte di mente una ferita aperta nel tessuto del preoccupazione: quante altre mura urbane centro storico toscano ma anche perchè meno conosciute sono crollate o stanno mostrano in modo evidente la nostra per crollare in cento o mille altri centri incapacità di custodire lo straordinario storici? E insieme alle mura quante altre patrimonio culturale che abbiamo eretorri, castelli, ville, palazzi, fattorie, ditato dai nostri antenati. Eppure non è case coloniche, certo credibile che ai tempi nostri ci cersiano meno soldi o meno mezzi di prima. A dire il vero va rilevato che, almeno nel caso di Volterra, la macchina pubblica nel suo insieme ha reagito decisamente bene: è stata attivata nell’arco di pochissimo tempo un’unità di crisi da parte del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo che ha subito provveduto a coordinare le varie istituzioni territoriali e tutte le strutture tecniFortezza vecchia di Livorno che dei vari settori d’intervento ed è stato possibile partire subito con la prima tose o anche semplici casette coloniche messa in sicurezza del sito e a predisporre e casupole urbane, resti antichi o del i percorsi tecnici e progettuali per quanmedio evo, del rinascimento o del sette tificare i danni e per iniziare l’intervento ottocento, sono in stato di abbandono e di restauro complessivo. La Regione Todi degrado e ormai sul punto del collasso scana ha anticipato i soldi per il primo irreversibile? E questo non vale solo per
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i beni culturali ma anche per le scuole e gli ospedali, le palestre e le caserme e praticamente per quasi tutte le proprietà demaniali. Si rileva ovunque una sostanziale incapacità di garantire la conservazione del patrimonio immobiliare pubblico ed in generale una diffusa mancanza di politiche di buon governo per l’intero territorio. E’ dunque utile considerare il crollo delle mura di Volterra come un campanello d’allarme per affrontare una situazione generale ben più complessa e diventa allora imperativo chiedersi cosa si possa e si debba fare per organizzare la macchina pubblica non solo per gestire l’emergenza, come abbiamo fatto, finora, e a volte neanche quella, ma per strutturare un sistema di servizio efficace, permanete e davvero adeguato ai tempi e ai bisogni. L’attuale contesto economico e sociale del paese evidenzia la doverosità e priorità di una serie organica di provvedimenti innovativi che consentano finalmente di riattivare un processo concreto di ripresa del sistema produttivo e la creazione di posti di lavoro. Nel più profondo rispetto dei cittadini si deve passare da un sistema pubblico inteso come mero controllo autoritario, quasi assoluto, ad una doverosa e più moderna concezione di indirizzo e di sinergia tra istituzioni e società civile. Nello specifico c’è la necessità di snellire i procedimenti burocratici nel rilascio dell’autorizzazione ai lavori ed agli in-
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terventi sul territorio e a ridare slancio e competitività alle iniziative pubbliche e private ora sicuramente rallentate se non intralciate. Per far questo è necessario in primo luogo superare la logica burocratica della frammentazione istituzionale delle competenze, che finisce a volte per creare quasi una specie di contrapposizione tra enti e spesso un vero e proprio percorso ad ostacoli per l’azione dei privati. Per supportare una pubblica amministrazione sempre più in difficoltà ed un sistema di norme urbanistiche troppo complesse quanto ermetiche si propone dunque di attivare sul territorio una corretta politica di gestione delle risorse paesaggistiche, sia pubbliche che private. Una buona politica di tutela e di valorizzazione del paesaggio infatti non si basa su aspetti effimeri o estetici ma sulla reale corrispondenza tra struttura economica e aspetto dei luoghi: il paesaggio è sempre lo specchio dell’economia e ad una buona qualità del paesaggio corrisponde sempre Giardini della Certosa di Calci una buona qualità della vita. La proposta di una politica del paesaggio implica pertanto l’attivazione di una strategia innovativa e al tempo stesso rinnovativa in quanto nasce da una considerazione tanto semplice quanto evidente: nel nostro paese la tutela del paesaggio si rivolge a contesti storici e ambientali che sono sorti quasi esclusivamente nel passato e questo perché, con rarissime eccezioni, si può dire che tutto quello che si è fatto negli ultimi decenni ha danneggiato e distrutto pesantemente molto di quanto di bello e di buono esisteva. Evidentemente le regole costruttive e ambientali dei tempi antichi funzionavano bene mentre quelle che ci siamo dati negli ultimi decenni, come del resto gli stessi strumenti di
controllo e di pianificazione, non hanno funzionato più di tanto. E’ allora logico pensare di poter e di dover recuperare, seppure con la cultura e la scienza dei nostri giorni, quei meccanismi virtuosi di una volta che possano affiancare e supplire ai limiti di un’edilizia e di un’urbanistica palesemente obsolete e che si cerchi di rimettere di nuovo la società tutta in grado di tornare ad essere capace di agire e di agire correttamente proprio come nel passato. Il Chianti, oggi simbolo universale di “bel paesaggio” è stato costruito dalla mezzadria, con gli investimenti dei padroni e con il lavoro dei contadini, per produrre e per mangiare e non certo dagli architetti per un piacere estetico. E’ proprio nell’ottica di questa visione strutturale, non effimera, del paesaggio inteso come esito di una corretta gestione delle risorse economiche, che ci piace parlare in termini di improrogabilità e necessità di dare il via ad una vera e propria “politica paesaggistica”. Bisogna riscrivere le regole del gioco e tornare a dare importanza e fiducia al territorio inteso come sistema di risorse, a partire da chi ci vive e ci lavora, piuttosto che usare gli strumenti tipici del controllo passivo e fiscale della burocrazia tradizionale. Da qui l’ipotesi di costituire e promuovere, o meglio di far nascere, una rete nazionale di coordinamenti tecnici territoriali – veri e propri Laboratori del Paesaggio - formati da una selezione di funzionari pubblici di indubbia esperienza e professionalità - ai quali sia legalmente riconosciuto il compito di supportare le istituzioni nella valutazione della compatibilità paesaggistica degli interventi. Una giusta politica di riqualificazione paesaggistica e di sviluppo sostenibile appare infatti
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come lo strumento più immediato e più perseguibile per riaggregare facilmente imprenditori e istituzioni in un progetto comune di rilancio del territorio. Le nuove strutture di coordinamento dovrebbero costituire un centro di riferimento per tutti gli enti pubblici, a cominciare dal demanio dello stato, nella gestione del proprio patrimonio immobiliare ed avere al tempo stesso un ruolo di concertazione e di indirizzo per favorire le iniziative degli operatori privati. La tutela e la valorizzazione del paesaggio può e deve diventare infatti l’unica forma di controllo degli interventi architettonici e ambientali nel nome dell’interesse pubblico, realisticamente sintetizzato nelle regole molto elementari della politica paesaggistica: ciò che è bello, cioè ha valore di natura o di cultura, deve essere conservato e utilizzato e ciò che è brutto, che impatta, che inquina, che è de-
Architetto Riccardo Lorenzi
gradato deve essere eliminato o riqualificato. Un’unica struttura di valutazione, con valore di conferenza dei servizi permanente, con autonomia giuridica ed amministrativa, con estensione da area vasta o comunque sovra comunale che ha riunite in sé tutte le competenze ora diverse e disperse tra i troppi enti: agile e vicina perché decentrata sul territorio e come un percorso amministrativo unitario e semplice, magari integrato da agevolazioni fiscali nelle aree di pregio ambientale e incentivato da punteggi preferenziali per i progetti di valorizzazione e di qualità, che verrebbe a rappresentare un servizio veloce e completo. Date le molte competenze derivanti dalle diverse istituzioni territoriali e ministeriali sarebbe ottimale assegnarne la dipendenza direttamente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La stessa Costituzione riconosce il primato del paesaggio tra gli obiettivi di maggior interesse pubblico e garantendone una capacità di gestione con criteri di efficacia e professionalità e si potrà credibilmente e finalmente assicurare un coordinamento ottimale nella redazione di piani e progetti da parte di aziende e di uffici pubblici in un quadro di concertazione e promozione sistematica e condivisa delle risorse territoriali. La strutturazione permanente di un gruppo di lavoro tecnico scientifico che riassume in sé tutte le competenze settoriali e poi sintetizza in un unico parere di competenza paesaggistica onnicomprensiva tutte
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le diverse autorizzazioni costituisce una fondamentale forma di razionalizzazione e velocizzazione dei procedimenti tale da potersi considerare un primo passo verso una riforma strutturale della P.A. Se il modello sperimentale proposto fosse supportato da una specifica legge nazionale che consentisse di trasmettere a tutti gli enti competenti il solo parere favorevole della commissione tecnica del Laboratorio del Paesaggio sarebbe tagliato in un solo momento tutto l’aggravio dell’urbanistica, della VIA e di tutti gli infiniti pareri finora necessari. Ulteriori enormi vantaggi di questa forma organizzativa sono rappresentati dal fatto che la commissione potrebbe avere un ruolo di indirizzo e di consulenza anche per i vari progetti privati, contribuirebbe a professionalizzare i singoli tecnici degli enti pubblici, svilupperebbe una cultura della cooperazione e della progettazione in modo propositivo, consentirebbe di dare un aiuto sostanziale al funzionamento delle strutture istituzionali alleggerendone il peso di lavoro e di coinvolgere in azioni comuni di interesse pubblico le molteplici iniziative dei singoli, creerebbe un servizio vicino al cittadino e diffuso sul territorio, di convogliare in azioni comuni di interesse pubblico le molteplici iniziative dei singoli, smuoverebbe risorse finanziarie oggi bloccate e riattiverebbe il finanziamento da parte degli istituti bancari, oggi ridottissimo, su operazioni concrete e reali ridando forte prospettiva positiva e responsabilità dirette al posto del fluido e rischioso mercato dei titoli di borsa. Potrà veramente rimettere in gioco l’imprenditorialità vera.
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La proposta dei Laboratori del Paesaggio si fonda sull’allargamento su vasta scala di alcune esperienze di lavoro della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Pisa, nate a partire dal 2000 da un protocollo siglato con l’Università di Pisa, la Scuola Superiore S.Anna e la Scuola Normale Superiore, con la finalità di trovare metodi di studio e valutazione del paesaggio e di trovare strumenti di attuazione della Convenzione Europea del Paesaggio. Tema centrale era quello di passare da una tutela passiva basata sui vincoli ad una visione propositiva dei servizi tendendo a valutare e ad ottimizzare le forme di gestione dei beni mediante un rapporto corretto e trasparente con i privati. A tal proposito è opportuno rilevare che alla rete dei Laboratori del Paesaggio, come strutture di coordinamento del sistema pubblico, dovrebbe corrispondere anche la creazione di Fondazioni onlus paesaggistiche o culturali (individuate anche presso le casse di risparVilla Maurogordato, Livorno mio o i vari istituti bancari o finanziari già esistenti) che dovrebbe costituire il soggetto di coordinamento di soggetti ed associazioni private e che potrebbe rappresentare l’interlocutore ottimale per ogni iniziativa e per ogni sinergia. Risulta così evidente la potenzialità d’azione di un sistema di cooperazione pubblico privato così predisposto e le molteplici opportunità e facilitazioni di lavoro e di finanziamento possibili in maniera assolutamente trasparente. Tra le iniziative in corso di studio e possibile attuazione presso la Soprintendenza pisana sul proprio territorio di competenza,
le province di Pisa e Livorno, è utile citare due appositi progetti di apparati di pianificazione e di gestione: il primo, per la valorizzazione della costa toscana, detto “Toscana giardino d’inverno: un paesaggio doc per un vino doc”, che ha come finalità la tutela paesaggistica e lo sviluppo sostenibile del territorio costiero e che è dunque strutturato per coordinare imprenditori locali, residenti e istituzioni competenti al fine di ottimizzare la gestione delle risorse (stabilimenti balneari, alberghi, campeggi, aziende viti vinicole, agriturismi, ristoranti) con la finalità di prolungare la stagione turistica, ormai diventata una necessità per tutti, mediante la messa a sistema delle strutture. Un secondo esempio pilota è invece quello in corso per l’attivazione di un Laboratorio del Paesaggio dell’isola d’Elba che possa costituire un punto di riferimento per tutta l’isola nel definire le linee di indirizzo per le modalità di pianificazione e di esecuzione dei lavori, per creare un polo di servizio centralizzato per le funzioni tecniche e urbanistiche, ambientali e programmatorie degli otto uffici comunali dell’isola. Altre Fondazioni onlus potranno vedersi riconoscere la possibilità di gestire i beni demaniali abbandonati o semi abbandonati quali le fortezze, le caserme o le prigioni senza rischio di privatizzazione dei beni di proprietà pubblica o gestire l’economia nei parchi. E’ un’idea che vale la pena di approfondire e forse è anche il momento buono. *Soprintendenza e Università di Pisa Architetto Direttore Coordinatore
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LA CRESCITA DEL PAESE
FAME DI CULTURA Giuliano Noci*
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l governo Renzi è alle prese con la definizione di un programma per la crescita del Paese. Nutriamo tutti grandi aspettative ma nel contempo siamo timorosi circa l’individuazione di vie percorribili per il rilancio. A voler ben guardare, una prima strada, per carità assolutamente non risolutiva, è quella che passa per la valorizzazione dell’oro nero italiano: la cultura. E bene ha fatto il neo-ministro Franceschini a fissare subito il punto. Siamo del resto davvero uno straordinario giacimento culturale: con oltre 5.000 tra musei, monumenti e aree archeologiche e 49 siti UNESCO. Eppure continuiamo a perdere posizioni tanto che nella classifica dell’Organizzazione Mondiale per il Turismo, siamo ormai scivolati al 26° posto in tema di competitività turistica. Ovviamente anche sul fronte economico i risultati non sono incoraggianti. Il Louvre da solo genera introiti comparabili con quelli di tutti i musei e delle aree archeologiche italiane. Il ritorno economico degli asset culturali sui siti Unesco mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, abbiano un ritorno commerciale pari a 16 volte quello italiano. Il ritorno degli asset culturali d e l l a Francia e del Regno unito è tra 4 e 7 volte quello italiano. Come fare allora per trasformare il noProfessor Giuliano Noci
stro giacimento di oro nero in barili da collocare a prezzo di mercato? Occorre progettare un nuovo modello di valorizzazione del nostro patrimonio culturale ma il diavolo si annida nei dettagli, visto che è richiesto davvero un triplo salto mortale rispetto a quanto si è fatto fino ad oggi. Entrando nel merito, infatti, occorre:
1 In primo luogo progettare e disegnare dei veri e propri marchi della cultura. Che cosa intendo dire? Faccio riferimento a una nuova organizzazione del patrimonio che sappia aggregare risorse culturali omogenee – appartenenti a destinazioni diverse – e le promuova dando loro personalità, dignità di marca. In questo modo, progettiamo un’offerta attrattiva in grado di rispondere a una motivazione di viaggio; un esempio interessante da cui trarre ispirazione è quello dei Castelli della Loira in Francia (e dunque le ville palladiane da noi, ad esempio). 2 Ovviamente non basta. Se non comunichiamo in modo adeguato, ben difficilmente riusciremo a trasformare questo patrimonio costellato di marchi in nuce in un vero asset. Anche qui, dobbiamo reinventarci; in particolare, dobbiamo imparare a costruire una narrativa, cioè dei racconti multimediali in grado di veicolare sui social media quell’esperienza che intendiamo promuovere e che immaginiamo possa incontrare il desiderio e le aspettative del nuovo turista digitale; si tratta di proporre una vera e propria anticipazione. Qualcuno potrebbe dire: “Tutto qui?”. In verità, poco non è: occorrono investimenti nella produzione di contenuti multimediali interessanti e nella promozione digitale. E dobbiamo esserne convinti. Chi infatti ha cavalcato l’onda ha ottenuto importanti risultati: basti pensare che il Louvre ha ottenuto quasi 9 milioni di visite tramite social network, il Metropolitan Museum of Art (New York) 6 milioni, seguito a ruota dal British Museum (Londra). 3 Il terzo avvitamento del nostro salto mortale è costituito dalla capacità di generare un’esperienza di visita interessante, una volta che avremo convinto qualcuno a provare i nostri marchi culturali. E anche qui il nostro sistema si deve muovere in modo completamente diverso rispetto al passato. Deve riscrivere l’offerta musealetenendo conto
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che non tutti i visitatori sono esperti e non vanno “allontanati” da un tecnicismo e da un filologismo eccessivi; bisogna tenere soprattutto conto di tutti quei visitatori potenziali che visitatori non sono ancora e che devono essere motivati alla visita. L’offerta museale deve essere presentata con i moduli delle tecnologie multimediali (realtà aumentata, QR code, ecc.) e, più in generale, deve concepire la visita come una vera e propria esperienza di intrattenimento (non solo chiusa nella dimensione accademico-culturale, aperta – al contrario – a motivare suggestioni, emozioni, interessi futuri). Sono però conscio di non avere ancora convinto il lettore. Manca ancora un passaggio: come fare tutto questo in un contesto fatto di risorse scarse - basti pensare
che negli ultimi 10 anni il bilancio del Ministero competente si è quasi dimezzato - e di un patrimonio culturale sin troppo abbondante e, quindi, difficile da conservare e gestire? La risposta passa attraverso la consapevolezza che il nostro patrimonio culturale rappresenta un giacimento di storie, conoscenze e contenuti molto interessante anche per soggetti privati i quali vanno incoraggiati a trasformare questo interesse in investimenti, naturalmente beneficiando di nuove condizioni di contesto e di contorno. A questo proposito, occorre osservare come l’insistenza con cui, anche giusta-
mente, si è guardato ad una normativa sulla defiscalizzazione appare oggi datata. Tanto che, finalmente esistendo, non ha cambiato le cose: forse perché inconsapevolmente immaginata a supporto di un ruolo residuale, statico del privato, nella sua funzione mecenatistica. Se guardiamo alla promozione e gestione del bene culturale in un’ottica di produzione della ricchezza il problema non sono i soldi ma le regole. Per quanto chiaro e netto rimanga il tema ed il valore di un’appartenenza comune del bene culturale - patrimonio di ognuno di noi -
sono le reg o l e che ne definiscono la conservazione, la g e -
Capitolium di Brescia
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Piazza di Vigevano
stione, la promozione e la fruizione a dover incoraggiare l’economia della cultura. E certo quelle attuali non lo fanno. Il valore anche simbolico del bene continua ad essere un comodo scudo con cui allontanare gli investimenti privati dal bene stesso. E se possibile - e quante volte è purtroppo possibile - allontanare e scoraggiare i visitatori. Dirà qualcuno: il triplo salto paventato rischia davvero di essere nel vuoto (e quindi mortale). In verità vale la pena rischiare e crederci; chi all’estero ha lavorato in questa prospettiva, ha ottenuto risultati davvero importanti. Al neo-ministro Franceschini serve quindi tenere la barra ferma – proseguendo nel solco tracciato da Bray con il Decreto Valore cultura - per contrastare spinte politiche localistiche e i freni delle burocrazie della cultura, troppo spesso orientati ad una prospettiva auto-referenziale secondo la quale il bene
culturale è un valore in sé dimenticando che occorre organizzarne l’offerta secondo una prospettiva di marketing e non di meno è necessario saperla vendere. Soprattutto se pensiamo di attrarre una parte di quel miliardo di nuovi turisti che nei prossimi dieci anni si apprestano (secondo l’Organizzazione Mondiale del Turismo) a viaggiare nel mondo. Partiamo subito dunque, individuando un primo nocciolo di marchi della cultura, ciascuno organizzato nella prospettiva di produrre ricchezza, e arrivando a presentare i primi risultati in occasione di Expo2015: una formidabile vetrina della nuova partnership pubblico-privata cui dovremmo chiedere di saper innescare un virtuoso effetto di trascinamento anche sul resto del nostro patrimonio culturale. *Prorettore Politecnico di Milano e Presidente Explora
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NUOVE RENDITE: UN METODO FACILE
LA RIFORMA DEL CATASTO Giorgio Fiorenza
C
on la recente approvazione della determinare per questa la rendita catastale. Delega Fiscale, subisce una decisa Ma come si effettua il calcolo? La defiaccelerazione l’approvazione di nizione “rendita catastale”, sotto il profilo quella che sarà la nuova Riforma del storico, tendeva ad individuare il reddito Catasto, contenuta nell’ art. 2 del disegno ordinario retraibile al netto di spese e di legge originario. perdite ed al lordo delle sole imposte, cioè La riforma implicherà la revisione dei del canone di locazione percepito a cui parametri del Catasto dei fabbricati con si sottraggono tutte le spese con esclusione l’obbiettivo di attribuire a ciascuna unità delle imposte Irpef, tari, Irap ed altro. immobiliare il relativo valore patrimoniale Dividendo questo “reddito” per la sue la rendita, con criteri omogenei ed ogperficie catastale dell’immobile, si ottiene gettivi su tutto il territorio nazionale. la tariffa d’estimo dell’unità con quella Tale revisione sarà effettuata dall’ Agenzia del Territorio (oggi incorporata dall’Agenzia delle Entrate) in collaborazione con i rispettivi comuni di riferimento in ambito provinciale. È, in sintesi, la proposta legislativa per la riforma catastale ed è certamente un importante passo avanti per un Catasto più equo e di più facile applicazione. Cosa di non poco conto Firenze - Via Tornabuoni se si considera che l’attuale normativa di riferimento si protrae, seppure con modifiche, determinata categoria e classe, ovvero il reddito per metro quadro di superficie dal 1939. Il Legislatore individua quindi, quale catastale. E’ evidente che tale tariffa consentirà di calcolare tutte le rendite catastali fase principale, quella della determinazione della cosiddetta “tariffa d’estimo” delle unità immobiliari urbane appartenenti alla stessa categoria e classe. Basterà, che cerca di realizzare sulla base di un procedimento algoritmico. In sostanza, pertanto, moltiplicare la tariffa stessa per la superficie catastale di ciascun imsi tratterà di individuare quel parametro matematico che rappresenterà adeguamobile. Sicuramente ed apparentemente semplice tamente la categoria e la classe dell’unità immobiliare presa in considerazione e ma certamente non corretto e soprattutto
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non equo. Con il nuovo criterio, viene disapplicata una importante norma che prevede la valutazione dei singoli cespiti considerati nella propria “ordinarietà”, che equipara quindi gli immobili “simili” ma a prescindere dallo stato di manutenzione del bene. I costi per le manutenzioni possono e devono essere possibili detrarre dai redditi siano essi riferibili ad aziende o a privati. Con gli abbattimenti IVA del caso, in funzione che si tratti di immobili strumentali (in uso ad aziende o professionisti) oppure “prima casa” oppure ancora di immobili “notificati” o sottoposti al vincolo paesaggistico ed altro. Inoltre verrà adottato un nuovo parametro che creerà vere e proprie sperequazioni: la cosiddetta “microzona”. Il parametro, infatti, tenderà a circoscrivere in un ridotto ambito territoriale, immobili magari confinanti ma con valori paradossalmente diversi. E’ il caso di fabbricati o interi “isolati”, parte dei quali presentano magari l’affaccio su una Via importante mentre un’altra parte affaccia invece (e magari ha pure l’accesso) su una via minore, posta immediatamente alle spalle della Via importante. Un esempio per tutti, Via Tornabuoni a Firenze, la “strada della moda” per antonomasia e via dell’Inferno, poco più di un vicolo, di modeste dimensioni e con scarsa luminosità su cui affacciano alcune unità che magari
Firenze - Via dell’Inferno angolo via della Vigna Nuova
accedono dai numeri civici compresi dal n. 3 al n. 13 della Via Tornabuoni (ma anche unità autonome costituenti piccoli condomini, inseriti tipo mosaico nello stesso “isolato” ma con ingresso esclusivo dalla Via dell’Inferno). Unità che niente hanno a che fare con quelle che invece affacciano direttamente sulla Via Tornabuoni. Stessa microzona ma certamente con valore commerciale completamente diverso. Tanto per capirsi siamo nell’ordine del 30 – 40% di valore in meno. E parlo ovviamente delle unità ad uso abitativo o ad uso ufficio. A livello commerciale il valore dei locali posti al piano terreno di Via Tornabuoni è almeno da decuplicare rispetto a quelli su Via dell’inferno. E allora la domanda sorge spontanea. Esiste una soluzione a questo tipo di problema? La risposta è di una semplicità unica. In netto contrasto con la filosofia della norma che cerca una soluzione con l’uti-
lizzazione di parametri statistico – algoritmici di difficile applicazione e di ancor più difficile possibilità di adozione nel paragone “diretto” tra due unità simili. Semplice, dicevo, come la stima di una unità immobiliare effettuata dallo stesso Professionista che è incaricato di realizzare la pratica utilizzando la procedura Docfa. Questo Professionista, per predisporre la planimetria catastale ha rilevato le dimensioni dell’unità in esame e in sede di sopralluogo ha obbligatoriamente acquisito i “fattori intrinseci ed estrinseci” ed accertato lo stato generale di manutenzione ed il grado di finitura. Basterà completare la scheda Docfa acquisendo i dati forniti gratuitamente dall’OMI (Osservatorio del Mercato Immobiliare), che oggi è all’avanguardia in tema di indicatori dei valori medi (minimo e massimo in funzione della destinazione d’uso), addirittura in alcuni casi sulla base dell’indirizzo specifico dell’unità
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oggetto di “valutazione”. Il Professionista, così come è obbligato dalla modulistica ad indicare la superficie ed il volume del cespite, dovrebbe fornire, direttamente e sulla stessa modulistica anche il valore “proposto”, allegando una piccola nota che giustifichi il proprio operato in termini di scelta del valore base al metro quadrato utilizzato per la valutazione ed alleghi una piccola, ma esaustiva, documentazione fotografica a supportare il proprio assunto. Entro due anni dalla data di presentazione della procedura Docfa da parte del contribuente, l’Ufficio ha la possibilità di proporre la variazione del valore con propria relazione scritta ed opportunamente “motivata”, portando unità a paragone nella stessa zona specifica se non nello stesso edificio condominiale (il concetto delle microzone così come delle attuali zone censuarie è superato e fuorviante), effettuata comunque a seguito di sopralluogo. In caso di “disaccordo” La Commissione Censuaria, che secondo la proposta di Legge, dovrebbe essere costituita da Professionisti, rappresentanti dell’Agenzia delle Entrate – Territorio, rappresentanti delle Associazioni Sindacali dei Contribuenti ecc., esamina le pratiche ed una volta ascoltati professionista e rappresentante dell’Ufficio cerca una soluzione al problema sulla base della banca dati scaturente dai rilevamenti statistici in possesso dell’Agenzia delle Entrate – Territorio e secondo i dettami delle norme che regolano la “mediazione civile”, fermo restando che laddove non vi siano possibilità di accordo, il giudizio vero e proprio passa in automatico nelle
aule della Giustizia Tributaria. Da notare come l’Agenzia del Territorio fosse già “avanti” rispetto alla Legge Delega, avendo previsto una specifica modulistica da presentarsi a cura del Contribuente anche nei casi per i quali non sono previste modifiche da apportare alla planimetria catastale esistente. Ed è questa la carta vincente per effettuare una sorta di nuovo censimento generale della proprietà immobiliare urbana, previo presentazione, in via telematica presso l’Agenzia delle Entrate – Territorio di un modello uguale a quello oggi vigente per la procedura informatica prevista dalla Docfa (DM 701/94 – Circolare 2T/97), aggiungendo due spazi in più: uno per la valutazione proposta dal professionista ed una per la nota tecnica nella quale il professionista stesso , allegando fotografie, documentazione amministrativa, ecc., motiva il parametro “valore/metro quadrato” adottato per la stima, giustificando con possibilità di immediato riscontro oggettivo da parte del Catasto, eventuali scostamenti dai valori minimi e massimi indicati dall’OMI. Ci sono già gli strumenti, c’è già la professionalità dei “professionisti privati” e di quelli che operano da anni, ad altissimo livello, nella formazione e nell’aggiornamento degli atti catastali di riferimento. Basterebbe una semplice operazione di “ammodernamento” della procedura informatica Docfa per poterla fare “incrociare”, in automatico, con i dati dell’OMI e con quelli delle Commissioni Censuarie provinciali che, ogni anno, sulla base dell’andamento reale del mercato, dovrebbero incrementare o addirittura “ridurre” i valori delle singole unità previo applicazione dell’indice Istat, zona per zona (qui si potrebbero individuare “zone omogenee” di più ampio respiro rispetto alle “microzone”). E la banca dati chiamiamola “catastale” che ne deriva dovrebbe poter essere messa a Giorgio Fiorenza disposizione dei Comuni inte-
ressati, che dovrebbero poter effettuare un controllo diretto, tra lo stato rappresentato (dichiarato) nella planimetria catastale “a variazione” dopo l’effettuazione dei lavori di ristrutturazione o altro e lo stato che risulta quale “di progetto” nella documentazione amministrativa depositata dal tecnico incaricato in allegato alla Dia o Scia o permesso a costruire, presso il Comune di riferimento. Così da avere in automatico un riscontro oggettivo sull’applicazione corretta dei dettami di cui al D. L. 78/2010 convertito con modificazioni nella Legge 122/2010, all’articolo 19, comma 14, il quale stabilisce che: “All’articolo 29 della legge 27 febbraio 1985, n. 52, è aggiunto il seguente comma: «1-bis. Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale». Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari”. Con riferimento invece alle locazioni, una novità è stata inserita dalla citata normativa al successivo comma 15 il quale stabilisce che: “La richiesta di registrazione di contratti, scritti o verbali, di locazione o affitto di beni immobili esistenti sul territorio dello Stato e relative cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite, deve contenere anche l’indicazione dei dati catastali degli immobili. Semplice, ripeto ancora. Forse Troppo.
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BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI ROMA
CAPITALE IN CRESCITA. DA 60 ANNI. Germana Loizzi
O
ggi la Banca di Credito Cooperativo di Roma è E, come si è visto, l’idea forza della cooperazione – un marchio riconosciuto e riconoscibile. Eppure, accoppiata a una sana, competente e trasparente gestione – il 20 dicembre del ’53, quando a Finocchio, alnel tempo l’hanno avuta vinta. l’epoca borgo agricolo della campagna romana, si riunì un Così la Cassa Rurale e Artigiana di Roma, diventata nel gruppo di promotori intenzionati a costituire una Cassa ’95 Banca di Credito Cooperativo di Roma, cresceva. Fino Rurale in pochi avreba diventare non solo bero scommesso sulla la più grande Banca sua nascita e meno di Credito Cooperaancora sulla sua sotivo d’Italia, ma un pravvivenza. Invece istituto di media dil’anno seguente, il 3 mensione: secondo, agosto, arrivò l’autonella sua categoria, rizzazione all’attività per solidità e terzo bancaria del Comitato per redditività e prointerministeriale per duttività. Niente male il credito e il risparper una banca che namio. E il 14 febbraio sce negli anni ‘50 – del ’55 aprì il primo ama ricordarlo il presportello. sidente Francesco LiI primi anni di vita berati, che vi entrò della Cassa non furoda semplice impiegano facili. Non aiutava to–, in un locale mall’ostilità delle grandi sano e poco frequenbanche dell’epoca a tato della estrema pequesto modo diverso riferia romana. di svolgere l’attività Perfino in un annus creditizia. Si dovette horribilis quale il 2013 attendere il ’75 perla Banca di Credito ché, finalmente, veCooperativo di Roma nisse approvato il archivia risultati pocambiamento della sitivi. La raccolta è denominazione da cresciuta intorno al Cassa Rurale e Arti10% (contro un giana dell’Agro Ro1,8% del sistema), la mano in Cassa Rurale raccolta comprensiva A sinistra Francesco Liberati, a destra il primo Presidente Elio Cherubini e Artigiana di Roma. del risparmio gestito Benché Roma fosse il è aumentata di oltre più grande comune agricolo d’Europa e la Cassa avesse l’8% (sfiorando i 9 miliardi), gli impieghi sono aumentati sede nel territorio comunale di Roma, la finanza cittadina del 2,4%, raggiungendo i 5,5 miliardi. Ma la Banca, per voleva costringere la Cassa Rurale alle periferie estreme diventare tale, non ha abdicato al proprio ruolo socio-ecoanche nominalmente. Ma non si possono arginare le idee. nomico. Dal 2008 al 2012 ha incrementato gli impieghi
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del 70% e anche nel 2013 ha erogato 6 punti percentuali di credito in più di quelli del sistema bancario nazionale nel suo complesso. Un risultato reso possibile dalla lungimiranza dei suoi vertici. Una performance dovuta alla
robustezza patrimoniale acquisita nel tempo e che ancora è in corso di rafforzamento, grazie alle operazioni di ampliamento della base sociale e della dotazione patrimoniale che rappresentano una tutela per soci, clienti,
dipendenti. E un’assicurazione sul futuro di questa banca, per permetterle di continuare a esercitare ancora a lungo il suo ruolo storico di sostegno allo sviluppo non solo economico ma anche sociale.
Francesco Liberati (Presidente) Da sessant’anni la nostra Banca costituisce un punto di riferimento. Un punto di riferimento, reale e non a parole, sempre più riconosciuto e riconoscibile, che gode di una reputazione frutto dell’impegno e del sacrificio, del lavoro duro e della dedizione costante di migliaia di cooperatori. Tenuti insieme dalla voglia di condividere idee e progetti con ottimismo. Perché questo è cooperazione. Il nostro ottimismo, però, non è uno stato d’animo: lo giustificano i fatti, la nostra attività e i suoi tangibili risultati. Quanti progetti di vita e di sviluppo del territorio abbiamo sostenuto. Quante case sono state costruite o comprate con i nostri mutui. Quante piccole imprese abbiamo aiutato a nascere e a diventare adulte. Il sessantenario è una tappa della nostra memoria, ma insieme rappresenta un’occasione di consapevolezza del nostro ruolo e della nostra cultura. Una cultura fatta di attenzione, trasparenza, dialogo, disponibilità, voglia di risolvere i problemi. E’ stato questo il segreto del nostro successo. E lo sarà anche nel prossimo futuro. Mauro Pastore (Dg) La nostra è una storia di successo della quale siamo legittimamente orgogliosi. Le nostre radici sono quelle tipiche delle Casse Rurali, nate alle fine dell’Ottocento, dalla gente comune per la gente comune, semplice nel senso alto del termine. E noi siamo orgogliosi di quelle radici: da quelle radici, solide, è nato un albero possente. Nei sessant’anni di vita ci siamo mossi, e continuiamo a farlo, con estrema agilità tra i giganti del credito, cogliendo tutte le opportunità che si sono nel frattempo presentate. Ma senza mai dimenticare la lezione dei 38 soci fondatori che, animati da tanta fiducia e tanta buona volontà, hanno costituito la Cassa di cui noi siamo gli eredi. Erano anni difficili, certo. Ma nel nostro Paese c’erano fiducia e buona volontà. Lo stesso spirito che l’Italia dovrebbe ritrovare oggi e che dovrebbe animare tutti noi cittadini per risollevarci con uno slancio tale da permetterci di lasciare per sempre alle spalle questa grave crisi.
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Consegna dei libretti di risparmio in borgata
Una delle assemblee straordinarie dei Soci
I Soci fondatori della BCC
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LA RIPARTENZA/1
“PADOAN SA COSA FARE” Alberto Mazzuca
I
l commissario europeo degli affari ziano Del Rio. Nessuna possibilità di economici, Olli Rehn, ripete una partita. spesso, a volte quasi ossessivaEcco il motivo per cui Olli Rehn ripete mente, che «Padoan sa cosa fare». Pache «Padoan sa cosa fare». A dire il doan, Pier Carlo Padoan, è il neo mivero lo sanno da tempo anche quasi nistro dell’economia italiana, quello tutti gli italiani, lo sanno persino i poche deve fare ripartire questo paese che litici che poi si guardano bene dal metda tempo è fermo, ingessato. Un rotere mano alle riforme per non sconmano sessantaquattrenne che è stato tentare i loro amici lobbisti. E così, da docente di economia alla Sapienza di riforma-mancata a riforma-mancata, Roma e ha fatto carriera all’estero: ci ritroviamo ingessati in quella palude prima, fino al 2005, direttore esecutivo che è costata la poltrona di premier a per l’Italia del Fmi, il Fondo monetario Letta junior. Ma con Padoan, si dice, internazionale, con responsabilità su è tutta un’altra cosa: quando era ancora Grecia, Portogallo, San Marino, Albaall’Ocse è stato proprio lui a mettere nia e Timor est; quindi nel 2007 vicenero su bianco le strategie necessarie segretario generale dell’Ocse per poi per l’Italia in un rapporto chiamato diventarne un paio d’anni dopo anche “Going for growth”. E a luglio delcapo economista. Insomma, qui si vola l’anno scorso, mentre il governo Letta alto nello stellato cielo internazionale. faceva le capriole tra le richieste degli A questo quadretto possiamo aggiunindustriali e dei sindacati di tagliare il gere anche qualche altra chicca: Padoan è un romanista sfegatato, ha diretto la fondazione Italianieuropei ovvero il think-tank politico presieduto da D’Alema, soprattutto è stato il consigliere economico di due ex premier di sinistra, Massimo D’Alema prima e Giuliano Amato poi. Già, proprio quell’Amato che una bella notte di tanti anni fa ha effettuato un raid indimenticabile nei conti correnti degli italiani. Padoan era destinato a diventare il presidente dell’Istat prima di essere velocemente dirottato dai poteri forti europei e italiani, chiamiamoli così, nel governo Renzi che avrebbe invece voluto all’economia un “peso piuma” come GraPier Carlo Padoan
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cuneo fiscale e i diktat di Silvio Berlusconi sulla cancellazione dell’Imu sulla prima casa, Padoan ha concesso alla Rai, nei panni di capo economista dell’Ocse, una delle sue rare interviste invitando il governo italiano a non perdere tempo e risorse per alleggerire la tassazione sulla casa. E suggerendo ovviamente la linea di condotta raccomandata dall’Ocse: le tasse che danneggiano di meno la crescita sono quelle sulla proprietà, come l’Imu, mentre le tasse che favoriscono di più la ripresa e l’occupazione sono, se abbassate, quelle sul lavoro. Quindi già otto mesi fa la priorità era per l’Ocse la riduzione del carico fiscale sul lavoro. Non è detto che poi si debba prendere per oro colato tutto quello che sostiene l’Ocse. Ne sa qualcosa lo stesso Padoan che tempo fa ha avuto una bella tirata d’orecchie dal Nobel Paul Krugman che sulle colonne del New York Times ha scritto su di lui: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli, altre volte danno consigli ancora peggiori, altre volte ancora lavorano all’Ocse». Ed esattamente un anno fa, quando la Grecia era al tracollo, l’Europa le andava dietro e l’euro era dato per spacciato, Padovan ha fatto auto-critica riconoscendo che «la crisi greca è stata molto sottovalutata sin dal principio». Quindi non ha nemmeno lui la bacchetta magica ma sa che «l’Italia ha bisogno di fare le ri-
forme strutturali ma soprattutto di mettere in pratica e incrementare quelle già decise». Già, perché quelle decise non vengono poi applicate «per una serie di ostacoli nella pubblica amministrazione e nel sistema della giustizia civile che impediscono di renderle operative». Come dire: tutto, molto, rimane poi sulla carta. Leo Longanesi era molto più diretto, diceva: «In Italia: manutenzione, non rivoluzione». Padoan sa cosa fare ma è ugualmente pungolato (anche con qualche schiaffone) da un Olli Rehn che sembra fare concorrenza a Renzi su chi debba avere la palma del piè veloce. E il commissario Ue snocciola la sua litania: l’aggiustamento strutturale per il 2014 «appare insufficiente», gli squilibri macroeconomici «eccessivi», debito troppo alto, scarsa competitività. Risultato: Bruxelles tiene l’Italia sotto uno «speciale monitoraggio» e a giugno «deciderà ulteriori passi». Insomma, dobbiamo di nuovo fare i compiti a casa. E cosa vorrà ora da noi Padoan il quale è costretto a dire che la Ue è sì molto «severa» ma che siamo comunque «in linea» con Bruxelles? Basta leggere cosa ha scritto quando era capo economista dell’Ocse nel suo rapporto “Going for growth”: l’Italia deve spostare la sua politica del lavoro «tutelando maggiormente il reddito dei lavoratori e meno il posto del lavoro in sé». Significa abbassare il cuneo fiscale e il costo minimo del lavoro, riformare la contrattazione collettiva in modo da renderla più reattiva rispetto alle condizioni del mercato del
lavoro, alleggerire la protezione dei lavoratori per alcuni tipi di contratto e aumentare la rete della protezione sociale, riformare l’educazione professionale, “rivisitare” la riforma Fornero sulle pensioni adattandola alla situazione attuale di bassa crescita, ristabilire bilanci sani nel settore bancario, ritoccare le rendite finanziarie, liberalizzare le professioni chiuse, ridurre le barriere alla concorrenza per migliorare la competitività, ridurre la proprietà pubblica e i ritardi della giustizia civile. Insomma, tutte le cose che ci siamo dette e ridette negli ultimi vent’anni, finite poi in niente grazie al pressing delle varie lobby. Si dovrebbe partire con la riforma del sistema fiscale per detassare il lavoro e con un ritocchino verso l’alto delle rendite finanziarie dal momento che proprio qui si trova una delle fonti di finanziamento degli sgravi sul lavoro. Più tasse a fin di bene, quindi, sul versante finanziario in quanto servono ad abbattere in parte il costo del lavoro per aiutare le imprese ad assumere e Il Parlamento Europeo i giovani ad es-
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sere assunti. E chi potrebbe mai protestare di fronte a questo scenario? Niente Bot, comunque, il test (e non la gaffe) di Delrio ha dato risultati negativi. Padoan ha poi quasi un debole per un tassa sui patrimoni («Non deve spaventare», ha detto) ma sembra essere stato stoppato da Renzi. Per ora, almeno. Ma allora da dove devono saltare fuori i soldi necessari per tutto quel po’ po’ di riforme che Bruxelles
ci chiede di fare? C’è un lancio d’agenzia che deve essere sfuggito a molti in un paese come il nostro abituato a parlarsi sopra delle beghe provinciali di una classe dirigente preoccupata più per la propria poltrona che per gli interessi generali. È l’agenzia in cui la Reuters, quindi giornalismo serio, ha fatto conoscere il testo di un documento della Commissione europea in cui si dice che «i risparmi dei 500 mi-
lioni di cittadini dell’Ue saranno usati per finanziare investimenti a lungo termine per stimolare l’economia e contribuire a riempiere il vuoto lasciato dalle banche dall’inizio della crisi finanziaria». Un modo per aiutare i 28 paesi Ue ad uscire «dalla loro pesante dipendenza dai prestiti bancari, e trovare altri mezzi per rifinanziare le piccole imprese, i progetti infrastrutturali e altri investimenti». Le banche, in sostanza, hanno preso in prestito molti soldi dalla Bce ma con quei soldi hanno comprato e stanno comprando tanto debito pubblico da non averne più a sufficienza per finanziare le imprese. Ed infatti molte delle piccole e medie imprese italiane ne sanno qualcosa direttamente sulla loro pelle. Una restrizione del credito oltre misura (95 miliardi in meno in un triennio) da rendere di fatto impossibile qualsiasi possibilità di ripresa. L’economia italiana, che dipende quasi totalmente dal credito bancario, ha così avuto una frenata maggiore rispetto agli altri paesi. I dati sull’economia
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reale dicono che nel 2013 il Pil è sceso dell’1,9%, i consumi del 2,6%, gli investimenti del 4,7%. La spesa delle famiglie è calata del 5,2% nell’abbigliamento, del 5,7% nella sanità, del 3,1% nell’alimentare. È accettabile lo spread ma nel frattempo il debito pubblico è aumentato ancora toccando il 132,6%. Qualcuno ha fatto una battuta che non è comunque una battuta: l’austerity ha colpito solo i frigoriferi della gente ma non il debito pubblico. Un quadro quindi deprimente. Ed ora, per quanto si parli di un minimo di ripresa anche se sono ancora in pochi a vederla, l’Italia si trova in fondo alla graduatoria europea perché le banche non possono fare più di tanto. Ecco allora l’alternativa suggerita da Bruxelles di altre forme di finanziamento, bussando anche alla porta dei risparmiatori. Del resto Renzi l’ha già confermato: c’è spazio per aumentare la tassazione non tanto dei Bot, intoccabili, quanto delle rendite finanziarie che sono tra le più basse d’Europa. Il tutto per abbassare il costo del lavoro. In linea con l’Europa e con Padoan, quindi. Per ora le rendite finanziarie e poi? Avremo qualche altra spiacevole sorpresa dopo che è già aumentato il prezzo della benzina e dovremo pagare una super Tasi che rischia di essere più cara dell’Imu? Forse, in questo paese non c’è mai certezza di niente. Addirittura qualche uccello del malaugurio ricorda come il Fmi, il Fondo monetario internazionale, abbia suggerito tempo fa un bel prelievo forzoso sui conti correnti. Un prelievo stile Giuliano Amato.
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CRESCITA E STABILITÀ Aldo Forbice Qualche tempo fa Pier Carlo Padoan, l’attuale ministro dell’Economia, aveva elaborato con alcuni studiosi (vi era anche Giuliano Amato, Richard Baldwin, Daniel Gross e Stefano Micossi) un “Nuovo patto per la crescita e la stabilità”. In questo programma si riaffermava il principio che la disciplina di bilancio dei paesi dell’Unione europea era “necessaria e utile”. Ma questa non era sufficiente a ristabilire ritmi di crescita elevati, non solo per affrontare la disoccupazione, ormai arrivata a livelli preoccupanti,ma per garantire la sostenibilità dei debiti sovrani dell’area euro. Nel documento si sosteneva la necessità di un nuovo accordo politico fra gli Stati membri in modo da riconoscere la crescita come assoluta priorità, promuovendola con adeguati interventi di rilancio del mercato interno, accompagnati da forti investimenti infrastrutturali per garantire una maggiore integrazione europea. In particolare, si criticava duramente la politica di Bruxelles che ha applicato pesanti sanzioni a chi ha già i conti fuori controllo, mentre sarebbe servito molto di più “identificare precocemente i trend di squilibrio e obbligare i paesi interessati a correggerli quando si è ancora in tempo”. Si sottolineava poi la necessità di mettere in campo strumenti di intervento “ più forti” e l’opportunità della qualità dei programmi di consolidamento nazionali “che devono concentrarsi,più
che in passato, sul contenimento della spesa corrente,con riforme pro-competitive delle pensioni e degli ammortizzatori sociali”. Si ribadiva, inoltre, l’importanza della istituzione in ogni paese di “ autorità indipendenti che valutino lo stato dei conti pubblici e la rispondenza alle raccomandazioni europee,al di fuori di ogni interferenza del potere esecutivo”. Anche nel nostro paese abbiamo provato a dar vita ad “autorità” di questo tipo, ma con risultati incerti e persino contradditori,come avremo modo di vedere. Probabilmente perché questi organismi non sono stati dotati di assoluta indipendenza,ma semplicemente sono accreditati come strutture di studio e consulenza,alle dipendenze del governo, e quindi con scarsi poteri,come è il caso di Carlo Cottarelli, Commissario alla revisione della spesa. Ma torniamo al “patto per la crescita e la stabilità”. Il programma prevede modalità e strumenti diversi per le gestioni delle crisi finanziarie, che possono consentire anche il fallimento delle banche, con procedure di tipo amministrativo affidate al supervisore bancario, sull’esempio della Fdcic americana ,ma anche della Banca d’Italia. Solo i clienti che depositano fondi devono poter contare sulla garanzia del rimborso. Per questi obiettivi potrebbe servire anche un Fondo monetario europeo permanente, che ora viene accettato persino dalla Germania, dotato di un
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capitale sufficiente e capace di autofinanziarsi sul mercato dei capitali, in grado di intervenire per calmare le turbolenze finanziarie e di imporre misure correttive agli istituti di credito. “Il suo mandato dovrebbe esplicitamente escludere la copertura delle perdite, pubbliche e private, dei creditori delle banche come dei debitori sovrani”. Si raccomanda poi, per favorire la crescita, la necessità di incrementare la flessibilità del mercato del lavoro e dei tassi di occupazione giovanile e femminile. Un obiettivo che la riforma Monti-Fornero non è riuscito a raggiungere. Infatti, non sembra più dilazionabile a questo proposito “l’apertura alla concorrenza e alla piena libertà di circolazione di tutto il comparto dei servizi, incominciando dalle grandi reti energetiche, di trasporto e di telecomunicazioni, la distribuzione, le professioni”. Con questo complesso di interventi sarà più facile ottenere incrementi durevoli e significativi degli investimenti, dell’occupazione, dei redditi interni, del progresso tecnologico. Infine, sempre secondo Padoan e gli altri studiosi, si rendono indispensabili forti investimenti nelle infrastrutture, che, tra l’altro, rafforzerebbero la domanda interna. E’ necessario però una
nuova lista delle priorità, abbandonando i mille progetti nazionali del passato e concentrando le risorse sulla eliminazione delle strozzature che impediscono al mercato interno di funzionare. Naturalmente per questo obiettivo sarà necessario mobilitare risorse massicce, col sostegno della Bei (Banca europea per gli investimenti) e della Bers (Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo). Ce la faremo? Il governo Renzi sembra ottimista, Ma intanto bisognerà fare i conti con la spesa pubblica, che continua a salire e quindi con la necessità di realizzare tagli radicali. Come propone proprio il Commissario Cottarelli. Infatti, il dossier di questo esperto, consegnato all’ex ministro dell’Economia Saccomanni, prevedeva tre miliardi di tagli possibili già nel 2014. In realtà la stima contenuta nel dossier è più ampia: va da un minimo di 4,5 fino a 6 miliardi di risparmi quest’anno, 12 nel 2015, fino a 20 nel 2016, 30 a regime nel 2017. Tutti fondi che prima Letta, oggi Renzi, hanno deciso di destinare a ridurre il cuneo fiscale. Ora sarà il governo e il parlamento a dover decidere in via definitiva in proposito. Cottarelli (e prima ancora altri studiosi di Pa ed economisti) hanno però dimostrato che
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è possibile intervenire drasticamente sulle spese della macchina pubblica (includendo anche quelle relative delle regioni e delle altre autonomie locali) e su quelle delle aziende pubbliche territoriali. Lo stesso Cottarelli ha espressamente indicato altri due miliardi di possibili risparmi (oltre ai sei) se si riuscirà a intervenire su quattro grandi voci: costi della politica, stipendi dei funzionari pubblici, auto blu, formazione professionale. Ci limitiamo a ricordare che uno studio recente dell’Ocse (organismo da cui proviene il ministro Padoan) ha calcolato che i dirigenti pubblici italiani percepiscono le retribuzioni più alte al mondo: hanno uno stipendio triplo della media dei 34 paesi più ricchi. Poi c’è lo “storico” capitolo delle auto blu. Per Cottarelli ogni ministero dovrebbe avere non più di un’auto. Per i servizi urgenti esistono pur sempre i taxi. Infine, i fondi (elevatissimi) distribuiti dalle regioni italiane per la formazione professionale dei giovani e disoccupati. Si tratta di risorse mal distribuite, fonte di scandali, gestiti dagli enti di emanazione politica e sindacale. C’è di che riflettere anche per il nuovo esecutivo che vuole realizzare riforme rapide ed efficaci.
GE REPORTA
SANT’ANNA DI PISA
DALLA RICERCA AL LAVORO Valeria Caldelli
D
alla ricerca al mondo del lavoro. Dai laboratori ai mercati con leggi e abitudini che niente hanno a che fare con quelle dello studio. Una bella scommessa per un giovane ‘inventarsi’ una professione in una società che solo a parole lascia spazio alla fantasia per disseminare invece una serie di tagliole lungo il percorso di un imprenditore. Con la conseguenza che alla fine quello che si è imparato in anni di ricerca avanzata resta confinato dentro le mura scolastiche, in avventure scientifiche e tecnologiche che non trovano legami con il mondo reale. Una preoccupazione, questa, che la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha avuto il merito di avvertire già da alcuni anni, riuscendo ad ottenere oggi, in piena crisi, ottimi risultati. Anziché salutare i propri allievi giunti al termine di un percorso di ricerca importante ha infatti continuato a seguirli nei loro primi passi lungo la difficile strada del lavoro fornendo non solo consigli, ma anche conoscenze e indicazioni nel settore bancario e in quello amministrativo. Una sorta di ‘terza missione’ che non ha niente a che fare con i compiti di una delle principali istituzioni di eccellenza del nostro Paese, ma che i docenti e l’intera Scuola si sono posti come obiettivo perché le straordinarie esperienze nate nei loro laboratori non restino fini a se stesse e perché chi si è impegnato nell’ottenere sorprendenti risultati non venga mortificato da quella giungla di adempimenti necessari per ottenere un ‘lasciapassare’ senza il quale è impossible varcare la soglia di un mercato imbrigliato
e bizzoso. In gergo moderno, anzi contemporaneo, si chiamano spin-off e start up, mutuando i termini dall’inglese ‘economico’ per indicare quelle imprese che nascono in ambito universitario con contenuti altamente tecnologici e poi cercano di spiccare il volo da sole nell’universo industriale. La Scuola Sant’Anna è riu-
Ing. Paolo Dario
scita a fare anche di più, mettendo a disposizione dei giovani ricercatori un settore dedicato al ‘trasferimento’ tecnologico. “Vogliamo essere per loro come degli zii che li aiutano a compiere i primi passi”, scherza il professor Andrea Piccaluga, docente di Economia e gestione delle imprese alla Sant’Anna, oltre che ufficialmente delegato proprio a que-
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sto compito. “I nostri fisici e i nostri ingegneri hanno una forte specializzazione, ma non sanno niente di contabilità, né di economia. Il nostro scopo non è quello di fare noi, come Scuola, gli imprenditori di noi stessi, ma soltanto quello di tenere a braccetto i nostri allievi nel loro ‘primo miglio’. Ad esempio li mettiamo in contatto con alcune ditte che possono essere interessate alle loro invenzioni, oppure con le banche o con quegli imprenditori finanziari, i ‘Venture capitalists’ che accettano le sfide di imprese altamente innovative con grande percentuale di rischio”. Bastano i numeri a raccontare il successo di questa ‘politica’: 34 aziende attive, 180 addetti qualificati e 13 milioni di fatturato. In poche parole si è creato nuovo lavoro. Sono tutte imprese ad alta tecnologia, sparse nel centro dell’Italia e soprattutto in Toscana, visto che la Scuola Sant’Anna è qui che sforna i suoi ‘cervelloni’. Dal 1991 ad oggi si sono costituite in media due nuove aziende all’anno che riflettono il ‘capitale’ racchiuso negli istituti di ricerca in cui i nuovi imprenditori sono stati forgiati. In sostanza la stragrande maggioranza degli ex allievi che ci ha provato ha vinto la battaglia, pur se con diversi risultati. “Diciamo che la strategia dei piccoli passi rende tutto meno difficile e rischioso, permettendo magari di sopravvivere pagandosi lo stipendio”, spiega il professor Piccaluga. “Certo, loro sono ragazzi brillanti che hanno grandi idee, quindi provano anche a ‘volare’, come è giusto che sia. In questo caso ci sono più pericoli e si può anche cadere e farsi del male”.
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Tre le aziende che per ora hanno davvero preso il volo. Una si chiama ‘Scientia machinale’ e lavora su molti progetti, un po’ come fosse il laboratorio di Archimede. Ha la sua base a Navacchio all’interno dell’incubatore del Polo Tecnologico. La seconda è la ‘Evidence’ di Pisa, che produce sistemi integrati su chips, mentre la terza, ‘Endotix’, è a Peccioli, nell’entroterra pontederese, e ha ideato un robottino per fare colonscopie in maniera meno invasiva e dolorosa. Sono solo esempi di chi ci ha provato e ce l’ha fatta anche in tempi duri, a dimostrazione che l’Hi Tech e la qualità possono dare soddisfazioni anche in un’Italia che non ‘tira’ e si affanna. “La robotica su cui stiamo lavorando è il risultato di 20 anni di ricerca. Oggi la tecnologia è matura, pronta ad entrare nelle case. E’ affidabile, economica e produce cose utili”, dice il professor Paolo Dario, docente di Robotica Biometica e direttore dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Sant’Anna, una ‘palestra’ straordinaria dove, oltre ai 170 giovani ‘cervelli (età media 30 anni) che affrontano le sfide del futuro, lavorano 180 persone. “Abbiamo creato una comunità di lavoro fortemente interdisciplinare, costituita da studiosi di robotica e da neuroscienziati. Gli ingegneri, da soli, avrebbero infatti difficoltà a generare innovazioni radicali basate su modelli complessi dei sistemi biologici; i neuroscienziati, invece sono portati cultural-
mente a non occuparsi di settore applicativi. Dalla loro profonda interazione siamo così riusciti a sviluppare progetti che possono condurre a applicazioni assolutamente innovative”. Scienza e tecnica non fini a se stesse, dunque, ma insieme al servizio della comunità. Questo è stato l’obiettivo che si è posto nel tempo la Scuola Sant’Anna e di cui oggi si raccolgono i frutti. Nei laboratori di biorobotica di Pontedera e in quelli dell’Istituto Tecip, alle porte di Pisa, diretto dal professor Massimo Bergamasco, il punto di riferimento centrale è sempre l’uomo con i suoi bisogni, in particolare quelli medici e sanitari. Esistono già prototipi perfettamente funzionanti di braccia e gambe umane che riescono a simulare tutti i movimenti naturali con uguale dolcezza e armonia, tanto da essere usati per la riabilitazione di arti rimasti bloccati in seguito a incidenti e malattie. Come anche il cosiddetto ‘robot indossabile’, un esoscheletro che, tra l’altro, è in grado di aumentare la forza delle nostre braccia, facendoci sollevare senza sforzo pesi notevoli ed aiutando, quindi, il lavoro all’interno di aziede e cantieri. E non si tratta solo di strumenti meccanici. Questi robot si confrontano con l’essere umano, si collegano con il nostro cervello e quindi gli obbediscono, comprendendo ciò che fanno. Proprio nelle scorse settimane ha fatto il giro del mondo la notizia della nuova mano robotica che percepisce i sensi,
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nata, appunto, nell’istituto di Pontedera. Il prototipo è stato sperimentato su un paziente danese che nove anni fa perse una mano a causa di un incidente. Un gruppo specializzato di chirurghi e neurologi ha eseguito l’intervento al Policlinico Gemelli di Roma e ha impiantato gli elettrodi transneuronali all’interno dei nervi ulnari e mediani del braccio sinistro di Dennis Aabo Sorensen, il quale ha poi commentato così: “E’ stato incredibile , ho potuto toccare cose che non ero riuscito a sentire in oltre nove anni. Quando ho afferrato un oggetto ho potuto avvertire se fosse morbido o duro, tondo o quadrato”. Ma le ‘battaglie’ non finiscono mai alla
Prof. Andrea Piccalunga
Scuola Sant’Anna e nuovi traguardi sono già all’orizzonte. I laboratori Percro dell’Istituto Tecip hanno infatti appena dato i natali ad Alex, una ‘poltrona magica’ che ci permette di girare il mondo e sti-
molare il nostro cervello pur restando seduti, dando così la possibilità di compiere utili esercizi riabilitativi in caso di ictus. Ma non basta ancora. Qualche altro anno di ricerca e Alex sarà in grado di metterci in connessione con un Avatar, robot lontano da noi in cui però potremo ‘discendere’ stando comodamente seduti sulla ‘poltrona magica’, muovendoci dove lui si muove e sentendo quello che lui sente. Non è più fantascienza: è solo l’anticipazione di un futuro molto prossimo che, se sfruttuto nella maniera e nei tempi giusti, potrà portare nuovo lavoro. Come d’altronde, cambiando settore, lo studio in atto nei laboratori di Livorno per ‘fabbricare’ elettricità dalle onde del mare grazie a grossi elastici ottenuti con materiali resistenti alla corrosione come i polimeri elettroattivi. Il risultato sarebbe quello di ottenere energia a costi bassissimi. Con ‘Poseidrone’ si potrà invece scendere nelle profondità marine ed entrare in qualsiasi fessura, proprio come fa un polpo con i suoi tentacoli. I ricercatori hanno studiato la sua flessibilità per alcuni anni e sono riusciti ad imitarla in tutto e per tutto. Ora Poseidrone, chiamato così in onore del re del mare, sia pure ‘robottizzato’, si muove e nuota con grande naturalezza riuscendo anche a manipolare oggetti in acqua. Può essere usato per la manutenzione e sorveglianza
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Pierdomenico Perata, Rettore Sant’Anna
di strutture sommerse così come nelle attività di ispezione rischiose per l’uomo. L’esempio della nave ‘Concordia’ è sotto gli occhi di tutti e avere avuto un polipo obbediente e a disposizione avrebbe sicuramente facilitato molto tutte le operazioni di ricerca e recupero. “La forte componente applicativa di questo progetto permette un agevole trasferimento di tecnologia dalla realtà accademica a quella marittima e quindi una più veloce traduzione dei risultati scientifici in prodotti di mercato”, sottolineano i ricercatori del team tecnologico che lavora nei laboratori Sant’Anna di Livorno, già pronti a spiccare il volo. Un’altra prospettiva di forte sviluppo arriva dalla possibilità di trasformare in digitale intere biblioteche, aggiungendo giochi, animando immagini e ‘entrando dentro’ i libri, così da renderli stimolanti anche ai giovani più inesperti. Il gruppo Arte, Cultura e Educazione del labora-
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torio Percro -Tecip, ha appena concluso la ‘modernizzazione’ di due testi antichi, di cui uno manoscritto, per la Gunnerus Library di Trondheim, in Norvegia, e le possibilità di crescita in questa direzione potrebbero essere infinite. ‘Figlia’ della Scuola Normale Superiore per i settori di giurisprudenza, ingegneria e medicina, dal 1987 la Sant’Anna è diventata un’istituzione universitaria indipendente in cui si fa ricerca ad altissimi livelli macinando un traguardo dopo l’altro. Ogni anno 1200 giovani da tutta Italia si sottopongono agli esami di ammissione, ma solo 50 di loro vengono ammessi. Agli studenti si aggiungono circa 300 dottorandi, di cui il 25 per cento proveniente dall’estero. “Oltre a formare gli allievi la nostra missione è quella della ricerca. Ci riteniamo soddisfatti, però dobbiamo continuare a crescere”, è l’imperativo di Pierdomenico Perata, rettore della Scuola, che, nello spirito del superamento delle barriere disciplinari, annuncia ora anche la nascita del Polo di Scienze della Vita, con cui si uniranno le ricerche di Medicina, Agraria e Biotecnologie. L’impresa più difficile resta comunque quella di poter stabilire un dialogo con il mondo industriale per trasferire tutta la loro energia creativa alla società. Perata ha già dato il via ad un laboratorio di ricerche congiunte con Telecom Italia nel campo delle telecomunicazioni, mentre Piccaluga si sta occupando di un corso specifico per dare consigli e orientare tutti gli studenti che hanno in mente di diventare imprenditori Hi Tech. Il futuro è già arrivato. L’importante è non farselo scappare.
Un braccio usato per la riabilitazione
La “poltrona magica”
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IL ROSA NEL COSMO
L’ASTRONAUTA TRICOLORE Roberto Di Meo
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i chiama Samantha Cristoforetti ed è la prima donna astronauta italiana. Sarà protagonista della missione Futura che è stata programmata a novembre di quest’anno. Anche lei, come il suo collega Luca Parmitano rimarrà sulla Stazione spaziale internazionale per sei mesi e parteciperà anche alle missioni Eva (Extra Veicular Activity), ovvero sarà protagonista di una passeggiata spaziale. Samantha Cristoforetti, 37 anni, è capitano pilota dell’Aeronautica militare ed è stata selezionata come astronauta dell’Esa (Ente Spaziale Europeo) nel 2009. “Fare l’astronauta - dice Samantha con un pizzico di orgoglio - è il lavoro più bello del mondo. I voli spaziali mi hanno sempre affascinato e mi sento fortunata di essere qui oggi, lo spazio è una grande avventura e sono orgogliosa di parteciparvi”. Nata e cresciuta a Malè in Val di Sole (trentino Alto Adige), dopo aver conseguito il diploma di liceo scientifico a Trento si è laureata in ingegneria all’Università tecnica di Monaco di Baviera. Dal 2001 ha frequentato il corso BoreaV dell’Accademia aeronautica di Pozzuoli dove nel 2005 ha conseguito la laurea in Scienze Aeronautiche e la nomina di ufficiale del ruolo naviganti. Succcessivamente si è specializzata, in qualità di pilota militare, alla scuola di volo Euro-Nato di Wichita Falls in Texas accumulando nella sua carriera militare più di 500 ore di volo su aerei da addestramento e combattimento. Oltre all’italiano parla Samantha Cristoforetti
correntemente l’inglese, il tedesco, il francese, il russo e il cinese. L’astronauta italiana ha terminato il suo primo ciclo di addestramento a Star-City, la città delle stelle che si trova vicino Mosca ed ora sta continuando il suo training in Giappone a Tsukuba. Successivamente andrà a Houston e a Colonia per concludere la sua preparazione. Poi tornerà in Russia per la fase finale e gli esami di certificazione alla missione Futura che partirà presumibilmente il 24 novembre prossimo dalla base di Baikonur, in Kazakistan. Samantha sarà il settimo astronauta tricolore e come, dicevamo, la prima donna italiana nello spazio. La sua missione conferma il ruolo di eccellenza raggiunto dall’Italia nel settore spaziale e, in particolare, nelle attività di ricerca che si svolgono sulla stazione spaziale internazionale. Durante la missione Futura sulla Iss, la nostra astronauta, sarà impegnata in numerosi esperimenti selezionati dall’Agenzia Spaziale Italiana ideati e sviluppati da Università, enti di ricerca e piccole e medie imprese nazionali. “E’ per me un grande onore - sottolinea la Cristoforetti - far parte di questa missione sulla ISS. In questo momento mi sento molto serena, nel mio quotidiano vivo la preparazione con impegno ma anche con gioia, consapevole di avere il privilegio di essere parte di un gruppo straordinario che ha anche opportunità straordinarie”. Samantha, in questi mesi di lungo addestramento a Star City ha lavorato sodo e ogni passo della sua esperienza l’ha annotata in un dili-
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gente diario dove racconta i suoi progressi, le sue impressioni. “Una della cose buone di essere astronauta - annota scherzosamente - è che potete rimanere sdraiati sulla schiena tutto il giorno e chiamarlo addestramento”. Ovviamente il riferimento è quello relativo al fatto che dovrà utilizzate la Soyuz per raggiungere la stazione internazionale orbitante. Ma la nostra astronauta parla anche delle altre varie fasi addestrative come quella relativa all’aggancio tra le due navette, alla possibilità di eventuali emergenze compreso un rapido rientro a terra e a tutte le altre difficoltà che possono incontrarsi in un viaggio così altamente rischioso ma al contempo incredibilmente affascinante. Un’altra caratteristica di Samantha è che a chi le chiede della sua condizione femminile risponde “Che io sia una donna è un aspetto personale. Non so se questo abbia o
meno un significato più ampio per la figura femminile in Italia o in Europa, non sta a me muovermi in funzione di questo”. Tra i vari esperimenti che verranno effettuati sulla stazione spaziale ce ne sono alcuni interessanti come quello di indagare sulle condizioni sensori-motorie alla condizione prolungata in assenza di gravità, investigare sull’uso della saliva per il monitoraggio di marcatori indicativi delle condizioni del metabolismo osseo e muscolare degli astronauti. Ma ci saranno altre ricerche importanti sui meccanismi fisiologici del sonno in microgravità e sulla rilevazione dell’elettrocardiogramma e del respiro attraverso una maglietta sensorizzata che l’astronauta indosserà prima di dormire. Insomma per Samantha nello spazio ci sarà tanto lavoro. Ma anche una grande soddisfazione per essere la prima donna italiana a volare tra le stelle.
GLI ASTRONAUTI ITALIANI Nel luglio del 1992 nasce l’avventura degli astronauti italiani. Il primo in assoluto è Franco Malerba con la missione Tethered, il satellite a guinzaglio. Nel febbraio del 1996 vanno in orbita Maurizio Cheli e Umberto Guidoni per la seconda missione Tethered. Nell’aprile 2001 è ancora Umberto Guidoni a volare nello spazio con la missione STS-100. Aprile 2002 Roberto Vittori con la missione Marco Polo, aprile 2005 ancora Roberto Vittori con la missione Eneide, ottobre 2007 Paolo Nespoli, missione Esperia. E’ ancora Paolo Nespoli, dicembre
del 2010, a partecipare alla prima missione Expedition di lunga durata (sei mesi nello spazio). Febbraio 2011 Roberto Vittori con la missione STS 133 raggiunge Paolo Nespoli sulla Iss. Maggio 2013 Luca Parmitano partecipa alla seconda missione di lunga durata,Volare, ed è il primo astronatua italiano a partecipare a una passeggiata spaziale. Novembre 2014 parte la missione Futura con Samantha Cristoforetti, prima donna italiana nello spazio. Anche lei rimarrà sei mesi nello spazio ed effettuerà un paio di passeggiate spaziali.
L’astronauta Paolo Nespoli
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INVESTIRE NEL SETTORE SPAZIALE
L
’INDUSTRIA italiana guarda con grande interesse al settore spaziale. Più della metà della Stazione Internazionale è stata realizzata nel nostro Paese. Ogni sottolineano all’Agenzia spaziale italiana, si investono poco meno di 500 milioni di euro nel settore spaziale mentre il fatturato ammonta a circa 1,5 miliardi. Certo, questi investimenti sono pochi se paragonati al Pil e a quello che spendono i principali partner europei che sono Germania e Francia. Ma anche l’Italia fa la sua parte. Un settore altamente tecnologico come lo spazio è la via fondamentale per superare anche questo momento di crisi, come ha ricordato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dunque lo spazio è uno dei filoni produttivi che porta con sè le maggiori ricadute per le aziende italiane. Dietro lo spazio c’è un’industria fatta di nomi come Thales Alenia Space,
Avio, centri di eccellenza ad elevato livello tecnologico come il Cira e tantissime piccole e medie industrie ad alto valore tecnologico. Secondo l’agenzia spaziale italiana bisogna avere il coraggio di investire nello spazio perché i ritorni sono assicurati in termini di innovazione e sviluppo occupazionale. Se si spende un euro in attività spaziali il ritorno a livello di prodotto interno lordo è molto più di un euro. Nelle telecomunicazioni, ad esempio, ad ogni euro investito, corrisponde un ritorno fino a 30 euro e questo vuol dire occupazione e sviluppo. Le aziende italiane sono state impegnate per la realizzazione di elementi chiave della Iss: dai moduli pressurizzati Columbus e Leonardo, ai Nodi 2 e 3 e alla Cupola che è la terrazza panoramica della stazione orbitante: consente di vedere all’esterno, fotografare la terra e gli altri corpi celesti anche in 3D, di controllare le operazioni delle passeggiate
spaziali degli astronauti, le operazioni di attracco delle navette e del braccio meccanico. L’industria italiana è impegnata anche nelle più importanti missioni scientifiche europee e internazionali, con strumenti di successo tecnologico. Nel campo dell’osservazione della Terra le industrie italiane hanno realizzato la costellazione di 4 satelliti Cosmo-Skymed per il monitoraggio radar del suolo terrestre a utilizzo duale, civile e militare. Un sistema satellitare unico al mondo per la precisione e la qualità del radar di bordo. E poi satelliti di telecomunicazione avanzati così come veicoli di lanci e propulsori spaziali. E c’è anche il successo di Vega, un lanciatore dell’Agenzia spaziale europea, finanziato per oltre il 65% dall’Asi che completa l’offerta europea di lanciatori nel segmento di messa in orbita, cosiddetta bassa (fino a circa 1.000 km dalla Terra).
NEL ‘64 INIZIA L’AVVENTURA Dal 1964, l’anno in cui inizia la sua avventura spaziale italiana, l’Italia ha investito risorse sempre maggiori in questo settore, costruendo un bagaglio di esperienza scientifica e industriale che oggi ci pone tra i Paesi più importanti. L’Agenzia Spaziale Italiana è nata nel 1988 per dare un coordinamento unico a quegli sforzi e investimenti. Dalle domande fondamentali sulla comprensione dell’universo, sull’origine della vita, fino alla sperimentazione di nuove tecnologie, lo spazio appare oggi più che mai il luogo da cui
partire per ampliare l’orizzonte culturale dell’uomo, far crescere la sua consapevolezza e garantire un futuro migliore sulla Terra. Grazie all’ASI, l’Italia è in prima fila in questa esemplare impresa umana. Sono 39 mila gli addetti occupati nell’industria aerospaziale italiana, che è la sesta al mondo e la quarta in Europa. Il fatturato dell’industria ammonta a 1,5 miliardi di euro e ogni anno si investono 500 milioni. il 50 per cento del volune della stazione internazionale spaziale è stato costruito nel nostro Paese.
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LIVELLI QUALITATIVI
COME EVITARE I TAGLI Angelo Carusone La scarsità di risorse economiche, in momenti come questi, impone una rivisitazione delle procedure attuate da tutte le organizzazioni per soddisfare i propri fabbisogni. Solo attraverso un’ottimizzazione dei beni disponibili è possibile continuare a mantenere i livelli qualitativi dei servizi offerti. A tale revisione, non si possono e non si devono sottrarre le Pubbliche Amministrazioni, che hanno sempre posto una particolare attenzione alla scelta del soggetto che deve fornire il bene o i servizi. Infatti, la P.A. impiega molte risorse per determinare il fabbisogno, definire le caratteristiche tecniche delle materie prime, i processi produttivi, il numero di personale da impiegare per l’effettuazione delle prestazioni, le ore necessarie, e così via. La stessa attenzione viene posta alla gara di appalto. Tuttavia nel momento in cui il contratto è stato perfezionato e quindi, come definito in dottrina, si procede “alla naturale modalità di estinzione dell’obbligazione assunta dal terzo contraente”, la P.A. risulta in molti casi carente. In particolare nel caso di contratti che prevedono la fornitura di servizi in luoghi diversi. E’ frequente trovarsi a confrontare servizi offerti dalle stesse aziende, in esecuzione degli stessi contratti, e riscontrare delle differenze per quanto attiene la qualità offerta e percepita. Ciò comporta uno spreco di risorse, che può generare spese aggiuntive per far fronte a quelle carenze qualitative, che influiscono anche sulle capacità di assicurare le funzioni specifiche della P.A.. Basti pensare, ad esempio, a quale danno può derivare, ad una polizia locale, la mancata messa in efficienza dei propri autoveicoli nei tempi stabiliti, impedendogli di svolgere i normali servizi di pattugliamento del territorio, o il ritardo nella fornitura dei pasti ad un ospedale o ad una scuola. L’analisi del fenomeno ha evidenziato che tali diversi risultati nella qualità dei servizi generati, non è attribuibile
a episodi di corruzione, bensì, nella maggior parte casi, ad una “non specifica” preparazione dei soggetti a cui è affidato il controllo, per lo più a causa di mancanza di formazione o di un eccessivo tecnicismo dei capitolati tecnici. Alcune esperienze hanno dimostrato che per aumentare il livello di conoscenza è possibile prevedere giornate formative per il personale incaricato del controllo. Si è sperimentato che dotando il personale di schede di valutazione delle diverse fasi di un processo, è possibile tenerlo sotto controllo in modo semplice ed efficace. Per ovviare, invece, alla complessità delle specifiche tecniche, è stato sufficiente prevedere la realizzazione di brochure, nelle quali vi è una semplificazione delle stesse, utilizzando forme grafiche elementari, quali i fumetti. In questo modo si vince anche la naturale resistenza generata dalla lettura di documenti voluminosi e pieni di terminologie specialistiche. Tali soluzioni, affiancate allo sviluppo di sistemi informatici di gestione e rilevazione dei dati, che consentano di inserire le informazioni acquisite in tempo reale anche con strumenti che riducano i margini di errore nella digitazione, oltre ad elevare la qualità, permettono di ridurre i costi diretti ed indiretti. Ciò è stato dimostrato in un’analisi effettuata su alcuni contratti di appalto per la produzione e distribuzione di pasti, nei quali era previsto l’utilizzo di strutture e attrezzature messe a disposizione dall’amministrazione aggiudicataria, alla quale restava in carico la manutenzione straordinaria, mentre quella ordinaria era di competenza dell’azienda aggiudicataria. Si è notato che, dove vi era un controllo sulla effettiva esecuzione delle attività previste, si sono verificate circa il 70% in meno di interventi di manutenzione straordinaria, quindi vi è stato un risparmio di risorse notevoli.
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UNA NUOVA FRONTIERA
MAREMMA DINAMICA Pierandrea Vanni
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inquantuno anni, laurea in scienze politiche, alla guida di un’azienda che opera con successo nel campo del restauro, un lungo impegno nel mondo economico che lo vede da dieci anni alla guida della Confartigianato provinciale e da cinque presidente della Camera di Commercio di Grosseto, eletto la prima volta all’unanimità e la seconda per acclamazione. Giovanni Lamioni è espressione di un mondo imprenditoriale che non si limita alla propria attività privata ma si mette in gioco per contribuire allo sviluppo di un territorio e di una comunità, appunto la Maremma, alla quale è legatissimo anche perché rappresenta le sue radici. E’ nato a Cana, piccolo borgo del comune di Roccalbegna e ne fa un motivo di orgoglio. Prima ha dato voce e corpo agli artigiani, poi l’approdo in Camera di Commercio con il sostegno di tutte le categorie economiche, quindi dal 2012 la vice presidenza nazionale di UnionCamere. E da pochissimo l’ingresso nel consiglio centrale della Dante Alighieri, un ruolo a livello culturale che ha particolarmente gradito. Presidente, lei ha fatto del brand Maremma uno dei cavalli di battaglia della sua presidenza. Che cosa significa, in concreto, un brand territoriale? Significa puntare, con fierezza, sulla nostra identità. Un marchio territoriale si costruisce su tutto l’insieme di valori che esprime una collettività e diventa sinonimo di qualità a sostegno dell’internazionalizzazione delle imprese. Non è solo una certificazione di provenienza. E’ molto di
più. L’opportunità di contestualizzare localmente un prodotto sta diventando sempre più determinante nel mercato globale. Non solo, il brand è una sorta di scambio alla pari: le nostre produzioni si avvantaggiano dell’opportunità di contestualizzarsi in una terra straordinaria ed unica come la Maremma, ma al contempo la Maremma si fa conoscere nel mondo attraverso l’eccellenza dei suoi prodotti, frutto di materie prime selezionate, rispetto di antiche tradizioni, di grandi capacità imprenditoriali. La Maremma in sé ha un forte appeal a livello internazionale, io ci ho sempre creduto. Come Camera di Commercio, abbiamo iniziato a lavorare sul brand territoriale alcuni anni fa, studiando strategie di marketing ad hoc. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, si veda le ultime recensioni di autorevoli mass media internazionali, come il Guardian o la Cnn. Ed oggi, dopo tanta promozione, possiamo tranquillamente affermare che la Maremma non ha più bisogno di presentazioni... è ormai un “prodotto” conosciuto, apprezzato e riconoscibile. Credo che siamo pronti per passare alla fase successiva, quella della “promovendita”, cioè dobbiamo iniziare a proporre pacchetti turistici integrati. Ma non crede che ci sia un po’ di autocritica da fare da parte della Maremma, considerata per anni “la bella addormentata”? Pensavamo fosse un problema solo della provincia di
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Grosseto, e invece riguarda drammaticamente tutto il nostro Paese. Dati recenti, e assolutamente sconvolgenti, ci dicono che il turismo rappresenta in Italia solo il 4,1 per cento del Pil. Nel 2013 abbiamo registrato risultati pessimi, in confronto alle altre nazioni europee. Se si considera anche l’indotto, si supera di poco il 10 per cento. Com’è possibile? Eppure possediamo il 70 per cento del patrimonio culturale mondiale, ben 49 siti Unesco, oltre 5mila musei, aree archeologiche uniche, città d’arte irripetibili... C’è bisogno di una svolta. Personalmente ritengo che il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo debba trasformarsi nel Ministero della Cultura, del Turismo e dell’Agricoltura. Questo perché sem-
pre più il turismo e l’agroalimentare vanno di pari passo. Molti turisti sono attratti sul territorio dalle nostre produzioni tipiche e di eccellenza. E allo stesso tempo non esiste strumento migliore di quei turisti per promuovere l’Italia. Ogni bottiglia di buon vino italiano stappata nel mondo è “un assaggio” dell’eccezionalità del nostro Paese. Non abbiamo solamente venduto un prodotto, trasmettendo una sensazione, abbiamo fatto promozione turistica di un territorio nel mondo. Per quanto ci riguarda, è ovvio che possiamo fare di più e di meglio. La Maremma non è solo mare, e può avere un’offerta lunga 365 giorni all’anno. La Camera di Commercio sta lavo-
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rando con grande dedizione in questo senso. Nel 2014 daremo sostegni all’organizzazione di manifestazioni nell’ambito del turismo sportivo, anche questo è un settore che ha grandi potenzialità ancora non sfruttate. La mancanza infrastrutturale, invece, continua a essere un dazio insopportabile, frutto di scelte imposte dall’alto, che tutt’ora stiamo pagando: abbiamo i porti senza le navi, le stazioni senza fermate, l’aeroporto senza voli ed un’autostrada ferma all’inaugurazione della prima pietra. Eppure questa situazione atavica non ci ha bloccato. Avverto tra la gente di Maremma un fermento, una voglia di emergere, una voglia di riscatto, che se accompagnata da politiche di
sviluppo adeguate, può portarci lontano. La promozione a livello regionale punta molto se non esclusivamente sul brand Toscana. E la Maremma? Affermare che la promozione nel mondo è e può essere solo affidata al brand Toscana è la visione di chi non vede oltre alle proprie scarpe. E’ frutto di una politica miope. Di chi è rimasto indietro di vent’anni, a quando non c’era Internet. Un amministratore pubblico deve saper delineare un orizzonte. Per effetto della globalizzazione, ogni bambino che nasce è oggi cittadino del mondo. Scommetto che nel 2035, un bimbo cinese non conoscerà solo la Toscana, ma anche Rifredi e Careggi. Ed il viaggiatore-cittadino del mondo andrà alla ricerca di ciò che non trova a casa sua, davanti al suo computer. La partita della promozione si giocherà sempre più su un altro piano, sull’unicità, sulla qualità di vita, sul sentiment, sulle suggestioni che un territorio riesce a trasmettere. Lavorando su questi aspetti si farà davvero la differenza. In Toscana è aperto da tempo un confronto fra chi crede che fino ad oggi le politiche regionali abbiano privilegiato l’asse Firenze-Prato-PisaLivorno e chi invece sostiene che si è fatto tutto il possibile per le aree più deboli. Lei cosa pensa? Il privilegio è quanto mai lampante. Che la Regione Toscana sia da sempre
Firenze-centrica è un dato di fatto, senza entrare nel merito delle interpretazioni sulle cause, che possono essere diverse. Di fatto sono state fatte scelte poco lungimiranti. Non sono state lasciate da parte solo le aree più deboli e depresse, come borghi rurali e montani che invece
sulle nostre forze. Specie in una fase difficile e delicata come questa, con le risorse a disposizione degli enti locali che sono sempre più scarse, c’è bisogno che il territorio si faccia sentire, che abbia una rappresentanza forte in grado di influire soprattutto nei tavoli decisionali che lo riguardano. Una rappresentanza che la Camera di Commercio può dare. Dal suo osservatorio di vice presidente nazionale di Unioncamere come vede più in generale le prospettive di ripresa del Paese? A dire il vero sono preoccupato. Tutti gli anni sento dire la parola “ripresa” nei primi sei mesi dell’anno, sento parlare di segnali positivi e poi, puntualmente, da giugno in poi i segni più si trasformano in segni meno. La ripresa ha senso se parallelamente si individuano degli elementi di discontinuità che possano davvero generarla. Arriverà se saranno fatte delle riforme fondamentali, sul fisco, sulla giustizia civile e per la Giovanni Lamioni semplificazione burocratica ed amministrativa che atavevano e hanno bisogno di un sotendiamo da troppo tempo. stegno forte, ma anche quelle zone Senza questi presupposti, la riforma con maggiore potenziale di sviluppo, è solo una parola buttata là. E conticom’è successo per la Maremma. nueremo ad avere a che fare con la Diciamo che l’esperienza ci ha inserecessione. gnato che dobbiamo contare di più Non potrò essere ottimista fino a
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quando non sarà alleggerita la pressione fiscale, fino a quando non saranno rigenerati i consumi interni, che rappresentano l’87 per cento del Pil, attraverso un irrobustimento della capacità di spesa degli italiani. A volte, poi, ho la sensazione che le piccole e medie imprese siano viste, in una logica di politica industriale, come un limite da superare, quando invece sono la vera risorsa del nostro Paese. E’ il nostro punto fermo di ripartenza, insieme alla valorizzazione del territorio. C’è chi sostiene che le Camere di Commercio siano da riformare profondamente, qualcuno vorrebbe eliminarle, lei pensa che abbiano ancora un ruolo e un futuro? Le Camere di commercio rappresentano un’eccellenza vera. In ogni Ente camerale sono rappresentati tutti gli spaccati socio-economici di una provincia, dalle imprese alle associazioni di categoria, dagli ordini professionali alle associazioni dei consumatori... Rappresentano un sistema virtuoso, ma dobbiamo porci con la logica che tutto si può migliorare. Per esempio ritengo che le imprese dovrebbero eleggere direttamente, senza filtri, il consiglio camerale. Credo anche che dovrebbe essere perseguita una razionalizzazione delle agenzie e delle aziende speciali. Detto questo, non credo assolutamente che valga l’equazione “camere grandi” - “camere funzionali”. Le Camere funzionano quanto più sono vicine alle aziende. Insomma, è utile qualificare e migliorare l’efficienza, ma ho la sensazione che questo tipo di esigenza, che viene dalla politica, sia più che altro una guerra interna tra Camere di Commercio grandi e Camere piccole. Se fosse
così, sarebbe davvero mortificante. Tutto parte da una riflessione: la vera ricchezza è nel protagonismo del territorio. Se pensiamo che la competitività stia nelle grandi dimensioni - e questo vale per ogni settore - abbiamo perso in partenza. Troveremo sempre chi è più ricco e più grande di noi. Sarebbe un errore clamoroso applicare una logica di area vasta, ad esempio, per la promozione. Nel confronto mondiale, l’Italia ne uscirebbe sempre come un Paese piccolo e povero. Al contrario se valorizziamo i nostri borghi, le nostre produzioni agroalimentari, i servizi offerti, le nostre eccellenze, allora sì che risulteremo vincenti e potremo veramente rilanciare il turismo e l’economia. E le Camere di commercio così come sono strutturate oggi hanno un ruolo insostituibile, rappresentando proprio la sintesi del protagonismo di ogni territorio. Lei è stato nominato dall’Ufficio di Presidenza Consigliere Centrale della Dante Alighieri. Significa che crede nella cultura per un rilancio economico? La cultura può e deve rappresentare un asset fondamentale di rilancio del Paese, ma dobbiamo capire che è e deve essere anche impresa, economia. Per troppo tempo la cultura, in Italia, è stata elitaria... grigia e triste. La cultura, invece, è gioia, animazione, dinamismo. Ribadisco: il nostro Paese, che ha due terzi del patrimonio storico culturale del mondo, non può essere solo al quinto posto come presenze di visitatori. E’ come una squadra di calcio che con 11 nazionali arriva quinta! Ma abbiamo esempi virtuosi in tal senso, come la Dante Alighieri, che è un’eccellenza italiana nel mondo.
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GRANDE DISTRIBUZIONE
L’AGROALIMENTARE TIRA Donatella Miliani
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HE L’AGROALIMENTARE “tiri” è dimostrato dal fatto che in Umbria una società come PAC 2000A (Perugia Acquisti Cooperativa 2000 Alimentari) dal 2012 risulta prima nella classifica per fatturato delle imprese regionali, addirittura davanti al colosso della Acciai Speciali Spa. PAC 2000A infatti si posiziona al vertice con 2 miliardi e 423 milioni di euro, seguita dall’industria dell’acciaio ternana che scende al secondo posto dopo oltre un decennio con 2 miliardi e 353 milioni (al terzo, stabile Coop Centro Italia con 654.650.000 euro). Dal podio delle società di capitali dell’Umbria, si evince dunque come l’acciaio sia stato superato dalla grande distribuzione. «Una bella soddisfazione» dice Danilo Toppetti, direttore generale di Pac 2000A da oltre dieci anni e consigliere di Conad nazionale. Un ulteriore sguardo ai dati fa emergere che anche nella gerarchia per utile netto, spicca PAC 2000A con 47.902.000 di euro in crescita rispetto all’esercizio precedente, seguita dall’altro colosso della grande distribuzione Eurospin Tirrenica con 24.437.666 euro e dal “re” del cachemire Brunello Cucinelli Spa con 22.484.000 euro. «Del resto - spiega Toppetti - siamo la più grossa cooperativa dentro il sistema Conad, rappresentiamo il 26 per cento delle quote nazionali». Il segreto del successo? «Una serie di componenti e soprattutto la squadra, efficiente, umile reattiva, flessibile, in grado di compattarsi ogni volta che c’è un’emergenza. Cosa fondamentale. Dentro ovviamente ci sono tutte le professionalità. E’ la stessa da tempo. Piano piano è stata integrata con nuovi importanti ‘innesti’. La filosofia di base comunque è sempre la stessa». Sia più esplicito. «Si lavora tutti con umiltà e semplicità di rapporti, con un’operatività molto rapida ed efficace. L’altro nostro punto di forza sono le risorse. Abbiamo avuto modo di accumularle nel tempo e ci danno grande capacità e libertà di azione, cui devono sempre corrispondere ovviamente i risultati. Il nostro puntare sul-
l’innovazione è un’altra caratteristica vincente. Le nuove tecnologie nel nostro settore sono fondamentali come ad esempio il sistema di gestione del price aziendale che ci porta un quadro giornaliero e settimanale di tutta la distribuzione. Abbiamo così modo di vedere in tempo reale cosa fa la concorrenza e reagire con le migliori strategie. Abbiamo capacità di integrarci sui territori dove operano i nostri soci, di adattarci alle esigenze locali e sviluppare politiche commerciali che consentano l’offerta con la filiera corta». Il rapporto con Conad nazionale? «Ottimo. Ci ha aiutato a fare il grande salto nella comunicazione e a sviluppare un format vincente sul territorio. In Umbria ad esempio, dove abbiamo la sede direzionale, siamo da qualche anno al fianco di Umbria Jazz. Una eccellenza umbra che veicola la migliore immagine nel mondo facendo del radicamento sul territorio, il centro storico in particolare, la sua carta vincente. Miglior Festival non potevamo scegliere». Ma che effetto le fa essere a capo di una società che fattura addirittura più delle Acciaierie di Terni? «Diciamo che è un segnale chiaro dei tempi. L’industria pesante non funziona più, è in grossa difficoltà. Io spero che in Italia si cominci a lavorare di più sulle nostre risorse: l’ industria agroalimentare e l’agricoltura danno prodotti che nel mondo si distinguono e che consentono l’export. Per non dire del turismo. Per noi ldi Pac 2000 A la crescita del fatturato e degli utili è quasi ‘naturale’, va avanti da 40 anni. Questo quindi non è un punto di arrivo ma di partenza verso altri traguardi». Largo alle assunzioni e ai giovani? «Per quello che possiamo sì - conclude Toppetti. Compatibilmente con la nostra struttura e la politica di riduzione dei costi. Il prossimo Iper in apertura a Perugia darà lavoro a circa 150 addetti Conad, più altri 400/500 nei negozi del centro commerciale. Ma non basta a colmare una domanda che è immensa: abbiamo già ricevuto migliaia di curriDanilo Toppetti cula».
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I dipendenti di un supermercato
LA STORIA DELLA PAC 2000A Nata a Perugia nel 1972 per superare il monopolio che i grossisti in quel periodo esercitavano sui dettaglianti, la Pac 2000A, sin da subito decide di aderire al Conad (Consorzio Nazionale Dettaglianti) di Bologna. Nel corso dei primi 20 anni progressivamente attraverso fusioni ed annessioni di altre cooperative si è espansa in tutta la regione. Il 1992 è uno degli anni chiave, in quanto in quell’anno, la cooperativa perugina rileva la cooperativa che rappresentava Conad a Roma, sull’orlo del fallimento. Nonostante le enormi difficoltà l’acquisizione si dimostrerà un successo che porterà a far lievitare fatturati ed esperienza. Nel 2000 con un’operazione simile PAC rileva anche la cooperativa che rappresenta Conad
in Campania e nel 2002 si spinge sino alla Calabria, ottenendo anche in questa regione risultati impensabili. Anche grazie a queste acquisizioni la crescita dei fatturati diventa esponenziale, praticamente raddoppiano ogni 5 anni, e nel 2012 PAC 2000A, con 2,4 miliardi di euro, diventa la prima azienda in Umbria per fatturato, superando multinazionali come la ThyssenKrupp, e, cosa non trascurabile, anche tra le primissime per utili. Il fatturato del Gruppo nel 2013, nonostante la crisi profonda che sta attanagliando il nostro paese, è stato ancora positivo chiudendo l’anno a 2 miliardi e 465 milioni di euro con un +4.5% sul 2012 Il numero dei supermercati al
31/12/2013 è : · 5 Iper (1 in Umbria 2 nel Lazio - 2 in Campania), 58 Conad Superstore (14 in Umbria – 21 nel Lazio – 22 in Campania – 1 a Lauria (PZ)). 360 Conad (49 in Umbria – 124 nel Lazio – 109 in Campania – 78 in Calabria. 220 Conad City (53 in Umbria – 55 nel Lazio – 80 in Campania – 32 in Calabria). 301 Margherita (88 in Umbria – 89 nel Lazio – 103 in Campania – 21 in Calabria). A questi vanno aggiunti i 180 Todis discount aperti in diverse regioni italiane Gli Addetti (Diretti +Indiretti + Addetti della rete) sfiorano le 14.000 unità. Nel corso del 2013 ci sono state (tra acquisizioni e nuovi associati) 33 Nuove Aperture che hanno occupato solo sulla rete 545 addetti.
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CAMERA ITALOARABA
LE GRANDI OPPORTUNITÀ Salvatore Giuffrida
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l mondo arabo è una realtà complessa e variegata che si estende dall’Atlantico, con il Marocco e Mauritania, fino al Golfo Persico e ai confini con l’Iran. Ventidue Paesi uniti dal fatto di essere un partner naturale per l’Italia, posta al centro del Mediterraneo e protesa verso sud come un ponte che collega Europa, Africa e Medio Oriente fino alla vicina Asia. L’organismo che collega il nostro Paese a questo enorme bacino è la Camera di commercio Italo-Araba. Creata nel 1972, riconosciuta dalla Lega degli Stati arabi, la Camera è l’ente più importante per le relazioni economiche fra Italia, Ue e mondo arabo; conta 180 soci ordinari e più di 1200 soci partecipanti italiani; svolge attività di formazione, informazione e partnership ma anche progetti e programmi congiunti: tra gli altri ha appena concluso un progetto misto sull’edilizia e ne sta iniziando un altro dedicato alla green economy. Con il presidente Sergio Marini parliamo dello stato dello scambio commerciale e delle potenzialità che il mondo arabo rappresenta per l’Italia. Presidente, il mondo arabo è un partner strategico per l’Italia? Lo scambio con i Paesi arabi è favorevole da molto tempo ed è in fase di crescita omogenea sul lungo periodo. Dall’inizio degli anni Novanta ha conosciuto una fase di crisi intorno al 2008, ma poi ha ripreso a crescere: e questo riguarda tutto il mondo arabo, composto da 22 Paesi, dal Marocco a Gibuti fino all’Iraq. Quali sono i numeri e il volume di questo scambio?
I dati complessivi del 2012 vedono un però il volume sta crescendo, siamo a export dall’Italia verso i 22 Paesi del un valore di un miliardo e 300 milioni. valore di 28 miliardi e 755 milioni, Teniamo conto che i 3/4 dell’export mentre le importazioni in Italia valgono italiano va a sei nazioni: il primo cliente 41 miliardi e 688 milioni. L’export è sono gli Emirati Arabi Uniti, dove in crescita del 16,7% rispetto al 2012, esportiamo per 5 miliardi e mezzo, un dato molto positivo se consideriamo poi l’Arabia Saudita, con un valore di che verso il resto del mondo l’export 4 miliardi, e infine i Paesi del Maghreb, italiano è cresciuto del 3,7% e verso Algeria, Libia e Tunisia, ciascuno con l’Ue è calato dello 0,7%. Nei primi oltre 3 miliardi. nove mesi del 2013, le esportazioni Quindi l’Italia ha un alto livello di italiane nel mondo arabo hanno ragpenetrazione in alcuni Paesi arabi. giunto un valore di 22 miliardi e 690 Questo vuol dire che il Made in Italy milioni, +10% rispetto allo stesso periodo del 2012. Un Paese dalle grandi potenzialità è l’Iraq perché cresce a un ritmo che ogni anno raddoppia. Già, l’Iraq ha una storia particolare e deve essere ricostruito. Quali altri Paesi rappresentano adesso le maggiori opportunità per le Pmi italiane? Bisogna considerare che adesso l’Iraq parte da valori di crescita molto bassi ma ricordiamoci che all’inizio degli anni Ottanta era uno dei primi partner dell’Italia. Poi lo scambio è diminuito per le ragioni che sappiamo e nel 2007 le esportazioni italiane hanno toccato un valore di 95 milioni, una quota Presidente CCIA Sergio Marini in Arabia Saudita veramente bassa. Ora
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ha ancora ampi margini di crescita... L’indice di specializzazione dell’Italia verso i Paesi arabi è il più alto del mondo e si attesta intorno all’8%. Per fare un paragone significativo, quello della Germania è al 3% e quello della Francia al 5,5%. In altri termini, circa il 55% dello scambio commerciale italiano è con Paesi europei, ma oltre il 20% dello scambio extraeuropeo è con i Paesi arabi. In merito alle potenzialità di crescita, pensiamo a Kuwait e Qatar:
nel primo caso l’export nel 2012 ha toccato quota 835 milioni, che non sono certo tanti, mentre col Qatar lo scambio sta aumentando e ha raggiunto un livello di un miliardo e 25 milioni. Insomma, si può puntare prioritariamente su questi Paesi che hanno una forte capacità di spesa. Principalmente che cosa esportiamo? E dove? La voce prevalente del nostro export è la meccanica. Nei primi anni del Duemila c’è stato un calo delle tre “a” del Made in Italy, arredamento, agroalimentare e abbigliamento, ma oggi abbiamo recuperato diversificando l’offerta e migliorando la qualità dei prodotti. L’export rimane più importante verso il Nordafrica che verso i Paesi del Golfo, che però rimangono molto più attrattivi per i prodotti di lusso. Per quanto riguarda le commesse, più o meno siamo in equilibrio. Il mondo arabo è, quindi, un partner naturale dell’Italia, per la sua posizione geopolitica. All’inizio dei Novanta l’export va-
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leva 5 miliardi, dopo il 2000 è arrivato a 12 miliardi fino a raggiungere quasi 29 miliardi nel 2012. Questo grazie alla vicinanza fisica dei Paesi, ma anche alla dimensione medio-piccola delle nostre imprese, per le quali è meno oneroso esportare in aree non troppo lontane. Infine negli ultimi anni i Paesi arabi, a parte qualche eccezione, hanno conosciuto una forte crescita economica, con tassi intorno al 4%. In un mercato sempre più “glocal”, dove l’aspetto globale si fonde con il locale, il Made in Italy continua ad avere grandi potenzialità. Che cosa manca per il suo decollo nel mondo arabo e che cosa sta facendo la Camera per favorirlo? L’Italia attrae poco per ragioni note: la lentezza della giustizia, burocrazia, diritto del lavoro, problematica fiscale. Inoltre il Pil è rimasto uguale a quello del 2000 e non è mai stata fatta una politica a lungo termine per attirare gli investimenti. Il nostro obiettivo è di unire le Pmi o per presenza territoriale o per filiera produttiva, in modo da avere maggiore presenza sul mercato, che oggi è fondamentale perché i mercati sono molto più agguerriti. Ma bisogna superare un tipo di capitalismo familiare. La crisi ha determinato un’attenzione maggiore verso i mercati esteri, manca però il credito bancario e questo frena molte iniziative. A breve organizzeremo una serie di missioni e abbiamo diversi progetti in piedi, inoltre stiamo cercando di creare fondi di private equity per finanziare operazioni congiunte e coinvolgere le nostre imprese.
PROGRAMMI ALITALIA
L’ITALIA IN ALTA QUOTA Ornella Cilona
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n un anno Alitalia ha guadagnato quasi due punti percentuali nel grado di soddisfazione dei clienti, arrivato all’81,6%. E circa quattro punti in quello dei servizi di viaggio, salito all’84,1%. A monte di questi risultati emergono il sensibile incremento della puntualità (ormai al 90,2%, decima nel mondo) e della regolarità (che sfiora il 100%) così come la cucina, l’uniforme, il costante interesse per i passeggeri da parte dell’equipaggio, che sono valsi alla compagnia tricolore i premi BizTravel per il miglior servizio di business class e la più bella uniforme dello staff nonchè il trofeo Global Traveler per la migliore offerta enogastronomica a 10mila metri d’altezza. L’aumento dei passeggeri e del load factor testimoniano che (assieme alla sicurezza e alla varietà dell’offerta di voli) i servizi non sono considerati aspetti secondari nella scelta del vettore aereo, sia pure più caro dei concorrenti low cost. Ma, oltre a favorire la crescita nel core business, la stima per una compagnia oggi può essere monetizzata e nel frattempo può consentire di allargare il ventaglio delle scelte per i clienti. Non solo quando volano. E’ per questo che un numero crescente di compagnie sta puntando sui servizi per i viaggiatori abituali e sulla loro “societarizzazione”. Una strada lungo la quale, ai primi del 2013, si è incamminata anche Alitalia. I problemi societari, e la tremenda crisi economica che ha fiaccato anche l’industria del trasporto aereo, non hanno permesso all’ex compagnia di bandiera di trasformare rapidamente il progetto in realtà ma oggi si può dire che Alitalia Loyalty, uno dei capisaldi del Piano industriale 2013/2015, sia, ormai, in grado di muoversi da sola. E, nel medio termine, di apportare un cospicuo contributo ai conti della Compagnia aerea italiana (la società madre che controlla al 100% Alitalia e al 100% Alitalia Loyalty), magari favorendo l’apporto di capitali esterni, liberi dai lacci e lacciuoli finanziari e giuridici nazionali e internazionali imposti agli investimenti diretti nelle compagnie
aeree. Operazioni finanziarie da realizzare attraverso, a esempio, la vendita di una quota di minoranza significativa per valorizzare una controllata che macina utili. O, più probabile al momento, la quotazione in Borsa, con una formula che possa gratificare gli iscritti, trasformandola in una public company del trasporto aereo, sulla falsariga del Real Madrid, la squadra dei tifosi, nel calcio. Anche perché, mentre nella popolazione e tra gli opinion leader italiani la compagnia (per ignoranza e/o malafede) è meno apprezzata di altre concorrenti, tra i soci del programma MilleMiglia, tra quanti la conoscono davvero insomma, lo è moltissimo. In quanto – sono le motivazioni più comuni - è sicura e affidabile. Permette di viaggiare in tutto il mondo in un ambiente italiano. Offre un servizio migliore della concorrenza. Rispetta gli orari. Affidata dall’amministratore delegato di Alitalia, Gabriele Del Torchio, a Lucio Attinà (avvocato di 42 anni che alla Ducati Motor Holding guidata da Del Torchio stesso era direttore generale dell’Apparel and Brand Development) la società controllata per sviluppare e valorizzare il Programma Millemiglia per i viaggiatori abituali della compagnia italiana è decollata in pochi mesi. E pare che nei conti del 2013 un sostanzioso apporto positivo alla casa madre arriverà proprio da Loyalty. La missione di Alitalia Loyalty è quella di facilitare l’accumulo e la spesa dei punti. L’obiettivo, di far crescere gli attuali 4,3 milioni di iscritti a Millemiglia, innescando un circuito virtuoso sulla vendita di biglietti e servizi. Per fidelizzare i clienti Attinà è deciso a valorizzare le eccellenze della compagnia, dal servizio alla cucina. A incentivare l’utilizzo delle miglia, favorendo destinazioni e periodi meno richiesti. A puntare sulla comunicazione via web e social network. Una svolta ha rappresentato la recente nascita della versione italiana di Payback, la colazione di programmi-clienti. Il programma permette ai clienti delle aziende (stimati in 22 milioni, 12 dei quali già iscritti ai singoli programmi) di accumulare e spendere punti presso qualsiasi partner.
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TASSAZIONI SPOLIAZIONI
C’ERA UNA VOLTA IL RISPARMIO Vieri Poggiali
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’era una volta….. Così principiavano abitualmente le favole d’un tempo. Un incipit che può essere utilizzato anche ora per ricordarci tutti di altri tempi, sì, ma in tema d’economia. E dunque : c’era una volta il risparmio, per esempio. C’era, abbondante, e con buone prospettive, nel nostro Paese. Gli italiani si contendevano coi giapponesi il pri-
mato su quale dei due popoli fosse in testa quanto a risparmio popolare via via cumulato soprattutto dalla gente comune. I risparmiatori erano portati in palmo di mano nella nostra penisola al punto che ogni anno, al 31 di ottobre, un’apposita festa li celebrava con vera e propria solennità. Avveniva magari in un’orgia di retorica, se vogliamo, che però aveva il pregio di mettere in luce un dato di fatto reale ed inoppugnabile : e cioè che i nostri connazionali sapevano accantonare quote rilevanti del proprio reddito, benché in quei tempi (non remotissimi, durati sino ad un
Ministero dell’Economia
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quarto di secolo fa, all’incirca) non vi fossero nubi all’orizzonte delle pensioni. Quanto a dire che il risparmio era davvero figlio di autentica virtù, prima che di precauzione se non necessità. La stessa nostra Costituzione dichiarava (e, ahimè, tuttora dichiara) al suo articolo 47 che la Repubblica tutela e protegge il risparmio, e ne incoraggia l’investimento (dunque in forma anche di sottoscrizione di azioni) nelle imprese del Paese. Il guaio è che di quelle tutele e proiezioni , e dei conseguenti incoraggiamenti, ora si è perduto il ricordo : ed è menzogna profonda conservarle nel testo del supremo strumento giuridico nazionale. Eppure, ecco un aspetto che si direbbe paradossale, di risorse e di reddito se ne produce ancora e in abbondanza (ma quasi non più anche di risparmio). Si pensi solo a quanto ci racconta la cosiddetta campagna assembleare, che a primavera di ogni anno tiene la scena per quelle circa 300 grandi società per azioni che sono il fondamento del mercato di Borsa e di cui costituiscono il listino. Non è che i “big” siano stati esentati dalla crisi, quando mai. Non hanno certo potuto esorcizzarla o sfuggirvi. Vi sono difatti tra le grandi società alcune che navigano in acque estremamente perigliose ancora, a partire dalle banche in particolare. Eppure, nell’insieme, per l’esercizio 2013 distribuiranno qualcosa come circa 12 miliardi di euro in dividendi, cioè in utili da erogare agli azionisti. I mesi nei quali si svolge l’erogazione agli azionisti della parte di utile netto distribuibile vedranno
una bella iniezione di liquidità, che si ripartirà fra diversi beneficiari : per cominciare, se ne prenderà direttamente una bella fetta lo Stato stesso si beccherà i dividendi di propria competenza diretta e poi il 20 percento (se non entrerà “illico et immediate” in vigore addirittura il nuovissimo 26 per cento !) sotto forma di prelievo fiscale su quanto spetta anche agli altri, quanto a dire a banche, società finanziarie, infine privati investitori risparmiatori. Vedremo fluire i dividendi di società (soprattutto nel campo delle utilities, vedi Eni, Terna, Snam, e di aziende operanti appunto in Mercati regolati, tipo Atlantia) che sarebbero in grado, in rapporto ai prezzi medi borsistici di febbraio-marzo, di dare fino a più del 6 per cento di rendimento. Un’altra trentina di società distribuirà dividendi che, sempre rapportati aritmeticamente ai prezzi medi misurati in Borsa tra febbraio e marzo, renderanno fra il 2 e il 3 per cento, con punte anche assai prossime al 4 per cento, da intendersi sempre al lordo naturalmente. Il 2013 è stato Palazzo dell’ENI
annata di crisi ? Come no, eppure taluni dividendi risulteranno superiori a quelli distribuiti per l’esercizio 2012, così come torneranno a metterne in circolo anche imprese che per uno o più anni avevano sospeso la ripartizione di utili netti ai soci. Lo Stato azionista avrà di che rallegrarsi, dunque. I risparmiatori investitori in azioni pure, teoricamente, ma qui occorre tornare a quanto già detto più sopra : e cioè che la loro condizione di tartassati comunque permane, ed anzi peggiora ; visto l’andazzo ormai in corso da tempo, e a marzo confermato, vòlto a voler succhiar sangue da quelle che l’ignoranza diffusa nella classe politica come nell’informazione insiste a voler chiamare “rendite finanziarie”. Rendita è un flusso di denaro di cui abbia a beneficiare un soggetto senza che aver dovuto in alcun modo
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sforzarvisi : ma quanto proviene da risparmio investito in titoli è tutt’altra cosa, perché chi ne possiede ha compiuto lo sforzo, non da poco, di risparmiare. E’ un reddito, dunque, e non una rendita. Il punto sostanziale vero è che chi risparmia e investe in titoli oggi è preso di mira in modi ingiusti e ingenerosi. Ma si consideri poi anche la mostruosa elevazione dell’imposta di bollo sui depositi titoli dei risparmiatori : prelievo che, un tempo di minimo livello fisso e quindi con carattere oggettivamente da considerarsi di tassa , nel 2011 venne tramutato in imposta fissata nello 0,10 per cento della consistenza , poi allo 0,15 nel 2012, infine nello 0,20 nel 2013. Una vera e propria imposta patrimoniale, ed anche pesante, che genera peraltro poi risultanze persino aberranti e paradossali. Un piccolo risparmiatore che voglia acquistare i pur scarsamente redditizi BoT ai mediocri prezzi correnti da mesi non ne ricava nulla, perché il peso del bollo gli divora l’entità della modesta cedola anche se questa dispone del privilegio d’essere comunque erosa da un 12,50 per cento soltanto, inferiore di gran lunga a quanto infierisce sui dividendi del capitale di rischio. Torniamo ad insistere allora un momento ancora
proprio su questo tipo di prelievo sui dividendi, che unitamente al bollo sui depositi concorre ad una vera e propria spoliazione del risparmio azionario. Dopo lunga e insistente circolazione di ipotesi, sollecitazioni, invocazioni addirittura (da sponde politiche e sindacali) perché s’andasse anche oltre , ecco che dal cappello da prestigiatore del nuovo governo sbuca un prelievo al 26 per cento. Un livello mostruoso, a spiegare il quale invano si cercherebbero motivazioni davvero fondate. Le orecchie di chi qui scrive hanno udito da un alto esponente dello staff economico del partito italiano dal quale promana il presidente del consiglio Renzi questa singolare considerazione, e cioè che per risollevare l’economia italiana occorrerà (fra altre cose) puntare sempre di più sulla formazione di risparmio previdenziale, a preferenza di una formazione di risparmio finanziario (quanto appunto a dire : embè, che c’è di male se si alzeranno i prelievi sulle “rendite” ?). Già, l’idea che il risparmio previdenziale debba potersi incrementare si configura come ottima e generosa aspirazione : ma, raccoltolo, dove lo dovrebbero poi investire gli enti prepostivi ? In allevamenti avicoli, con conseguente almeno parziale distribuzione di future pensioni sotto specie di uova ? Non sembri assurda tale amara ironia : ma se sistematicamente si dovranno ancora e ulteriormente saccheggiare i frutti di risparmio investito, si andrà scivolerà verso forme di sovietizzazione strisciante. Già il privilegio accordato ai tioli a reddito fisso del debito pubblico spinge in quella direzione, nonostante l’esiguità attuale dei rendimenti. La legnata al risparmio investito in valori azionari peggiora ulteriormente la situazione, e sconvolgerà gradualmente la
platea stessa dei superstiti piccoli investitori risparmiatori privati. Perché investire ancora in capitale di rischio, da parte di un risparmiatore normale, se lo Stato disprezzando gli sforzi fatti in materia dal cittadino si approprierà per diverse vie d’una parte francamente esuberante di ciò che un collocamento in azioni (quali quelle delle imprese menzionate dalla Costituzione) potrebbe e dovrebbe rendere ? V’è un rischio : ed è che siffatte scelte politico-economiche francamente così miopi tornino a dare luogo, da parte di chi volesse davvero difendersene, al proposito di fare uscire di nuovo risorse verso l’estero, altro che farne rientrare. Ma gli eventuali studi e ricerche di nuove formule e strumenti di salvaguardia del risparmio, ora virtuosamente riguardati come aberranti e antipatriottici qualche legittimazione morale l’avranno. Perché Fila davanti ad una banca come ben dicevano gli antichi romani, “vim vi repellere licet”, alla forza è lecito opporsi con la forza. Al risparmio azionario degli italiani oggi sottoposto a cannoneggiamento molteplice e progressivamente crescente sarà moralmente difficile negare il diritto, un diritto, alla difesa. Quali speranze realistiche di rilancio economico, produttivo e occupazionale, che dovrebbe avere sempre per protagoniste fondamentali le imprese grandi e piccole -ma dove le maxi sono pur sempre le trainanti , ciò che anche la campagna dividendi di quest’anno comunque conferma- : quali speranze dunque può nutrire un Paese nel quale il capitale di rischio viene visto sospettosamente anziché incoraggiato, il risparmio in titoli azionari preso letteralmente a calci nel sedere, e dove persino l’investimento in titoli del debito pubblico è oggetto in realtà di una beffa?
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UN SIMBOLO DEL FUTURO
LA MONETA DELL’EXPO 2015 Katrin Bove
E’
stato il World Money Fair di Berlino, la più importante fiera del settore numismatico, il palcoscenico per la presentazione in anteprima internazionale della moneta ufficiale di Expò 2015. Il 7 febbraio scorso si è svolta la kermesse mondiale che ha riscontrato un grande successo, ripreso da tutta la stampa specializzata e da molti media. Durante l’evento sono stati presentati esemplari già prodotti e alcuni prototipi, tra cui la “Grandi Dimen-
sioni”, la Eco Coin in metallo riciclato, le tipologie Oro, Argento, e Titanio colorato, oltre a sperimentazioni di card-coins intelligenti e di coniazioni speciali, come un abbinamento inusuale metallo-legno studiato per il settore degli operatori del legname, fino ad esemplari in metallo prezioso color rosa ispirati al progetto Expo 2015 “We Women for Expo”, la prima moneta rosa dedicata alle donne del mondo, curato personalmente dalla presidente Diana Bracco.
La versione speciale della moneta, di 15 centimetri di diametro, è stata consegnata ai due presidenti della World Money Fair, Hans-Henning Goehrum e Albert Beck. La Eco coin di Expò 2015, è stata realizzata dagli autori dell’Euro, Luc Luycx della zecca Reale Belga, e Laura Cretara, prima donna incisore al mondo e creatrice delle più belle monete della repubblica Italiana. Simboleggia l’unità dei continenti, mostrando su un lato il numero 1 ri-
La presentazione della Moneta Expo Milano 2015 da sin. Michele Cucuzza, Laura Cretara, Shelly Sandall, Sandro Sassoli e Arnaldo Acquarelli
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petuto cinque volte, e sull’altro, dove appare al centro il logo dell’Expò, le 5 foglie di altrettanti alberi peculiari di ogni continente. Sandro Sassoli, coordinatore generale per la licenziataria esclusiva Museo del Tempo del progetto Expò Milano 2015 Coin and Medal Program, spiega: “La moneta è un simbolo che rimane per secoli. E l’Expò Milano 2015 va intesa anche come un’occasione irripetibile in cui la numismatica deve mostrare l’eccellenza, con gli autori migliori e un connubio ideale di arte e tecnologia avanzata”. Il valore del conio, inteso come moneta vera, reale, rimane un segno tangibile ed immediato di sovranità nazionale, anche dopo circo 2800 anni di vita., se consideriamo che le prime monete della storia umana risalgono alla Lydia, attuale Turchia. Come rimane intatto il loro valore di “comunicazione” e di tesaurizzazione, nello specifico dei metalli preziosi, come l’oro che da sempre è il simbolo del prezioso ed eterno per eccellenza. La moneta Expò 2015 ha inoltre intrinseca la caratteristica di essere un gadget indelebile, perché coniato nel metallo sia esso nobile o meno e rappresenta un ricordo di un evento che in Italia manca del 1906, ossia da 109 anni. I “gettoni monetali” coniati al tempo per L’Expò milanese del 1906, hanno al giorno d’oggi una notevole quotazione di mercato. Il loro valore si aggira intorno alle 20.000 euro per le monete d’oro e dai 200 ero ai 500 euro per le coniazioni non preziose, a seconda della valutazione dello stato di conservazione di base del Catalogo Montenegro. Questa caratteristica di valore e tesaurizzazione legata alla moneta rimarrà per sempre un’esclusiva nel tempo, perché nessuna “moneta elettronica” potrà mai avere questa mera peculiarità.
Interessante sarà il prospettarsi di un connubio tra l’antico e il moderno che si presenterà durante la kermesse 2015 di Milano, viaggeranno in parallelo la card con il possibile inserimento di un chip oppure di un circuito RFID che può “dialogare” con l’area circostante, e l’inserimento del gadget-ricordo costituito dalla coniazione in se stessa. Oltre all’emissione ufficiale di Expò, è stata anche ideata una mostra dal titolo Di mano in mano, che raccoglie le monete di tutti gli Expò Universali del passato, da Londra 1851 in poi e rare testimonianze di monete antesignane dell’Euro che hanno avuto una circolazione a volte intercontinentale e sovrannazionale. Di notevole interesse potrebbe rivelarsi la proposta di un progetto di “Monumento” per l’Expò, ma che ancora ad oggi non ha trovato un riscontro concreto. Il progetto tratterebbe la realizzazione di un “Monetone” di grande diametro, ubicato nell’area di Rho o prospiciente il perimetro Expo. I 5 valori, un simbolo che unifichi tutti i “valori” espressi dall’Esposizione Universale per richiamare i cinque continenti. Una solida grande riproduzione della moneta in acciaio inox, dimensioni da 8 metri a 12 di diametro, sorretta da una robusta struttura come una sorta di elica del DNA. Ruotante ed illuminata secondo i canoni di energia da green economy. Rientrerebbe ovviamente nel Guinnes dei Primati come “ la moneta più grande del mondo”. Una tale opera costituirebbe il massimo in termini di promozione e visibilità sul progetto “moneta” Expò 2015, e rimarrebbe uno dei simboli forti legati al valore dell’evento, come ai tempi, per la Francia, fu la ormai famosissima, “Torre Eiffel”.
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ANSALDO STS Utile netto consolidato a 74,8 milioni di euro. Distribuzione di un dividendo pari a 0,16 euro per azione.
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nsaldo Sts è riuscita anche nel 2013 a dribblare la crisi. Nonostante il mercato principale di riferimento continui a crescere al rallentatore, afflitto dalla crisi delle finanze pubbliche internazionali, anche nei Paesi emergenti, che ha scatenato una guerra sui prezzi e non sulla qualità, punto di forza del la società italiana quotata ma controllata da Finmeccanica e, quindi, sia pure indirettamente, dal Tesoro. Considerazioni che sono alla base del dibattito e delle ipotesi di riassetto di Ansaldo Sts nel quadro della possibile concentrazione di Finmeccanica nei settori dell’aerospazio e difesa. L’esercizio chiuso il 31 dicembre scorso archivia un utile netto consolidato di 74,8 milioni di euro contro i 75,7 milioni del 2012. Va rilevato che le imposte sul reddito sono cresciute da 38,4 a 39,7 milioni. Questo risultato estremamente positivo, tenuto conto della congiuntura, ma di tutto rispetto
anche in termini assoluti, ha permesso al consiglio di amministrazione di proporre all’assemblea degli azionisti la distribuzione di un dividendo pari a 0,16 euro per ciascuna dei circa 180 milioni di azioni aventi diritto, al lordo delle ritenute di legge. Il valore complessivo dei dividendi proposti (pari a circa 28,8 milioni) risulta analogo, quindi, a quanto distribuito per l’esercizio 2012. Gli ordini acquisiti nel 2013 da Ansaldo Sts ammontano a 1483,6 milioni, in calo di appena lo 0,6% rispetto al 2012. Il portafoglio ordini, di conseguenza, è pari a 5601 milioni rispetto ai 5.683,3 al 31 dicembre 2012. Notizie molto positive arrivano, invece, dal fronte dei ricavi e del risultato operativo. I ricavi sono, infatti, aumentati dello 0,7% da un esercizio all’altro passando da 1247,8 a 1256,4 milioni. Il risultato operativo, detto anche Ebit (vale a dire il risultato ante imposte e ante proventi e oneri finanziari, senza rettifiche né
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poste irripetibili), è a sua volta cresciuto dello 0,9% da 117,1 a 118,1 milioni. La redditività operativa, detta anche Ros (vale a dire il rapporto tra risultato operativo e ricavi), si è confermata al più che apprezzabile 9,4% già registrato nel 2012. Al 31 dicembre scorso il capitale netto investito era pari a 238,9 milioni rispetto ai 167,2 milioni dell’anno precedente. Il capitale circolante netto è passato da un risultato negativo di 48,1 milioni nel 2012 a un dato positivo di 21 milioni nel 2013. La posizione finanziaria netta, infine, al 31 dicembre 2013 risultava negativa per 260,1, milioni, in decremento di 41,9 milioni rispetto al dato negativo di 302 milioni a fine 2012. Anche le spese per ricerca e sviluppo sono state abbastanza stabili, calando di un impercettibile 0,3% dai 32,3 milioni del 2012 ai 32 milioni del 2013. I dipendenti, invece, sono aumentati da 3991 a 4128. Giustamente soddisfatto il neo am-
ministratore delegato Stefano Siragusa. “L’esercizio è da considerarsi positivo e sostanzialmente in linea con le attese – commenta Siragusa – le consegne all’inizio del 2013 e il buon funzionamento nel corso dell’anno delle Metropolitane automatiche di Brescia e Milano, la messa in esercizio in Svezia del sistema di segnalamento Ertms sul progetto Ester, la consegna del primo apparato centrale sulla linea ferroviaria che collega Torino a Padova e, in ultimo, l’attivazione delle prime stazioni della metropolitana di Ankara confermano le poristive performance operative di Ansaldo Sts”. “In termini generali – sottolinea l’ad di Ansaldo Sts – il nostro mercato di riferimento continua a crescere a tassi annui tra il 2 e il 3%. A ciò, però, si accompagna una forte concorrenza sui prezzi, soprattutto nel business del segnalamento, a cui il gruppo risponde sia innovando e differenziando il proprio portafoglio prodotti, sia ricercando costantemente il miglioramento della propria efficienza ed efficacia operativa mediante appositi piani. E’ il caso dell’avvenuta riduzione dell’ i n c i d e n z a percentuale sui ricavi dei costi di struttura amministrativa e commerciale, pari a circa l’1,5%, nel corso degli ultimi cinque esercizi”. “E’ proseguita, quindi – conclude Sira-
gusa – l’azione manageriale di aggiornamento dei processi al fine di aumentare il grado e le capacità di governo e di controllo dei rischi del gruppo. Ed è stata, inoltre, aggiornata la struttura organizzativa per rispondere alle nuove esigenze del mercato e perseguire obiettivi di maggiore efficienza”. Tra i principali ordini acquisiti nel 2013 spicca il secondo lotto della Metropolitana di Riyadh, in Arabia Saudita, che vale da solo 511,3 milioni. Significativo è anche l’ordine per oltre 135 milioni acquisito dalla Metropolitana di Copenhagen. Per quanto riguarda l’esercizio in corso, volumi e profittabilità del business di Ansaldo Sts sono previsti in linea con quelli del 2013. In particolare, si prevedono acquisizioni di nuovi ordini tra i 1400 e i 1700 milioni, un portafoglio ordini tra i 5600 e i 6mila milioni, ricavi tra i 1250 e i 1350 milioni, un Ros intorno al 9,5% e una situazione finanziaria netta tra i 270 e i 300 milioni. A cura dell’Ufficio Marketing
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RENO DE MEDICI Un 2013 soddisfacente con quasi tutte le voci di bilancio in crescita. Il margine operativo lordo mostra un netto incremento arrivando a quota 38,2 milioni contro 27 di 12 mesi prima.
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he la crisi sia, ormai, alle nostre spalle non lo si può proprio dire e non soltanto per una questione di scaramanzia. La situazione generale è tuttora estremamente complessa e problematica, i mercati non sono ancora stabili e al riparo dai terremoti che li hanno scossi negli ultimi anni. E’ vero, però, che i primi segnali di ripresa hanno fatto la loro comparsa e che si stanno lentamente consolidando, per quanto con notevoli differenze tra i Paesi più solidi e quelli strutturalmente più deboli, sia nelle economie avanzate che in quelle emergenti. Un’evoluzione positiva riscontrabile anche, a livello europeo, nell’ambito del mercato del cartoncino patinato da imballaggio ottenuto da fibra riciclata, la cui domanda mostra una crescita costante. Un incremento che, su base annua, nel 2013 ha fatto segnare un +2,5%, con i volumi spediti che hanno superato (anche se di poco) i dati del 2011. In particolare, tali tassi di crescita appaiono positivi in tutti i principali Paesi dell’area Euro, com-
presa l’Italia (+1,6%), ma esclusa la Spagna. Una simile tendenza in Europa ha determinato, invece, una flessione delle vendite nei mercati “Overseas”, a minore redditività, con un conseguente miglioramento del mix geografico. Sul fronte del costo dei principali fattori di produzione, invece,
non si sono registrate significative variazioni. I prezzi delle materie prime, intanto, si mantengono stabili e anche il prezzo del gas naturale rimane inalterato, per quanto su livelli alti. In un simile contesto, Reno De Medici riesce a chiudere un 2013 più che soddisfacente, mettendo a segno una serie di performance notevoli che mostrano un tendenza alla crescita
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su più fronti e interrompono il trend negativo degli ultimi anni. Da più quarant’anni sul mercato, primo produttore in Italia e secondo in Europa di cartoncino ricavato da materiale riciclato, il gruppo archivia un 2013 con i ricavi netti in leggero aumento passando dai 466 milioni di euro di fine 2012 a 469 milioni. Le tonnellate vendute salgono da 843mila a 862mila e, in particolare, il secondo semestre dello scorso anno ha pienamente beneficiato dell’aumento dei prezzi di vendita deciso dalla società. Una scelta che ha permesso a Reno De Medici di recuperare quella marginalità che era stata via via erosa, a partire dalla seconda metà del 2012, dalla costante diminuzione dei prezzi. Nel frattempo, come già accennato, migliora anche il mix geografico, con la crescita dei volumi venduti sui mercati europei e il decremento delle vendite su quelli “Overseas”, a beneficio della marginalità. In questa situazione, tutti gli stabilimenti hanno lavorato al massimo della capacità produttiva. E se il costo del lavoro è in leggera crescita
nell’esercizio 2013 (passando da 72,4 a 73,3 milioni di euro) tale variazione va ricondotta soprattutto agli stanziamenti relativi al piano di ristrutturazione approvato nel marzo dello scorso anno e relativo alle unità produttive italiane. Sul fronte del margine operativo lordo, intanto, troviamo un risultato totale che, al 31 dicembre, è pari a 38,2 milioni di euro e mostra un significativo incremento rispetto ai 27 milioni registrati un anno prima. L’ebitda adjusted, invece, depurato delle poste non ricorrenti, o associate a stabilimenti la cui attività è stata sospesa o è cessata, raggiunge i 39,9 milioni contro i 32,9 milioni del 2012. Le immobilizzazioni fanno registrare una perdita complessiva di 5,2 milioni. Un calo dovuto principalmente alla svalutazione delle immobilizzazioni degli stabilimenti di Marzabotto e Magenta (la cui attività di produzione cartaria è cessata) e dello stabilimento spagnolo di Almazàn. Il risultato operativo consolidato, positivo per 8,5 milioni, appare anch’esso in fortissimo miglioramento rispetto al dato negativo per 1,5 milioni con il quale il gruppo aveva chiuso l’esercizio 2012. E, a conferma del trend positivo dei due trimestri precedenti, Reno De Medici conclude il
2013 con un utile netto che ammonta a 2 milioni di euro e che segna una chiara inversione di tendenza rispetto alla perdita di 12,2 milioni messa a bilancio dodici mesi prima. Al 31 dicembre dello scorso anno il gruppo ha sostenuto investimenti tecnici per 15,2 milioni di euro (in discesa rispetto ai 17,8 milioni del 2012) mentre l’indebitamento finanziario fa segnare un notevole miglioramento, passando da 86,3 a 73,5 milioni . L’inizio del 2014 non presenta variazioni significative rispetto ai primi mesi del 2013, sia per quanto riguarda lo scenario macroeconomico generale, sia riguardo alle prospettive reddituali del gruppo. Il livello degli ordinativi ed il backlog si confermano soddisfacenti mentre, sul fronte dei costi dei principali fattori di produzione, nell’immediato futuro non ci si attendono cambiamenti di rilievo. In conclusione, il 2014 dovrebbe vedere il consolidamento del processo di ripresa economica nell’area Euro ma l’evoluzione che è ragionevole attendersi sarà lenta e graduale e non priva di rischi e di incertezze soprattutto per i Paesi del Sud Europa. A cura dell’Ufficio Marketing
Cartiera Reno de Medici
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CREDITO BERGAMASCO Capacità di reazione dell’Istituto. Il risparmio gestito cresce del 14,5%. Confermata la distribuzione di un dividendo che rimane invariato a 0,55 euro per azione.
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onostante le difficoltà legate alla crisi che sta mettendo a dura prova anche il settore bancario, il Credito Bergamasco si conferma una realtà piena di risorse, oltre che un istituto decisamente radicato sul territorio, pur avendo ormai raggiunto una dimensione e un rilievo importanti a livello nazionale. Certo bisogna fare i conti con un periodo complicato, con il costo del credito che aumenta anche per il deterioramento della congiuntura economica e delle condizioni finanziarie della clientela “debitrice” ma il Credito Bergamasco ha sicuramente la forza di reagire e anche il bilancio chiuso alla fine di un anno complicato come il 2013 lo dimostra. A partire dai dati sulla raccolta diretta che si attesta sui 9.337,8 milioni di euro, attenuando un’inevitabile flessione che, però, non supera il 5,7%, rispetto ai 9.898,3 milioni del 2012. Sul versante della raccolta indiretta il calo è ancora più contenuto, appena il 2,3%, con l’indice che si ferma
a quota 9.427,1 milioni. Tra le componenti della raccolta indiretta, poi, il risparmio gestito arriva a 3.528,3 milioni, facendo segnare una significativa crescita del 14,5% sul dato di un anno prima. La raccolta totale da clientela totalizza 18.764,9 milioni complessivi, con un lieve decremento del 4% rispetto al 2012 mentre gli impieghi netti verso la clientela, a 11.502,1 milioni, calano del 2,9%. Le difficoltà attraversate dall’economia nazionale e locale continuano a riflettersi sulle evidenze relative ai crediti deteriorati e non a caso il complesso delle sofferenze lorde tocca i 782,3 milioni. Dopo le rettifiche di valore, le sofferenze si attestano sui 500,4 milioni, con un’incidenza sul totale dei crediti netti che sale al 4,35% dal 3,63% di fine 2012.
Una sede del Credito Bergamasco
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A l 31 dicembre 2013, il margine di interesse si ferma a 260,7 milioni, con una riduzione dell’11,9% rispetto ad un anno prima e gli utili/perdite delle partecipazioni a patrimonio netto non superano i 3,1 milioni. Il margine finanziario scende da 316,8 a 263,9 milioni mentre le commissioni nette da servizi si sono ragguagliate a 224,4 milioni, in flessione del 2,6% rispetto al dato di un anno prima. Bruno Pezzoni, AD Gli altri proventi/oneri all’esodo del personale. L’insieme di gestione netti, invece, salgono a degli oneri operativi, invece, tocca i 27,9 milioni (erano 12 milioni un 284,7 milioni, in discesa dell’1,9% anno e il cost/income si posiziona al 54,7% prima) e il risultato netto finanziario (49,8% su basi ricorrenti). Passando arriva a 4,4 milioni da un valore neal risultato della gestione operativa, gativo per 1,1 milioni registrato al troviamo un valore pari a 235,8 mi31 dicembre 2012. Gli altri proventi lioni, ovvero in diminuzione del operativi, con un valore pari a 256,7 12%. milioni, mostrano una crescita del Ma anche le imposte sul reddito, nel 6,4% sul risultato di dodici mesi prifrattempo, calano da 31,8 a 5,2 mima mentre la voce dei proventi opelioni, tenendo conto del fatto che rativi, nel suo complesso, raggiunge scontano l’effetto dell’applicazione i 520,6 milioni. una tantum al solo esercizio 2013 Le spese del personale, al netto dei dell’addizionale IRES (8,5%) pari a recuperi, fanno segnare 170,2 milioni 0,6 milioni e che sono influenzate e, nonostante la riduzione degli ordella novità introdotta dalla Legge di ganici, si mostrano in lieve crescita Stabilità per il 2014 ( e cioè la dedurispetto ad un anno prima. Una vacibilità, a fini IRAP, del costo del riazione che si spiega con l’impatto credito). L’utile netto si attesta a 11,4 degli accantonamenti di natura non milioni, a fronte dei 62,1 milioni di ricorrente a fronte di oneri per nuovi un anno prima. Tuttavia, tale dato, fondi di solidarietà e per incentivazioni
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al netto delle poste considerate di natura non ricorrente (che nel complesso hanno inciso negativamente sul risultato netto per circa 32,5 milioni, contro un impatto positivo di 6,8 milioni nel 2012) sale fino a 43,9 milioni, limitando il gap con l’importo raggiunto nel 2012 che, utilizzando gli stessi criteri di calcolo, non supera i 55,3 milioni. Al 31 dicembre 2013, infine, il Tier 1 Capital ratio e il Total Capital ratio raggiungono il 26,88%, a fronte del 25,32% di fine 2012. Anche per quest’anno il Credito Bergamasco ha deciso di proporre all’Assemblea degli Azionisti la distribuzione di un dividendo che rimarrà lo stesso del 2013, con 0,55 euro per azione e che sarà messo in pagamento il 17 aprile, con record date il 16 aprile e stacco della cedola fissato per il 14 aprile. Come linee guida per il 2014, fin dai prossimi mesi, tenendo conto dello scenario macroeconomico tuttora caratterizzato da forte incertezza, il Credito Bergamasco intende portare avanti una strategia che mira ad un costante rafforzamento dei rapporti con il territorio servito, al soddisfacimento dei bisogni (espressi e latenti) della clientela e al continuo sviluppo dell’operatività nelle aree di riferimento. A cura dell’Ufficio Marketing
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AUTOSTRADE MERIDIONALI Ritorno all’utile. Positiva per 138,16 milioni la posizione finanziaria netta, in miglioramento rispetto ai 131,95 milioni di inizio 2013.
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n contrazione i ricavi totali a quota 75,14 milioni così come i ricavi netti da pedaggio pari a 72 milioni in seguito all’effetto combinato di due ragioni: da un lato l’azzeramento a partire dal 2013 del provento relativo all’eliminazione del meccanismo della variabile X, stabilita dalla Convenzione Unica (cessazione dell’obbligo di accantonamento di una quota annua dei pedaggi e rilascio di una parte dei relativi fondi complessivamente accantonati al 31 dicembre 2008) quale integrazione dei pedaggi autostradali; dall’altro dall’aumento del traffico del 2013, in cui i transiti totali hanno registrato un aumento del 2,25% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In particolare l’incremento del traffico ha interessato sia i veicoli pesanti (1,66%) che i veicoli leggeri (2,31%), con un effetto positivo stimabile in 1,3 milioni. Alla luce dei risultati raggiunti il cda di Autostrade Meridionali (SAM) ha pro-
posto la distribuzione di un dividendo di 0,2 euro per azione: la cedola sarà staccata il 14 aprile e messa in pagamento il 17 dello stesso mese. Se il 2013 di Autostrade Meridionali è stato archiviato con numeri positivi resta ancora aperto il nodo della concessione per la gestione e manutenzione della Napoli-Pompei-Salerno – core business del gruppo SAM- scaduta il 31 dicembre 2012. Come è noto infatti la convenzione Unica tra Sam e Anas, sottoscritta nel 2009 è terminata il 31 dicembre 2012: in virtù di questo fatto è stato in seguito pubblicato da Anas il bando di gara per la riassegnazione della concessione trentennale della gestione della tratta autostradale in questione. Bando che prevede a carico del vincitore della gara medesima il subentro in
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tutti i rapporti attivi e passivi inerenti la concessione ad eccezione dei soli rapporti di natura finanziaria e l’obbligo di corrispondere in favore di Autostrade Meridionali l’ammontare del “diritto di subentro” determinato, in tale atto, con un valore massimo di 410 milioni di euro. In data 8 ottobre 2012, facendo seguito a quanto deliberato dal proprio cda, Autostrade Meridionali ha presentato la documentazione necessaria per partecipare alla gara in oggetto proseguendo allo stesso tempo (obbligata per legge) nell’ordinaria amministrazione dell’autostrada in concessione. La situazione si è provvisoriamente sbloccata in seguito ad un intervento, nel dicembre 2012 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che in vista della scadenza della concessione
ha disposto a Sam di proseguire, dal primo gennaio 2013 nella gestione della Concessione secondo i termini e le modalità previste della precedente convenzione. E così è stato. In attesa dell’esito della gara Autostrade Meridionali continua dunque a gestire la Napoli-Pompei-Salerno, una tratta di poco più di 51 chilometri, che attraversa peraltro una delle zone più densamente popolate della nostra penisola, e che convoglia il traffico merci e quello dei pendolari verso Napoli. Pur nella sua brevità dunque, un’arteria essenziale, che fornisce una prima valida indicazione sulla tendenza dell’andamento del traffico su gomma in Italia, il quale rappresenta –anche questo va ricordato - la modalità di gran lunga prevalente nel trasporto delle merci nel nostro Paese.
Ma torniamo al bilancio 2013 di Autostrade Meridionali: raddoppiato l’Ebit a 16,5 milioni rispetto agli 8,3 del 2012 principalmente per effetto del completamento dell’ammortamento nel 2012 dei diritti concessori immateriali. I costi esterni gestionali sono invece diminuiti del 44% a 12,6 milioni di euro in seguito alle minori attività di manutenzione effettuate nel 2013 rispetto al precedente esercizio, in relazione al fatto che nel corso del 2012 era stato sviluppato il piano di manutenzione dell’infrastruttura finalizzato alla riconsegna della stessa all’ANAS, in buono stato di conservazione, alla scadenza della Convenzione che aveva comportato un rilevante ammontare di interventi. Nel complesso gli investimenti realizzati nel periodo gennaio – dicembre 2013 ammontano a circa 32,7 milioni di Euro (di cui 11,3 milioni di Euro per lavori e 21,4 milioni di Euro per
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Pietro Fratta, Presidente
somme a disposizione): sono proseguiti e giunti a completamento diversi interventi quali il nuovo svincolo di Angri Sud e il lotto relativo alla stazione di Ponticelli ed è proseguita la realizzazione del piano di messa in sicurezza relativa di determinate aree autostradali. A cura dell’Ufficio Marketing
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BANCA CARIGE L’Istituto si concentra sulla strategia e sul nuovo piano industriale. Oltre 2 milioni di clienti tra famiglie, imprese e professionisti. Oltre 60.000 nuovi conti correnti sul territorio.
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n nuovo piano industriale che include un imminente aumento di capitale ed una forte ed efficace strategia commerciale. Questi i punti di forza con cui prosegue il cammino di Banca Carige, capogruppo del Gruppo Banca Carige, uno dei sei colossi bancari assicurativi e previdenziali italiani che conta più di oltre 1100 punti vendita e oltre due milioni di clienti tra famiglie, imprese e professionisti. Nonostante un contesto di riferimento ancora difficile a conferma della tradizionale efficacia espressa dal gruppo nell’azione commerciale, nei primi nove mesi del 2013 sono stati aperti infatti oltre 60.000 nuovi conti correnti sul territorio, (con un incremento netto di circa 9.000) ed il numero di prodotti posseduti per cliente è cresciuto da 3,98 a 4,02. Per quanto riguarda l’intermediazione del gruppo, la raccolta diretta retail, pari a 21 miliardi di euro, e aumentata del 2,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+0,8% nei nove mesi) mentre la raccolta istituzionale risulta in diminuzione del 36,9% nei nove mesi e del 31,3% nei dodici mesi, anche per la scadenza di titoli senior per 750 milioni ad aprile e di covered bond per 550 milioni a settembre 2013. Questi ultimi sono stati sostituiti con una nuova emissione di 750 milioni realizzata nel mese di ottobre. La raccolta indiretta rimane invece stabile a 22,8 miliardi, con la componente risparmio gestito di 10,5 miliardi (+ 4,6% nei nove mesi). Si conferma ancora una volta robusta la posizione di liquidita di Banca Carige con riserve liquide a breve per oltre 4 miliardi di euro. Entrando nel dettaglio delle attività svolte lo scorso anno, Piero Montani, AD
nei primi nove mesi del 2013 il gruppo ha continuato a concentrarsi su una politica di rafforzamento che si e focalizzata sul portafoglio crediti, anche in prospettiva dell’introduzione della vigilanza bancaria unica europea. In sintesi, le rettifiche di valore nette per il deterioramento di crediti e di altre poste finanziarie sono risultate pari a 415,1 milioni (135,8 milioni a settembre 2012): le rettifiche su crediti per cassa ammontano a 393,5 milioni (118 nei nove mesi del 2012), mentre sulle attivita finanziarie disponibili per la vendita sono state contabilizzate rettifiche per 13,7 milioni (20 milioni a settembre 2012) e, infine, le svalutazioni effettuate a valere sul portafoglio immobiliare del comparto assicurativo ammontano a 35,1 milioni. In seguito alla politica di continuo contenimento dei costi intrapresa negli ultimi anni dal gruppo, le spese amministrative (relative al personale ed altre spese amministrative) sono scese del 2,1 % rispetto ai primi nove mesi del 2012 e i costi e i costi operativi nel loro complesso (al netto della CIV e delle rettifiche di valore sul patrimonio immobiliare) del 6,22% a 479,2 milioni. In un contesto ancora difficile, il Gruppo ha comunque evidenziato una gestione ordinaria in sostanziale pareggio a conferma della tradizionale efficacia espressa dal gruppo Banca Carige nell’azione commerciale. Per affrontare al meglio uno scenario economico- finanziario che continuerà quindi a mantenersi critico, il Gruppo ha inoltre posto le basi per un nuovo Piano industriale in linea con gli indirizzi indicati dalla Banca d’Italia. Oltre a porsi come primario obiettivo il rafforzamento della propria posizione patrimoniale - da realizzarsi oltre che attraverso l’aumento di capi-
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tale da 800 milioni di euro mediante la dismissione di asset quali Carige Vita Nuova e Carige Assicurazioni- il gruppo ligure ha deciso di puntare al recupero della redditività della gestione caratteristica e al controllo dei profili di rischio. Innanzitutto il Gruppo concentrerà sempre di più i propri sforzi sul core business bancario: in particolare le leve di generazione degli utili saranno costituite da una sempre più efficace strategia commerciale ed efficienza operativa, ottenute attraverso il rinnovamento del modello distributivo e la semplificazione della stessa struttura organizzativa. Per quanto riguarda invece la ricapitalizzazione, Banca Carige ha di recente rotto gli indugi e ha avviato le attività propedeutiche all’aumento di capitale per il previsto rafforzamento patrimoniale da 800 milioni: in particolare
l’istituto ha già trovato e selezionato le banche del futuro consorzio di garanzia per tutto l’ammontare dell’operazione. La banca ha infatti già sottoscritto accordi con Mediobanca (in qualità di global coordinator e joint bookrunner), Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank e UniCredit (in qualità di co-global coordinator e joint bookrunner) e Commerzbank e Nomura International (in qualità di joint bookrunner). Il consorzio potrà essere inoltre allargato ad altre istituzioni finanziarie. Nel dettaglio le banche si sono impegnate a partecipare a un consorzio di garanzia per l’aumento di capitale delle azioni ordinarie di Banca Carige che non risultassero sottoscritte all’esito dell’offerta in borsa dei diritti inoptati, fino a un ammontare complessivo di 800 milioni. A cura dell’Ufficio Marketing
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BENI STABILI Il consiglio di amministrazione propone un dividendo pari a 0,022 euro per azione. Vale a dire la stessa cedola riconosciuta lo scorso anno. Buona performance.
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ncora buone notizie per tutti i possessori di azioni Beni Stabili. Il consiglio di amministrazione della società leader nel settore immobiliare ha deciso di proporre all’assemblea degli azionisti un dividendo 2014, pari a 0,022 euro per azione. Vale a dire la stessa cedola riconosciuta lo scorso anno. Il gruppo guidato da Aldo Mazzocco è infatti riuscito a mantenere inalterato il dividendo grazie alla buona performance messa a segno nell’anno che si è appena concluso. In particolare i ricavi 2013 della Siiq sono stati pari a 231,7 milioni di euro, l’1,5% in più rispetto ai 228,53 milioni realizzati nell’esercizio 2012. Buone notizie anche dall’utile operativo che è salito a quoAldo Mazzocco, AD ta 96,58 milioni di euro dai 95,83 milioni di euro dello scorso anno. In lieve calo infine l’utile netto ricorrente che si è attestato intorno a quota 74 milioni di euro. Numeri positivi, pur in questo periodo di mercato immobiliare difficile, messi a segno grazie alla qualità del
patrimonio immobiliare del gruppo, composto prevalentemente da immobili di prestigio locati a nomi famosi dell’economia italiana e all’attenta gestione operativa. Analizzando nel dettaglio l’andamento e le strategie messe in atto dal gruppo nel 2013, Beni Stabili si è concentrata ancora una volta sulle attività di rifi-
nanziamento del proprio portafoglio e di rafforzamento della partnership con i propri inquilini. In particolare nel 2013 l’attività di locazione ha generato nuovi contratti per circa 12.700 metri quadri, corrispondenti a circa 4 milioni di euro di nuovi ca-
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noni di affitto annui a regime; a questi vanno aggiunti altri contratti per rinegoziazioni su circa 61.000 metri quadri. Si segnala anche che nel corso del 2013 sono stati attivati nuovi contratti firmati prima dell’esercizio su circa 13.500 metri quadri, corrispondenti a circa 1,6 milioni di euro di nuovi canoni di affitto annui a regime e un contratto per rinegoziazione per circa 500 metri quadri a canoni in linea con i precedenti. Per quanto riguarda invece l’attività di vendita, nel 2013 sono stati stipulati 19 nuovi contratti pari a 58,2 milioni di euro e si sono chiusi 75,8 milioni di euro di preliminari esistenti a fine 2012, per un totale complessivo di 134,1 milioni di rogiti (gross selling price). Inoltre durante l’anno sono stati firmati nuovi contratti preliminari per 28,7 milioni di euro (gross selling price), che si vanno ad aggiungere a quelli già esistenti a fine 2012 e non ancora chiusi (9,1 milioni di gross selling price). A cura dell’Ufficio Marketing
COSTUME & SOCIETÀ DAI SALESIANI ALL’OSCAR di Laura Ricciardi
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a Jep Gambardella rinasce la speranza del cinema italiano. Proprio da lui che la sua vita l’aveva fondata sul nulla. Un fallimento, il suo, che ci è valso un Oscar e che ha fatto tornare gli italiani a credere in se stessi in uno dei periodi più ‘neri’ della loro storia. Paolo Sorrentino, regista del film ‘La grande bellezza’, premiato a Hollywood come migliore pellicola straniera, l’ha detto subito dopo aver ricevuto la preziosa statuetta: “Spero che questo Oscar serva da stimolo per il nostro cinema. Da troppo tempo facciamo solo film per il mercato locale”. Con lui sul red carpet la notte del 2 marzo colui che a Gambardella ha dato il volto e la voce, quel grande Toni Servillo che con molta naturalezza riesce a passare dal teatro al cinema e viceversa schivando il più possibile esibizionismi e riflettori. Per lui questo premio è “il marchio di un’italianità nobile” e rafforza l’immagine internazionale del nostro Paese, ma è anche il sogno diventato realtà di un ragazzino di Caserta che recitava nell’oratorio dei Salesiani pensando ai grandi palcoscenici. Non ne ha parlato la notte degli Oscar, ma pochi giorni prima, in un incontro con gli studenti alla Scuola Normale Superiore di Pisa, aveva risposto così a chi gli chiedeva della nomination appena arrivata: “E’ una cosa meravigliosa, ma per me ha soprattutto il significato di accorciare la distanza che c’è tra sogno e realtà”. E schivo come al solito ha declinato meriti e talenti: “Quando giravamo ‘La grande bellezza’ non potevamo
immaginare neanche lontanamente quello che sarebbe successo. Abbiamo lavorato con fatica e disciplina. Si deve fare così, poi, se le cose devono accadere, accadono”. E’ accaduto. A 15 anni di distanza da ‘La vita è bella’ di Roberto Benigni e per la tredicesima volta dal 1947 ad oggi, l’Oscar al miglior film straniero è ritornato in Italia. E non ci poteva essere momento migliore per infondere nuovo vigore alla produzione cinematografica nazionale. Merito di Paolo Sorrentino, si è schermito Servillo, grande amico e da sempre estimatore del regista napoletano. “E’ un regista straordinario che regala i suoi personaggi agli attori. Io ho fatto quattro film con lui: quattro regali”. E poi ha ricordato: “Quando ho letto la sceneggiatura de ‘La grande bellezza’ mi sono innamorato di Jep Gambardella e ho detto subito di sì. Lui è un cinico sentimentale deluso dal presente che dissipa il suo talento e lascia dietro di sè una serie di occasioni mancate. E anche se è vero che il personaggio è napoletano e le scene sono girate a Roma, la storia è internazionale”. “Il film è ambizioso, difficile, complicato”, aveva sottolineato Carlo Verdone nel corso di una trasmissione televisiva, poche ore prima della notte fatidica. Nella pellicola di Sorrentino lui interpreta Romano, scrittore teatrale senza né passato né futuro. “Roma serve solo da scenografia, in realtà il dramma è umano. Questo è un film sul deragliamento dell’uomo”. Dall’Italia un messaggio al mondo, dunque.
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Il regista Sorrentino alza l’Oscar
COSTUME & SOCIETÀ IL “CARAPACE” ENTUSIASMA
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EVAGNA - Migliaia di visitatori entusiasti ogni anno per il «Carapace», la splendida scultura-cantina firmata Arnaldo Pomodoro cui è stata richiesta dalla famiglia Lunelli (quella delle bollicine Ferrari) per la tenuta Castelbuono di Bevagna e inaugurata a giugno 2012. Un «tempio» del Sagrantino, la definisce Alessandro Lunelli amministratore della tenuta di famiglia in Umbria, terra che, spiega, «amiamo molto». «C’è qui un mix di cose meravigliose - sottolinea Lunelli, il cui quartiere generale è ovviamente Trento —. In primis l’offerta enogastronomica di assoluta eccellenza; c’è poi un paesaggio straordinario e variegato fatto di montagne, colline, laghi e tanto verde, e infine ci sono città d’arte bellissime. Se dovessi coniare uno slogan, promuoverei l’Umbria come la regione medievale d’Italia». E’ questa l’unica scultura-cantina al mondo? «Pare di sì. Rispetto ad altre cantine architettonicamente parlando bellissime, qui abbiamo un’opera d’arte che è anche una cantina. Il concept alla base è totalmente diverso. Si tratta di una scultura, l’unica realmente abitabile al mondo e per abitabile intendo un luogo in cui vivere, lavorare, degustare, mangiare». Ovvio, da un lato ci sono gli architetti, dall’altro c’è il progetto di un artista per il quale hanno gli architetti lavorato. «E tra l’altro mi piace ricordare che all’interno del Carapace viene prodotto un vino speciale che ha grandi potenzialità ancora non del tutto espresse: il Sagrantino». Come funziona la visita al
Carapace? «Visto che abbiamo deciso di scommettere su quest’opera abbiamo voluto lasciare aperta la cantina anche nei week end, cosa anomala in realtà nel nostro settore. Ma del resto la gente è libera nel fine settimana e così, sia pure con notevole sforzo stiamo registrando risultati ci danno ragione». La formula? «Semplice. Consiste in una visita guidata alla struttura che comincia dall’esterno con la visione della cupola in rame e un giro tra i vigneti che in questo periodo tra l’altro sono spettacolari per il viraggio del colore. Quindi si accede all’interno dove, insieme alla storia della nostra famiglia viene illustrata anche tutta la nascita e la realizzazione del Carapace con i suoi materiali particolari come il corten, il rame ecc. Chiude la degustazione finale». Più italiani o stranieri? «Un 30 per cento stranieri, il resto italiani. Siamo inseriti nel ciruito museale nazionale e regionale, capita che la gente approfitti dei voucher che sono presenti negli altri musei italiani di altissimo profilo con i quali si può accedere da noi gratuitamente. E chi ama l’arte non si lascia sfuggire l’occasione». Del resto il Carapace è stato selezionato per il Padiglione Italia all’ultima Biennale di Venezia a conferma dell’interesse che la struttura suscita nel mondo dell’arte internazionale oltre che nazionale. Ma il mercato del vino non è in crisi? «Diciamo che è in sofferenza ma che la previsione sugli andamenti futuri parla proprio di una richiesta su vini davvero speciali come il Sagrantino. Ecco perchè è importante farsi conoscere nel mondo». Don. Mil.
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