Architetti Livorno N_4_2015

Page 1

N.4_2015 N.4_2015

ARCHITETTI L I V O R N O

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


Presidente: Arch. Daniele Menichini Vicepresidenti: Arch. Sergio Bini Arch. Enrico Bulciolu Arch. Marco Del Francia Segretario: Arch. Iunior Davide Ceccarini Vicesegretario Arch. Simone Prex Tesoriere: Arch. Sibilla Princi Consiglieri: Arch. Simona Corradini Arch. Vittoria Ena Arch. Fabrizio Paolotti Arch. Guelfo Tagliaferro Segreteria: Barbara Bruzzi Sabrina Bucciantini Redazione: Arch. Gaia Seghieri Grafica e impaginazione: Arch. Daniele Menichini Pubblicazione a cura di: Ordine Architetti PPC Livorno Largo Duomo, 15 57123 Livorno Tel. 0586 897629 fax. 0586 882330 architetti@architettilivorno.it www.architettilivorno.it Copertina: Schizzi della Farnsworth House 1945/51 Mies Van Der Rohe

N.4_marzo_2015


Sommario. pagina 1

L’editoriale: Che fine ha fatto l’Architetto?

di Sergio Bini e Daniele Menichini pagina 3

Il controspot.

di Michelangelo Lucco pagina 5

Controeditoriale: Lettera agli Ordini e al Consiglio Nazionale APPC.

di Guelfo Tagliaferro e Daniele Menichini pagina 7

Appunti di viaggio: Krefeld. Casa Lange e Casa Esters - Mies Van Der Rohe. di Daniele Menichini pagina 11

Unconventional thinking. Nari Gandhi.

di Gaia Seghieri pagina 15

Dai distretti industriali ai distretti culturali. Strategie di sviluppo locale alternative. di Marta Niccolai pagina 19

L’età della pietra non è finita perchè sono finite le pietre.

di Roberta Cini pagina 21

Estetica ed etica.

di Roberto Idà pagina 25

La vignetta.

di Michelangelo Lucco pagina 27

Temporiuso. Manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono in italia. di Gaia Vivaldi

pagina 31

Baratti Pavillion. Sperimentazione e contaminazione. di Marco Del Francia pagina 35

Linguaggi contemporanei per valorizzare contesti antichi. Un’opportunità di valorizzazione.

di Marta Coccoluto


Che fine ha fatto l’Architetto? di Sergio Bini e Daniele Menichini

Da un bel po’ di tempo tutti quelli che fanno l’architetto si pongono la domanda sul “che fine abbia fatto” questa professione e per poterci dare una risposta aiutiamoci con un pò di numeri ... Gli ultimi dati, relativi al 2013, sul reddito medio dell’architetto parlano chiaro con i suoi 17000 euro lordi annui, gli architetti stanno diventando i nuovi poveri. Un dato che farebbe pensare che questo mestiere stia scomparendo, ma non proprio, visto che i dati, sempre relativi al 2013, dicono che il numero degli architetti è salito per la prima volta dopo 27 anni; siamo arrivati a 152.000, un dato impressionante rispetto alla Francia che ne conta 30.000 ed alla Germania con 100.000. La crisi che si manifesta dal 2007 ha portato, sempre nel 2013, alla riduzione del 41% delle progettazioni e ad un calo degli investimenti nel settore delle costruzioni del 26%. Numeri e dati che evidenziano chiaramente che il settore in cui operiamo continuerà ad assottigliarsi e che l’ingorgo che si è creato in questo imbuto continuerà in previsione della situazione economica che continua ad essere particolarmente contingente. Non possiamo certo fare riferimento solo ai numeri ed alla statistica, bisogna fare i conti con la certezza che la concorrenza diventa sempre più agguerrita, che non ci sono più i minimi tariffari che garantiscono il decoro della prestazione professionale, che la deontologia e le competenze sembrano essere spariti e che la riforma delle professioni del 2011, mal pagina 1

attuata, è diventata un onere ancora più pesante per ciascuno di noi insieme alla riforma della previdenza del 2012. Una fanghiglia, per usare una metafora, in cui ognuno di noi è immerso fino alla gola e che vede la soluzione per uscirne sempre più lontana ... ma se ci interroghiamo su che cosa ognuno di noi, in prima persona, ha fatto per cambiare la situazione, non so quali risposte si riesce ad ottenere; molto probabilmente è più facile pensare che la colpa sia solo del sistema, solo della crisi, solo delle università che sfornano architetti senza limite, solo dei clienti che non pagano, ... invece è necessario iniziare a prendere coscienza che è importante fare i primi passi non vedendo l’architetto della porta accanto come un concorrente o un nemico, ma come una risorsa con cui fare sinergie per riappropriarsi culturalmente del nostro ruolo, ognuno deve fare un passo avanti verso la comunità degli architetti e lottare affinchè, come negli altri paesi europei, il nostro mestiere ritorni ad essere riconoscibile e ritorni a ricoprire la sua importanza nella società. Il nostro è sempre stato un ruolo fondamentale che la contingenza economica ci ha fatto scordare perchè siamo più mpegnati a contare i pochi spicci che ci sono rimasti nelle tasche ... dobbiamo ricominciare a respirare aria nuova, anche se è difficile, ed avviare un processo di auto-riforma in cui non si può lasciare che le governance di vario livello politico, per proprio lustro, riconducano tutto ad una finta semplificazione che si conclude con uno spot pubblicitario dal titolo “E’ casa tua, decidi

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


L’editoriale tu”; come distruggerla al meglio aggiungerei.. Da dove ripartire allora? Primo: l’architetto è sempre esisitito e sempre esisterà finchè ci sarà l’uomo. L’architetto è esistito ancor prima che la geometria diventasse una scienza. Ci sarà sempre bisogno di abitare gli spazi, di migliorarli, adattarli, mantenerli; è un bisogno antropico imprescindibile. Secondo: non tutti possono fare l’architetto. A dispetto di quanto questa società tende a far credere, non basta un programmino magari 3d con i mobili precaricati per farsi il progettino da soli. Le persone normali o i tecnici di altro tipo e/o livello non riescono a visualizzare un granchè. L’architetto è l’unico formato per avere una visione d’insieme, l’unico che riesce veramente ad immaginare soluzioni nello spazio, che si tratti di una libreria, di un ripostiglio o di un grattacielo. Quante volte ciò che a noi sembra così banale, diventa una chimera per gli altri che spesso guardano con invidia e fare sminuente a questa nostra capacità, della quale però in gran segreto hanno tremendamente bisogno. La nostra “visione” è la nostra merce più preziosa e non si trova da nessun’altra parte. Terzo: riesci ancora ad immaginare? Se ti sei rassegnato da tempo a sapere a menadito innumerevoli norme, e hai difficoltà a riprendere la matita in mano per uno schizzo di qualsiasi tipo, ti sei abbassato di livello autonomamente. Lavori ordinari come manutenzioni di facciate, tetti, sanatorie etc. Sono forse per la maggior parte di noi il pane quotidiano, ma quanti, di tanto in tanto, non prendono in considerazione di

partecipare ad un concorso ad esempio? Perchè non si guadagna niente si pensa, in realtà vi renderete conto che si guadagna molto di più. Quarto: Si vende solo il bello. Non ci scordiamo che qualsiasi progetto di nuova costruzione, ristrutturazione o altro, eseguito perfettamente secondo le norme più aggiornate (si aggiornano sempre più spesso per cercare di standardizzare sempre di più tutto e tutti), non viene venduto se non è spazialmente ed esteticamente appagante. Tutto l’universo che ruota intorno ad una costruzione, (imprese, impianti, fornitori, norme, decreti, regolamenti urbanistici ed edilizi, oneri, notai e chi più ne ha più ne metta) si blocca se il risultato è brutto e/o banale. Oggi molto più di ieri, il fattore estetico funzionale è una discriminante per avviare un investimento, e questo binomio alberga solo nella mente dell’architetto. Noi siamo l’unica figura tecnica in grado di vendere sogni e garantirne la realizzabilità. In conclusione, avere la ferma convinzione che senza un livello culturale e tecnico di elevata qualità, che deve essere sempre affinato e migliorato, l’architetto non trova collocazione come figura professionale ma si appiattisce sempre più su livelli e figure tecniche di spessore inferiore, confluendo in quel marasma professionale nato da quasi un secolo di norme equivoche italiane. Il primo passo verso il futuro della professione è avere tutti, senza esclusione alcuna, la consapevolezza del valore del nostro contributo alla categoria ed alla collettività intera. pagina 2


Il controspot. di Michelangelo Lucco

pagina 3

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


pagina 4


ela

Lettera agli Ordini ed al Consiglio Nazionale APPC. di Guelfo Tagliaferro e Daniele Menichini

Le norme a tutela dei liberi professionisti esistono ancora; basta non dimenticarsene, e chiedere che vengano applicate con buonsenso e coraggio. Abbiamo preso spunto da un articolo del Direttore di Legislazione Tecnica, Dino de Paolis, per commentare gli ultimi episodi di una vicenda, che non può più vederci passivi e silenti: la progressiva distruzione delle professioni tecniche in Italia. La recente sentenza del Consiglio di Stato, la n. 238 del 22/01/2015, che nega legittimità all’introduzione di una regola deontologica che ancori il compenso al decoro della professione, come anche l’ormai tristemente celebre spot governativo sulla semplificazione delle pratiche edilizie, che fa passare i professionisti quasi come dei parassiti, degli scorretti produttori di scartoffie inutili, intenti solo a far lievitare le parcelle, sono solo due gocce che colmano la misura nel quadro paradossale che si va formando. L‘ articolato processo di “riforma delle professioni”, che ha preso avvio con il D.P.R. 137/2012 e col conseguente adeguamento degli ordinamenti e dei codici deontologici delle varie categorie professionali, è permeato dai principi (purtroppo pedissequamente applicati) derivanti dall’Unione europea; principi che assimilano (inopinatamente) i liberi professionisti alle imprese commerciali; tant’è che la Direttiva 2011/7/UE definisce “imprenditore: ogni soggetto esercente un’attività economica organizzata o una libera professione” !!!! Da ciò è derivata l’applicazione, al mercato delle libere professioni, dei medesimi pagina 5

principi che governano l’attività delle imprese (concorrenza sleale, tutela del consumatore, libera circolazione delle prestazioni di servizi, ecc.), con conseguente nostro smarrimento nel vedere improvvisamente non più riconosciuti quei valori che ci hanno formato professionalmente e ai quali abbiamo ispirato da sempre la nostra vita professionale. Anche la progressiva abrogazione delle Tariffe professionali, è una diretta conseguenza della qualificazione dei professionisti come “imprese”, abrogazione iniziata, prima ad opera del “decreto Bersani” (D.L. 223/2006, conv. L. 248/2006) che si era limitato a cancellarne il carattere di “minimi inderogabili”, e successivamente ad opera del D.L. 1/2012 (conv. L. 27/2012) che ha abrogato del tutto le Tariffe, ed ogni riferimento alle stesse. D’accordo che noi non possiamo certamente pensare di tornare indietro o di correggere la linea del Legislatore europeo, e quindi delle leggi nazionali, siamo consapevoli che anche il nostro paese deve adeguarsi alla realtà ormai consolidata nelle più importanti nazioni europee, con la quale i professionisti e le loro Istituzioni dovranno imparare a convivere. Ciò nondimeno possiamo rimanere ancora inerti! Adesso, o mai più, dobbiamo organizzare una mobilitazione generale per far conoscere, a chi di dovere, anche il nostro punto di vista, ed imporre con dignità, accanto alla tutela dei diritti del consumatore, sacrosanti, il rispetto dovuto al decoro ed all’onore di una categoria professionale che molto ha dato nel passato e molto avrebbe ancora da dare, a

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


rotideortnoC supporto della crescita economica e morale del Paese. Noi abbiamo il diritto/dovere, e la urgente necessità, di formare una autorevole rappresentanza nazionale, che abbia la sola missione di manifestare, presso Istituzioni e forze politiche, come la mera applicazione che Giudici ed Autorità di vigilanza stanno facendo delle nuove norme – che sono di discendenza europea - in materia di compensi ai liberi professionisti, sia priva di buonsenso ed in spregio ad aspetti a cui l’ordinamento ancora in vigore riconosce invece dignità e indispensabili tutele. Non può più essere messo in discussione che il professionista che richiede un compenso inadeguato o non decoroso, oltre a non poter offrire un servizio adeguato, reca danno e porta discredito all’intera categoria cui appartiene, e danneggia l’attività dei colleghi tutti, e deve essere riaffermato il principio, che valutare, e se del caso, sanzionare tali comportamenti costituisce, fuori di ogni dubbio, compito precipuo ed inalienabile degli Ordini e dei Collegi professionali, coi neonati Collegi di Disciplina. Non riconoscere questo significa svuotare di ogni significato il ruolo fondamentale di queste Istituzioni, lasciando le categorie dei liberi professionisti prive di qualsiasi forma di tutela, quasi non fossero degni di considerazione analoga a quella che invece viene ampiamente riservata al “mercato” - di cui essi stessi fanno parte - ed al “consumatore”. Dal momento , poi , che norme ben

radicate nella nostra cultura giuridica, come il Codice Civile e le leggi istitutive dei vari ordinamenti professionali non sono stati abrogati, appare altresì inaccettabile che per gli Ordini e Collegi professionali sia ormai acquisita, nella Giurisprudenza e nelle varie pronunce dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la definizione di “Associazioni di imprese” con la ovvia conseguente censura di qualunque sia pur vago e indefinito riferimento a parametri atti a valutare la corretta, e congrua, entità del compenso professionale. Si deve allora far porre l’attenzione al fatto che le leggi istitutive degli ordinamenti professionali (ancora vigenti !!) sono poste, appunto, principalmente a tutela della funzione e del ruolo dei liberi professionisti, e che, in particolare, nel Codice Civile, al Titolo III – “Del lavoro autonomo”, Capo II - “Delle professioni intellettuali”, ” l’art. 2233 - Compenso recita: “…. In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”. Questi due parametri, “adeguatezza” e “decoro” sono stati ampiamente ripresi da, praticamente, tutti i nuovi Codici Deontologici, al fine di valutare le correttezza del comportamento del professionista. Se Giudici e Autorità varie non sapranno soppesare con equilibrio i vari aspetti, compresi quelli qui trattati, nell’applicazione dei principi recentemente introdotti, usando maggiore buonsenso, e tenendo conto della nostra realtà produttiva e delle altre norme prima citate, non si farà altro che continuare ad affossare sempre più risorse, professionalità e competenze. pagina 6


Appunti di viaggio: Krefeld

Casa Lange e Casa Esters - 1927/30 - Mies Van Der Rhoe di Daniele Menichini Lo scorso novembre mi capita l’occasione di dover programmare qualche giorno di lavoro in Germania a Mannheim e a Colonia e così, come al solito, vedo di decidere se mi posso concedere un giorno in più per poter andare a visitare qualche cosa di interessante nella patria del Bauhaus. Non avevo dubbi sul fatto che di cose da vedere tra le due città ce ne fossero fin troppe, ed alla fine per incastrare tutto nel programm riesco a trovare due opere di Mies Van Der Rhoe a Krefeld vicino a Colonia: Casa Lange e Casa Esters, costruite tra il 1927 ed il 1930. Inizio quindi a documentarmi leggendo un po’ la storia di queste due case, così da non trovarmi impreparato durante la visita che avrei fatto la domenica pomeriggio; si tratta di due case quasi gemelle commissionate al grande maestro dell’architettura moderna da Hermman Lange e Josef Esters, proprietari delle industrie tessili di Krefeld, che avevano da poco visto l’ultima opera in mattoni realizzata per Erich Wolf, ma che avevano già affidato a Mies ed a Lilly Reich, un edificio industriale per alcuni allestimenti temporanei per l’unione dei tessitori della seta. Oggi le due case, come molte opere del perido, sono di proprietà della municipalità di Krefeld e sono state trasformate in galleria d’arte moderna. L’idea di base, del maestro, fu quella di elaborare due case quasi simili nella pianta ma adattate alle diverse esigenze delle due famiglie, mantenendo però l’idea di base che fosse evidente, e preponderante, il rapporto con la natura del grande parco sul retro, ed è così che la casa sul fronte sembra un edificio abbastanza normale e dotato di finestre di misura tradizionale, ma che sul retro diventano aperture grandissime che si affacciano direttamente sul parco o sulle numerose e grandi terrazze del piano superiore; una scelta questa legata al fatto che le due case si affacciassero sulla pagina 7

strada, se pur arretrate, e non avessero viste panoramiche d’eccellenza come la Casa Wolf ad esempio. Casa Lange e Casa Esters si presentano come due grandi elementi in mattone rosso scuro e caratterizzate da una intersezione ed aggregazione di volumi cubici, i cui spessi muri assumono, però, una configurazione molto insolita e diversa dalle architetture della stessa strada e della stessa epoca, ed al tempo era difficile credere che in questi grandi muri si potessero ricavare delle aperture così larghe ed alte senza metterne in pericolo la struttura; la casa sembra quindi essere apparentemente in muratura portante, ma, in realtà, è basata su telai in metallo che consentono di stravolgere il concetto del rapporto tra il pieno ed il vuoto delle facciate. Oltre questi pochi concetti teorici che si trovano sui libri e sulle riviste di architettura che parlano del regesto delle opere di Mies Van Der Rohe, è stato molto importante capire come questi fossero stati applicati al progetto ed alla costruzione, visitando le due case senza chiedere la disponibilità di una guida. La mia visita inizia dalla Casa Lange, una casa nella quale si entra da una grande porta d’ingresso a tutta altezza in ebano rigato, ed in cui si trova un piccolo spioncino in vetro satinato che consente di vedere chi è alla porta con un semplice movimento; fin da questo elemento si capisce quale fosse l’attenzione per il dettaglio del grande maestro. Immediatamente dopo essere entrato sono stato proiettato in uno spazio libero e rigido allo stesso tempo, in cui gli spazi delle zone giorno si susseguono l’uno dopo l’altro, e possono essere facilmente chiusi e modificati dalle grandi porte scorrevoli o a libro; uno spazio in cui si percepisce fin da subito la vista del parco attraverso le grandi aperture, ed in cui la luce diventa un elemento forte e che può essere schermata da tende scorrevoli verticali. Molto

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


interessante ed all’avanguardia, per l’epoca, la soluzione tecnologica che consente di premere un pulsante, sulla bellissima pulsantiera in ottone vicino alla finestra, e consentire che la vetrata sparisca nel pavimento, lasciando così la possibilità che gli ambienti interni siano immediatamente a contatto con quelli esterni, trasformando la casa in un grande portico. Purtroppo è un peccato visitare la casa trasformata in galleria d’arte e senza gli arredamenti, ma sono stato poi avvicinato da una guida, che mi ha visto molto interessato, e che mi ha detto che gli arredamenti sono tutti stivati nella grande cantina al piano seminterrato dei garages, e che per una settimana all’anno vengono riutilizzati per allestire tutti gli ambienti nel loro complesso; una settimana in cui la casa è aperta ad una grande festa a cui possono parteciparte tutti

gli architetti del mondo. Parlando un po’ con la guida e raccontandogli che ero architetto, ho avuto modo di farmi aprire anche alcune stanze che normalmente sono chiuse, come la grande cucina al piano terra, i bagni delle camere al primo piano, la meravigliosa stanza per lo sviluppo delle foto di una delle figlie di Lange e le stanze della servitù. Il primo piano è dedicato alle molte camere della famiglia numerosa di Lange, tutte con terrazze ed affacci sul lato del giardino, e che sono servite da un corridoio finestrato sul lato della strada, e che ha la caratteristica di avere una altezza più bassa, in modo che sopra sia stato possibile ricavare le finestre per l’illuminazione e l’areazione dei bagni. Anche in questi spazi, se pur non arredati, è stato possibile percepire la maniacale cura per il dettaglio, come le plafoniere incassate, pagina 8


pagina 9

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


affinchè i punti luce dell’illuminazione notturna non fossero oggetti estranei al concept generale. Finita la visita della Casa Lange dopo essermi intrattenuto a lungo con la simpatica guida, che mi ha fatto vedere molte foto originali dell’epoca che ritraevano gli ambienti arredati dal maestro, sono uscito, e attraversando il parco, per percepire l’architettura in rapporto con questo importante spazio, sono arrivato fino alla contigua casa Esters, che, come già detto, è molto simile all’altra, quasi gemella, ed in cui si entra da un portone esattamente uguale all’altro, ed in cui si ha la stessa identica impressione di essere proiettati immediatamente in spazi molto alti e liberi che si rincorrono e che sono permeati di luce, ma che allo stesso tempo possono essere facilmente isolati dalle pareti mobili. A differenza di Casa Lange, nella Casa Esters le vetrate sono sempre molto ampie e schermate dall’interno, ma non hanno la possibilità di essere nascoste nel pavimento perchè di fatto questa casa non è dotata degli spazi interrati; questo dettaglio sia della minor dotazione tecnologica che della minor disponibilità di spazi di servizio al piano interrato, evidenzia che pur essendo soci, Lange ed Esters, ricoprivano una carica diversa all’interno dell’industria tessile di loro proprietà. Anche in casa Esters tutti gli spazi dedicati alla vita diurna si trovano al piano terra, ed al piano primo trovano collocazione gli spazi dedicati alla famiglia per la zona notte; purtroppo al piano superiore era in allestimento una nuova mostra di arte contemporanea, e quindi non ho avuto la possibilità di vedere gli spazi se non nelle foto che mi ha fatto mostrato il custode. Casa Lange e Casa Esters sono opere molto imponenti in cui la grandiosità dello spazio ed il lusso prendevano una forma contemporanea, in cui si nega ogni fronzolo ed ogni ricciolo, e la cui riuscita è legata solo al sapiente dosaggio di linee, materiali e luce ... less is more. Spero di poter ritornare a visitare queste due case nella settimana dedicata al pagina 10


Unconventional thinking. Nari Gandhi. di Gaia Seghieri Da quando ho iniziato a scrivere articoli per il nostro giornale, ho intrapreso, allo stesso tempo, una ricerca su internet, di quelli che possono essere architetti, o comunque personaggi non conosciuti legati al vasto mondo dell’architettura. Gli architetti, designers, urban designers, che hanno tracciato, e che tracciano tutt’ora, una forte influenza ed un forte cambiamento nel campo dell’architettura, non sono solo quelli che troviamo sui testi di storia dell’architettura o le così dette “archistar”. Esistono, e sono esistiti architetti e designer, uomini e donne, che sono riusciti a carpire il vero significato dell’architettura, ovvero un mezzo una disciplina che semplicemente avvicina alle persone, e cioè a tutti, a tutti noi, architetti e non, che viviamo l’architettura quotidianamente. Ogni esperienza della nostra vita di tutti i giorni avviene in un posto, in un luogo, in un edificio, l’architettura è la quotidianità, l’architettura è tutto ciò con cui abbiamo a che fare durante la nostra giornata: abitazioni,

pagina 11

ospedali, luoghi di culto, mercati, biblioteche, giardini e parchi pubblici, ristoranti, negozi, aeroporti, stazioni ferroviarie, parcheggi e così via discorrendo. Sulla vasta enciclopedia telematica che internet ci mette a disposizione, è possibile scoprire la biografia di architetti veramente interessanti, persone che hanno compiuto veri e propri viaggi progettuali nel mondo della creatività, delle risorse e delle capacità umane. Sono state persone che non hanno semplicemente seguito un filone speculativo dell’architettura e del contesto dell’abitare , ma che sono riuscite a mantenere il legame più importante tra la loro professione ed il costruire, la creatività, e questo nonostante i periodi storici difficili, basti pensare alle due guerre mondiali ed a conflitti odierni, nonostante la mancanza di mezzi materiali, nonostante i limiti imposti da regolamenti e situazioni politiche oppressive. Persone coraggiose e distaccate dal giudizio sociale esterno.

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


“... la realtà dell’architettura non è contenuta nel tetto e nelle pareti, ma nello spazio all’interno. È lo spazio che è” - Nari Gandhi Nariman (Nari) Dossabhai Gandhi o Nari Gandhi, nato nel 1934 in Surat da una famiglia Parsi-Zoroastriana di Bombay, è stato un architetto indiano, conosciuto per i suoi lavori altamente innovativi nel campo dell’architettura organica. Nari ha completato i suoi studi alla scuola di St. Xavier in Mumbai, e studiato architettura al Sir J.J. College di Mumbai per cinque anni negli anni cinquanta. Si è poi trasferito negli Stati Uniti d’America, per svolgere un periodo di apprendimento di cinque anni al Taliesin, l’allora abitazione e scuola di architettura di Frank Lloyd Wright. Dopo la morte di Wright, avvenuta nel 1959, Nari lascia il Talesian e si dedica alla conoscenza ed alla lavorazione della ceramica al Kent State University per circa due anni In America ha collaborato con l’architetto Warren Weber ed è stato grande amico dell’architetto Bruce Goff, anch’egli seguace dell’architettura organica di Wright. Nari ritorna in India nei primi anni sessanta, dove, per un breve periodo, insegna

al M.S University Baroda e all’Accademia di Architettura di Mumbai. Dopo questa breve esperienza come insegnante, Nari, inizierà la sua intensa carriera di architetto “atipico”, che si snoderà attraverso la realizzazione di trenta progetti in poco più di trenta anni, percorso che verrà interrotto, in modo improvviso, dalla sua morte nel 1993, in un incidente stradale nei pressi di Khopoli, mentre era sulla strada per uno dei suoi siti di progetto a Kolgaon. Nari mentre lavorava in India ha continuato a guardare, per i suoi progetti e per le sue realizzazioni, all’ideologia di Wright di architettura organica e “spazio fluido”, sviluppando ulteriormente il suo stile unico, relazionandolo in maniera sottile al clima ed alla cultura locali. Nari ha sempre lavorato senza un ufficio, e raramente ha eseguito dei disegni dei suoi progetti. La sua matita era un bastone di legno che faceva scorrere sul terreno, per mostrare agli artigiani ed ai muratori il suo progetto. Nari lavorava sempre a stretto contatto con gli operai e partecipava totalmente al processo di costruzione. Le opere di Nari sono ben collegate al pagina 12


contesto e fortemente radicate alla terra su cui vengono erette, sembrano nascere direttamente da essa: sono un esempio di elevate competenze artigianali e di grande ingegno strutturale. I suoi edifici rappresentano una forte integrazione tra esterno ed interno, tra ciò che è costruito e ciò che non lo è. La scelta di forme, che ricordano l’andamento naturale del paesaggio circostante, permette alla luce del sole ed al vento di interagire in perfetta armonia con gli interni, e animarne lo spazio. I materiali usati da Nari sono pietra, mattoni, legno, vetro e pelle, e la loro disposizione ed acquisizione di funzionalità è in completa opposizione con i canoni estetici e costruttivi e le regole standardizzate dell’architettura. La sua musa ispiratrice era sempre la Natura. I clienti che hanno lavorato con Nari erano persone che non avevano bisogno di vedere disegni, che si affidavano completamente

pagina 13

a Nari, sapendo che tutto era già in divenire nella sua mente, dalle dimensioni ai materiali, dai particolari estetici alle diverse funzioni di ciascun spazio. La sua precisione e la sua umiltà erano tali che non esitava a essere lui stesso muratore, per andare ancora di più in profondità nel cuore di ciò che stava nascendo. Nari era un uomo di poche parole, ma molto pratico e determinato. Aveva un rapporto abbastanza distaccato con i soldi, che usava solo per ciò che gli era necessario, e la sua generosità gli aveva permesso di aiutare diverse persone che si trovavano in difficoltà economica. Purtroppo molte delle opere di Nari sono andate demolite e molte di loro sono irriconoscibili, ma resta comunque per le nuove generazioni una forte eredità del suo modo di fare architettura, un modo di fare architettura quasi spirituale, un modo genuino e vero di creare una architettura senza paura.

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


pagina 14


Dai distretti industriali ai distretti culturali. Strategie di sviluppo locale alternative. di Marta Niccolai Gli spazi di relazione nei contesti urbani hanno, da sempre, una valenza simbolico\ identitaria, nel senso che rappresentano e concretizzano i valori di una collettività, che vi si relaziona e vi cresce. Può essere utile, allora, pensare a questi spazi come contesti, dove si possono definire e mettere a punto, nuove strategie e politiche di sviluppo locale sostenibile. Con questo intento, negli ultimi decenni, si è cominciato ad operare sulle città, concentrando l’attenzione, sugli spazi che non sono più utilizzati, su quelli che potrebbero avere una vocazione d’uso differente da quella attuale, finalizzando studi ed indagini alla elaborazione di strategie, per la loro valorizzazione. La valorizzazione di un luogo, o di una identità architettonica, può avvenire in una duplice maniera: - o restaurando o consolidando il bene per la sua “salute” statica o decorativa, al fine di allungarne la “vita terrena” - o creando una filiera produttiva che partendo dal restauro del bene, finisca con l’incrementare il capitale umano. Entrambi i processi sono corretti. Ma, mentre nel primo caso, i beneficiari diretti, sono i proprietari del bene in questione ed indirettamente, chi usufruirà del bene; nel secondo caso si vanno ad attivare dei processi che, portano gli usufruitori del bene a beneficiare direttamente della sua valorizzazione. Come creare allora occasioni di sviluppo umano locale, partendo da semplici opere di restauro, di consolidamento o di riqualificazione urbana? Tutte le politiche di sviluppo umano locale lavorano sui sottili, ma importanti, rapporti che sussistono tra quattro elementi: cultura, società, economia ed ambiente: la cultura quindi può essere il motore propulsivo dello sviluppo sociale. Vi sono ormai consolidate esperienze, relative a politiche di sviluppo umano locale, in pagina 15

cui la cultura rappresenta un vero punto di forza: apertura di musei, disseminazione per la città di attività culturali, insediamento di artisti, possono costituire processi di riqualificazione urbanasociale e generare nuove modalità di produzione e consumo. Gli spazi urbani, in questo contesto, vengano ad essere letti come luoghi dove la cultura si concretizza, si manifesta ed assume importanza; le manifestazioni culturali che vengano qui esercitate, non sono solo in grado di generare un processo di riqualificazione urbana ma anche sociale. L’elemento chiave che caratterizza i distretti industriali è la capacità di creare conoscenza e di farla circolare; attraverso una rete di relazioni che riesce ad interconnettere, tra di loro, tutte le imprese che lo compongono, permette non solo lo sviluppo economico del distretto, ma determina anche modelli comportamentali all’interno della comunità. Prendendo a modello, i punti forza (qualità, conoscenza ed informazione) del distretto industriale, si può ipotizzare che la valorizzazione dei patrimoni storici e culturali possa avvenire attraverso la creazione di veri e propri Distretti Culturali. Il fatto di riuscire a costituire un legame tra attività diverse: quelle del settore turistico, del settore del restauro, quelle che lavorano nelle attività culturali…; crea un ambiente, in cui, attraverso la valorizzazione della cultura, si riesce a creare nuova ricchezza e ad aumentare il capitale umano. In un epoca in cui non esistono più mercati circoscritti ad una determinata zona, ma mercati planetari, per cui molti paesi si trovano già in partenza, in una posizione di forte svantaggio, la produzione di cultura potrebbe rappresentare una scelta strategica. Non solo per valorizzare le risorse locali, ma anche per proporre come prodotti, beni non riproducibili altrove, come lo sono appunto, i patrimoni storici e culturali. Quindi mentre la globalizzazione ed

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


libero mercato portano ad una delocalizzazione delle imprese, per cercare lavoro sempre più a basso costo e di scarsa qualità, nei distretti culturali, così come accade in quelli industriali, la crescita è invece fortemente connessa al locale e si basa principalmente sulla qualità delle attività svolte ed offerte. Il risultato finale produrrà una serie di effetti, che potranno influire positivamente sulla qualità dell’ambiente ed in termini di produzione di identità sociale, sulla collettività, che vivrà con orgoglio l’appartenenza ad un territorio. Un distretto culturale non nasce spontaneamente, ne la presenza di un considerevole patrimonio culturale è sufficiente a garantire il suo sviluppo. Necessita invece un lavoro di governance culturale e di uno sforzo progettuale, per accompagnare iniziative di valorizzazione culturale, che però evitino il rischio,

a cui spesso assistiamo, di una banalizzazione e museificazione della cultura. In molte città d’arte: Venezia, Firenze stessa; il patrimonio culturale viene considerato prevalentemente come materiale sul quale basare una economia della rendita e che non deve essere “toccato”. Una valorizzazione si fatta, determina l’isolamento del bene all’interno del paesaggio comunitario, l’allontanamento dai quei processi innovativi che possono generare cultura, a favore di una visione del patrimonio culturale, come bene immobiliare, da sfruttare in chiave commerciale e turistica. Non si può mangiare sui gradini degli Uffizi: certamente non è un atteggiamento consono, ma è anche vero che i fiorentini, oggi non passano più le loro serate estive a parlare, del più e del meno, sotto gli occhi lapidei di pagina 16


Dante, Macchiavelli e Guicciardini. Il risultano è un piazzale che, di giorno è sovraffollato dai turisti, in coda per entrare nella galleria e di notte, è deserto. Il pericolo, da questo punto di vista, è quello di far diventare le città come Disneyland della cultura, ossia trasformare luoghi, un tempo vivi ed innovativi, in parchi ricreativi a tema, dove i cittadini diventano manutentori-gestori, anziché abitanti e produttori di senso e di nuova cultura. Il cittadino diventa così incapace di vivere la sua città, rischia di non saper più leggere quei valori, che sono alla base dell’identità culturale e si interessa all’esperienza culturale solo quando, lui stesso, veste i panni del turista. pagina 17

C’è anche da evidenziare che la creazione di un “mercato” culturale, non determina automaticamente sviluppo umano; talvolta infatti il pubblico sembra non manifestare particolare entusiasmo, per gli eventi culturali. - Guidobaldo Maria Riccardelli: Apriamo il nostro solito dibattito…chi vuol parlare? Lefili? Calboni! - Fantozzi: Scusi…posso dire una parola io? - Guidobaldo Maria Riccardelli: Ah la nostra merdaccia, venga venga Fantocci, si accomodi! Finalmente ha trovato le parole! Chissà quale profondo giudizio estetico avrà maturato in tutti questi anni. Dica dica… - Fantozzi: Per me,….. la corazzata Cotionkin,….

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


è una cagata pazzesca! (seguono 92 minuti di applausi) Da questa citazione del film “Il secondo tragico Fantozzi”, si può, comicamente e tragicamente constatare, che alla maggior parte delle persone la cultura non interessa e che dovrebbe/potrebbe essere rilegata in luoghi angusti (programmi televisivi nella tarda notte, ambienti di nicchia…). Non è quindi possibile trasformare da un giorno all’altro una realtà così strutturata, in una mecca della cultura. E’ vero che le esperienze di Fantozzi sono limitate in maniera drammatica, ma se fosse possibile, inserire quel film in un contesto urbano

capace di dargli valore e significato, in modo da generare esperienze ed emozioni, forse la corazzata Potemkin, potrebbe piacere anche al povero ragioner Ugo. Il vero punto di partenza consiste quindi nella capacità di dare senso e valore alle attività culturali, per poi, in seguito, cercare attraverso la cultura stessa, di generare nuove modalità di produzione e consumo. La logica d’azione può essere mutuata da quella, nota in ambito economico, dei distretti industriali, cercando di capire quali elementi, tipici del distretto industriale, possono facilitare ed aiutare la creazione di un distretto culturale. pagina 18


L’età della pietra non è finita perchè sono finite le pietre. di Roberta Cini Inquinare deriva dal latino “cunire” (defecare). Certo la parola inquinare è molto meno forte della parola latina, ma il significato è di sporcare, contaminare, alterare la purezza di un elemento, con cause esterne e specialmente dall’opera umana, che può diventare pericoloso per l’uomo o altre specie animali o vegetali. L’inquinamento è quindi legato al benessere della persona, alla qualità della vita. Generalmente è d’uso comune parlare d’inquinamento atmosferico, del suolo, delle acque, acustico, termico, elettromagnetico, ma, tra le tante forme d’inquinamento, quello più dimenticato è quello visivo. Ne è un esempio l’eccessiva illuminazione delle aree urbane che rendono difficoltosa l’osservazione astronomica del cielo stellato. Le nostre città, e non solo, brulicano di insegne, cartelloni pubblicitari luminosi, ma l’inquinamento visivo non è solo il disturbo dovuto alla quantità di luce, spesso intermittente, che danneggia l’occhio o il consumo di energia elettrica che produce l’effetto “serra”. Spesso disturba quell’agglomerato di cartellonistica pubblicitaria, immagini commerciali, graffiti, traffico, superfetazioni e quant’altro che, nonostante tutto questo bombardamento di luci, colori, forme, spesso rendono le città, come tante ns periferie, ugualmente squallide, spoglie e disadorne e donano un senso di tristezza, di malessere, per cui spesso andiamo alla ricerca di luoghi “belli” per ritemprarci e trovare benessere: il bel paesaggio, la bella città, il bell’immobile. Il paesaggio, l’ambiente, è stato costruito dall’alacrità dell’uomo, dalla dinamicità della sua attività perché è la sua opera che lo rende “bello” dove anche il costruito s’integra perfettamente nel paesaggio e non “disturba” visivamente. Basti pensare anche a opere ingombranti quali la Tour Eiffel o il Ponte di Brooklyn. In passato la bellezza era una naturale derivazione, e preferenza, per le proporzioni che davano grazia e armonia, sia in architettura sia in altri arti quale la scultura e la pagina 19

pittura. Si pensi alla cosiddetta “sezione aurea”, vera ispiratrice di bellezza, che rappresenta lo standard di riferimento per la perfezione. Gli antichi Architetti Greci dovevano realizzare la simmetria, l’accordo tra le misure, il ripetersi di rapporti di superficie e di volume e ciò anche nel trattato latino “De Architectura” di Vitruvio. Il trionfo si è avuto nel Rinascimento con l’opera “la Divina Proportione” di Luca Pacioli illustrata con 60 disegni di Leonardo da Vinci dove emerge “l’uomo vitruviano” (1490): al centro c’è l’uomo, misura di ogni cosa, inscritto in un quadrato e un cerchio, figure perfette. Al tempo gli Architetti non seguono uno schema causale di rapporti ma, questi, devono conciliarsi in un ordine superiore. La “sezione aurea” si è spinta fino ai ns. tempi con le realizzazioni di Le Corbusier e il suo “Modulor” (1949-1955), scala di proporzioni sulle misure dell’uomo. Nel 1875 il tedesco Gustav Theodor Fechner, psicologo e statistico, realizzò un sondaggio sottoponendo al gradimento di cittadini una serie di rettangoli, quello più votato è stato il rettangolo “aureo”. L’ambiente, il paesaggio storicamente stratificato aveva un’identità ben riconoscibile, anche con caratteri mutevoli, un genius loci. Oggi le città, i paesaggi, producono inquinamento visivo e percettivamente disorientamento, poiché sono un insieme di elementi eterogenei, di poli incongruenti e senza connessione tra loro, derivati dall’attività sia di privati sia da pianificazioni pubbliche. Occorrerebbero normative più attente al decoro e a limitare quel disordine, quel degrado che crea il fenomeno dell’inquinamento visivo. Certo il consumo del suolo è uno dei fattori che ha portato al degrado paesaggistico, ma non è certo con l’inedificabilità totale e il vietare qualsiasi espansione urbanistica e non, che può risolversi il problema. Non si possono congelare tutte le attività che, operando sul territorio, ne hanno creata l’identità, la riconoscibilità, la bellezza. Ne è un esempio il PIT adottato nella Regione Toscana dove si vuole congelare

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


un territorio sostenendo che anche le colture “consumano suolo” e pertanto sono nemici del paesaggio. Invece, nel paesaggio toscano, basti pensare ai vigneti di Montalcino o alle coltivazioni di piante e di fiori nel pistoiese: questi dovrebbero essere presidi da tutelare.

Occorrono norme oculate, ma solo dopo una lettura attenta e precisa dell’ambiente, per non commettere ulteriori “inquinamenti” perché come disse il direttore di una compagnia petrolifera “l’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre! ….”.

pagina 20


Etica ed estetica. di Roberto Idà Giorni fa cercando, inutilmente, di mettere in ordine i miei libri, mi è ricapitata tra le mani una vecchia pubblicazione di Filiberto Menna: “ Profezia di una società estetica”. Ho scorso il libro rivedendo le mie note a fianco delle pagine: un salto nel passato, nelle illusioni e negli ideali della mia gioventù. L’arte è sintesi inscindibile di intuizione e creazione, i mezzi espressivi sono la condizione imprescindibile per poter esprimere la propria creatività. Ma se per un pittore, tali mezzi, sono sotto l’aspetto economico facilmente acquisibili e lo stesso lo sono, in alcuni casi, per uno scultore, per un architetto è cosa ben diversa, i mezzi sono di fatto nelle mani di altri, da solo è impotente, può solo trasformare in un disegno un progetto, le proprie idee, ma perché il progetto possa divenire un edificio, una piazza, un giardino, occorrono notevoli risorse economiche. Occorrono un committente ed un’impresa edile che sotto la guida dell’architetto realizzino quanto progettato. Questi sono i tre soggetti essenziali che Frank Lloyd Wright, non a caso, poneva alla base della possibilità di fare architettura, di realizzare un’opera di qualità sotto l’aspetto ambientale, estetico e funzionale. Tutti e tre i soggetti hanno grande importanza: il committente, primo tra tutti, perché è colui che decide cosa realizzare. Deve avere idee molto chiare sugli obiettivi che vuole perseguire, deve avere la capacità di comprendere dal progetto quale sarà il risultato finale, deve avere la capacità di scegliere il progettista in base alla capacità, professionalità e alle qualità creative e morali dello stesso. L’impresa deve possedere capacità tecniche e di gestione tali da poter garantire una esecuzione dei lavori rispondente alla qualità del progetto. Non è raro vedere un buon progetto rovinato da una cattiva esecuzione dell’opera. La qualità dell’architettura, anzi l’Architettura, dipende dalla qualità di tutti e tre i soggetti che la determinano: committente, impresa ed architetto. Questo lo è sempre stato, basti ricordare i crucci di Ammannati rispetto alle richieste dei committenti. pagina 21

In un mondo globalizzato anche l’architettura ha seguito un processo di profonda omogeneizzazione. Dalla degenerazione manierista delle correnti Funzionaliste Costruttiviste, dall’acritica, meccanica, riproposizione di alcuni stilemi e forme dell’architettura moderna, è nato l’International Style, un’architettura che prescinde completamente dal contesto, che non interagisce con il luogo ed è creatrice di “non luoghi”. Troviamo più o meno gli stessi edifici le stesse architetture in posti profondamente diversi della Terra, così come troviamo gli stessi hamburger e la stessa Coca Cola. Tutto molto rassicurante, “appagante”, senza sorprese, ma anche senza carattere, senza nuovi apporti creativi. In questo modello di vita l’architettura è decontestualizzata, spersonalizzata, facile, non impegnativa, perfettamente rispondente al vuoto culturale che spesso contraddistingue coloro che hanno il potere di condizionare più o meno direttamente lo sviluppo del territorio e non hanno alcuna preoccupazione per la qualità di Architettura e Paesaggio. E’ un problema fondamentalmente culturale dovuto ad assenza di strumenti critici, da scarsa conoscenza e quindi di non preparazione nei confronti dell’arte moderna e dell’arte in genere. Quello che viviamo è un periodo dominato da un principio secondo il quale è più importante avere che essere, apparire è condizione essenziale per esistere. Contano di più i canoni estetici riconducibili immediatamente alla persona, cioè la moda, l’auto, il telefonino, l’interno della casa inteso come insieme di oggetti e status symbol con al centro ovviamente grande televisore con super impianto Dolby Surround. E’ veramente curioso notare che, in un mondo fortemente individualista, gli elementi di distinzione e di riconoscibilità, a cui aspirare, siano tutti ed esclusivamente riconducibili a modelli estetici e di comportamento fortemente massificati e spersonalizzati. Il trionfo della mediocrità. In questo contesto quanto si è ridotto lo

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


spazio per l’espressione della propria soggettività creativa? Il “bel paese” è tale grazie a coloro che sono venuti prima di noi, depositari di una cultura che si contraddistingueva per un senso estetico particolarmente sviluppato e diffuso. A testimonianza di questo basta solo il paesaggio che ci è stato lasciato. Il “bel paese” è tale sia per l’opera di committenti colti, che per quella di grandi architetti, ma soprattutto per l’opera quotidiana di una moltitudine anonima di artisti minori e di persone comuni: mastri, muratori, artigiani, contadini. Questi sono stati i veri costruttori del paesaggio. Questa cultura nasceva da un’educazione estetica dovuta alla frequentazione quotidiana con l’arte. Le botteghe degli artisti si aprivano nelle piazze dei mercati, la gente assisteva allo sviluppo delle opere, commentava e scambiava idee. Il mercato, grande occasione di socializzazione, consentiva anche questo. I signori volevano che le loro città, borghi, castelli, campagne si distinguessero per bellezza ed armonia. Le stesse fortificazioni, nate per la guerra, non sfuggivano alla ricercatezza estetica. Architetture come testimonianze di sé, per riconoscersi e far si che i loro sudditi sviluppassero il senso di appartenenza, riconoscessero in esse “la propria città”, la propria campagna. Il potere religioso attraverso l’architettura di Chiese, Santuari ed Abbazie affermava il potere di Dio e della Chiesa sul popolo ed i potenti della terra. I luoghi erano bellissimi ma il popolo viveva spesso in condizioni di grave indigenza, in ambienti e case malsane, questo purtroppo era il volere dei potenti era il modo di dominare, controllare tramite il mantenimento in condizioni di povertà ed ignoranza fare si che nei confronti del potere civile o religioso persistesse un diffuso senso di riverente timore. (anche oggi c’è qualcuno che lo vorrebbe, ma questa è un’altra storia). Oggi il potere solitamente si esprime in modo diverso, si rappresenta in modo diverso, usa strumenti diversi, è diverso nella forma ma non del tutto nella sostanza, è solo più ignorante di quello del nostro lontano passato. Ma in questi ultimi decenni si è imposto come emblema

del potere anche lo sfoggio di ricchezza, di impunità ed una malcelata volontà di togliere diritti e favorire l’impoverimento intellettuale della gente. Insomma stordire tutti con bombardamenti di stupidità televisive, con un uso “narcotizzante” del web, con lo smantellamento della scuola pubblica, con la creazione di falsi bisogni ed obiettivi: un mondo di veline e calciatori. Questo accade in Italia, più che in altri paesi, salvo alcune eccezioni. Nelle grandi democrazie europee è mantenuta viva l’architettura, come forma d’arte utilizzata, anche come testimonianza della cultura e delle capacità di una determinata gestione politica. Basti pensare a Francia, Inghilterra, Spagna e Germania, per fare alcuni esempi, alle grandi opere lasciate dai governi che si sono succeduti, ed all’impegno profuso nella ricerca della qualificazione del tessuto urbano. Tutto questo è ottenuto con una buona formazione professionale, con un frequente ricorso ai concorsi di idee, con la promozione dell’Architettura a tutti i livelli, dalle capitali ai piccoli comuni, con indirizzi ed obiettivi di qualità contenuti negli strumenti di pianificazione urbanistica. Tutte condizioni basilari affinché si stimoli la creatività e si possa fare architettura e non meri “interventi immobiliari”. Da noi, in Italia, un forte limite all’espressione della propria soggettività in architettura è dato anche dalle norme che regolano l’edificazione. Questo non significa che dovrebbe vigere una libertà assoluta di espressione a discapito della sicurezza e salubrità delle costruzioni. Significa che le normative in materia dovrebbero guardare più alla sostanza, all’estetica, alla funzionalità ed alla sicurezza delle costruzioni e meno, molto meno, agli aspetti burocratici inutili. Abbiamo una miriade assurda di leggi e regolamenti che spesso si contraddicono tra loro e, particolarità sommamente italica, sono interpretabili, molto interpretabili, troppo interpretabili. Una montagna di fogli inutili, di atti che sottraggono tempo ed energie. Un “gioco dell’oca” dove primeggia non il più creativo, ma il più capace a districarsi tra i mille cavilli di una burocrazia soffocante, tra labirinti di numerosi pagina 22


pagina 23

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


uffici: “il professionista da riporto”. Ma tali condizioni creano solo il terreno favorevole per elusione, abusi e corruzione. Le regole per edificare sono sempre esistite. Nel passato si dettavano anche principi di natura estetica, i cosiddetti regolamenti di ornato, per armonizzare gli interventi all’interno della cinta muraria urbana. I nostri centri storici, le nostre piazze sono cosi belle grazie anche a quei regolamenti. Ma oggi in Italia, nel quotidiano, condizionamenti eccessivi, dovuti ad inefficienza dell’apparato pubblico, a burocrazia, ed a corruzione, limitano la possibilità di esprimere la propria soggettività in tutti i campi. Si parla tanto di merito ma non viene fatto nulla affinché questo principio e criterio di selezione si affermi realmente. Per superare tutto ciò occorre che: - la scuola, a tutti i livelli, introduca un efficace sintesi di formazione culturale e critica, capace di fornire efficaci strumenti interpretativi del

mondo in cui viviamo e delle diverse forme di espressione artistica; - la politica si faccia carico di un mutamento in senso quantitativo e qualitativo della miriade assurda di leggi che regolano l’edilizia, introducendo validi principi per l’affermazione della qualità dell’Architettura, della qualità dell’abitare, della qualità dell’ambiente. Nell’immediato è indispensabile che coloro, che vogliono affermare le proprie idee e la propria creatività, continuino a battersi per l’affermazione dei principi che favoriscono lo sviluppo di una prospettiva estetica, per la costruzione di un futuro migliore non solo dell’architettura, ma del vivere comune. Consci che Estetica ed Etica sono strettamente correlate, che la “Bellezza” fa bene: una bella città, un bel quartiere, contribuiscono in modo essenziale alla qualità della vita, alla coesione sociale e non costano di più di una brutta città, di un brutto quartiere.

pagina 24


La vignetta. di Michelangelo Lucco

pagina 25

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


pagina 26


Temporiuso.

Manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono in Italia. Recensione di Gaia Vivaldi Autori: Isabella Inti, architetto e docente di Town Planning al politecnico di Milano e presidente di Temporiuso.net; Giulia Cantaluppi, laureata in Conservazione dei Beni culturali e cofondatrice di Temporiuso.net; Matteo Persichino, laureando in Architettura al Politecnico di Milano e socio di Temporiuso.net. Edito da: Altreconomia Edizioni con il sostegno di Fondazione Cariplo e curato dall’Associazione Temporiuso di Milano (spin-off del Politecnico di Milano). Un manuale appunto, non uno dei soliti retorici (e anche noiosi, diciamocelo!) compendi di tono accademico sull’abbandono edilizio, ma un libro efficace, fatto di risposte concrete al bisogno di riempire quei vuoti che oramai si sono generati nelle città ma anche nei comuni più piccoli. Risposte, dicevo, un metodo fatto di vari steps con i quali affrontare un problema che qui

pagina 27

rivela tutte le sue potenzialità e che si trasforma in nuova opportunità. Opportunità per la comunità, opportunità per chi amministra, per sviluppare nuove visioni e tornare a vivere creativamente spazi in disuso. Dopo la prefazione curata da Gabriele Pasqui (Direttore DAStU, Politecnico di Milano), parte una narrazione cronologica e schematica delle politiche attuate a livello internazionale negli ultimi venti anni, che traccia la storia recente e le modalità di riutilizzo degli spazi abbandonati nelle città europee, iniziando dall’esperienza olandese del Broedplaatsen Fonds Bureau (Amsterdam, 1999), passando a Bruxelles con le sue pratiche sperimentali di CityMine(d), e il progetto PRECARE (1999), l’apertura di sportelli per il riuso temporaneo come Einfach-Mehrfach (Vienna, 2004) fino ad arrivare agli interventi di riappropriazione temporanea e autocostruzione del collettivo parigino EXYZT.

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


pagina 28


pagina 29

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


I capitoli successivi approfondiscono le “sette mosse” necessarie per riattivare uno spazio in abbandono, dalle quali emerge l’importanza del far incrociare, in maniera sinergica, l’offerta di spazi sottoutilizzati con la richiesta degli stessi da parte di popolazioni o gruppi di interesse : - la mappatura e tassonomia degli spazi vuoti per conoscere le diverse tipologie di una potenziale offerta; - la mappatura delle popolazioni che potrebbero poi fruire degli spazi, quindi una mappatura dei “bisogni” con la creazione di un database pubblico, aggiornabile e accessibile, per incrociare domanda e offerta di spazi in abbandono, sottoutilizzati sfitti ad uso temporaneo; - i livelli di infrastrutturazione necessari per un’efficace riattivazione (dagli allestimenti agli impianti); - i nuovi cicli di vita da reinserire con tempi di riuso legati ad esigenze site-specific; - i livelli di architettura e infrastrutture primarie per poter riabitare luoghi per lungo tempo abbandonati o rimasti incompiuti; - le regole per l’accesso e la condivisione degli spazi; (dal comodato d’uso temporaneo per associazioni alla concessione in uso temporaneo per installazioni e performance); - le possibili politiche pubbliche per consolidare e rinnovare queste pratiche (concorsi nazionali, bandi e inviti alla creatività per assegnazione di spazi, agenzie di riuso temporaneo o sportelli pubblici dedicati). Citando Annibale D’Elia nel suo intervento all’interno del libro (p.209), siamo in un fase in cui “da una parte servono nuove regole per incoraggiare queste pratiche, dall’altra servono esempi concreti per ispirare nuove regole.”. Infatti, come sottolineano fin da subito gli autori, quello che serve a monte di ogni altra considerazione, è una chiara volontà politica di sperimentare ed avviare delle politiche pubbliche di riuso temporaneo, perché in un certo senso il riuso è una modalità sussidiaria di intervento alle tradizionali forme di pianificazione. Del resto il riuso temporaneo e la rigenerazione urbana possono definirsi, rispettivamente, una tattica (a breve termine) e

una strategia (a lungo termine) per riprogettare la città contemporanea con modalità pluri-sostenibili sotto il profilo economico, sociale, ambientale e procedurale; appare sempre più chiaro quindi che il ruolo di tali processi è sempre più spesso quello di proporsi come delle vere e proprie piattaforme relazionali, produttrici di senso comune e di pensieri politici nell’accezione più alta. Una Pubblica Amministrazione può partire dalla Delibera Comunale per la sperimentazione di progetti di riuso temporaneo, fino all’individuazione di un modello gestionale che garantisca sempre trasparenza, visibilità, contatto e scambio tra istituzioni, proprietari, usufruttuari e cittadinanza che permettano di valorizzare il patrimonio immobiliare e paesaggistico. Dei rischi ci sono: “quelli che il riuso temporaneo diventi per le istituzioni un modo per eludere i problemi strutturali e per rinviare necessari investimenti; quelli che le pratiche del riuso finiscano per riguardare poche minoranze e per non intercettare una domanda più generale di riappropriazione degli spazi e dei luoghi di abbandono.” (G. Pasqui, p.9). Per questo servono istituzioni coraggiose, buoni progetti, sapere tecnico. E qui si fa una carrellata delle possibili nuove professioni che possono nascere all’interno del processo del riuso temporaneo, partendo dall’agente del riuso che fa da mediatore tra proprietà ed usufruttuari, per arrivare al cooperante e al tecnico comunale del riuso, con l’ipotesi di poter realizzare anche in Italia uno sportello per il riuso temporaneo così come già esiste ad Amsterdam per esempio. Nei capitoli successivi, prima delle nove interviste realizzate con alcuni attori incrociati da Temporiuso durante le loro più recenti iniziative (tra i quali Stefano Boeri e Leopoldo Freyrie), seguono quattro casi studio di esperienze italiane, promosse dalla stessa Temporiuso.net, per i quali si analizzano i tempi di attuazione, le regole che ne hanno governato gli sviluppi, gli attori interessati e i risultati ottenuti. Sembra quindi necessaria, in sostanza, una mobilitazione sociale dal basso che incontri la capacità delle istituzioni di fare spazio all’innovazione sociale. pagina 30


Baratti Pavillion.

Sperimentazione e contaminazione. di Marco Del Francia

Presidente Associazione B.A.Co. - Archivio Vittorio Giorgini

Con l’inizio dell’autunno scorso l’Associazione “B.A.Co. (Baratti Architettura e Arte Contemporanea) – Archivio Vittorio Giorgini” ha concluso la corposa serie di iniziative culturali che hanno caratterizzato la passata stagione estiva. Nata per conservare e promuovere l’archivio e le opere dell’architetto Vittorio Giorgini, in particolare Casa Esagono e Casa Saldarini (due pregevoli opere di architettura del Novecento ampiamente riconosciute dalla critica, site a Baratti), l’Associazione ha in realtà voluto valorizzare in modo più ampio le risorse culturali del territorio della Val di Cornia. Per questo motivo ha stretto rapporti con gli enti pubblici e privati per creare un sistema di collaborazioni e di azioni congiunte per innestare, attraverso l’architettura e l’arte contemporanea, nuovi approcci didattici e divulgativi e allo stesso tempo intercettare un nuovo turismo culturale. In particolare, la collaborazione tra “B.A.Co.”, Parchi Val di Cornia SpA e il Comune

pagina 31

di Piombino, sancita nel 2014 da un Protocollo di intesa che vede le tre istituzioni operare in sinergia rispetto ai propri fini statutari, ha dato il via alla creazione della manifestazione “Baratti Pavillon”. L’idea, non nuova se rapportata ad altre esperienze simili, soprattutto in ambito internazionale, ma del tutto originale per il contesto locale, era realizzare un’installazione artistico-architettonica temporanea, con una duplice valenza. Da una parte, il valore formativo e didattico come occasione per inserire, in un luogo dalle connotazioni archeologiche e paesaggistiche fortemente storicizzate, delle sperimentazioni volte ad avvicinare il pubblico all’arte e all’architettura contemporanea. “Sperimentazioni” che sono state la costante delle ricerche dell’architetto Vittorio Giorgini e che, creando stimoli visivi (o provocazioni culturali), vogliono tentare una sfida culturale, sociale ed ambientale.

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


Dall’altra, creare un luogo dove ibridarsi attorno al tema della cura del paesaggio e dei luoghi dell’abitare, attraverso linguaggi e temi multidisciplinari (cinema, teatro, fotografia, letteratura, arti visive), per integrare esperienze, discipline e culture diverse, nonché attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica sull’importante funzione di interesse generale che l’architettura svolge nel paesaggio culturale. Il tema progettuale della prima edizione del Baratti Pavillon è stata la rivisitazione di un’antica nave a remi. L’opera, denominata “Turuscia”, è sì un contenitore architettonico, ma anche grande scultura all’aperto. E’ stata ideata e progettata da Paolo Pasquinelli, con il coordinamento dell’arch. Antonio Carmilla, e realizzata con un workshop residenziale di autocostruzione nella prima settimana di giugno del 2014. Il workshop ha richiamato giovani studenti e laureati delle Facoltà di Architettura e Ingegneria per una full immersion di intenso lavoro, che tuttavia non ha riguardato solo l’aspetto lavorativo. Durante i giorni di permanenza nel territorio, i partecipanti hanno infatti avuto modo di esplorare e approfondire la conoscenza

delle risorse archeologiche, naturalistiche e architettoniche di Baratti e Populonia. A seguire, tra luglio e agosto, si sono svolti a “Turuscia” oltre 30 eventi culturali, tra presentazioni di libri, proiezioni di cinema di architettura, performance teatrali, incontri con architetti, archeologi, registi, urbanisti, fotografi, portando complessivamente più di mille persone ad assistere alla rassegna nell’arena predisposta con sedute fatte da balle di paglia. Ospiti importanti, come Edoardo Milesi, Luigi Prestinenza Puglisi, Emanuele Piccardo, Paolo Riani, Stefano Campana, Roberto Pasqualetti e molti altri, hanno arricchito la qualità dei contenuti che sono stati raccontati nelle serate estive, alternandosi con momenti più leggeri come la serata speciale dove Andrea Camerini ha catalizzato il pubblico con i suoi cortometraggi satirici, con Cristiano Militello come ospite di eccezione. Non è stata trascurata la valorizzazione delle risorse imprenditoriali ed agricole di eccellenza del territorio, con una serata speciale tra archeologia e musica, dedicata ai prodotti vinicoli della Tenuta Poggio Rosso, che ha dedicato le prestigiose etichette della cantina a divinità etrusche e personaggi

pagina 32


mitici. Il gradimento di Turuscia ha portato il Baratti Pavillon ad essere sede di un ciclo di conferenze fuori programma sull’archeologia, curate da “Sostratos” in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Toscana. Quasi in conclusione della rassegna, una serata ha visto la cerimonia di consegna del “Premio BACO-Vittorio Giorgini”, riservato a personalità e/o istituzioni che si sono distinte nel campo della divulgazione e della promozione della cultura architettonica, artistica e del paesaggio; sono stati dati riconoscimenti nelle sezioni “Impresa e Cultura” (Tenuta Poggio Rosso), “Archeologia e Territorio” (Parchi Val di Cornia SpA), “Architettura e Paesaggio” (all’arch. Edoardo Milesi), “Fotografia e Società” (Pino Bertelli), “Humor e Arti Visive” (Andrea Camerini). Collateralmente a questi eventi, sono state allestite al Museo Archeologico del Territorio di Populonia a Piombino le mostre “Donne del Mediterraneo” (di Pino Bertelli) e “Arte Makonde” (di Gianfranco Gandolfo) ; “Una deriva fotografica” (di Luca Caciagli e Pino Bertelli) e “Così i bambini vedono pagina 33

l’Esagono”, alla Casa Esagono a Baratti; a queste si aggiungono il workshop fotografico “Le relazioni tra l’uomo contemporaneo e il proprio spazio”, curato dal collettivo “Synapsee” e i laboratori di riciclo creativo tenuto da Costanza Savio di “Risorseria” e quello di disegno “All’ombra dell’Esagono” tenuto da Carla Maestrini e Erica Foggi. Tutti gli eventi si sono svolti ad ingresso gratuito (grazie anche all’infaticabile opera volontaria dei soci B.A.Co., Fabio Caciagli, Agostino Carpo, Erica Foggi, Carla Maestrini, con il supporto di Francesca Lampredi e Lucrezia Della Lena). Il Parco archeologico di Baratti e Populonia ha messo a disposizione le proprie strutture (foresteria, aule didattiche), ufficio stampa e risorse umane, permettendo l’ingresso gratuito al Parco ai partecipanti ai workshop e gli ingressi ridotti agli spettatori degli eventi. Il Comune ha provveduto invece alla stampa di tutte le locandine. La famiglia Monelli è stata l’encomiabile sostenitrice della manifestazione, attraverso la Tenuta Poggio Rosso, senza il cui supporto non si

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


sarebbero potute realizzare molte cose, a partire dalla suggestiva illuminazione di Turuscia. Ha concluso la stagione l’apertura straordinaria di Casa Saldarini (attuale casa Sgorbini), un prezioso capolavoro di architettura contemporanea, realizzato da Vittorio Giorgini nel 1962, nei giorni dal 18 al 20 settembre. Un’occasione importante per il pubblico di poterla visitare e conoscere: visite guidate, musica, proiezioni, performance artistiche e teatrali hanno animato e coinvolto oltre 300 persone, per tre giorni no stop. L’interdisciplinarietà dei temi non è stata dunque casuale: l’architettura e l’arte contemporanea (come cinema e fotografia), nelle sue varie forme, possono offrire una varietà di approcci, saperi, conoscenze e una pluralità di strumenti capaci di rinnovare la missione sociale dell’istituzione Beni Culturali. Con iniziative del genere, il settore può ricaricare la propria relazione con i diversi pubblici e darsi un più responsabile approccio alla complessità contemporanea, attirando un pubblico sempre più ampio

e differenziato, coinvolgendolo in nuove esperienze di visita. Innestare modalità e linguaggi contemporanei in luoghi come il parco archeologico di Baratti e Populonia significa dunque la continuazione di un discorso interrotto da false scelte della critica, del gusto e del mercato; dal pensare un luogo come immutevole e museificato. Sperimentazioni come il Baratti Pavillon dovrebbero invece essere occasioni per materializzare relazioni sociali urbane, e rappresentare per il territorio un modo tangibile per mostrarsi e presentare i propri conflitti. La natura o il contesto antico, spazi che l’arte va a occupare, si mostrano in forma apparentemente neutrale, ma in realtà sono ‘scenari’ che vanno considerati come contenitori dell’opera e perciò pienamente determinati. Scenari dove i conflitti cui accennavo si interpretano in significati che non sono stabili, ma fluidi, temporali e contingenti. Tale mutevolezza caratterizza le stesse opere e i materiali, naturali e spesso riciclati, utilizzati per la loro realizzazione, proprio come il legno di Turuscia. pagina 34


Linguaggi contemporanei per patrimoni antichi: Un’opportunità di valorizzazione. di Marta Coccoluto

Coordinatore del Parco Archeologico di Baratti e Populonia.

Quando nel 1999 il parco archeologico di Baratti e Populonia ospitò una mostra di sculture di Igor Mitoraj, il successo dell’iniziativa fu a dir poco tiepido. Nonostante fosse riconosciuto e apprezzato il valore artistico delle opere esposte, la collocazione nell’area archeologica, già così fortemente caratterizzata dai grandi monumenti funerari di epoca etrusca, non entusiasmò il pubblico. Fu giudicato un accostamento forzato, che penalizzava le opere e il contesto di pregio in cui erano inserite. A distanza di molti anni da quella proposta, che non conobbe successivi tentativi nel parco, simili iniziative sono sempre più gradite dal pubblico e accolte dalle istituzioni culturali. Questo non significa che non si discuta sul tema, con opinioni discordi. C’è chi paventa, e non completamente a torto, il rischio che si perda il valore intrinseco di quanto è conservato, poiché in una ‘posizione’ di secondo piano rispetto all’evento o iniziativa che, per il proprio carattere temporaneo, di novità o se non proprio

pagina 35

di rottura rispetto all’ordinario, cattura tutta l’attenzione e il ricordo del pubblico. Il rischio è che il sito archeologico o il museo da ‘contenuto’, ovvero insieme di valori, di sapere, di conoscenza materiali e immateriali, diventi un mero ‘contenitore’, svuotato di ogni significato. La conoscenza dell’antico rischia di essere sovrastata e disturbata dall’iniziativa altra. Se poi questa è completamente aliena e distante da quanto conservato, accostata per sole ragioni di opportunità, magari meramente economiche, ne può perfino essere impedita la comprensione. In tale fattispecie l’antico è chiamato a fare da semplice cornice o da scenografia muta. I resti del passato sono di fatto reputati privi di suscitare, di per sé, l’interesse del pubblico. Per alcuni aprirsi e incoraggiare tali iniziative è come ammettere che l’antico da solo non basti, neanche nei siti più noti o nei musei che custodiscono i reperti più prestigiosi. A esso deve essere affiancato qualcos’altro perché diventi interessante e ‘di

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


valore’ agli occhi di un pubblico vasto. Di contro, la necessità di rinnovare l’offerta culturale, di rispondere ai bisogni sempre più complessi e multiformi del pubblico e, possiamo dirlo, di cercare nuove fonti di introito (penso all’affitto degli edifici storici, ad esempio) ha aperto la strada a tali possibilità. Intercettare e coinvolgere sempre più ampie fasce di visitatori è poi nella missione stessa di un’istituzione culturale e diventa un’esigenza sempre più stringente nel momento in cui non solo non si attraggono target nuovi, ma c’è una contrazione nel numero di visitatori abituali. E’ quindi d’obbligo non solo una riflessione di metodo sull’opportunità di accogliere o meno nuove iniziative, ma il confrontarsi attivamente con nuove possibilità, aprendo gli spazi museali o archeologici. Un confronto fruttuoso passa dal giusto equilibrio tra le posizioni eccessivamente caute di alcuni, volte a proteggere il patrimonio e i suoi valori, e quelle di chi considera l’utilizzo degli spazi museali o archeologici come ineluttabile per la loro stessa sopravvivenza, una sorta di àncora di salvezza per un consumo culturale che annaspa. L’esperienza del “Baratti

Pavillon” nasce proprio per sperimentare forme attraverso cui le realtà materiali e immateriali dell’antico possano comunicare con tutte le espressioni del sentire del presente. Sono state privilegiate l’architettura e l’arte, considerandole le più adeguate a interpretare il genius loci del luogo e a tradurlo in linguaggi capaci di dialogare con la contemporaneità. Quanto si intendeva sperimentare non era privo di controindicazioni. Il “Baratti Pavillon” si è inserito in un contesto paesaggistico e archeologico molto delicato e ben caratterizzato, già sollecitato dal turismo balneare stagionale. L’area è poi contraddistinta da una lunghissima diacronia, che quasi non conosce soluzioni di continuità dalla Protostoria all’età contemporanea, la cui piena comprensione ancora sfugge ai suoi fruitori. Proprio per la complessità di quanto è conservato, non circoscritto alle due aree adibite a parco archeologico (le necropoli, presso Baratti, e l’acropoli, presso Populonia Alta) ma esteso a tutto il golfo di Baratti e ai boschi del suo Promontorio, inserire nuovi elementi di arte o architettura contemporanea poteva rivelarsi un’operazione piuttosto azzardata. Questo tanto

pagina 36


più considerando la strenua opposizione con cui la comunità locale guarda a qualsiasi elemento di novità, anche solo idealmente proposto: il paesaggio di Baratti e Populonia è percepito come un paesaggio non solo inalterato ma inalterabile, a meno di non volerne tradire l’identità. Nella scelta di dove realizzare l’installazione, ovvero lungo l’unica strada d’accesso al golfo, nei pressi dell’ingresso del parco, era la volontà di dare un segno forte, tale da catturare l’attenzione o anche solo farsi notare, perfino dai passanti più distratti. Avremmo potuto costruire “Turuscia” all’interno del parco archeologico, in uno dei bei prati che si aprono tra i sentieri, o scegliere di realizzare un’opera che si mimetizzasse con l’ambiente, ma non avrebbe avuto la visibilità e l’impatto sul pubblico cercati. Se durante la

pagina 37

costruzione alcuni guardavano all’iniziativa con circospezione, questo atteggiamento velato di diffidenza si è presto trasformato in curiosità, poi in interesse e infine in ampia partecipazione nel momento in cui l’istallazione realizzata è diventata il palcoscenico degli eventi estivi. L’opera, presto ribattezzata “l’archinave”, rimanda ad alcuni dei temi chiave del sito, primo tra tutti l’intimo rapporto di Populonia con il mare, che in antico era parte del territorio della città, e con la navigazione, portatrice di ricchezza e di contatti con tutto il Mediterraneo, la cui fortuna era affidata alla Venere Euploia adorata sull’acropoli. Il fasciame di “Turuscia” evoca inoltre momenti storici decisivi per Populonia: l’arrivo a Baratti della flotta del console Tiberio Claudio nel 203 a.C., l’amaro viaggio verso la

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


Gallia del poeta e politico Rutilio Namaziano nel V secolo d.C., e l’agognato ritorno a Populonia delle spoglie del vescovo Cerbone via mare. L’insieme denso e complesso di significati e di rimandi storici evocato dall’architettura realizzata ha forse interagito ‘inconsapevolmente’ con la stragrande maggioranza di tutti quelli che l’hanno osservata, che hanno voluto percorrere la sua coperta, che alternativamente hanno voluto vedere la sua prua protesa verso il mare, quindi pronta a salpare verso nuovi lidi, o al contrario verso la terra, dunque ben ancorata nel suo porto, quasi a proteggerne l’unicità. Che la trasmissione di sapere e la percezione del valore dell’antico siano avvenute tramite canali diversi, dall’ordinario credo sia marginale rispetto al risultato ottenuto. Agli eventi culturali del “Baratti

Pavillon” hanno partecipato oltre 1350 persone: molte di queste non conoscevano il parco archeologico, o non avevano mai prima di allora provato la curiosità di visitarlo, altri ancora se ne erano tenuti volutamente a debita distanza. L’aver trovato modi nuovi per comunicare con il pubblico, incuriosirlo e invogliarlo al consumo di cultura è un risultato importante, che non nasce da una spettacolarizzazione vuota dell’antico. I veri punti di forza del Baratti Pavillon sono stati l’alta qualità delle iniziative proposte, la varietà dei temi trattati e la continuità della programmazione che, uniti all’intenso lavoro preliminare che ne ha preceduta la realizzazione, definendone contenuti e obiettivi, hanno avuto il plauso del pubblico e confermato la bontà delle nostre intuizioni.

pagina 38


Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.