N.5_2015 N.4_2015
ARCHITETTI L I V O R N O
Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno
Presidente: Arch. Daniele Menichini Vicepresidenti: Arch. Sergio Bini Arch. Enrico Bulciolu Arch. Marco Del Francia Segretario: Arch. Iunior Davide Ceccarini Vicesegretario Arch. Simone Prex Tesoriere: Arch. Sibilla Princi Consiglieri: Arch. Simona Corradini Arch. Vittoria Ena Arch. Fabrizio Paolotti Arch. Guelfo Tagliaferro Segreteria: Barbara Bruzzi Sabrina Bucciantini Redazione: Arch. Gaia Seghieri Grafica e impaginazione: Arch. Daniele Menichini Pubblicazione a cura di: Ordine Architetti PPC Livorno Largo Duomo, 15 57123 Livorno Tel. 0586 897629 fax. 0586 882330 architetti@architettilivorno.it www.architettilivorno.it Copertina: Piano urbanistico per San Paolo - Brasile Le Corbusier
N.5_giugno_2015
Sommario. pagina 1
L’Editoriale: Promuovere la figura dell’Architetto.
Le Corbusier. Architetto tra ombre e luci.
Creatività in movimento.
La vignetta.
La Torre di Vada.
Inarcassa, Comitato Nazionale dei delegati 2015/2020
La vignetta.
di Daniele Menichini pagina 3 di Daniele Menichini pagina 7 di Gaia Seghieri pagina 10
di Michelangelo Lucco pagina 11 di Enrico Vannini pagina 16 di Roberta Cini pagina 18
di Michelangelo Lucco pagina 19
Polo scolastico di Shangay a Livorno.
Il restauro della Chiesa di Santa Caterina a Lucca.
di Melania Lessi pagina 21
di Gian Matteo Bianchi
pagina 23
B&B “la pecora nera”.
Chi lo manda più in alto?
Il restauro delle vecchie cantine di Castiglione del Lago.
Non c’è altra realtà che la natura.
Il cammino delle lase, porta del parco archologico.
di Gaia Vivaldi pagina 27
di Daniele Menichini pagina 31
di Franco Capacciola pagina 33 di Gaia Seghieri pagina 37
di Marco Del Francia
Promuovere la figura dell’Architetto. di Daniele Menichini
L’importanza di tornare a far parte del sistema culturale, sociale ed
Essere architetti in questo momento economico fortemente compresso non è certo facile, e di conseguenza, anche il ruolo che l’Ordine ed il suo presidente hanno è altrettanto difficile, e deve dare forti segnali verso la presa di coscenza che la professione è cambiata e che è necessario che ognuno ne prenda atto ed inizi a muoversi verso la direzione di questo cambiamento per non rimanere schiacciato o al palo. Sono da poco diventato presidente, ma anche con chi c’era prima di me, abbiamo sempre cercato di fare in modo che le nostre attività andassero verso il ri-ordinare questo istituto, affinchè gli architetti iscritti lo riconoscessero nuovamente come una loro estensione; un percorso molto difficile perchè la partecipazione dei colleghi alle attività era veramente molto limitata e superficiale. Per poter provare a raggiungere questo obiettivo in una provincia anche fisicamente particolare, stretta, lunga e con un isola, abbiamo iniziato con l’attivazione delle tre macro aree, nord, centro e sud coordinate ciascuna da uno dei vicepresidenti, ed all’interno delle quali per ogni area sono stati individuati dei coordinatori territoriali tra gli iscritti; un sistema teso a voler ascoltare la voce di ogni singolo architetto sul territorio, coinvolgendolo e facendolo sentire parte di questo nuovo modo-sistema. La ricerca di un maggiore coinvolgimento degli iscritti è avvenuta anche attraverso l’attivazione di commissioni di lavoro sui vari temi della professione e sulla qualità della stessa e dell’architettura, e per le quali i responsabili sono sempre stati individuati tra gli iscritti e con referenti all’interno del consiglio che facciano da interfaccia. In poche parole l’obiettivo principale è stato quello di provare ad iniziare a fare rete/ network tra gli architetti nel modo più lineare pagina 1
e veloce possibile, e adesso, dopo un anno è mezzo, possiamo dire che il percorso è ancora molto difficile, pur essendo stato avviato, e la partecipazione attiva può essere individuata in una percentuale che arriva al massimo al 6/7% degli iscritti, una percentuale molto bassa ma anch’essa sintomatica della situazione generale della professione che vede l’individuo isolato dal collettivo. Dal lavoro delle Commissioni sono nati progetti di revisione degli strumenti urbanistici con alcuni Comuni che hanno richiesto il nostro aiuto, o lavori di osservazione agli strumenti urbanistici regionali, come quelle al Piano di Indirizzo Territoriale con valenza di Piano Paesaggistico, o alla nuova Legge Urbanistica Regionale 65 che tanta polemica e discussione hanno suscitato nelle seconda metà dello scorso anno nella nostra Toscana. Rinnovare l’Ordine dopo un periodo di sonnolenza ci ha fatto pensare anche di rinnovare quelli che sono gli strumenti e le interfacce di comunicazione, ed è così che è stato rinnovato anche il logo, con un bando aperto agli iscritti, è stata realizzata una nuova rivista che esce con cadenza trimestrale e che chiede ad ogni numero il contributo a tutti gli iscritti per la realizzazione degli articoli, che ha preso il nome di “architetti livorno” e che viene distribuita in formato digitale, ed infine ci sarà anche un sito completamente rinnovato, semplice da utilizzare anche attraverso l’utilizzo di tablet o smartphone e con il quale cercheremo di raggiungere ancora più efficacemente l’obiettivo della trasparenza e della comunicazione. Fare rete non deve essere solo un percorso che gli architetti devono intraprendere, e proprio anche per questo che ci siamo rimessi in discussione, ed abbiamo cercato di capire quali fossero gli strumenti necessari, affinchè la voce di
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L’editoriale
d economico quale figura d’avanguardia attraverso la condivisione. 500 iscritti potesse essere amplificata e si potesse aggiungere viralmente a quella degli altri per essere ascoltata; in quest’ottica siamo entrati a far parte della Federazione Architetti della Toscana, una associazione in cui 8 degli Ordini territoriali si confrontano sui vari temi della professione e dell’architettura per poter essere più efficaci nel rapporto con le istituzioni locali, provinciali e regionali, e che, attraverso lo stesso sistema delle commissioni di lavoro inter-territoriali, mette a contatto realtà, architetti e consiglieri che forse non avrebbero mai avuto modo di confrontarsi su un tema o di portare avanti un lavoro comune per il bene di tutti. Seguire l’Ordine e seguire i lavori nella Federazione è senza dubbio un grande impegno ma è anche l’unico modo per portare avanti un lavoro concreto del quale, nonostante la grande comunicazione che ne viene fatta, ogni singolo architetto non si rende conto. Come tutti gli Ordini naturalmente abbiamo avuto molto lavoro da fare per poter adempiere all’obbligo della formazione professionale continua, ed abbiamo trovato proprio in questa attività la possibilità di riscoprire quel contatto umano e quel poter fare rete tra i colleghi; ogni seminario, workshop, corso sono infatti l’occasione per fare incontrare architetti giovani e meno giovani, del sud e del nord della provincia e non solo, visto che ai corsi, che vengono proposti partecipano anche colleghi di altre province; l’organizzazione degli eventi formativi è un grande impegno se la si vuole fare con qualità, e se si vuol fare in modo che i contenuti siano effettivamente formativi e facciano crescere sia culturalmente che professionalmente; non è facile, perchè le offerte formative che si trovano sul mercato, e che hanno avuto una proliferazione incredibile a causa della sua obbligatorietà, sono spesso di basso livello o molto costose. Riuscire quindi a fare sintesi tra qualità, costo ed interesse non è semplice, e sicuramente, anche in questa direzione dopo il rodaggio del 2014, stiamo cercando di raggiungere obiettivi più alti qualitativamente e con un offerta formativa di interesse per una
così eterogenea platea di architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori. Anche nell’attività formativa la sinergia e la condivisione con gli altri Ordini della Federazione ci aiuta a proporre format replicabili nei vari territori con una qualità sempre più alta. Molti architetti vedono la formazione come una imposizione caduta dall’alto e non condivisa, e questo punto è sicuramente difficile da oltrepassare perchè sembra essere diventato solo un altro dei balselli a carico del professionista in un momento economico complicato, e quindi un grande lavoro deve essere fatto per far passare il concetto che anche la ri-qualificazione della professionalità dell’architetto è uno dei passi necessario per uscire dal torpore del mercato; ognuno ha la possibilità, come per ogni cosa, di fare formazione in modo serio e costruttivo, o scegliendo eventi che non lo sono, e che con lo stesso impiego di risorse riescano a fare la differenza. Questo primo periodo di attività si è quindi concentrato sulla necessità di far ripartire una macchina arrugginita ed abbandonata, tanti sono ancora gli argomenti programmatici da portare avanti rispetto a quelli che sono stati svolti, e nei prossimi mesi il lavoro da fare sarà ancora più importante e grande e dovrà andare nella direzione della crescita culturale, della riappropriazione della figura dell’architetto e della sua promozione, mettendo in atto una serie di iniziative che coinvolgano iscritti, istituzioni e cittadini; un lavoro difficile, complesso e che dovrà vedere partecipazione e condivisione, perchè non è possibile pensare che solo l’istituzione Ordine, da sola, possa cambiare le regole del gioco nell’obiettivo di riposizionare l’architetto al centro del suo ruolo. Fare leva sui temi della promozione della figura dell’architetto, della formazione e delle competenze è quello che ci proponiamo come singolo Ordine, in sinergia con la Federazione e con il Consiglio Nazionale da fare nei prossimi mesi. pagina 2
Le Corbusier.
Architetto tra ombre e luci. di Daniele Menichini In occasione dei 50 anni dalla morte del grande architetto del XX secolo, sono usciti in Francia due libri che tenderebbero a mettere in luce l’aspetto “politicizzato” delle opere del maestro, gettando un’ ombra sulla sua opera e sulla sua personalità; le pubblicazioni escono in contemporanea con l’allestimento della mostra a lui dedicata al Centre Pompidou di Parigi, dal 29 aprile al 3 agosto 2015. Nell’elogio funebre pronunciato il 1 settembre del 1965, si diceva, di Charles Edouard Jeanneret-Gris, che costruisse delle grandi “macchine per la felicità” concepite come opere di architettura ed urbanistica di grande respiro, e che avrebbero portato beneficio all’umanità intera con la loro “radiosità”; e mentre per tutto il 2015 la Fondation Le Corbusier prepara una quantità innumerevole di eventi per ricordare
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l’opera del maestro, c’è chi con i propri scritti mette in luce aspetti che fino ad ora erano stati poco considerati e legati a quanto la politica fascista fosse nella sua matita. Gli occhiali con la montatura nera, l’eterno papillon, la sua gestualità, le sue ossessioni e le sue manie; Le Corbusier (1887-1965), architetto, urbanista, pittore e scultore, visionario straordinario, ha rivoluzionato l’architettura e l’habitat, e ha prefigurato, con molti decenni di anticipo, la città futura del XX secolo; un artista totale o totalitario? E’ troppo facile, a 50 anni dalla sua morte, accusarlo di aver aderito attivamente al fascismo, senza pensare di inquadrare la sua figura di architetto, imponente, nel periodo in cui ha operato assieme a molti altri grandi maestri dei quali non ci si chiede se la pensassero o agissero
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come lui, specialmente nel periodo tra le due guerre mondiali in cui trionfava il totalitarsimo. Intervistato in abbondanza per tutta la vita, dopo aver smesso di parlare e scrivere dei suoi pensieri, Le Corbusier ci lascia il suo archivio con il quale giocare per la costruzione di una biografia postuma in cui tutto si potrà dire, senza fermare la libertà del pensiero a lui tanto cara. Si dice che, chi scrisse di lui in quel periodo, era accecato dalla sconfinata fiducia nella sua arte, e non si basava sul fatto che fosse un ideologo pericoloso che voleva tenere in mano l’uomo, costringendolo a vivere in spazi minimi e fuori misura, vedendo nel suo “le modulor” uno schema totalitario; del suo “uomo” impresso nel cemento si arriva a dire che è: “un uomo a braccio alzato, un fascista che saluta alla romana ... dalla piccola testa e grande muscolo ... un uomo seriale per una urbanistica di serie”. Si è rotto un tabù, il segreto della caramella ciucciata, di cui tutti erano a conoscenza in certi circoli intellettuali parigini : quello di Le Corbusier dalle simpatie fasciste, addirittura ammiratore di Hitler e antisemita. A raccontare questa imbarazzante verità sono i due libri “Un Corbusier” di François Chaslin e “Le Corbusier, un fascisme français” di Xavier de Jarcy. Nel secondo testo, l’architetto e urbanista svizzero, che però ha vissuto gran parte della sua vita in Francia, è definito “un personaggio dal cinismo in cemento armato, che voleva approfittare della ricostruzione post guerra”, anche se, in realtà, dovette aspettare la fine della
seconda guerra mondiale e un’altra ricostruzione per imporsi. Nei suoi primi anni progettò mirabili ville, ma i suoi progetti più ambiziosi di nuovi quartieri e nuove città non interessavano proprio nessuno. Tra i suoi amici più stretti c’erano Pierre Winter, leader del Partito fascista rivoluzionario, e altri esponenti della destra reazionaria francese. Le violente manifestazioni antiparlamentari del 6 febbraio 1934, per le strade di Parigi, vennero definite dall’architetto come il «risveglio della pulizia». In realtà le forze della sinistra reagirono e il paese si incamminò sulla strada dell’esperimento del Fronte popolare. Nessuno, a livello delle istituzioni politiche, prendeva in considerazione i progetti grandiosi e scenografici di Le Corbusier. Ci provò, allora, con i regimi totalitari di vario colore. Con l’Unione sovietica di Stalin, senza alcun successo. E soprattutto con Mussolini ma neanche lui offrì alcuna soddisfazione, nonostante gli elogi di Le Corbusier al fascismo: “Lo spettacolo offerto attualmente dall’Italia – scrisse - e lo stato delle sue capacità spirituali annunciano l’alba imminente dello spirito moderno”. Intanto sviluppava la propria concezione architettonica, la sua tipica ossessione di pulizia geometrica: “L’animale umano è come l’ape, un costruttore di cellule geometriche”. Nel giugno del 1940 arrivò la sconfitta per la Francia e Le Corbusier, senza perdere tempo, definì l’arrivo dei tedeschi come “la miracolosa vittoria francese, se avessimo vinto con le armi, il marciume avrebbe trionfato”; evidenziando pagina 4
come la “pulizia” si stesse preparando in questo modo: “I soldi, gli ebrei, i massoni, tutti subiranno adesso la giusta legge. Queste fortezze vergognose verranno smantellate. Dominavano tutto”. E ancora: “Hitler può coronare la sua vita con un’opera grandiosa: la riorganizzazione dell’Europa” e andò oltre le parole; alla fine del 1940 si trovava già a Vichy, alla corte del maresciallo Pétain, a capo della Francia libera. Lì venne presto nominato consigliere del governo per l’urbanistica e cominciò a mettere giù un progetto dietro l’altro. Ma era prevedibile che il suo modernismo non coincidesse con i gusti tradizionalisti dell’anziano Pétain e nonostante tutto, nel giugno 1942 il suo piano urbanistico per Algeri venne bocciato. Il mese dopo il maestro dell’architettura moderna venne definito “il furioso”, e se ne andò a Parigi, dove si avvicinò a Alexis Carrel, teorico dell’eugenismo. Dopo la seconda guerra mondiale, Le Corbusier riuscì abilmente a cancellare qualsiasi
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traccia di quel fastidioso passato. Sostenuto dal ministro per la Ricostruzione e l’Urbanesimo, Eugène Claudius-Petit, e ammirato da un intellettuale come André Malraux, che vide in lui il più grande architetto del secolo, Le Corbusier vedrà finalmente realizzare i suoi i grattacieli e gli immensi complessi che disegnava già dagli anni Venti; anzi, diventerà paradossalmente uno dei miti degli amministratori della gauche. Dopo la sua morte, il primo settembre 1965, Malraux salutò in lui “il mio vecchio maestro, il mio vecchio amico, una delle incarnazioni della Francia libera e gollista”. L’architettura e gli architetti sono sempre figli del proprio tempo e così devono essere inquadrati e criticati, oltre il proprio pensiero politico e strettamente per le proprie opere, leggendo i due libri e conoscendo l’opera del grande maestro si potrebbe invece semplicemente leggere un sano opportunismo mirato alla voglia di realizzare i propri disegni.
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Creatività in movimento. di Gaia Seghieri Introduzione Il mondo dell’architettura e del design è veramente incredibile, è una risorsa continua, inesauribile, ed Io mi sento totalmente grata e fortunata per questa possibilità che la vita mi ha dato, di poter studiare la materia Architettura, con tutte le sue sfaccettature, con tutti i suoi personaggi incontrati sui libri e dal vivo, con tutti i suoi imput verso la creatività. Una donna che è riuscita ad estrapolare dalla sua creatività, non solo una professione,ma anche e soprattutto, un arricchimento costante nella propria vita, è stata l’architetto-designer Eileen Gray. Osservando i prodotti del genio creativo di Eileen Grey, è facile rendersi conto della sua eredità lasciata per il design moderno nei nostri giorni. Semplicità, funzionalità, ricchezza, bellezza, tutti ingredienti fondamentali per la nostra professione, importanti da riscoprire, e oserei dire che è quasi terapeutico riproporre personaggi quali Eileen Grey, che hanno tracciato la storia del gusto nel mondo del design e dell’architettura.
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Breve biografia Eileen Gray è nata il 9 agosto 1878 in Irlanda da una ricca famiglia aristocratica. Il padre, appassionato di pittura, spinse la figlia a coltivare il suo talento artistico, eredità che ha influenzato tantissimo la sua futura professione di architetto e designer. Eileen ha vissuto la sua infanzia tra il suo paese natale, l’Irlanda, e Londra, nella casa di famiglia in South Kensington. Eileen, nel 1898, ha frequentato la Slade School of Fine Art a Londra, dopo la quale svolse un periodo di apprendistato in un laboratorio di lavorazione della lacca in Soho. La sua innata capacità artistica unita all’esperienza ed ai contatti avvenuti nel laboratorio di Soho, porteranno Eileen a spostarsi a Parigi, allora, grande centro artistico in fermento. Eileen ebbe la possibilità di visitare Parigi per l’Esposizione Universale nel 1900, dove conobbe l’Art Noveau ed uno dei suoi maggiori esponenti, Charles Rennie Mackintosh. Nel 1902 si trasferirà a Parigi, dove rimarrà per la maggior parte della sua vita, e dove
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Transat Bibendum
si impegnerà totalmente nel suo lavoro e nella sua passione di scoperta e creazione artistica. Eileen ebbe la possibilità di collaborare con personaggi quali le Corbusier, JJP Oud, che la incoraggiarono a progettare due abitazioni nel sud della Francia, una a Roquebrune, Cap Martin, costruita tra il 1926 ed il 1929, e l’altra a Castellar, costruita tra 1932 ed il1934. Dopo la guerra, e fino alla sua morte, avvenuta nel 1976 a Parigi, Eileen Gray ha continuato a lavorare come designer. Bibendum Realizzata nel 1926, prendendo spunto dall’omino della Michelin, “Bibendum”, questa poltrona è costituita da una base tubolare d’acciaio cromato, un sedile completamente imbottito, e schienale e braccioli rivestiti in tessuto o pelle in vari colori. Eileen Gray ha usato questa sedia in alcuni dei suoi interni. Transat Creata per essere usata sulla terrazza della casa E1027 Eileen a Roquebrune Cap Martin, nel sud della Francia, questa chaise longue presenta una struttura in legno di faggio, naturale o nero laccato, con un poggiatesta regolabile. I giunti sono cromati, ed il rivestimento della seduta/schienale è in pelle o tessuto di lino. Il ‘transatlantique fauteuil’ prende come
spunto le sdraio usate sulle navi a vapore e sui transatlantici. E1027 Eileen Gray aveva un grande interesse per i mobili multi-funzionali, e sulla base di questo imput, nel 1927 ideò, per la sua casa a Roquebrune Cap Martin, questo tavolo regolabile, costituito da telaio tubolare in acciaio cromato, base trasparente in cristallo lucido o in metallo satinato, che poteva essere usato sulle ginocchia, seduti, o come comodino occasionale. . Brick Screen Eileen Gray, come emerge dalla sua biografia, ha imparato l’antico mestiere della lavorazione della lacca da un artigiano giapponese e poi perfezionato questa sua abilità nel corso di molti anni. Brick screen è una delle sue più note creazioni. Prima di giungere a questo risultato, Eileen ha sperimentato diverse dimensioni e finiture di pannelli. Più che un divisorio, questo paravento, con la sua eleganza sobria, riporta la presenza di una scultura. I pannelli fissi e mobili sono laccati a mano, strato dopo strato, in un processo che richiede diverse settimane: ogni strato viene prima lasciato asciugare completamente, poi levigato a mano pagina 8
Brick Screen
ed infine lucidato per dar vita ad una lucentezza delle più pure. Questo famoso pezzo, ambito dai maggiori collezionisti, è parte della collezione permanente del Design del Museum of Modern Art di New York. Ogni schermo è firmato e catalogato con un numero di serie come prova dell’autenticità e della provenienza
E1027
Monte Carlo Eileen Gray ha ideato non solo sedie e schermi, ma anche lampade, tappeti, divani e tutto ciò che rientra nell’aspetto arredamento/ Interior Design. Tra i divani troviamo “Monte Carlo”, creato e nato nel 1927. Questo divano, telaio in acciaio lucido cromato, e sedile e schienale imbottiti rivestiti in tessuto o pelle, è un prodotto altamente moderno e sofisticato, che riesce ad essere non solo un semplice oggetto di arredamento ma anche una bellissima scultura, come altri elementi d’arredo da lei creati. Le due semi-curve riproposte in offset, danno il senso della semplicità del gesto creativo ed allo stesso tempo invitano nell’atmosfera del movimento.
Monte Carlo
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La vignetta.
Michelangelo Lucco.
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La Torre di Vada. di Enrico Vannini Correva l’anno 1983/84 (si dovrebbe dire considerando il tempo trascorso), e tra i vari esami di primo anno a Firenze, dovevamo affrontare, tra gli altri, il corso di “DISEGNO E RILIEVO”. La ricerca, esaminati gli altri corsi che risultavano più che affollati e per i quali non era possibile accedere, mi portò a frequentare una lezione tenuta dal prof. Manetti Rino. L’aula, quel pomeriggio piovoso, era piuttosto in penombra, gli allievi erano una gruppo sparuto, sperduto. tra i tavoli e capii subito che la situazione non si presentava molto accogliente. Il prof. Manetti, non si poteva certo dire, che, a prima vista, fosse molto disponibile. Dopo qualche richiamo al silenzio e qualche esplicita indicazione sul comportamento e sulle future attività del corso, velato da un pauroso procedimento, ci invitò (mi sembra) a ritirare il programma dall’assistente. Soltanto per scorrere il programma, scrupolosamente dettagliato, ci voleva almeno mezza giornata. Lo riguardo casualmente oggi, sono addirittura 22 pagine più un’ altro inserto
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che ripeteva, in altra forma, gli scopi didattici previsti. Si capiva a volte fin da principio che aria tirava. .Insegnante burbero, programma faticoso, revisioni severe, e quindi in molti sloggiavano. Senza avere molte scelte, mi adattai, sperando in tempi migliori. Non mi sentivo molto preoccupato, “ho sempre avuto predisposizione per il disegno” mi dicevo, “e quindi... procediamo!” Prima di accedere all’assegnazione del tema annuale, si dovevano eseguire tre esercitazioni . Alla seconda, mentre facevo il rilevo di un’arcata nel chiostro della S.S. Annuziata in Firenze, conobbi un altro allievo, con il quale entrai in sintonia immediatamente. Il modo di rilevare, la compilazione dei grafici, ecc... mi convinsero, al momento della scelta per la prova annuale, di fare coppia con lui. Giovanni Giovacchini veniva da Vicarello, e forse l’aria di Livorno ci accomunava. Nel mese di marzo, terminato il precedente impegno con sufficiente approvazione del Manetti,
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ci fù comunicata la prova annuale: si trattava di studiare una torre del nostro litorale. Bell’è fatto ci presentiamo dal Manetti, con la foto della torre del Marzocco: “Non va bene, occorre qualche cosa di meno indagato” La revisione successiva, si va con la torre di Calafuria . Niente, peggio che andar di notte: torre parzialmente rimaneggiata, troppi interventi, insomma non va bene nemmeno questa. Ecco allora che ci fornisce l’indicazione lui direttamente . ”La torre di Vada: verificate , rilevate” ecc... ecc.. A dire la verità non ne avevamo mai sentito parlare. Vada la conoscevamo perché vicino ci sono le spiagge bianche, ci sono molti campeggi, ma di questa torre nessuna notizia. Eravamo degli sprovveduti. Ormai la proposta non si poteva ovviamente cambiare. Il suggerimento era troppo definitivo. Al primo impatto la nostra delusione fu evidente. La torre era immersa in un fossato pieno di erbacce e piante selvatiche. Un blocco di muratura quasi muto, con
alcune feritoie e con una brutta sopraelevazione precedente la seconda guerra mondiale, appiccicata senza scrupoli sopra il secondo livello. Un ponticello semi praticabile la collegava alla strada ed un’ altro, più antico, ad un gruppo di edifici posti sul lato Est della costruzione. Richiesta l’autorizzazione al comune di Rosignano, dal quale Vada dipende, iniziammo i nostri rilievi. La struttura si sviluppava su cinque livelli, di cui quello più basso costruito già con la pendenza della scarpa, che, interrotta da un marcapiano, proseguiva per gli altri tre livelli a formare il blocco della torre, con la forma di un tronco di piramide con base quadrilatera irregolare. Il quinto livello era costituito dalla sopraelevazione. Le difficoltà di rilievo diretto le lascio immaginare: non un’ angolo, un’altezza, uno spessore che potessero consentirci una facile ricostruzione per piani sovrapposti. Tutto era diverso. Dovevamo procedere per diagonali e perimetri e le strutture rivelavano la loro continuità nelle alzate, solo dopo uno sviluppo della grafica iniziale. Mentre procedevamo con le verifiche ed il rilievo, iniziammo a indagare su quello che era l’ultima destinazione d’uso della torre.
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Procedendo a ritroso nel tempo, potemmo stabilire che la struttura, al momento del nostro rilievo, era in disuso. Destinata a base faro, per la sicurezza del traffico marittimo della zona, era stata definitivamente abbandonata dopo la costruzione di quello nuovo sulle secche di Vada. A revisione presentammo i rilevi iniziati, le prime informazioni. Faro a carburo nell’ottocento, faro elettrico nel 900, primi cenni storici, ma le domande del Manetti allargavano la ricerca, e noi proseguivamo piuttosto contrariati per tutto quanto veniva richiesto, che ci sembrava più del dovuto. Risalendo nelle indagini, cominciammo a capire i perché dei rilievi e delle prime informazioni Fin da epoca romana, narrano di Vada Volaterranea, Cicerone, Plinio il Vecchio nelle sue storie e quindi Rutilio Namaziano nel suo viaggio La presenza delle saline nella zona ne rivelava l’importanza ed il valore . Questo giustificava la maggior parte degli eventi che nel tempo si erano succeduti. Andando in successione con le richieste; prima il rilievo, dopo le saline, dopo la posizione degli approdi, la necessità e la difficoltà per raggiungerli e quindi il fondo marino, continuammo a raccogliere dati e quello che facilmente si vede e si rileva non è il tutto, molto è quello che non si vede che deve essere ricostruito con l’immaginazione. La torre non è più solamente una struttura isolata, il mare che è di fronte la giustifica . Uno studio della carta dei fondali ci rivela le tracce di quanto narrato da Rutilio Namaziano. La protezione che le secche esercitavano sull’insediamento e al tempo stesso la difficoltà per raggiungere l’approdo. Con l’VIII secolo ritroviamo una documentazione scritta e Vada ricompare con le sue saline ed i suoi abitanti. In epoche successive si può concretamente individuare la struttura nella cartografia storica. pagina 13
Si rende più chiara la funzione esercitata che, oltre che difensiva della costa, era presumibilmente di dogana per il commercio. Lentamente decade il commercio del sale per l’interramento della costa, anzi gli stagnoli divengono fonte di malaria e in futuro altri regnanti tenteranno le bonifiche per allontanare le pestilenze e recuperare il territorio. Distrutta nel 1453 dai Fiorentini dopo una guerra con i Napoletani e Genovesi, ne ritroviamo traccia in un manoscritto del 1614 redatto dal comasco Pantero Pantera. Si deve essere trattato di un rudere o di una piccola struttura, oggi inglobata nella esistente, definita dal relatore come “piccola torricciola di Vada”. Costruita in quella dimensione, non abbiamo potuto accertare da chi e quando, si può intuire, nella grafica dei rilievi, una presunta
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preesistenza, successivamente rinforzata con muraglie adatte alle armi da fuoco. Gli eventi si susseguono, troviamo un rapporto del Colonnello Odoardo Warren che nel 1737 descrive la torre, i sui armamenti e le difficili condizioni di vita della guarnigione, per la insalubrità delle terre infestate dalla malaria. Ci fornisce una rappresentazione grafica molto accurata con una torre in prospettiva e numerose piante . Di ricerca in ricerca proseguiamo fino ad una cartografia del 1795 nella quale compare la torre con un sistema di canali e due stagnoli indicati come “ stagnolo di levante e stagnolo di ponente”, originariamente comunicanti con il mare. Ogni scoperta una nuova visione del luogo e della vita che nella torre o nei luoghi vicini si svolgeva.
La nostra ricerca, non più sollecitata, diveniva parte integrante del nostro desiderio di conoscere sempre di più e sempre con maggiori informazioni la struttura che stavamo studiando. Il sistema dei canali, che si rilevano dalla carta, illustravano il collegamento della torre con gli approdi, il sistema di controllo per le imbarcazioni leggere, la funzione di dogana oltre che quella difensiva del luogo. E’ questo un reperto molto interessante e collegato con lo studio della costa, ad esso prospiciente, ci permette di capire bene l’associazione tra gli elementi. Le imbarcazioni, di solito piuttosto leggere, si avvicinavano condotte con molta cautela dai nocchieri nella zona delle secche. A seconda della loro stazza potevano essere ricoverate nel piccolo porto chiamato “ stagnolo di ponente”. Quindi per le operazioni commerciali, le barche dovevano raggiungere la torre che era circondata da un fossato lungo i muri del quale comparivano ancora, quando noi facemmo i rilievi, le campanelle di ormeggio. Dallo studio dei fondali marini, si comprendono le indicazioni che risalgono ad epoche molto antiche. Le secche formavano una barriera che consentiva un ormeggio più sicuro a seconda del vento. Il fondale, veniva indicato sul versante sud, come “val di vetro”, e rappresentava uno spartiacque sul quale si giocavano posizioni più o meno vantaggiose per l’ancoraggio delle imbarcazioni in mare aperto. Una narrazione più dettagliata e suggestiva di un’ approdo la narra Rutilio Namaziano nel suo itinerario marittimo del 415 o 420 D.C. “De reditu suo F 453 e seg.” . Ricavata da un brano citato dal Repetti, leggendola abbiamo rivissuto quelle fasi di approdo, che solamente un bravo pilota sapeva al tempo utilizzare (con un poco di fantasia si partecipa): “...Entro nel tratto di Volterra che ha nome giustamente Vada. Seguo un percorso tra le secche. Il marinaro di prua si sporge e dirige il timone ubbidiente e guardando in acqua grida le pagina 14
sue istruzioni a poppa. Distinguo fauci pericolose. Due alberi e i bordi sporgono di qua e di là, a pali confitti si congiungono di solito alti allori appariscenti per rami e folte fronde perché, dove tra le simplegadi del denso limo, una via, chiaro il sentiero, intatti i contrassegni serbi. A stento un tetto, a offrir riparo agli acquazzoni si offrì vicino alla villa del mio Albino. Inganno il tempo osservando ai piedi della villa le saline. E’ questo il nome che si assegna a quella salsa palude in cui discende il mare per canali di terra ed una piccola fossa irriga specchi divisi in bacini...” E qui ci siamo domandati, poteva esservi in un primo tempo un fortilizio anche in epoca romana? Erano presenti delle preesistenze quando in periodo longobardo continuavano ad essere sfruttate le saline? Devo concludere queste note con un certo rammarico, poiché tornando a vedere la Torre alcuni anni dopo, ho visto i restauri attuati, e mi sono reso conto che ciò che testimoniava più da
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vicino vicende vissute all’interno o all’esterno della torre, era stato rimosso o cancellato. Inutile recriminare, ma con una maggiore sensibilità nell’affrontare i problemi, si sarebbe potuto meglio conservare un edificio storico che per il paese di Vada costituisce un pregio non indifferente. Domande e ricerche che rimarranno per me irrisolte...penso...con nostalgia. Domande e ricerche perdute nel tempo, ma che lasciano ancora il desidero di scoprire cose nuove di un mondo fantastico e lontano. Questa torre, che al primo impatto non ci diceva nulla, piuttosto muta e bruttina, ha rivelato attraverso una catenella di notizie, un’ alone di fantasie di accadimenti che, senza il suggerimento e l’incontentabilità del prof Manetti, non avremmo mai potuto conoscere ed apprezzare nella giusta luce. Non avremmo potuto sviluppare e, fondamentalmente, comprendere meglio, lo scopo della ricerca, la meraviglia della scoperta, il piacere di conoscere sempre di più e sempre più lontano nel tempo, facendo, come si usa dire, “ parlare i sassi”. A lui vero maestro, i nostri ringraziamenti.
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Inarcassa.
Comitato Nazionale dei Delegati Legislatura 2015/2020. di Roberta Cini A seguito della tornata elettorale e dei relativi scrutini, nella seduta del 22 maggio, il Consiglio di Amministrazione di Inarcassa ha formalizzato la ricostituzione del Comitato Nazionale dei Delegati per il quinquennio 2015/2020. Per gli Architetti della Provincia di Livorno, grazie alla fiducia che mi avete di nuovo accordata, sarò il vostro rappresentante in seno al Consiglio Nazionale dei Delegati. Solo gli Architetti della Provincia di Milano, non avendo raggiunto il quorum per poter eleggere il delegato, non saranno rappresentati in e non potranno partecipare alle scelte politiche di Inarcassa. Sintetizzo gli obbiettivi che mi prefiggo di raggiungere nella legislatura che sta per iniziare. 1. Revisionare completamente il regolamento generale di previdenza nel rispetto della sostenibilità sia di Inarcassa sia
dell’Iscritto: a) diminuire notevolmente la morosità (all’oggi troppo elevata vista la crisi economica perdurante) anche attraverso l’applicazione di sistemi di pagamento adeguati alla situazione specifica e particolare da cui deriva; b) considerare la possibilità di risolvere il problema della libera professione “discontinua”, il cosiddetto pendolarismo, attraverso flessibilità d’iscrizione (vedi Supplenze, ecc.); c) pensione minima garantita e dignitosa se in regola con il pagamento dei contributi minimi obbligatori e sganciata da Isee; d) verificare la possibilità di applicazione; di un sistema che permetta la riduzione dei contributi minimi obbligatori e/o delle aliquote contributive; e) rivedere al ribasso il sistema sanzionatorio e renderlo rateizzabile e commisurato alla effettiva situazione specifica dell’iscritto. 2. Rendere trasparente l’azione dei
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delegati e del CdA con: a) una informazione capillare agli Iscritti anche su O.d.G del CND e del CdA e relative delibere; d) avvicinare gli iscritti al proprio ente di previdenza attraverso l’istituzione di assemblee territoriali ed altre forme di comunicazioni interattive. 3. Definire una nuova concezione degli investimenti che abbia una ricaduta positiva sulla professione, oltre ad essere remunerativa per la sostenibilità del sistema. 4. Realizzare azioni politiche sinergiche con altri Enti e Associazioni interessate per la tutela del ruolo culturale, sociale ed economico delle libere professioni di ingegneri ed architetti, indispensabili per la salvaguardia ed il rinnovamento del paese dando anche nuovo impulso alla Fondazione Inarcassa. Ma quale è il ruolo del delegato provinciale Inarcassa? Il ruolo è quello di rappresentare gli iscritti del proprio territorio partecipando alle decisioni statutarie utili alla gestione della Cassa, amministrata operativamente dal CdA. sulle linee politiche date dall’Assemblea dei Delegati.
Ricordo, infatti, che Inarcassa è direttamente gestita da noi architetti e ingegneri attraverso le figure del delegato che rappresenta, come detto, gli Iscritti del Territorio di appartenenza. Infatti, come sapete, anche il Consiglio di Amministrazione di Inarcassa è costituito da 11 delegati provinciali che vengono eletti all’interno del Comitato Nazionale dei Delegati, nella prima riunione d’insediamento dei delegati, e che quest’anno si svolgerà quasi sicuramente nel mese di Luglio. Da qui l’importanza della partecipazione e collaborazione tra il Delegato e i propri colleghi, per poter individuare argomenti e temi d’interesse da portare all’attenzione del CND, che valuta in base alle priorità (anche attraverso i dati forniti dagli appositi Uffici) le possibili politiche da intraprendere. Tali politiche devono avere una ricaduta positiva sugli Iscritti ed essere sostenibili dalla ns. Cassa. Quindi volevo qui rimarcare il fatto che Inarcassa siamo noi Iscritti e che la stretta relazione e la cooperazione tra di noi è fondamentale per portare in Inarcassa le ns. idee, le ns. esigenze, le ns. soluzioni.
per gli eletti in tutte le province: https://www.inarcassa.it/site/home/articolo6609.html pagina 17
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La vignetta.
Michelangelo Lucco.
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Polo scolastico di Shangay a Livorno. Nuova scuola dell’infanzia in Via Stenone. di Melania Lessi Il Settore Edilizia Pubblica ha messo a punto negli ultimi anni una serie di progetti di scuole, alcuni realizzati, altri ancora in attesa di finanziamenti, con particolare riguardo a due temi: quello pedagogico e quello del risparmio energetico. Pur muovendosi nell’ambito di una normativa che risale a 40 anni fa, abbiamo cercato di mettere a frutto l’esperienza dei colleghi del settore istruzione, per realizzare strutture non strettamente rispondenti ai semplici requisiti dimensionali, analizzando anche esperienze particolarmente virtuose, quali quelle di Reggio Emilia. Riguardo al risparmio energetico, si è cercato di mettere a punto soluzioni che andassero nella direzione ormai inevitabile della sostenibilità, ritenendo la strutture scolastiche particolarmente idonee a trasmettere all’amministrazione e agli utenti questo tipo di cultura. La nuova scuola dell’infanzia di via
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Stenone completa il polo scolastico del quartiere Shangay, iniziato negli anni duemila e già costituito da una scuola elementare, una scuola media, una ludoteca ed una biblioteca. Questo polo scolastico costituisce in punto fondamentale del piano più generale di riqualificazione urbanistica dei due quartieri nord della città. Le caratteristiche della nuova struttura si vanno ad integrare con gli edifici già esistenti sia per la sua conformazione che, con l’andamento curvilineo, ne costituisce una specie di apertura visiva venendo da via Cestoni, sia per l’analoga scelta dei materiali (mattoni faccia vista per le pareti esterne, infissi in legno al naturale). L’edificio è costituito da due parti: una, a sinistra guardando da via Stenone, contiene le tre sezioni: l’alto muro curvilineo che la caratterizza, quasi come una piccola fortezza, serve per ridurre l’impatto acustico sugli ambienti didattici; infatti, per garantire la costituzione
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del giardino retrostante, il corpo di fabbrica è stato posizionato più vicino alla strada rispetto agli altri presenti. L’altra parte dell’edificio, a destra, contiene i servizi generali: cucina, refettorio, spogliatoi, uffici, sala di psicomotricità e un laboratorio per la pittura. Tra i due corpi di fabbrica è posizionato l’atrio di ingresso: con la sua struttura in acciaio e gli infissi in alluminio, tutti colorati in rosso, e con le pareti vetrate, è come una lanterna gigante, e, fortemente illuminata, è pensata come una specie di caldo richiamo per i bambini quando entrano nelle buie mattine invernali. Tutti gli ambienti si aprono sul giardino interno; le sezioni sono tutte vetrate, con infissi in legno, ed antistante struttura a portico, rivestita in legno, con funzione di frangisole. Particolare cura è stata riservata al risparmio energetico. Il pacchetto che costituisce le pareti esterne è eseguito con materiali altamente isolanti, in cui il coibente è strutturalmente connesso alla parte in muratura per garantire un’altrettanta alta qualità nel campo antisismico; gli infissi sono tutti, ad eccezione dell’atrio, in
legno di ampia sezione ed anche i vetri doppi hanno qualità speciali per l’aspetto termico. E’ stato inoltre utilizzato un sistema di riscaldamento con pannelli radianti a pavimento, alimentato da due moduli di caldaia a condensazione, gestiti da un regolatore che ne determina i carichi di potenza al fine di ottimizzare il rendimento nelle varie fasi del funzionamento. Inoltre sulla copertura sono stati istallati pannelli solari sia termici, per un totale di 60 mq, che fotovoltaici, per un totale di 3 kw. La superficie totale utile interna della scuola è di 658 mq per 75 bambini, divisi per età in tre sezioni da 25. La progettazione e la direzione lavori è stata a cura dell’ufficio Edilizia Pubblica del Comune di Livorno. Il costo complessivo dell’opera è stato di 1.622.659 euro ed è stato finanziato con contributi dello Stato previsti nel programma denominato Contratto di Quartiere II. I lavori sono iniziati il 13 dicembre 2013 e sono finiti, dopo circa un anno, il 17 dicembre 2014. pagina 20
Il restauro della Chiesa di Santa Caterina. Lucca.
di Gian Matteo Bianchi Il 22 maggio scorsosi è tenuto il corso: “Il Restauro di Santa Caterina strumenti e metodi”, organizzato dall’Ordine degli Architetti PPC di Lucca. Nel seminario, che si è svolto all’interno della chiesa, situata nell’angolo compreso tra via Vittorio Emanuele II e via del Crocifisso, sono state illustrate le varie fasi dell’intervento, dall’indagine storico-urbanistica al rilievo e all’analisi dei materiali, fino al progetto esecutivo architettonico e strutturale. Il restauro ha avuto come obiettivo il consolidamento strutturale e il recupero dell’efficienza delle strutture originarie, il ripristino della facciata, delle superfici interne e delle decorazioni (intonaci, affreschi, stucchi) secondo il criterio del “minimo intervento”, attraverso un approccio multidisciplinare che è risultato molto efficace sia per quanto riguarda le soluzioni tecniche adottate, sia per i tempi di esecuzione notevolmente ridotti (circa due anni).
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I lavori, interamente finanziati dal Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, sono stati appaltati dalla Direzione Regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Toscana e curati per la progettazione e la direzione dei lavori dalla Soprintendenza BAPSA di Lucca e Massa Carrara; l’intervento della Sovrintendenza sarà integrato dal restauro dell’organo ottocentesco, sostenuto dal FAI e da Intesa Sanpaolo, nell’ambito degli sviluppi del censimento I Luoghi del Cuore. La chiesa, progettata dall’architetto lucchese Francesco Pini (allievo di Filippo Juvarra), fu costruita tra il 1738 ed il 1743 all’interno dell’originario convento delle Monache di Santa Caterina da Siena del terzo Ordine di San Domenico; in base alle ricerche storiche effettuate, le maestranze furono le stesse impiegate per l’Oratorio di Santa Zita. Durante il periodo napoleonico, in seguito alla soppressione degli ordini monastici, la chiesa fu sconsacrata e trasformata in struttura
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di accoglienza e di ricovero per gli invalidi, successivamente, dopo alterne vicende, è rimasta chiusa per oltre quarant’anni durante i quali, lo stato di abbandono e le infiltrazioni di umidità (ancora oggi è presente una falda d’acqua nel terreno sottostante) hanno contribuito ad aggravare il degrado di questo gioiello architettonico. Lo spazio interno di forma ellittica (elegante soluzione d’angolo che richiama le architetture del barocco romano) è sormontato da una cupola dipinta con finte architetture, figure di cherubini e motivi floreali ed è arricchito da sculture, dipinti, stucchi e arredi in legno originari dell’epoca. Dal loculo centrale, infine, si può ammirare l’affresco sospeso nel sottotetto che rappresenta la Gloria di Santa Caterina: il recupero di questo elemento ha richiesto uno studio accurato e delle tecniche di restauro molto ingegnose, trattandosi di un affresco steso direttamente su una struttura in ‘cannicciato’ ancorata alla copertura e fortemente degradata. Durante lo svolgimento del corso sono intervenuti: - l’Arch. Lisa Lambusier (Soprintendenza
Belle Arti e Paesaggio di Roma) per il progetto di restauro; - l’Arch. Giuseppe Stolfi (Soprintendente Belle Arti e Paesaggio per le province di Brescia, Cremona e Mantova) per la ricerca di archivio e la lettura storica; - il dott. Massimo Mannucci (Legno DOC S.r.l.) per l’analisi delle strutture lignee; - il dott. Marcello Spampinato per l’analisi dei materiali e dello stato di conservazione; - il prof. Ing. Lorenzo Jurina (Politecnico di Milano) per il progetto strutturale; - la dott.ssa Antonia D’Aniello (direttore dei musei Nazionali di Lucca) per il restauro delle superfici; - l’Arch. Giuseppe Monticelli per quanto riguarda la sicurezza in cantiere; - l’Arch. Laura Panzani per la Raccolta e l’informatizzazione dei dati in SICAR/Web Il corso si è concluso con una visita nei locali del sottotetto, dove è stato possibile prendere visione delle soluzioni tecniche adottate per gli impianti, per il recupero della copertura, per il consolidamento delle capriate lignee e della cupola.
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B&B “la pecora nera” Mazzolla-Volterra (Pi). di Gaia Vivaldi Il Bed & Breakfast La Pecora Nera si trova in Toscana, incastonato nel piccolo borgo di Mazzolla, a pochi km dalla città di Volterra inserito al centro di un contesto di particolare interesse storico e di pregio naturalistico tra Volterra, San Gimignano e Siena. Il colle su cui poggia guarda verso l’ampia Val Di Cecina da una parte e la Valdera dall’altra; da qui Volterra la si può ammirare come una bellissima cartolina. Un posto perfetto per godere il silenzio e la calma di una natura fatta di colline, calanchi, balze, campagna e boschi in perfetta simbiosi con il patrimonio archeologico e architettonico dei borghi e delle città che la circondano. È da qui che è nata l’idea della proprietaria, prendendo spunto dal paesaggio naturalistico ed architettonico stesso, di trasformare alcuni ambienti, dell’antico convento preesistente nel sito, recuperandoli, in un piccolo B&B che rispecchiasse la sua personalità e il desiderio di esprimere il suo essere aperta a tutto ciò che è “diverso” e all’arte. C’è stato un rapporto molto stretto con la committente durante la progettazione, con tutte le implicazioni e le difficoltà di conciliare minuto per minuto i sogni con la realtà, ma con una grande soddisfazione nel poter realizzare a pieno i desideri di qualcuno che si affida alla tua professionalità.
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L’immobile è stato ristrutturato ricavando, dalle cantine e dall’appartamento al piano superiore, tre camere con zona bagno e una sala colazioni, dove ogni ambiente è frutto di un progetto accurato e orientato alla bioedilizia, grazie all’utilizzo di tecniche e materiali ecosostenibili e mantenendo, dove possibile, la vecchia pavimentazione e le volte originali. Anche gli infissi stessi sono stati semplicemente restaurati. Per quanto riguarda il concept del B&B abbiamo iniziato a lavorare insieme alla proprietaria partendo dal concetto fondamentale che chi viene a Mazzolla, si vuole estraniare dal resto del mondo: che si venga a creare un incontro passionale, un momento di riflessione, o semplicemente un momento di piacere da dedicare a se stessi … e deve rimanere un’esperienza impressa nella loro mente. Quindi piaceri ed emozioni in “assenza di tempo”. Le camere sono tutte dotate di letto matrimoniale e vasca a idromassaggio, un ambiente unico, dove solamente i sanitari sono
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più appartati. Diversi studi dimostrano che chi sta in una camera di albergo passa la maggior parte del tempo in bagno, allora perché relegarlo a una piccola parte della camera, senza finestra, come succede di solito? Il concetto di benessere è cambiato e così abbiamo rotto lo schema convenzionale della classica camera lettobagno. Inoltre, quando la committente mi ha detto di volere chiamare ogni camera con un nome di donna e ho saputo che si trattava di Eva, Frida Khalo e Eleonora D’Arborea, ho capito che il filo conduttore era la passionalità e la determinazione. Ma non si trattava di “allestire” un’ambientazione, avrebbe avuto un ché di falso, abbiamo semplicemente arredato le camere con il sentimento che ci ispiravano le donne a cui sono dedicate, affinché chi entra in quella stanza provi un’emozione che poi porterà con sé. Il riutilizzo in modo originale di materiali e vecchi oggetti destinati ad altri utilizzi, per creare elementi di arredo, è anch’esso parte integrante del progetto: legni di mare sono stati trasformati in originali grucce e supporti per le lampade, vecchi libri sono diventati la testata del letto della camera Frida, e le antiche travi di duecento anni di una villa del territorio sono state recuperate per realizzare un originale mobile bagno. Si può dire che ogni complemento d’arredo è un pezzo unico, frutto del lavoro e della maestria degli artigiani del ferro battuto e del legno di Volterra, e di artisti locali che si sono prestati a creare per il bed & breakfast piccole opere d’arte, alcune delle quali potranno essere anche acquistate. Travi e mattoni lasciati a vista, porte e finestre di legno restaurate e riportate all’antico splendore: tutto è stato fatto nel rispetto del contesto edilizio originario. Le camere: EVA - Natura, desiderio e istinto umano. Eva è la prima donna, la madre di tutti i viventi, colei che “suscita la vita”. Tutti conosciamo la storia, ma la domanda è: cosa sarebbe successo se Eva non avesse desiderato il frutto proibito? Avrebbe senso la vita in un mondo in cui non si può desiderare o guardare oltre? Se vivere significa dare un senso al nostro
EVA
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essere qui, forse rompere gli schemi e seguire il proprio istinto sono espressione della stessa vita. La camera Eva è un inno alla natura, all’istinto umano e a chi crede al cambiamento. Eva è la camera più arcaica, più vicina alla terra. I colori tenui e naturali richiamano la terra. Il soffitto è a volte e senza stucchi, i muri esaltano i vecchi mattoni originari e le pietre a vista, il pavimento è rivestito in parte con il travertino e con legno di quercia. Il mobile bagno è un elemento d’arredo di pregio: ricavato da una trave di legno di ben 200 anni, è stato lavorato e creato da un artigiano di Volterra. La natura primordiale si ritrova nel verde del muschio perenne che copre la testata del letto: un rimando al Giardino dell’Eden, e ad un mondo ancora intatto. La scala interna ci accoglie con un richiamo d’amore e passione, scritto dalla proprietaria : ... sei la mia terra ... per tanto tempo ti ho cercata ed ora che ti ho trovata ti prego anche solo per un istante da te voglio essere amata!
FRIDA
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Dal pianerottolo del primo piano si accede alle altre due camere: FRIDA - colore, forza e passione. Frida Khalo dipingeva senza schemi e senza logiche precostituite. Spinta da una personalità forte e da uno spirito indipendente, contrario alle convenzioni sociali, nei suoi dipinti parlava della sua vita, tormentata da un rapporto ossessivo e doloroso con il suo corpo, e del suo rapporto con il mondo. Come lei stessa disse a Time Magazine nel 1953 «Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni.» e la sua idea di arte era giocosa e imprevedibile: “è la magica sorpresa di trovare un leone nell’armadio, dove eri sicuro di trovare le camicie”. La camera Frida è un omaggio alle passioni, a chi affronta le paure con coraggio, e vive intensamente. Frida ti avvolge con i suoi colori caldi e ti sorprende: con un oggetto strano, un dettaglio particolare, che all’inizio non lo capisci, ma poi come un flash back ti riporta indietro nel tempo e ti spinge verso l’immaginazione. Il rosso domina
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su tutto: dalle pareti del bagno si mescola agli arredi, senza sosta e come un sottile filo conduttore. La gabbia è un simbolo che ci ricorda il suo rapporto con il corpo che ad un certo punto è divenuto una prigione ma al cui interno pulsava con forza la vita. Attorno alla vasca idromassaggio le ceramiche sembrano un puzzle senza senso, come la personalità complessa di Frida, ma ravvivano l’area relax in modo vivace e festoso. E la storia di Frida si ritrova nelle storie di tante donne, proprio come i tanti libri aperti che compongono l’installazione sulla testata del letto: anche le parole e i loro racconti riecheggiano nella stanza e si confondono con le storie dei visitatori. ELEONORA D’ARBOREA - emplicità e lusso insieme, natura e storia. Eleonora era una donna nobile la cui importanza per la storia della Sardegna è legata al Giudicato di Arborea, di cui fu l’ultima Giudicessa intorno al 1400, fiera e audace promotrice di importanti innovazioni per l’epoca, delle vere rivoluzioni in ambito politico e giuridico. La camera “Eleonora” è la rappresentazione di una simbiosi perfetta tra semplicità ed eleganza. Un mix armonioso di pochi elementi essenziali tra cui l’azzurro tenue delle tinte, il legno grezzo e il ferro battuto - ricordano le origini nobili della protagonista e la terra in cui visse con orgoglio: la Sardegna. Così la foglia dorata, simbolo dello stemma araldico degli Arborea, si riflette su una parete insieme ai tramonti volterrani, e dietro ad un letto rifinito con stoffe pregiate, c’è una sottile cortina di legnetti di mare, ciò che ci divide dalla sua amata isola. Una nota personale. Per me questo progetto è stato l’ennesimo insegnamento : gli ospiti sono sempre colpiti dalle camere e dall’accoglienza di questo B&B bio e la proprietaria molto soddisfatta perché lo sente come un proprio progetto, a conferma che per me, tradurre lo stile e l’anima del committente in quello che progetto, oltre che essere impegnativo a livello di indagine psicologica, è molto più soddisfacente di un’autocelebrazione estetica. Se volete visitarlo andate su: www.pecoraneravolterra.it
ELEONORA D’ARBOREA
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Chi lo manda più in alto?
Volontà di potenza con palazzi sempre più alti. di Daniele Menichini L’emirato arabo di Dubai è senza dubbio quello che è più al centro della vita economica tra i sette Stati degli Emirati Arabi Uniti. Una città che è stata costruita fuori da ogni logica urbanistica alle quali facciamo riferimento da tempo e che ancora continuerà a farlo; oggi conta circa 8 milioni di abitanti e per l’Expo 2020 vuole arrivare a contarne 15 milioni. Mentre nelle nostre città e nei nostri territori si parla di consumo di suolo zero, rigenerazione urbana, riuso e, inoltre, di portare entro il 2020 le emissioni di CO2 a livelli molto più bassi, tollerabili e compatibili con il risparmio
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energetico e la salvaguarda dell’ambiente, in questa area dei paesi arabi si punta esattamente al contrario. Il consumo di suolo è limitato solo dalla disponibilità del suolo stesso prima dell’area desertica, e quindi nella parte utilizzabile si cerca di ottenere il massimo del risultato e, se il suolo finisce, allora si inventa un modo per crearne ancora, ne sono l’esempio le due aree delle “palme” e l’area del “mondo” che sono state sottratte al mare per farne una speculazione edilizia. Oggi la città di Dubai è più o meno un
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grande rettangolo di 4 x 25 km che confina a nord con Sharjah, a sud con Abu Dhabi ad ovest con il mare e ad est con il deserto; una grande autostrada centrale ad 8 corsie, per senso di marcia, la attraversa completamente e la collega ai due emirati con cui confina. Lungo l’autostrada si staccano i grattacieli nelle prime file, e poi la densità urbana si riduce notevolmente andando verso il deserto, lasciando posto alle case più povere, mentre verso ovest diventa luogo di ville e case di prestigio via via che si è più vicini al mare. In questo “rettangolo” spiccano poi altre aree a concentrazione di grattaceli che diventano le aree finanziarie, commerciali ed economiche, che sono i poli di attrazione della richezza e del lavoro nella città, fino alla “marina” dove si
trovano il famoso Burj Al Arab, più noto come “la vela”, il Jumeirah, il porto e le maggiori aree di attrazione turistica. Fino a poco fa il Burj Al Arab è stato il simbolo più importante della città di Dubai, un edificio fortemente voluto dallo sceicco e che poi piano piano nella logica della speculazione edilizia e dell’aumento della densità abitativa, è in realtà divenuto minuscolo al cospetto di tutto quello che vi è stato costruito o vi si sta costruendo attorno; nel momento in cui l’edifico è stato inaugurato in realtà era già partito il gioco al massacro “chi lo manda più in alto?” che nella serie di grattaceli che sono proliferati, è arrivato fino alla progettazione ed alla realizzazione del Burj Khalifa, una torre alta 828 metri che si trova nell’area del “downtown”, e che è l’ultima
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opera di architettura che lascia un segno forte sul territorio, rendendo l’area percepibile da kilometri di distanza arrivando via terra. In questa frenesia della costruzione non si guarda in faccia a nessuno, i soldi investiti sono talmente tanti che non c’è tempo di preoccuparsi dell’ambiente e dell’energia prodotta dal petrolio, però per non essere considerati al di fuori del contesto contemporaneo, si è avviato un processo di riqualificazione delle aree vicine ai centri di prestigio, e l’urbanistica ha quindi anche iniziato a pensare di creare aree cuscinetto, come quella in corso dell’enorme canale, che circonderà il downtown Dubai, e che trasformerà quest’area in una specie di isola nella città; insomma le idee non mancano e si cerca di applicarle tutte in questo contesto. Le infrastrutture che servono a collegare
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tutti i punti della città sono ben programmate e funzionanti, e la metropolitana di superfice consente di raggiungere in pochissimo tempo tutte le principali aree della città e gli emirati vicini, nonchè l’aereoporto. Per dare un numero sull’attrattività della città da un punto di vista del business e del turismo è strabiliante sottolineare che l’aereoporto conta circa 450.000 voli all’anno e che stanno iniziando ad essere difficilmente gestibili, da qui l’idea di dirottare qualcosa nel vicino aereoporto di Abu Dhabi in attesa che venga costruito il secondo aereoporto a Dubai. Ho avuto l’occasione di fare da poco un viaggio in questa città, per la prima volta, e sono rimasto completamente allucinato dalla dimensione sovrumana degli spazi e delle infrastutture, una vera e propria megalopoli in
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cui sembra che il lavoro degli architetti e degli ingegneri non finisca mai, si contano un numero indicibile di cantieri con gru e macchine da costruzione di dimensioni mai viste. Certo un ambiente a primo colpo d’occhio affascinante perchè mai visto, ma che, se poi analizzato nel dettaglio, lascia spazio ad ampie critiche sull’etica del mestiere di urbanista ed architetto, ma in questo paese non c’è spazio per pensare se quello che stai progettando è giusto o non giusto da un punto di vista etico ed ambientale, per il committente questo resta un dettaglio, che può essere abbinato, con un plus, alla volontà di costruire qualcosa che sia prima di tutto simbolo di potenza, e le cui declinazioni estetiche improntate al lusso sono le prime richieste di cui tenere conto; la quantità di cemento, ferro, vetro ed altri materiali che si
consumano nei building site sono gli elementi che attraggono capitali ed investimenti alla base dello sviluppo sociale ed economico della città. Una città che incoraggia ancora la crescità ed è incoraggiata a questo anche dagli emirati vicini, che stanno iniziando a vedere un loro sviluppo in periferie quali quelle di Dubai ed Abu Dhabi. L’obiettivo dell’Expo 2020 è sicuramente un altro stimolo a creare una città stupefacente e mai vista prima, ma della quale nessuno oggi può prevedere quale sarà il punto di non ritorno nell’impatto sul pianeta intero e per la quale lo Sceicco ha un solo cruccio, quello di aver dovuto vietare di fotografare dal lato mare il Burj Al Arab perchè è la più grossa croce esistente al mondo ... nella sua mania di grandezza questo particolare gli era sfuggito fino a quando non l’ha inaugurato.
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Il restauro delle vecchie cantine in Castiglione del Lago. Perugia.
di Franco Capacciola Le cantine di Via Belvedere, oggetto di questo intervento di ristrutturazione, occupano la porzione seminterrata del fabbricato denominato ex Asilo Reattelli, quest’ultimo di proprietà comunale, sito nel centro storico di Castiglione del Lago (PG). Costruite intorno agli anni trenta in aderenza della cinta muraria medioevale, furono da subito adibite a cantine per la lavorazione e la conservazione del vino. Il fabbricato, nato per volontà della famiglia Reattelli, era suddiviso in due piani collegati da una scala interna, con due accessi e destinazioni separati, la scuola materna dal centro cittadino in via dell’Asilo, la cantina dalla via Belvedere alla quota sottostante. Per molti anni è risultato inutilizzato, ed al momento dell’inizio lavori si presentava in pessime condizioni di conservazione. In Particolare le cantine al piano seminterrato erano costituite da quattro ambienti tra loro contigui, tre dei quali con copertura a volte a botte in laterizi, e il quarto, contenente la
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scala di collegamento con il piano soprastante. L’accesso era ubicato sulla cinta muraria cittadina di via Belvedere, antistante l’area a verde comunale. Internamente due serie di aperture contrapposte, su via Belvedere e su via dell’Asilo, ne garantivano una minima illuminazione ed areazione interna. Al piano superiore con accesso da via dell’Asilo e dalla Piazzetta S. Domenico antistante il cinema, era un giardino con terrazza dove all’interno erano presenti dei piccoli corpi di fabbrica e coperture metalliche varie, che venivano destinate ad attività turistico-ricreative per il periodo estivo. Il progetto ha previsto la completa ristrutturazione delle cantine di via Belvedere e del giardino-terrazza di piazzetta San Domenico, con il conseguente loro riutilizzo con una nuova destinazione di ristorante-lounge bar. Al piano seminterrato di via Belvedere gli originari ambienti a doppia altezza, hanno permesso l’inserimento di un piano intermedio a
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soppalco aumentandone la superficie e quindi di conseguenza la capacitĂ ricettiva. I servizi igienici dei clienti e quelli del personale sono stati ricavati al di sotto di parte di tali soppalchi, mentre gli altri spazi tecnici necessari (cucina, magazzini, dispensa ed impianti), distribuiti su due piani, sono stati invece ricavati nel terrapieno adiacente il lato destro, nella parte sottostante il giardino del piano superiore. Tali nuovi volumi interrati, sono stati realizzati mediante lo scavo di una porzione del terrapieno addossato alle antiche mura urbiche. In questa struttura ricavata nel sottosuolo, sono stati
inoltre realizzati i relativi collegamenti verticali con i piani superiori e con il giardino. In particolare il progetto ha previsto l’inserimento di un impianto di ascensore ed una coppia di montavivande, garantendo un agevole collegamento funzionale tra i vari livelli e le varie destinazioni del locale. Al piano giardino, con accesso dalla piazza San Domenico, è stata quindi realizzata una nuova struttura in legno dove trova collocazione una ulteriore saletta ristorante-bar con i relativi servizi, compresi i terminali dei sistemi verticali che collegano funzionalmente l’intera struttura. I lavori si sono conclusi nell’agosto del 2013.
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Non cè altra realtà che la natura. di Gaia Seghieri “Non c’è altra realtà che la natura”, e riflettendoci, in effetti, è così: realtà è un qualcosa di non fittizio, di non costruito, semplicemente è. Questo è il concetto base del lavoro personale di Marco Casagrande, architetto, nato nella città finlandese di Turku il 7 Maggio 1971 e laureatosi alla Helsinki University of Technology nel 2001; il suo lavoro attuale spazia dall’essere professore di architettura e teorico dell’architettura ad artista ambientale. E’ un uomo con una forte personalità poliedrica, che sa muoversi liberamente da una disciplina ad un’altra, con una grande capacità di sintesi, capacità che lo ha portato ad elaborare nuovi concetti per l’architettura e l’urbanistica quali “Commedia dell’Architettura” e “Agopuntura Urbana”. Commedia dell’architettura. Come modo di guardare al complesso sistema dell’organizzazione urbanistica, degli edifici architettonici, e della loro integrazione con
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l’ambiente umano, come se stessimo assistendo ad una vera e propria commedia, dove il palcoscenico è costituito dal costruito architettonico stesso ed i protagonisti sono gli esseri umani che agiscono tra di loro, creando situazioni, che si vanno ad integrare con la scenografia architettonica; in tutto questo i designers e gli architetti divengono dei veri e propri sciamani che interpretano attraverso le loro creazioni ciò che la natura, più grande della mente collettiva, trasmette. Agopuntura Urbana. Nel senso di andare ad agire, proprio come avviene nell’agopuntura sul corpo umano, in punti specifici del tessuto urbano con azioni architettoniche mirate ad uno sviluppo ecosostenibile delle città. Le città rappresentano una sovrapposizione di flussi energetici che possono essere modificati al fine di un raggiungimento di una maggior vivibilità e di un rapporto più profondo tra uomo moderno e natura, la sola realtà. Come l’essere umano dovrebbe essere
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pronto e attento a questo grande cambiamento di coscienza collettiva, a livello terrestre e universale, così anche la città stessa, grande organismo vivente e animato dalle sue tante sfaccettature, dovrebbe prepararsi a quella che sarà la città di terza generazione, o meglio una città postindustriale che nascerà dalle rovine dell’industria, e che ci riporterà ad una forte integrazione con la natura stessa, che riemergerà dalle crepe nei muri, dalle rovine, riportando l’essere umano alla sua natura più ampia, alla sua vera natura: le città di prima generazione sono quelle che hanno convissuto pacificamente con la natura, e quelle di seconda generazione sono quelle in cui muri ed edifici sono stati costruiti per escludere la natura. L’uomo sta diventando sempre più consapevole di come la moderna macchina industriale abbia portato ad una distruzione inutile e senza senso della natura, e dell’essere umano stesso, e di come si possa ripartire da questa stessa macchina divoratrice per poter, attraverso un processo inverso, ritornare ad un sano approccio nel modo di vivere la città. Una delle opere più significative, e forse anche più conosciuta, di Marco Casagrande è
sicuramente Sandworm, una struttura/spazio/ creatura organica realizzata sulla costa di Wenduine, in quella parte del Belgio che si affaccia sul Mar del Nord. I 45 metri di lunghezza ed i 10 metri di larghezza di Sandworm si muovono liberamente nell’unione tra architettura ed arte ambientale, attraverso la sua struttura costruita interamente in salice, seguendo la conoscenza locale della lavorazione di questo materiale, in un periodo di 4 settimane. I visitatori che usano Sandworm per i picnic, per il rilassamento e la meditazione, vengono accolti al suo interno da un vitale spettacolo di luci ed ombre, generato da una semplicità di costruzione e di uso del materiale. Sandworm viene definita da Marco Casagrande come “weak architecture”, architettura debole, una architettura che diviene passiva al volere della natura, che viene assorbita completamente dal mare, dal vento e dalla sabbia. La forma pienamente organica di Sandworm si amalgama interamente con le dune di sabbia della costa belga, da alcuni punti di vista sparendo addirittura, come inglobata completamente nella natura del luogo, la sola realtà.
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Il cammino delle Lase.
Porta del Parco Archeologico di Baratti. di Marco Del Francia
Presidente “B.A.Co. – Archivio Vittorio Giorgini” Foto di Nicolò Spinelli
La seconda edizione del Baratti Pavillon, manifestazione annuale che l’associazione culturale BACo (Baratti Architettura e Arte Contemporanea) Archivio Vittorio Giorgini svolge in collaborazione con Parchi Val di Cornia Spa/Parco Archeologico di BarattiPopulonia e Comune di Piombino, ha come tema per il 2015 l’ideazione di una struttura artistico/architettonica in bambù, dal carattere temporaneo, la cui funzione è rappresentare un segnale di ingresso al Parco archeologico di Baratti e Populonia (area Necropoli). Per il progetto è stato indetto un concorso di idee a cui hanno partecipato 24 progettisti di tutta Italia. La Giuria, composta dalle dott. sse Marta Coccoluto e Cinzia Murolo in rappresentanza della Parchi Val di Cornia, dal Dirigente all’Urbanistica del Comune di Piombino, arch. Camilla Cerrina Feroni, dal Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC
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della Provincia di Livorno, arch. Daniele Menichini, dagli architetti Marco Del Francia e Fabio Caciagli per l’associazione B.A.Co, da Giacomo Mencarini, tecnico artigiano del bambù in rappresentanza del “Bambuseto Italian Design and Bamboo”, e dall’artista Rodolfo Lacquaniti, ha scelto come opera vincitrice “Il cammino delle Lase”, dei giovani brianzoli Nicolò Spinelli (architetto) e Michela Fiorentino Capoferri (filosofa). Tra le motivazioni che hanno portato alla scelta de “Il Cammino delle Lase” sono l’attenzione particolare rivolta al contesto – in particolare due necropoli di epoca etrusca e di epoca ellenistica – e ai significati ideologici di quanto conservato e fruibile dal pubblico e la capacità di aver trasposto tali significati in una forma architettonica adeguata: “Il Cammino delle Lase” rimanda al tema del momento di passaggio, dalla vita all’Aldilà, così come dal mondo frenetico e veloce del vivere quotidiano al
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momento dello svago culturale in un luogo a forte valenza naturalistica e archeologica. Attraverso il passaggio nell’architettura di bambù, il visitatore compie un passaggio e si prepara interiormente a entrare in un altro ‘mondo’, al salto indietro nel tempo. Ad accompagnarlo Le Lase, figure alate che noi oggi chiameremmo ‘angeli’. A seguito del concorso di idee è stato organizzato un workshop residenziale di autocostruzione per la realizzazione dell’opera, dove quattordici partecipanti, tra architetti, ingegneri, artisti designer, artigiani e studenti universitari delle discipline interessate, hanno soggiornato per 4 giorni nel territorio di Baratti in una full immersion dall’alta valenza didatticoformativa. Giacomo Mencarini e Stefano Martinelli (tutor tecnici), Nicolò Spinelli (direttore artistico), Carlo Agrati (assistente), Marco Del Francia, Karin Gavassa e Irene Cini (Staff di B.A.Co.), Sandro del Pistoia, Marco Pierotti, Monica Deri, Valeria Scozzafava, Luigia Costantino, Maddalena Magnani, Julian VolmerAmann, Valeria Padovani, Nicola Pasquini, Nicola Bellofatto, Vittorio Fradelizio (partecipanti), oltre a Marta Coccoluto per il coordinamento tra B.A.Co. e Parchi e Diego Luci (fotografo ufficiale che ha documentato l’intero cantiere): questo l’organigramma completo che ha animato il workshop. Il Baratti Pavillon è per B.A.Co. un pretesto per innestare, in un luogo dalle connotazioni archeologiche e paesaggistiche fortemente storicizzate, dei “flussi d’arte” mediante operazioni singolari tesi ad avvicinare la gente all’arte e all’architettura contemporanea, creando stimoli visivi, o se vogliamo provocazioni culturali, dove installazioni sperimentali tentano una sfida culturale, sociale ed ambientale, così come lo è stata la realizzazione lo scorso anno di “Turuscia” (rivisitazione in forma contemporanea di un’antica navi a remi). “Sperimentazioni” che sono state la costante delle ricerche dell’architetto Vittorio Giorgini che a Baratti ha lasciato a testimonianza due opere notevoli come Casa Saldarini e Casa Esagono. In particolare, con questi ‘inserti’, vogliamo evidenziare una creatività che tende pagina 38
ad esprimersi in armonia con la natura e con i contesti antichi, non tanto in una accezione di mimesi, ma quanto di confronto e di dialogo con essi, significativa di un’espressività dell’uomo. Installazioni di questa natura possono suscitare controversie nell’ambito della loro ricezione estetica, e irriverenza in virtù dei luoghi dove vanno a collocarsi, realizzandosi spesso in ambienti storici tradizionali o, appunto, in contesti di notevole spessore paesaggistico. Al contrario, proprio per il loro modo “effimero” di proporsi (la “Porta del Parco”, realizzata in materiali naturali come il bambù, verrà smontata a fine stagione e il materiale sarà riciclato), questi tipi di operazioni artistiche offrono la possibilità di avere una maggiore audacia e un più ampio impatto che quella permanente. La loro natura si apre ad un campo più vasto di sperimentazione e suscita una pagina 39
tolleranza distinta in relazione al problema del rifiuto estetico. L’aspetto effimero di queste installazioni consente di lasciare inalterata la struttura del paesaggio in cui vanno ad inserirsi, arricchendoli di propri e nuovi messaggi, come un dialogo interrotto che chiede di riprendere. In questo senso tali interventi possono essere sicuramente letti come vettori di valorizzazione di certe zone di interesse; ma anche come approccio ludico ad un tipo di arte e di architettura non sempre ‘comprensibile’. Allo stesso tempo assumono una valenza sociale e culturale (la loro identità dipende dall’incontro con l’alterità), che possono essere pensati come dei percorsi ambientali, umanistici ed artistici che ci regalano degli spazi dove riflettere. Importante è il modo collettivo della loro esecuzione (la “Porta del Parco” è stata realizzata
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infatti attraverso un workshop residenziale di autocostruzione), che ne sottolineano e rinforzano il loro significato critico, ma anche gli aspetti formativi e didattici. Innestare modalità e linguaggi contemporanei in luoghi come quello del Parco archeologico di Baratti e Populonia, significa dunque per noi la continuazione di un discorso interrotto da false scelte della critica, del gusto e del mercato; dal pensare un luogo come immutevole e museificato. Mentre per noi l’arte pubblica è invece un modo di materializzare relazioni sociali urbane, uno dei modi tangibili di come il territorio si mostra e presenta i suoi conflitti. La natura o il contesto antico in cui quest’arte va ad occuparne lo spazio, che si mostrano in forma apparentemente neutrale, in realtà sono ‘scenari’ che vanno considerati come contenitori dell’opera e pienamente determinati.
Dove si interpretano i conflitti di cui sopra, nei loro significati che non sono stabili, ma fluidi, temporali e contingenti. Come le stesse opere e i materiali che vengono utilizzati per la loro realizzazione, naturali e spesso riciclati. L’iniziativa, realizzata con la collaborazione del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, rientra nell’ambito del progetto regionale: “Cantiere Toscana Contemporanea”. Quest’anno tra i partner della manifestazione, oltre al sodalizio con Tenuta Poggio Rosso, figurano prestigiose istituzioni, come AAA/Italia - Associazione nazionale Archivi Architettura contemporanea, il MAXXI - Museo delle Arti del XXI secolo, l’AIAC Associazione Italiana Architettura e Critica, la Fondazione Bio Architettura e l’Istitute des Futurs Souhaitables di Parigi. pagina 40
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