Architetti livorno n 6 settembre 2015

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N.6_2015 N.4_2015

ARCHITETTI L I V O R N O

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


Presidente: Arch. Daniele Menichini Vicepresidenti: Arch. Sergio Bini Arch. Enrico Bulciolu Arch. Marco Del Francia Segretario: Arch. Iunior Davide Ceccarini Vicesegretario Arch. Simone Prex Tesoriere: Arch. Sibilla Princi Consiglieri: Arch. Simona Corradini Arch. Vittoria Ena Arch. Fabrizio Paolotti Arch. Guelfo Tagliaferro Segreteria: Barbara Bruzzi Sabrina Bucciantini Redazione: Arch. Gaia Seghieri Grafica e impaginazione: Arch. Daniele Menichini Pubblicazione a cura di: Ordine Architetti PPC Livorno Largo Duomo, 15 57123 Livorno Tel. 0586 897629 fax. 0586 882330 architetti@architettilivorno.it www.architettilivorno.it Copertina: Finlandia Hall 1973-75 Alvar Aalto

N.6_settembre_2015


Sommario.

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L’Editoriale: Professione Architetto Verso un nuovo ruolo del sistema ordinistico.

La vignetta.

Contro Editoriale: Memoria Storica

Tasselli della libera professione.

Sfumature e colori di un’Isola ricca di Storia e Cultura. Una riflessione tra ristrutturazione edilizia e restauro conservativo.

Museo Etrusco Collezioni Gasparri. Populonia (Li).

Piotto. Spazio al design.

di Daniele Menichini pagina 4

di Michelangelo Lucco pagina 5 di Fulvio Bondi pagina 7

di Roberta Cini pagina 9

di Alessandro Pastorelli pagina 13

di Erica Foggi e Agostino Carpo pagina 17 di Marco Braccini pagina 19

Tre progetti di Starklab.

Winò Tuscan Restaurant. San Vincenzo (Li).

di Marco Squarci pagina 21

di Antonietta Ottanelli e Leonardo Manetti

pagina 23

Hotel Ai Cadelach. Un idea che parte dal bosco.

Walter Di Salvo. Poetiche contemporanee in Maremma.

Oltre Louis Kahn.

di Daniele Menichini pagina 27

di Marco Del Francia pagina 31 di Gaia Seghieri


Professione Architetto

Verso un nuovo ruolo del sistema ordinistico. di Daniele Menichini

In vista del completamento della riforma delle professioni e quindi della revisione anche del ruolo del sistema ordinistico è importante che il lavoro di ogni ordine, compreso il nostro, inserisca nella propria agenda politica il tema ed il contributo per il rilancio della Professione e per questo ho deciso di far parte del tavolo di lavoro di Federazione e Consiglio Nazionale sull’argomento. In varie occasioni ho potutto scrivere o parlare, con gli iscriti con i quali mi sono confrontato, del ruolo contemporaneo dell’architetto e della sua concreta riconoscibilità in ambito sociale, economico e culturale e vorrei di seguito riassumere il lavoro e l’orientamenteo che insieme agli altri stiamo cercando di portare avanti affinchè i nostri pensieri si trasformino in un concreto disegno di legge. Chi mi conosce bene sa che quando mi sono candidato per le elezioni del rinnovo del Consiglio nel 2013, l’ho fatto perchè ritenevo che solo da dentro si potevano avviare certi processi di trasformazione e di riforma; certo i meccanismi ed i tempi sono complessi ma forse il momento in cui è possibile dare un contributo e sperare in un cambiamento è proprio questo. E’ necessatio identificare l’attività professionale, ed in particolare quella dell’Architetto, come una forza produttiva per il nostro paese, e pertanto pagina 1

meritevole di cura e attenzione nella declinazione di un suo nuovo percorso. La crisi del settore ha evidenziato in maniera drammatica l’insufficienza organizzativa sia dei modelli associativi privati professionali, sia del modello organizzativo istituzionale territoriale e nazionale di rappresentanza che non hanno saputo anticipare e controbattere le pressioni negative, anche fiscali, per un settore di primaria importanza per lo sviluppo economico, come quello dell’edilizia; oltre all’opportunità, seppure con logica emergenziale, di ricostruire la nuova figura dell’Architetto, finalmente operativo in area europea e tale obbiettivo costituisce la vera sfida del futuro prossimo, con uno sforzo attrattivo verso l’Architettura come tema “contenitore” principe del riassetto normativo sul territorio, da cui discenda una riorganizzazione del mondo dell’Edilizia, dell’Urbanistica e della definizione delle competenze che operano in tali settori: in italia manca da troppo tempo una Legge sull’Architettura che negli altri paesi europei hanno già. Occorre ripartire dalla funzione degli Ordini professionali, in termini di ordinamento e del ruolo delle strutture territoriali per aggiornare i nuovi compiti cui devono far fronte. Il recente quadro normativo di riferimento, sviluppato tra il 2011 ed il 2012, ha ridisegnato

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L’editoriale

alcuni dei compiti che gli ordini sono chiamati a svolgere nei confronti dei propri iscritti, tra questi il servizio dell’aggiornamento e formazione professionale e la sostanziale distinzione tra l’organo Disciplinare e il Consiglio dell’Ordine. Le recenti riforme che hanno introdotto le novità sui nuovi adempimenti obbligatori per il professionista discendono dall’applicazione di normative europee, utili all’omogeneizzazione della formazione delle figure professionali, secondo indicazioni generali uniformi in tutti i paesi dell’UE. Le direttive europee 36/2005 e 55 /2013 che regolano le attività professionali hanno trasformato la prestazione intellettuale in erogazione di servizi di cui il professionista sia garante e attore consapevole; pertanto gli Ordini devono adeguare anche la loro funzione a tale ruolo e perfezionare la propria attività di servizio agli iscritti. Si configura come una sorta di rivoluzione culturale, ad oggi gli ordini territoriali sono riconosciuti come soggetti formatori in fase post universitaria. L’obiettivo primario che ci dobbiamo porre oggi è quello di riqualificare in ambito sociale, economico e culturale la figura dell’Architetto, evidenziandone le peculiarità che ne fanno l’attore principale ed il coordinatore della trasformazione e di gestione del territorio. Al centro di questa visione, l’ordine

territoriale, oggi unico soggetto capace di rappresentare le istanze di categoria, può acquisire un ruolo straordinario nel governare i processi di relazione tra l’Architetto e gli altri ambiti sociali economici e culturali. Nel tempo abbiamo perso parte di quella credibilità che ci era riconosciuta da più soggetti, istituzionali e privati; occorre attivare oggi nuovi processi di riqualificazione professionale attraverso direttrici condivise in un disegno di ambito nazionale, assolutamente privi di accenti nostalgici che sarebbero controproducenti ed anacronistici. Di fatto possiamo individuare due formule di intervento per gli ordini, la prima rivolta al proprio interno, per poi attuare verso l’esterno una politica di confronto a supporto della crescita sociale economica e culturale dei nostri territori, attraverso la promozione della propria professionalità, quali soggetti garanti della qualità prestazionale erogata dai propri iscritti. Il distacco dal Consiglio di Disciplina offre peraltro una buona opportunità per sottrarsi alla giurisdizione del Ministero della Giustizia, per potersi aprire ad un ambito multidisciplinare, vero specchio della moderna configurazione dell’attività dell’Architetto, afferente invece anche ai discasteri dell’Ambiente, dello Sviluppo Economico, delle Infrastrutture e dei Beni pagina 2


Culturali. Tema complesso e di livello nazionale che va di pari passo con lo studio di una nuova forma istituzionale dell’Ordine, sempre ente pubblico per maggiore adeguatezza ed affinità culturale col nostro paese, ma con diverse possibili declinazioni, da soggetto autonomo di natura non economica con carattere associativo, a soggetto pubblico di diritto privato come in Germania, o supportato in qualche modo dallo Stato per le nuove numerose funzioni che è chiamato ad assolvere o chissà quali altre formule che meriterebbero un approfondimento giuridico adeguato a cura del nostro Consiglio Nazionale. L’ordine territoriale, una volta impostata una adeguata struttura per i servizi alla professione, dovrà operare in ambito territoriale per evidenziare e riqualificare il nostro ruolo, con lo scopo di operare su tre settori fondamentali. Il primo in ambito sociale. Per evidenziare il rapporto stretto e storicamente riconoscibile tra qualità architettonica urbana e qualità della vita dei cittadini. Troppo spesso problematiche urbane sfociano in diseguaglianze sociali e soggetti non qualificati si ergono a paladini del territorio, con visioni troppo spesso ridotte e distorte. L’Architetto può essere, in questo caso, il sensore e il mediatore culturale dei fenomeni urbani complessi, capace di individuare e indirizzare politiche di progetti urbani. Nella redazione di un piano urbanistico, a qualsiasi scala, il nostro supporto può essere strumento di crescita e mediazione fra visioni e interessi complessi. Il secondo ambito è quello economico. Nel passato abbiamo troppe volte sottovalutato la componente economica nella filiera complessa dell’edilizia. Oggi è necessario costruire una alleanza capace di incidere nel processo economico di trasformazione della città. Occorre costruire sinergie concrete con gli altri attori, nella consapevolezza che la complessità richiede mediazione, e che il confronto con l’ambito politico locale richiede una maggiore forza rispetto alle istanze di una singola realtà professionale. Il rapporto con le rappresentanze economiche diventa quindi strategico nella consapevolezza di un equilibrio tra le forze, dove il nostro ruolo di ideatori può ben confrontarsi pagina 3

con il potere dell’economia. Il terzo ambito è quello culturale. Occorre sensibilizzare e portare a conoscenza dei cittadini il valore dell’architettura, quale strumento di qualificazione del territorio e delle città, ma soprattutto elemento indispensabile per una soddisfacente qualità della vita. Il confronto attraverso attività di stimolo potrebbe avvenire a vari livelli, partendo dalla sensibilizzazione dei giovani studenti agli incontri di quartiere, o alle iniziative pubbliche di confronto con altre istituzioni. Le nostre riviste devono raggiungere i cittadini e le istituzioni e uscire dall’autoreferenzialità di categoria. Questi tre ambiti devono poi convergere nei rapporti con le istituzioni politiche territoriali, sia con carattere specialistico di noi architetti, sia con strutture multi-professionali trasversali capaci di incidere per il ruolo generale delle professioni. E’ auspicabile, al fine di produrre un’effettiva integrazione con la società civile, che l’Ordine territoriale apra le proprie porte agli studenti di architettura a partire dal terzo anno, per esempio come succede in Spagna, ed ai cittadini cultori della materia, secondo diverse forme di partecipazione a carattere associativo, con beneficio di contatto tra colleghi di diverse generazioni e con i cittadini, veri fruitori dei nostri servizi professionali. In questa nuova dimensione istituzionale assumerà rilievo la capacità degli ordini di saper comunicare al cittadino ciò che siamo e ciò che sappiamo fare e quale professionalità occorre per soddisfare le proprie aspettative. Nei confronti delle istituzioni, la collaborazione con altri soggetti professionali tecnici va affinata, nelle nostre realtà esistono già aggregazioni tra istituzioni professionali e buone pratiche di relazione innovative che cercano di risolvere problemi a scala diversa; le aggregazioni diventano necessarie per avere servizi importanti ed adeguati a livello almeno regionale, aprendo alla possibilità di creare società miste di partecipazione tra Ordini locali, diversi per la gestione della formazione professionale e promozione della qualità dell’Architettura.

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La vignetta.

Michelangelo Lucco.

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Memoria storica. di Fulvio Bondi

Sicuramente appartengo agli Architetti “datati”, nel senso che nella città di Livorno quelli come me e, ancora di più, quelli laureatisi alcuni anni prima, fanno parte della generazione di coloro che eseguivano i disegni a lapis che, successivamente, venivano “lucidati a china” (grattati con le lamette della barba… per me rigorosamente Gillette): la generazione dei traferibili, dei retini colorati e delle prime calcolatrici tascabili (alcuni sicuramente avranno usato anche il regolo calcolatore. Io mi sono limitato a conoscerlo di nome ma mai ad usarlo). Facciamo parte di coloro che poi, ad una certa età e fase della professione, hanno iniziato ad usare il computer e quindi i vari programmi di grafica per “stare al passo coi tempi”, cestinando o relegando in un angolo polveroso dello studio i lucidi, i trasferibili, le macchine da scrivere e quanto altro. Vi ricordate gli avveniristici “scriptor” (non ricordo se questa è la terminologia corretta), vale a dire quelle macchinette a mo’ di righello/ macchina da scrivere che sostituirono i normografi ed i trasferibili e che ci rendevano felici perché scrivere sul lucido o quotare le tavole era diventato “veloce”? La loro vita, comunque, è stata abbastanza breve: dopo alcuni anni ormai tutti smanettavamo sulle tastiere impazzendo con i vari comandi ed evolvendo verso la società della velocità, della connessione perenne, dei mega, dei giga… Una volta, per consegnare le tavole alla committenza od alla Pubblica Amministrazione, dovevamo recarci in copisteria, ordinare la corretta quantità di copie, tornare in seguito a ritirare la merce. Le scadenze erano pressanti, pertanto, compravamo la eliocopiatrice per non avere tempi morti oppure per stampare di notte, il sabato o la domenica. Queste stampanti pagina 5

ela “primordiali” funzionavano ad ammoniaca e, di conseguenza, appestavamo lo studio e piangevamo al momento del travaso del liquido nel serbatoio. Pure queste macchine maleodoranti hanno calcato la scena relativamente poco: con l’avvento dei computer ci siamo organizzati con i plotter e/o stampanti dei vari formati. I plastici: legno, balza, polistirolo, colla, pennelli, colori ... Disegnavamo in scala, tagliavamo (seghetto per il polistirolo, seghetto e taglierino per la balza etc..): polvere, sporco, ritagli dovunque e tempo, tanto tempo. Tanto tempo necessitava pure per i lucidi a china: il lucido sopra lo spolvero a lapis tendendo bene il nastro per fissare i due supporti e quindi iniziavamo con le varie dimensioni dei pennini. Naturalmente lo 0,1 si intasava spesso ed eravamo costretti a pulirlo sotto l’acqua corrente dopo aver smontato il tutto. E poi ricominciavamo: ora dopo ora. In estate, con il caldo, spesso il lucido rimaneva attaccato alle braccia e dovevamo stare attenti a non spostare il tutto altrimenti lo spolvero ed il lucido, in alcune zone, non si sovrapponevano esattamente falsando leggermente le quote. I movimenti erano eseguiti con calma e circospezione e, dopo aver depositato la penna a china nell’apposito contenitore, staccavamo delicatamente il braccio mentre, con l’altra mano, tenevamo ben fisso il lucido. Ripresa la penna a china, talvolta (per fortuna molto raramente…almeno per me), riprendevamo il lavoro certosino ed una goccia di china si stampava sul lucido intonso. Entrava in azione di nuovo la lametta e (invenzione delle invenzioni) la gomma per la china: una gomma gialla (talvolta celeste) che comunque era utile solo in alcuni casi.

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rotideortnoC Spesso il tutto era accompagnato (come potrete comprendere e condividere) con imprecazioni varie che si confondevano con le note musicali che la radio diffondeva nello studio. ... Ma tutto questo era artigianato, era lavoro manuale applicato all’invenzione del progetto, era creazione mentale e produzione secondo i tempi di elaborazione/lavorazione manuale/meditazione /sedimentazione: idea, invenzione e tentativi manuali per rendere comprensibile ciò che ti frullava in testa. Tutto questo (sicuramente per miei limiti personali) lo ritrovo meno nelle variopinte tavole computerizzate: mi fa venire in mente il passaggio dal lavoro artigianale a quello industriale, di serie, spersonalizzato (una volta si parlava di alienazione). Cerco di spiegarmi meglio: usando il computer chiaramente si pensa, si ha l’idea, si progetta ugualmente e si cerca di trasmettere alla committenza, qualunque essa sia, quello che dovrebbe essere il prodotto finito. Sicuramente con il computer si riesce a far vedere di più e meglio l’oggetto del nostro lavoro per cui coloro che ci stanno di fronte hanno maggiori possibilità di comprensione, di approfondimento e di scelta ma, ho la sensazione, che i bei disegni standardizzati, i bei render siano, comunque, anonimi, impersonali e freddi rispetto ad uno schizzo fatto a mano, ad un acquerello, ad uno scarabocchio dal quale scaturisce dove hai calcato maggiormente la mano e la pasta del lapis e/o della matita colorata ha reso la tua sottolineatura nel foglio bianco. Riconosco, chiaramente, che il computer (ed internet in primis) ha reso più “comoda” la professione, intendendo che la trasmissione dei dati (tavole, scritti …) è rapida e che le modifiche/ variazioni sono facilmente eseguibili senza fare il radex (per i profani una copia del lucido su lucido) sul quale intervenire con le “lamette da

barba”, ripulire per ricreare lo strato “chinabile” e quindi operare nuovamente con la punta 0,1 che, nel frattempo, si è di nuovo “ingrippata”. Riconosco che i modelli ed elaborati in tre dimensioni sono facilmente comprensibili a tutti e, quindi, più “democratici”. Riconosco che il prodotto del nostro pensiero, della nostra idea progettuale può essere facilmente riprodotto, diffuso: il tutto in tempi infinitesimali rispetto a quando andavamo a far fare le copie eliografiche. Penso, comunque, in generale, che tutto questa velocità nell’elaborare, nel trasmettere e ricevere dati, notizie, immagini, suoni, colori tipica dei nostri giorni -, tutto questa ridondanza ed immersione mediatica possa essere causa di mancate riflessioni, di mancati approfondimenti, di mancate sedimentazioni. In sostanza, ho l’impressione che il mezzo prevalga o condizioni fortemente l’operatore dando vita a prodotti nati non proprio all’interno dei suoi pensieri e riflessioni, delle sue sensazioni ed emozioni. Mi domando (in senso complessivo e non solo nello svolgimento del nostro lavoro): se una persona è costantemente martellata da notizie, flash, informazioni e l’esigenza primaria è quella di essere “connessi”, di comunicare a distanza sempre, comunque e dovunque, ma dove e quando mai questa trova il tempo, la voglia e la necessità di riflettere, approfondire, acquisire coscienza critica e memoria storica? Sembra che l’imperativo attuale sia quello di consumare notizie, informazioni rapide, sintetiche e superficiali, conoscere il mondo e la gente solo virtualmente. In questo non mi ritrovo più di tanto: preferisco, simbolicamente, la penna a china ed il lucido come possibilità di conoscenza reale, di approfondimento, di riflessione e critica, di pensiero e memoria storica. pagina 6


Tasselli della libera professione. di Roberta Cini

Tratto dalla rivista Inarcassa 1-2015

Il libero professionista ha un importante ruolo nel nostro sistema economico e sociale, eppure le professioni tecniche nel tempo hanno perso il loro ruolo non riuscendo a far valere i propri diritti. Ricordiamo in ordine non temporale ma sparso, i tasselli che compongono il puzzle di questa perdita di ruolo/dignità. 1) Abolizione delle Tariffe minime. La Tariffa minima professionale è stata abrogata con la legge n.27 del 24 marzo 2012 conversione del DL Liberalizzazioni n.1 del 24 gennaio 2012 a seguito del DL n.223 4/7/2006 (Decreto Bersani che abrogava l’inderogabilità dei minimi tariffari sia per gli incarichi da enti pubblici che da committenti privati). Oggi il compenso è negoziato tra il professionista e il committente al momento del conferimento incarico; nel pubblico è messo a base di gara. Da qui deriva una perdita di valore del lavoro nelle professioni tecniche sottoposto a ribasso eccessivo con deprezzamento dell’attività professionale tecnica e spesso con diminuzione della qualità della prestazione e dell’opera. 2) Ruoli dei professionisti nell’ambito dell’attività tecnica. Non sono state precisate, stabilite e definite, neppure nell’ultima cosiddetta “riforma delle professioni” le competenze di ciascuna figura dei professionisti “tecnici”. Non si sono mai definiti le incompatibilità e il conflitto d’interessi. Ciò ha represso lo sviluppo e l’ammodernamento degli studi professionali, che non prevedono l’attività tecnica come attività multidisciplinare, oltre che creare una commistione e confusione di ruoli che disorienta anche il committente. Basti pensare che riguardo alle competenze, andiamo avanti a colpi di Sentenze e per ultima, ma non ultima, la Sentenza del Consiglio di Stato depositata il 23.02.2015 dove si esplica e ribadisce che “esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività pagina 7

che, qualunque ne sia l’importanza, è riservata solo agli ingegneri e agli architetti iscritti nei relativi Albi professionali”. 3) Concorrenza. Nella libera professione non esiste la tutela per la concorrenza sleale. Nel Codice civile si parla di concorrenza sleale quando un imprenditore pone una condotta in grado di arrecare danno ad altro imprenditore. Secondo una sentenza del Tribunale di Roma n.22997/2012 la norma va intesa in senso stretto e pertanto non è applicabile ad altre categorie di soggetti quali i liberi professionisti e, tra gli altri, anche ad Architetti e Ingegneri che quindi non hanno alcuna tutela qualora un collega svolga attività professionale in modo sleale a loro danni. 4) Formazione continua obbligatoria. Nell’interesse del Committente e della collettività, il Professionista ha l’obbligo di aggiornare la propria competenza professionale attraverso una formazione continua. Tale obbligo oltre che sminuirne la figura comporta un aggravio per il professionista, con costi aggiuntivi, sia nell’organizzazione del lavoro sia quale spesa “viva”. Il professionista sì è sempre aggiornato e formato anche senza l’obbligatorietà, e non per questo non era competente in materia. 5) Dotazione POS. Per la tracciabilità del denaro e delle transazioni, è diventato obbligatorio accettare i pagamenti tramite il POS e quindi dotarsi di tale dispositivo. Per il Professionista ciò comporta sostenere maggiori costi per installazione, attivazione e utilizzo del sistema, oltre a un’omologazione e una mercificazione della professione intellettuale. 6) Disciplinare d’incarico obbligatorio. Il rapporto tra professionista e committente è stato sempre di tipo fiduciario, ma dal 2013 è obbligo per il professionista presentare al committente il preventivo e un dettagliato disciplinare d’incarico che dovrà essere sottoscritto dalle parti. Questo comporta, se il “contratto” non fosse stipulato, nel caso di controversia, una valutazione negativa

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nei confronti del professionista da parte del giudice. 7) RC Professionale obbligatoria nello svolgimento di qualsiasi incarico. Anch’essa, nonostante le numerose convenzioni a prezzi agevolati con Società Assicurative, ha comportato esclusivamente una lievitazione del costo per mantenere o aprire un’attività professionale tecnica. 8) Presunzione di evasione fiscale. Con l’introduzione degli Studi di Settore, se non sei congruo e coerente, nasce l’adeguamento a redditi non reali. La congruità dei ricavi o compensi dichiarati è attestata se è pari almeno a un valore di riferimento calcolato con il software Gerico che indica una soglia minima e un margine di oscillazione nel quale il contribuente deve stare. La coerenza valuta i principali indicatori economici caratterizzanti l’attività svolta dal contribuente quali ad esempio le ore lavorate, la posizione dello studio e la sua “grandezza”, le attrezzature o beni strumentali in possesso, il tipo di lavori svolti, ecc., ecc.. Ma non ci si ferma qua si deve ricadere negli indicatori della normalità economica. E ancora si deve rientrare nei coefficienti del redditometro e dello spesometro. 9) Codice degli appalti. Di fatto, preclude ai giovani professionisti

e ai piccoli studi la partecipazione a gare e bandi perché per partecipare occorre la dimostrazione della capacità economico-finanziaria (requisiti di fatturato) e quella tecnico-professionale (requisiti di personale e attrezzature). Inoltre nella normativa appalti pubblici non esiste più l’architetto o l’ingegnere, ma l’operatore economico: appare quasi come la cancellazione di tali figure professionali. Tutto ciò e altro ha messo in ginocchio la professione tecnica e il panorama delle professioni tecniche risulta distrutto, saccheggiato. I professionisti, anche attraverso gli organi che li rappresentano a livello nazionale, dovrebbero approntare un’iniziativa forte e coraggiosa a livello governativo per rilanciare realmente le libere professioni tecniche. Ecco che occorre, anzi urge, una chiara e completa riforma, affinché tutti quanti i tasselli descritti non risultino, più che utili strumenti per l’accrescimento e la modernizzazione, come sponsorizzato e promosso, dannose vessazioni (dal latino vexatio-onis derivato da ve-xare “vessare- tormentare”) a carico dei liberi professionisti che svolgono il proprio lavoro con onestà e dignità, affrontando ogni giorno grandi difficoltà operative nell’organizzare il proprio lavoro specie in un così grave momento di crisi economica. pagina 8


Sfumature e colori di un’Isola ricca di Storia e Cultura. Una riflessione tra ristrutturazione edilizia e restauro conservativo. di Alessandro Pastorelli Ultimamente si sente parlare molto di Restauro e Conservazione dei nostri beni Architettonici e Archeologici, ma spesso non si conosce bene il significato e l’importanza di tali definizioni. La prevenzione e la conservazione preventiva è divenuta negli ultimi due decenni una disciplina fondamentale in ambito archeologico e conservativo. Restaurare significa rimettere nelle condizioni originarie un manufatto e un’opera d’arte, mediante opportuni lavori di riparazione o reintegro (Devoto, Oli, 1995,p.1627); e’ opportuno rendersi conto esattamente di ciò che si intende o di ciò che si deve intendere per un restauro, poiché sembra che si siano introdotti numerosi equivoci sul senso che si attribuisce o che si deve attribuire a quest’operazione. Il restauro è una parola moderna, in effetti nessuna civiltà, nessun popolo, nei tempi passati, ha inteso fare dei restauri come li intendiamo oggi. I Romani ricostruivano, ma non restauravano, e la prova sta nel fatto che il latino non ha una parola corrispondente alla nostra parola restauro, con il significato che le si attribuisce oggi. Instaurare, reficere, renovare, non vogliono dire restaurare, ma ripristinare, fare di nuovo. Non voglio addentrarmi in una noiosa teoria del restauro passando dai maestri Boito e Giovannoni che dalla fine dell’800 hanno trasformato il restauro in una vera e propria scienza. Lo scopo del restauro è quello di trasmettere alle nuove generazione facilitando la lettura dell’opera architettonica o del monumento (dal latino monumentum, “ricordo”). La scuola italiana del restauro dà molta importanza alla conservazione della materia che costituisce l’architettura a differenza di altre scuole nel mondo che privilegiano la conservazione della forma, della geometria, della spiritualità ma non interessa l’originalità del materiale che la compone. La materia, per noi restauratori italiani, pagina 9

è portatrice di valori materiali in quanto le testimonianze materiali sono portatrici di civiltà; testimonianze della grandezza del mondo antico. La patina del tempo, le sue alterazioni cromatiche, sono testimonianza del passaggio del tempo come le rughe sulla faccia di un anziano. Pe restaurare i nostri beni storici bisogna studiare molto, scomporre l’architettura che li compone, pezzo per pezzo fino a entrare nell’animo dell’architetto che concepì l’opera, studiarne le interazioni tra i vari materiali e le strutture che la compongono; studiare molto per fare poco rispettando l’originale. E’ importante lo studio della Fabbrica attraverso un rilievo minuzioso fino ai minimi particolari. Il restauro è un’ipotesi critica non espressa verbalmente ma tradotta in atto!! La nostra Isola è un’opera d’arte nell’opera d’arte della natura che l’ha creata; un paesaggio unico nel suo genere plasmato da secoli di interventi dell’uomo. Ho avuto l’onore e l’onere di intervenire su molteplici opere Architettoniche di valore storico sull’Elba e ogni volta che comincio a studiarle cercando di decifrarne l’immenso archivio di pietra che rappresentano ne rimango sempre meravigliato dalla genialità, precisione e accuratezza delle lavorazioni delle fabbriche del passato. Purtroppo, come dicevo all’inizio dell’articolo, spesso negli anni sono state confuse le parole Ristrutturazione Edilizia con Restauro Architettonico, andando a creare dei danni importanti e a volte irrimediabili sui nostri beni storici. Ad oggi investire nel Restauro è una scelta vincente; le persone hanno più che mai bisogno di raffrontarsi con il loro passato, con il loro retaggio culturale per meglio affrontare un futuro difficile come quello che ci si prospetta andando a rafforzare le proprie radici spirituali. Portoferraio, la Cosmopoli medicea, una fortezza unica al mondo che si fonde nel

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paesaggio andandosi ad adagiare nel mare che la circonda; un bene architettonico da valorizzare e rendere ancora più fruibile. Ho avuto l’onere e l’onore di lavorare alla Fabbrica di Palazzo Vecchio a Firenze come Architetto Restauratore e di capire fino a fondo l’importanza e il sottile filo rosso che lega Firenze a Cosmopoli; la prima rappresentazione di Cosmopolis-Portoferraio è quella tecnicoprogettuale del Camerini; la sua pianta trasmette la sensazione che egli abbia immaginato la nuova città stando su un colle dalla parte di mezzogiorno. Racconta il Lambardi: dalla parte di mezzogiorno al finire della pianura di S.Giovanni distante da Cosmopoli un miglio e mezzo, che uno di terra, e l’altro di mare si innalza un colle non molto alto, ma così eminente, che scopresi da questo molto distintamente ogni e qualunque luogo, che pare riguardarsi in Cosmpoli”. Tutto questo è perfettamente rappresentato in una

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pittura di Vasari nella sala di Cosimo I a Palazzo Vecchio, ecco il sottile filo rosso che lega Firenze a Palazzo Vecchio. Partecipo da diversi anni alla manifestazione Notti dell’Archeologia, promossa dalla Regione Toscana e noto anno dopo anno sempre più interesse da parte, non solo dei turisti, ma anche dei residenti alla nostra cultura. I romani ci hanno lasciato in eredità tre bellissime ville: La Villa Romana della Linguella, La Villa Romana delle Grotte e La Villa Romana di Capo Castello a Cavo e noi abbiamo il dovere di impegnarci per conservarle, riutilizzarle e renderle fruibile al mondo intero. I beni culturali sono di tutti e noi tutti ne dobbiamo avere la possibilità di viverli, studiarli , capirli immergendosi con la fantasia in un mondo oramai passato ma ricco di spunti e riflessioni per il futuro. Quest’anno, assieme alla Misericordia di Portoferraio, abbiamo creato un reparto di

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Volontari Culturali che impegnano gratuitamente il loro tempo e le loro conoscenze allo studio e mantenimento delle opere di interesse storico artistico di proprietà della Confraternita; inoltre abbiamo portato avanti un accordo con due accademie di Belle Arti rispettivamente dell’Aquila e di Como che hanno effettuato uno stage formativo per i loro studenti presso la Misericordia andando ad aumentare i dati in nostro possesso dandoci la possibilità di creare un progetto di richiesta di finanziamento finalizzato alla conservazione del Cimitero di Portoferraio che racchiudere opere importanti come la Cappella di famiglia eretta da Adolfo Coppedè. Il volontario culturale oggi è fondamentale per poter affrontare un iter progettuale che ci porti al Restauro e alla Conservazione del bene storico, in quanto i fondi sono limitati e non permetterebbero di coprire tutto l’iter. In questo quadro è importante la figura delle Università Italiane che possono darci un

grande aiuto e nel caso di reperimento fondi creare un’occasione di lavoro per gli studenti neolaureati, immettendoli nel mondo lavorativo. Spero che le nostre amministrazioni capiscano la potenzialità e il fermento che sta andandosi a creare attorno al campo della cultura e della conservazione andando a rilanciare il nostro territorio non solo da un punto di vista del mare e spiagge, ma l’Elba come polo culturale centrando l’obbiettivo di un turismo di trecentosessantacinque giorni l’anno. Ci tengo a sottolineare che conservare non significa “cristallizare” il bene di interesse storico, ma il suo riutilizzo e la sua rifunzionalizzazione ne faforiscono la sua conservazione nel tempo. Sono convinto che dobbiamo continuare a far conoscere la nostra storia ai nostri figli in modo che le generazioni future amino il proprio territorio e se ne sentano parte integrante in modo da proteggerlo e tutelarlo. Non c’è futuro senza passato. pagina 12


Museo Etrusco Collezioni Gasparri. Populonia (Li).

di Erica Foggi e Agostino Carpo La Collezione archeologica della famiglia Gasparri, è composta principalmente da reperti emersi durante gli scavi condotti a Baratti dalla Soprintendenza Archeologica, nella prima metà del Novecento. I terreni intorno al golfo, a partire dal 1915, furono oggetto di intense attività di scavo per il recupero delle antiche scorie di ferro, ancora ricche di minerale da riutilizzare nei moderni altiforni. In caso di scoperte archeologiche Giulia e Tommaso Gasparri, proprietari della tenuta di Populonia dal 1936, avevano diritto (leggi 364/1909 e 1089/1939) a un premio di rinvenimento che poteva essere corrisposto in denaro, o mediante il rilascio di una parte degli oggetti raccolti. Fu così che la Soprintendenza assegnò ai Gasparri una notevole quantità di reperti che andarono a costituire il primo nucleo della Collezione. Dalla fondazione della Collezione i reperti sono stati conservati nel borgo antico di Populonia, con il proposito di individuare un luogo nel quale esporre la raccolta in modo da renderla fruibile ai visitatori. Nel 1937 venne ordinato il primo nucleo e nel 1988 si sono resi disponibili gli ampi locali voltati di un ex frantoio dove i reperti vennero sobriamente collocati in vetrine, a ridosso delle pareti o, in forma sciolta, poggiati sulla pavimentazione, secondo un criterio tipico delle collezioni antiquarie otto­-novecentesche. Nel 2015 si inizia l’opera di riassetto museologico curato dalla Dott.ssa Carolina Megale che propone alla proprietà anche una revisione generale dei criteri di allestimento. I principi ispiratori seguiti nell’allestimento sono sostanzialmente due: lasciare il sapore originario della collezione privata, impostato su criteri novecenteschi di ordinamento dei reperti all’interno delle vetrine. seguire un ordine espositivo riferito ad un percorso tematico all’interno delle varie stanze. A partire da queste indicazioni è stata proposta una nuova disposizione dell’ingresso che contemporaneamente permettesse la creazione di una sala conferenze dotata di schermo fisso per pagina 13

proiezioni (circa 100 posti a sedere). Per realizzare questo proposito è stato necessario demolire un muro di recente costruzione, che impediva l’accesso diretto ai locali e, quindi, l’utilizzo della grande sala. Rispetto alla precedente conformazione, l’intervento ha ampliato e caratterizzato lo spazio d’ingresso (dove si trova il servizio bigliettazione e il “bookshop” concepito come un unico blocco funzionale), pensandolo come un cannocchiale che attraversa tutta la profondità del museo e guida lo sguardo del visitatore verso una finestra panoramica che si affaccia sul promontorio di Baratti. Questa soluzione progettuale pone al centro della prospettiva del percorso il “dolio”, una grande anfora sferica che per le sue dimensioni eccezionali crea l’effetto di punto focale del percorso allestitivo. Nella nuova sala posta parallelamente all’ingresso e da questo divisa con un pannello didattico, sono state collocate 3 delle vetrine originarie (restaurate, con una nuova colorazione interna ed illuminate a led) e un grande schermo che ha la funzione di accogliere il visitatore con una proiezione che precede e accompagna il percorso museale: questo schermo e il relativo spazio possono anche essere utilizzati per lezioni, incontri e conferenze. Superato l’ingresso, dove sono collocati pannelli che illustrano la storia della famiglia Gasparri (proprietaria della Collezione), le prime due sale introducono ai reperti e al loro rapporto con il territorio, anche attraverso una grande carta della zona dove sono visualizzati tutti i ritrovamenti più importanti dell’Area Archeologica di Baratti e Populonia. Continuando il percorso museale si arriva alla “Sala del Mare” che, prima dei lavori, si configurava come un locale raggiungibile solo scendendo tre alti scalini. Il progetto di questo spazio, anche in funzione dell’abbattimento delle barriere architettoniche, parte dall’idea di realizzare un percorso dinamico di scoperta sviluppato su due

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livelli: è stato quindi realizzato un camminamento perimetrale in legno e acciaio ossidato alla quota del museo con la restante parte centrale del locale, più bassa, riempita con sabbia, in modo da ricostruire l’idea di un fondale marino in cui sono adagiati dei reperti: ancore e anfore. La nuova parete divisoria (che “nasconde” la “Sala del Mare”) offre lo spazio sia per pannelli esplicativi, che per la proiezione di un filmato d’epoca sui ritrovamenti in mare. Le ultime stanze accolgono i reperti funerari: qui la strategia allestitiva ha portato ad introdurre una nuova struttura espositiva continua (in acciaio ossidato tipo Cor_ten) che si snoda su due livelli ed assolve a varie funzioni in base al tipo di oggetto da esporre. Tale struttura è costituita da un’alternanza di volumi alti e bassi che si compenetrano con la struttura stessa del museo, alcuni dei quali riempiti di sabbia. La parte finale del racconto/visita è affidato ad altre due vetrine, ad esempi di sarcofagi e ha come fulcro una testa lapidea finemente modellata che, isolata e montata su un sostegno metallico guarda, attraverso una finestra, al mare in cui è stata ripescata. pagina 15

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All’interno del museo, per le pareti, si è scelta una tonalità che ricorda il colore della sabbia; per gli arredi, materiali neutri e naturali proprio per esaltare la qualità dei reperti: in particolare si è fatto uso di acciaio ossidato tipo Cor-ten e di legno tinteggiato in marrone scuro. Il pavimento è quello originale, in lastre di pietra serena, segnato dal tempo. Sono stati utilizzati tre tipi di illuminazione artificiale, anche se durante il giorno la luce naturale diventa una componente fondamentale per la lettura dei reperti: all’interno delle vetrine è realizzata collocando strisce di led (al di sotto delle mensole); per la luce diretta o d’accento sono utilizzati faretti a led montati su cavi; per la luce d’ambiente o indiretta sono stati scelti fari a led posti sopra le vetrine. Il nuovo progetto di allestimento, frutto di una stretta e continua collaborazione tra tutte le figure professionali coinvolte e la committenza, è caratterizzato da un uso minimale e rigoroso dei materiali, da una ricerca paziente dei rapporti tra gli oggetti e dalla volontà di enfatizzare l’atmosfera senza tempo che si respira all’interno delle mura di Populonia. pagina 16


Piotto.

Spazio al design. di Marco Braccini Genesi del progetto Come nasce il progetto? Forse sarebbe meglio chiedersi come nascono i progetti di design. Almeno nel mio caso. Quando non si tratta di disegnare un arredo su misura, basandosi su una richiesta specifica, molte volte le idee nascono mentre si sta esplorando alcuni sentieri dettati dalla volontà di utilizzare certi materiali o giocare con strategie compositive. I miei “committenti” sono spesso i concorsi che chiedono di sviluppare certe categorie di complementi di arredo, utilizzando specifici materiali. Dal libretto degli schizzi mi accorgo invece che Piotto nasce senza una linea guida sovraordinata: gioco con le forme, con l’obbiettivo di creare un mobile contenitore. Proprio per questa ragione la modalità di utilizzo del mobile è lasciata all’utente finale: come comodino a lato del letto, come piccolo mobile bar nel soggiorno, come armadietto nel bagno... Il suo aspetto non è certo serio né rigoroso, bensì a prima vista viene spontaneo trovarci dei richiami a forme e personaggi tipici

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della fantascienza classica dagli anni ’50 fino a Guerre Stellari. Il nome stesso è un omaggio a quest’ultimo film. Dall’idea alla realizzazione La sua realizzazione è stata resa possibile dalla grande abilità dell’azienda L’Accento, con la quale ho discusso e sviluppato l’ingegnerizzazione. In progetti di piccola scala, la vera qualità si trova nel dettaglio e il prototipo è il campo di prova dove si scopre ciò che può essere migliorato per unire la massima funzionalità con l’estetica voluta. I materiali di cui Piotto è composto sono principalmente il legno nelle sue varie forme: massello di faggio per le gambe, unito con un disco d’acciaio alla base in faggio lamellare come il cappello; le ante curve sono invece di multistrato marino flessibile che è stato messo in forma tramite stampi creati su misura e colla, infine laccato. L’azienda si sta organizzando per una produzione seriale, ma l’oggetto nasce con passaggi artigiani per cui il futuro proprietario può scegliere il colore che più si adatta alla sua collocazione finale. Insieme ad altri miei prodotti, Piotto farà il suo debutto in pubblico durante la Shenzhen International Industrial Design Fair 2015 dal 6 all’8 novembre in Cina.

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Tre progetti di Starklab. di Marco Squarci

Tre progetti, tre diversi luoghi, tre diversi modi di gestire materiale, forma e funzione, tre di alcuni progetti realizzati dallo studio Starklab. Starklab è uno studio che nasce dalla volontà di due giovani architetti per condividere esperienze ed interessi diversi, maturati durante i rispettivi e differenti percorsi professionali e di studio. L’obbiettivo è quello di trovare la formula giusta per armonizzare concetti come forma, eleganza, sostenibilità, innovazione e costi contenuti. Starklab è un laboratorio aperto a collaborazioni con realtà parallele all’ambito architettonico, allo scopo di contaminare e alimentare i rispettivi processi creativi. Bistrot 8.0. Nel centro storico di Figline Valdarno, e con affaccio alla piazza M. Ficino, costruita intorno al 1400 circa, si trova il locale pubblico Bistrot 8.0. Il progetto studiato e realizzato nel 2015 cerca di misurare la natura commerciale degli spazi sulla nuova attività di somministrazione. La realizzazione mira al riutilizzo dei materiali e degli oggetti, ricercando e modificando gli stessi; il legno rimane il materiale più diffuso, dal pavimentino ai dettagli, aiutando un’atmosfera

retrò e teatrale ideale per una degustazione di vini più intima. Controvento. Posto nella panoramica piazza G. Matteotti di Capoliveri all’isola d’Elba, nasce il locale pubblico denominato Controvento. Il progetto di ristrutturazione ed ampliamento viene terminato nel 2014. Il tema sviluppato cerca di ottimizzare i minimi spazi dell’attività con richiami alle imbarcazioni, sia nella disposizione che nelle linee del bancone. Legno, metallo e corian si fondono dando vita ad elementi semplici e funzionali. La Salmoneria. In piazza Nobili a Firenze, nel 2013, viene creata “La Salmoneria”, primo locale in città dedicato alla somministrazione ed alla vendita del salmone. Il progetto prende ispirazione dalle cassette per la vendita del pesce, utilizzate nei mercati del nord Europa.

bistrot 8.0

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la salmoneria la salmoneria

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Winò Tuscan Restaurant. San Vincenzo (Li).

di Antonietta Ottanelli e Leonardo Manetti Il nuovo locale nasce dalla volontà della committenza, già attiva sia nel campo della produzione vitivinicola con l’azienda “Tua Rita” (Suvereto LI), che nella distribuzione delle più importanti aziende con la “Solo Grandi Vini Sas” di Stefano Frascolla & C, di realizzare un luogo dove la cultura del vino si possa incontrare con le eccellenze gastronomiche locali, cercando così, di comunicare le emozioni della degustazione ad un più ampio bacino di utenza possibile. Il nuovo locale nasce intorno alla già esistente enoteca di proprietà, ubicata in Piazza Umberto I° a San Vincenzo, vero cuore dell’attività, e si sviluppa nella corte interna, attrezzata per i mesi estivi e comunicante con un piccolo edificio ad un piano fuori terra adibito alla degustazione, ed al ristorante. Gli interventi realizzati hanno quindi cercato tramite la rimodellazione degli spazi, l’introduzione di forme, colori ed arredi, di caratterizzare i vari luoghi secondo la loro diversa funzione, conferendogli impostazioni e

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caratteristiche diverse tra loro sempre in linea con la volontà della committenza. La corte, legata ad una degustazione stagionale e più informale, caratterizzata da arredi da esterno colorati o realizzati in legno al naturale, diviene così uno spazio più dinamico dove il cliente non necessariamente si siede, ma, tramite la finestra bancone del piccolo edificio, può ordinare e degustare vini e prodotti agroalimentari locali. L’ingresso al ristorante avviene da un piccolo corridoio, caratterizzato dalle pareti e dal controsoffitto di colore scuro, uno spazio neutro che serve da filtro tra l’esterno ed il ristorante, un vano di passaggio volutamente angusto al cui interno emergono il bancone dell’accoglienza di colore bianco, e la vetrina climatizzata e deumidificata dove trovano collocazione i salumi ed i formaggi. Dal piccolo corridoio si accede alla sala del ristorante, un luogo statico, accogliente e rilassante, pensato per una degustazione più tradizionale, dove i clienti si possono intrattenere più a lungo. Tutte le scelte progettuali sono state indirizzate ad accentuare l’essenza di questo luogo, chiuso verso l’esterno per incoraggiare la convivialità tra gli ospiti e l’attenzione sui prodotti. La gamma dei colori utilizzata è quella dei toni naturali, le pareti passano dal grigio testa di moro dell’ingresso al tortora, i tavoli, realizzati su disegno, sono di noce naturale trattato a cera, le lampade in vetro passano dal terra di Siena al tortora, ed infine la sala viene sovrastata da un quadro/giardino realizzato in piante naturali essiccate che mantengono i colori naturali con vari toni del verde. Anche l’illuminazione sia naturale che artificiale tende a seguire gli stesi principi, la vetrina esterna viene parzialmente oscurata da una parete-filtro in cartongesso, e l’illuminazione artificiale vien ridotta al minimo con un illuminazione di dettaglio sui tavoli e sul quadro giardino.

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Hotel Ai Cadelach.

Un idea che parte dal bosco. di Daniele Menichini Rinate otto camere di questo hotel nei pressi di Treviso, a Revine Lago, grazie a ispirazioni provenienti dal bosco. Il concept dell’hotel è stato ispirato dalla location: due laghi e il verde fondovalle circondato dai ripidi pendii boschivi delle prealpi bellunesi, dove l’elemento predominante è il bosco. Ecco l’elemento centrale su cui hanno lavorato per la progettazione e per la realizzazione, lo Studio di Architettura Daniele Menichini e Toscana Interiors: un bosco sintetizzato e ricostruito dentro la camera da letto, per creare una contiguità con l’ambiente esterno, composto da sicomori, tigli, salici, betulle, pioppi, olmi, faggi e castagni. Alberi fuori ed alberi dentro che creano un contesto confortevole ed accogliente, caldo e materico, in cui passare la notte sognando di dormire nella natura sotto un cielo stellato.

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Nuova vita per le 8 camere, distribuite su due piani, che si trovano vicino alla piscina. Un intervento di interior design che non sconvolge la conformazione planimetrica e la distribuzione interna, ma che mantiene il disimpegno con armadiatura frontale all’ingresso del bagno, che precede la zona letto. L’armadio è a giorno e caratterizzato da una pannellatura laccata che funge da fondo e da supporto, agli elementi contenitore sospesi (cassettiera con anta per cassaforte e contenitore per cuscini e coperte supplementari); in basso la struttura a ponte che serve come poggia-valigia, e quella in alto come appendiabiti. Una porta pantografata, con motivo a “codice a barre” orizzontale, fa da ingresso alla zona bagno caratterizzata dal rivestimento effetto pietra spaccata con sfumature bianche, grigie e quasi dorate.

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Entrando nella zona letto, due pareti si fronteggiano con il motivo del bosco stilizzato, che dà il mood al concept dell’intervento; la parete dedicata allo scrittoio e al relax è caratterizzata dalle sagome degli alberi laccati, che spiccano in rilievo sulla superficie completamente a specchio. Mentre nella parete, sul lato della testata letto, le sagome degli alberi sono a rilievo ed in essenza in controcampo alla pannellatura laccata, il gioco di riflessioni tra le due pareti crea un vero e proprio intreccio di tronchi e rami, che amplificano l’effetto del bosco. C’è poi un altro elemento che regala una forte caratterizzazione alle camere: oggetti, sculture di vari colori, che raccontano i diversi cromatismi delle foglie che mutano con il passare delle stagioni, e che

diventano comode chaise longue dove rilassarsi. Ogni camera, se pur uguale come disegno, è contraddistinta dall’abbinamento tra l’ essenza creata ad hoc per profumare l’ambiente, colore e confezioni tessili che nascono dallo studio degli alberi scelti, quali rappresentanza dei boschi locali. La scelta naturalista non si limita al design, ma si addentra più profondamente nell’impiantistica: il pavimento riscaldato alimentato da pannelli solari, la regolazione del flusso dell’acqua alle rubinetterie, la selezione di materiali, sia di serie che custom, provenienti da aziende certificate o che utilizzano prodotti certificati, nel rispetto dell’eco-compatibilità, della sostenibilità, oltre che del riciclo.

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Walter Di Salvo.

Poetiche contemporanee in Maremma. di Marco del Francia Si è svolta questa estate a Punta Ala una mostra che ha reso omaggio ad una personalità poco incline ai riflettori, ed a cui sono personalmente legato da quasi 20 anni, da quando ovvero ebbi l’occasione di conoscerlo attraverso Vittorio Giorgini, con il quale questa persona aveva aperto uno studio insieme a Firenze nel lontano 1956. Parlo dell’architetto Walter Di Salvo, del cui archivio mi occupo ormai da circa 10 anni e del quale Alessandra Pelosi, curatrice della mostra, ha ripercorso la storia e le soluzioni urbanistiche e progettuali che hanno reso Punta Ala uno dei massimi esempi di urbanistica e architettura contemporanea. L’evento ha offerto una rassegna approfondita dei progetti, anche originali ed inediti e dei piani di lottizzazione compiuti da Di Salvo, segnalato

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positivamente nel corso degli anni Sessanta da critici di spessore come Bruno Zevi e Giovanni Klaus Koenig. Nato a Firenze nel 1926, Di Salvo si laurea alla Facoltà di Architettura del capoluogo toscano nel 1955; l’anno seguente si segnala subito con un primo Premio al concorso per il lungomare di Tirrenia (Pisa). Dopo alcune realizzazioni per edifici privati di civile abitazione, ha l’occasione di redigere - a soli 33 anni - il primo progetto dell’insediamento turistico di Punta Ala. Siamo nel 1960 e Di Salvo si trova ad un bivio: proseguire l’attività professionale a Firenze, come collaboratore dello studio “Savonarola” gestito dall’ing. Barbetta, o trasferirsi a Punta Ala, territorio allora ancora vergine e tutto da progettare, dove dare seguito in prima persona all’incarico

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Villa Quiriconi pagina 28


Villa Marzocchi appena ricevuto, certamente più stimolante ma pieno di responsabilità. La scelta coraggiosa e istintiva per quest’ultima strada, contrassegnerà il percorso isolato - ma saturo di soddisfazioni - che ha accompagnato l’architetto fiorentino fino ad oggi. Nel 1960 Di Salvo comincia il progetto e la direzione lavori delle urbanizzazioni di Punta Ala, derivanti dall’efficace piano da lui stesso redatto. Quest’ultimo prevedeva l’arretramento fino al piede della collina della strada principale di accesso alla pregevole località maremmana; ai lati di questo asse, collegati con strade di servizio e di penetrazione, si sviluppavano i comparti edilizi, di forma circolare in modo da adattarsi sia alle curve di livello sia a qualche tracciato esistente, distanziati tra loro in modo tale che fosse sempre predominante la presenza del verde; la vasta area pianeggiante tra i comparti ed il mare venne concepita da Di Salvo come filtro tra le superfici da edificare e la fascia costiera. Attrezzata per lo sport (galoppatoio, pagina 29

campo di polo, tennis), quest’area, parallela al mare, fu pensata appositamente per impedire la realizzazione di case in prossimità della spiaggia, togliendo eventuali privilegi a favore di pochi. Molte delle residenze, che si sono edificate nel corso degli anni a Punta Ala, portano naturalmente la firma dell’architetto fiorentino. L’orografia del territorio, così varia e composita, ha dato modo a Di Salvo di sperimentare scelte progettuali di volta in volta differenti, dando vita a numerosi esempi esplicativi di ville caratterizzate da architetture certamente non tipizzate. Committenze intellettualmente raffinate e con notevoli disponibilità finanziarie, hanno permesso alla sensibilità culturale di Walter Di Salvo, la sperimentazione di scelte compositive fuori dall’usuale. Proprio nella tipologia della villa al mare Di Salvo ha potuto operare conquiste spaziali espresse con assoluta libertà. Abitazioni in cui è stato possibile frantumare la scatola muraria tradizionale e movimentare i

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Villa Di Salvo volumi sezionando in cascata gli spazi interni. Costruzioni immerse nel folto dei pini o ai margini delle pinete, o ancora abbarbicate alla roccia che scende ripida al mare, spesso risolte con ardite soluzioni tecniche, articolate con terrazze e balconi protesi verso l’azzurro. Villa Nanni, villa Quiriconi, villa Marzocchi, villa Di Gravio, nonché la villa realizzata per se stesso (solo per citarne alcune della proficua produzione disalvoiana), concretizzano ricerche spaziali dove il principio compositivo, dettato dalla conformazione del terreno e dall’orientamento del sole, ha potuto in molti casi inverare - come già notava G.K. Koenig – il Raumplan loosiano. Niente compiacimenti dunque al vernacolare, ma assoluta libertà progettuale, con interessanti richiami alle poetiche wrightiane e miesiane, senza dimenticare Richard Neutra. Queste citate sono solo alcuni esempi di un panorama vario e attraente, composto da architetture che trovano nel territorio maremmano un’ineccepibile

campo di sperimentazione. “L’isolamento” non ha impedito a Walter Di Salvo di avere incarichi fuori dalla sua Punta Ala: nel 1987 è scelto a far parte del gruppo dei progettisti della Fiat per il progetto Novoli di Firenze, insieme a Michelucci, Richard Rogers, Halprin, Bruno Zevi, Leonardo Ricci, Gabetti e Isola, Rob Krier e altri. Sua è la galleria commerciale della stazione F.S. di Santa Maria Novella a Firenze. Con il Complesso Sole Maremma, a Castiglione della Pescaia (1978), riceve il Premio IN-ARCH per la Toscana nel 1990. Tra il 2004 e il 2006 alcune sue opere sono state schedate all’interno della catalogazione promossa dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Siena e Grosseto, in collaborazione con la Direzione Generale per l’Architettura Contemporanea (DARC) del Ministero per i Beni Culturali di Roma, ai fini della valorizzazione delle architetture contemporanee presenti nel territorio delle province di Siena e Grosseto. pagina 30


Oltre Louis Kahn. di Gaia Seghieri Scrivere, prendendo spunto dalle fonti che la rete telematica offre, sulla vita di architetti/e che durante la loro carriera sono rimasti un po’ sullo sfondo di altre importanti figure del mondo dell’architettura, mi procura un forte senso di completezza. Alcune volte mi sento così presa dal discorso “crisi”, soprattutto quella mia interiore nei confronti della professione di Architetto, che mi dimentico di riscoprire questa bellissima professione in altre modalità, diverse da quelle attuali/dogmatiche, e soprattutto di ampliare il mio bagaglio culturale e conoscitivo attraverso queste incredibili figure di Architetti che hanno letteralmente donato la loro vita verso una nuova visione dell’architettura; Anne Griswold Tyng la sento far parte di queste importanti figure. Anne Griswold Tyng (14 luglio 1920 - 27

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Dicembre 2011) è stata architetto e professore all’università della Pensylvania per 27 anni, dove insegnava corsi di morfologia. Anne Tyng ha lavorato per quasi 30 anni a fianco di Louis I. Kahn, e su quest’ultimo ha avuto una grande influenza. Era inoltre membro dell’Institute of Architects, e Accademico della National Academy of Design. Anne è nata in cina, in Lushan, nella provincia di Jiangxi, dove i suoi genitori vivevano come missionari episcopali. La sua predisposizione al disegno, alla matematica ed alla progettazione si è manifestata sin da giovane in Anne, ed all’età di 27 anni ha ideato Toy Tyng, un giocattolo per bambini costituito da pezzi di compensato che potevano essere combinati in una vasta gamma

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di giocattoli e mobili, come un cavallo a dondolo o uno sgabello. Anne frequenta nel 1942 il Radcliffe College e successivamente proseguirà il suo percorso di studi alla scuola di Architettura presso l’Università di Harvard, dove avrà insegnanti come Walter Gropius e Marcel Breuer, e dove sarà una delle prime tre donne laureate nel 1944. Anne, inoltre, sarà l’unica donna presente all’esame, per ottenere la licenza, per poter svolgere la professione di architetto, nel 1949. In quegli anni la mentalità misogina era talmente diffusa e radicata nella società, che uno dei supervisori della commissione le diede le spalle rifiutandosi di avere un colloquio con Anne. Naturalmente, tutto questo non ha ostacolato e scoraggiato Anne dal procedere con la sua professione e successivamente conseguire il dottorato nel 1975, presso l’Università della Pennsylvania. Anne Tying nutriva un forte interesse per i solidi platonici e per il pensiero junghiano, passioni che utilizzo ed rielaborò in Inhabiting Geometry, installazione che l’Institute of Contemporary Arts di Filadelfia e la Graham Foundation di Chicago le richiesero nel 2011. In questo progetto Anne presenta le sue sculture architetture dei cinque solidi platonici, materializzando il suo pensiero volto alla ricerca dei rapporti gerarchici intrinseci associati alla geometria architettonica e al loro

collegamento con l’espansione della coscienza. Anne oltre ad essersi dedicata alla creazione di edifici architettonici all’interno dello studio di Louis I. Kahn, ha scritto numerosi saggi tra cui il più famoso “From Muse to Heroine, Toward a Visible Creative Identity” che fu uno studio sullo sviluppo dei ruoli della creatività femminile nell’architettura, e nel quale Anne scrive di come pochissime donne riescano a raggiungere una propria posizione professionale senza trovarsi leggermente a lato o nascoste del tutto dalla figura di, in molti casi, un marito architetto, sempre in questo saggio Anne ribadisce l’importanza per una donna di un suo necessario sviluppo psicologico al fine di liberare il suo potenziale creativo. La sua figura di architetto è stata riscoperta in parte anche grazie al film documentario “My Architect” del 2003, di Nathaniel Kahn, uno dei figli di Louis I. Kahn. Anne oltre ad avere una rapporto professionale con Louis I. Kahn, ebbe con quest’ultimo anche una figlia, che, per timore di uno scandalo, andò a partorire nell’anno 1953 a Roma, dove ebbe l’opportunità di collaborare e studiare con Pier Luigi Nervi. Anne Griswold Tyng che si impegnata a fondo nella scoperta quotidiana del collegamento tra ordine geometrico e consapevolezza umana dell’architettura, scompare il 27 dicembre 2011 nella sua casa di Greenbrae, in California, all’età di 91 anni. Grazie Anne.

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