N.7_2016
ARCHITETTI L I V O R N O
Ordine
degli
Architetti
Paesaggisti
Pianificatori
Conservatori
In copertina: Oscar Niemeyer National Congress of Brasil Brasilia, 1957/64
N.7_gennaio_2016
Presidente Arch. Daniele Menichini presidente@architettilivorno.it mobile +39 333 9339212 Vicepresidenti Arch. Sergio Bini Arch. Enrico Bulciolu Arch. Marco Del Francia Segretario Arch. Iunior Davide Ceccarini Vicesegretario Arch. Simone Prex Tesoriere Arch. Sibilla Princi Consiglieri Arch. Simona Corradini Arch. Vittoria Ena Arch. Fabrizio Paolotti Arch. Guelfo Tagliaferro Segreteria Barbara Bruzzi Sabrina Bucciantini Redazione Arch. Gaia Seghieri redazione@architettilivorno.it Grafica e impaginazione Arch. Daniele Menichini Pubblicazione a cura Ordine Architetti PPC Livorno Largo Duomo, 15 57123 Livorno Tel. 0586 897629 fax. 0586 882330 architetti@architettilivorno.it www.architettilivorno.it
Sommario.
pagina 1
Verso un nuovo codice dei Beni Culturali. Daniele Menichini
pagina 3
Struttura e composizione. Roberta Cini
pagina 5
La vignetta. Michelangelo Lucco
pagina 7
Concretamente fluido. Daniele Stiavetti
pagina 9
Lo strappo nel cielo di carta. Cinzia Argento
pagina 11
Villa bifronte a Livorno. Cristina Cipolli
pagina 13
Persa in Persia. Marta Niccolai
pagina 25
Centro fieristico Rachid Karami in Libano. Daniele Menichini
pagina 27
Il passo che plasma lo spazio. Gaia Seghieri
Verso un nuovo codice dei Beni Culturali. Daniele Menichini
Dobbiamo riportare alla nostra attenzione le criticità della complessa gestione della tutela e della valorizzazione dei beni culturali a partire, dalla condivisa struttura normativa, del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio oltre che dall’articolata definizione della Convenzione Europea del Paesaggio. La promozione dei processi di Rigenerazione Urbana Sostenibile all’interno della caratteristica struttura urbana delle città storiche italiane impone da parte degli architetti un contributo culturale e tecnico che riporti alla luce il tema del rapporto tra società contemporanea e patrimonio storico artistico, non solo quale testimonianza del passato ma come espressione identitaria dei luoghi e delle comunità e come risposta articolata alle crescenti esigenze negli interventi di trasformazione, valorizzazione e conservazione del territorio. Puntualizzare alcuni elementi cardine, indispensabili, per l’aggiornamento del complesso sistema di salvaguardia del patrimonio culturale e paesaggistico e ribadire la centralità del tema nell’ambito della nostra professione; l’Architetto ha un ruolo di responsabilità culturale e sociale che dobbiamo pretendere ci venga riconosciuto per la sua unicità. La qualità è il principio trasversale sotteso a tutte le attività di trasformazione del territorio, incluse le azioni di tutela e valorizzazione. Il perseguimento degli obiettivi che tale principio si prefigge, deve essere attuato attraverso la definizione di indicatori, non più esclusivamente di tipo compositivo, formale e tecnologico ma estesi a criteri di sostenibilità, funzionalità, durabilità, manutenibilità e di riconoscimento condiviso da parte delle comunità. Caratteri da individuare sia nel provvedimento di tutela, sia nella valutazione degli interventi di trasformazione. Quest’approccio, che rende misurabile la qualità come insieme di variabili e dei rapporti tra le stesse, consente di riconoscere e salvaguardare beni e paesaggi 1
anche in assenza di specifici provvedimenti. Nella convinzione che l’integrazione normativa tra le diverse discipline restituisca completezza e garanzia di conseguimento dei risultati attesi, appare necessario dare seguito alle seguenti azioni: - coordinare le disposizioni contenute nelle norme generali e settoriali in materia di governo del territorio con quelle del Codice dei beni culturali e del paesaggio; - riconoscere che la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio è principio fondamentale negli interventi di trasformazione del territorio; - collegare i vari livelli normativi di governo del territorio, comprese le norme di settore; - esplicitare e articolare nel Codice il tema della valorizzazione dei beni culturali; - coniugare le norme in materia di semplificazione con la tutela dei beni culturali (ad esempio il silenzio assenso introdotto di recente), solo così la semplificazione diventerà efficace e non lesiva dei beni culturali. Riconoscendo il ruolo determinante che l’istituto del provvedimento assume, è necessario proporre alcune azioni: - passare dal “vincolo puntuale” al più ampio rapporto del bene con il contesto territoriale ed il paesaggio storico o rurale; - motivare e graduare il provvedimento di tutela esplicitandone i valori qualitativi; - prevedere la revisione del provvedimento, sia nel caso in cui siano venuti meno gli elementi che ne hanno determinato la tutela, sia nel caso in cui si manifestino condizioni che rendono il sito o il singolo bene meritevole di tutela; - rapportare i provvedimenti agli strumenti di pianificazione; - promuovere la verifica di interesse per l’architettura contemporanea, individuando strumenti di tutela che superino il limite degli anni, della proprietà o dell’essere o
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L’editoriale
meno in vita del suo autore; - individuare strumenti per riconoscere e salvaguardare la qualità laddove non sottoposta a provvedimento. Con l’obiettivo di coordinare le diverse definizioni, è necessario che la nomenclatura sia in grado di articolare in modo chiaro il concetto di “edilizia storica” stabilendo con chiarezza le tipologie di intervento sui Beni Culturali. Nel rispetto dei principi di semplificazione, trasparenza ed efficacia dell’azione amministrativa delle pubbliche amministrazioni per la corretta gestione dei Beni Culturali si ritiene opportuno: - individuare un sistema condiviso di strumenti di confronto a livello locale (conferenza dei servizi, linee guida, abachi) con l’obiettivo di ottimizzare il confronto tra i diversi soggetti istituzionali; - avviare un graduale processo di dematerializzazione dei procedimenti sottesi alle azioni di individuazione, notifica, conservazione e gestione, assicurando attraverso l’accesso digitale agli archivi e la massima disponibilità di consultazione i processi di condivisione, di pubblicizzazione e di valorizzazione che stanno alla base del riconoscimento culturale, prima che tecnico-amministrativo, del patrimonio architettonico e paesaggistico. I Beni culturali e paesaggistici rappresentano la memoria e l’identità culturale e storica dei luoghi. Le azioni di salvaguardia devono: - diffondere una visione del patrimonio culturale quale risorsa dell’identità dei luoghi; - riconoscere il rapporto tra il degrado fisico dei beni culturali ed il contesto ambientale in un approccio di messa in sicurezza del territorio e manutenzione programmata dei patrimonio; - pianificare la rifunzionalizzazione dei contesti storici con politiche rivolte alla residenza, alla produttività ed al turismo, promuovendone l’innovazione tecnologica; - proporre una rilettura ed eventuale ridefinizione
attualizzata della legge sui centri storici. Infine per noi Architetti non è possibile trascurare l’importanza delle competenze. La carenza strutturale di risorse delle pubbliche amministrazioni genera spesso fenomeni di totale mancanza di una efficace azione di vigilanza sul territorio, consentendo lo sviluppo di attività professionali spesso contrarie alle ormai riconosciute competenze in materia di Beni Culturali: la difesa della legalità passa anche attraverso una attenta azione di monitoraggio delle figure professionali che operano sia a livello progettuale che esecutivo. Appare quindi assolutamente necessario: - valorizzare la multidisciplinarietà degli operatori che operano nell’ambito dei Beni Culturali e del paesaggio riconoscendo e rafforzando le peculiarità formative di chi si occupa di tutela, conservazione e valorizzazione con il fine di garantire la qualità di ogni intervento di trasformazione dei patrimoni culturali; - chiedere il riconoscimento del ruolo esclusivo dell’Architetto quale coordinatore dei gruppi multi interdisciplinari che operano sui beni culturali e paesaggistici; - implementare e qualificare gli eventi di aggiornamento e sviluppo professionale continuo in materia di Beni Culturali e Paesaggistici con l’obiettivo di garantire la qualità e l’efficienza della prestazione professionale nell’interesse del Committente ma soprattutto delle Collettività. Su questi ed altri temi è necessario un confronto tra i vari soggetti/attori del sistema dei beni culturali, sia nell’ambito delle pubbliche amministrazioni che nell’ambito dei rappresentanti dei liberi professionisti ed i liberi professionisti stessi; solo in questo modo si potrà avere una visione generale e smetterla di ragionare per visioni parziali o di dettaglio; visioni che sono nocive alla tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico della nostra terra. 2
Struttura e composizione.
Architettura ed ingegneria all’unisono. Roberta Cini La struttura intesa come ossatura, impalcato di un edificio ha avuto un ruolo chiave diventando durante il XX secolo elemento della composizione architettonica. La struttura non è un componente da celare o nascondere ma diventa esso stesso un ingrediente formale dell’architettura, un elemento specifico e caratterizzante. Questa rivoluzione vera e propria nel campo compositivo-strutturale, ha coinciso con fenomeni sociali, economici, politici, culturali, tecnologici, tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. La ricerca tecnologica, individuando le potenzialità di nuovi materiali (acciaio, calcestruzzo armato, vetro) e di nuove tecniche costruttive (moduli puntiformi a telaio), ha fatto sì che si abbandonasse la rigidità del setto murario portante aprendo a maggiore libertà sia nella pianta sia nei prospetti. Inizialmente furono sperimentate in edifici residenziali e le prime apparizioni delle recenti tecniche e dei nuovi materiali, arrivarono con le strutture espositive universali quali il Crystal Palace (1851) di Londra e la Torre Eiffel (1889) di Parigi, gli edifici industriali Turbinehall di Berlino (1909) e tutta la sperimentazione della scuola Bauhaus (1919-1933). Il termine Bauhaus fu ideato da Walter Gropius poiché richiamava il termine bauhutte che indicava la Loggia dei Muratori. Anche in America la Scuola di Chicago farà un lavoro di ricerca della composizione architettonica con forme e caratteri distintivi quali la struttura in acciaio, le grandi pareti finestrate e l’uso limitato della decorazione esterna. Tra le figure più influenti della Storia dell’Architettura, ricordato, assieme a L. Mies Van Der Rohe, W. Gropius, F. L. Wright e A. Alto, come Maestro del Movimento Moderno, e Pioniere
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dell’uso del Cemento armato in architettura è sicuramente Le Corbusier. Le Corbusier traccia i “famosi cinque punti di una nuova architettura” che applica in ambienti domestici e che raggiunge il culmine nella Villa Savoye a Poissy del 1929. I cinque punti derivano dalla sostituzione dei muri portanti con una struttura a telaio in c.a.: i Pilastri, la Pianta libera, la Facciata libera, la Finestra a nastro, i Tetti-Giardino. L’uso del c.a. porta a una sempre maggiore esposizione della struttura tanto da arrivare al cosiddetto movimento estetico “brutalismo” dove il cemento armato non è più intonacato ma “a vista”. Tutto è struttura che modula la forma architettonica. Anche in Italia si ritrovano opere che si rifanno a questa ricerca: basti pensare alla Chiesa sull’Autostrada del Sole (1964 dove la struttura in c.a. prende la forma simbolica della nave, della montagna e dell’albero) o alla Banca di Colle Val d’Elsa (1977 dove la struttura e la composizione sono in perfetta sinergia con un’alternanza tra compattezza delle parti in muratura e la permeabilità degli spazi della maglia a telaio in acciaio) di G. Michelucci. L’identificazione tra struttura e architettura, all’apice dell’utilizzo delle nuove tecnologie, si ha in Italia con le opere dell’Ing. Pier Luigi Nervi, dove il cemento a vista diventa anche elemento estetico. Nel Palazzetto dello Sport di Roma (1956-57) il percorso dei carichi verso il terreno è reso evidente da una serie di forcelle-cavalletti a Y che sostengono la calotta in un gioco di perfetto equilibrio. Egli affermava «Come sempre in tutta la mia opera progettistica ho constatato che i suggerimenti statici interpretati e definiti con paziente opera di ricerca e di
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proporzionamento sono le più efficaci fonti di ispirazione architettonica. Per me questa regola è assoluta e senza eccezioni». Con l’Ing. Nervi la struttura si fa architettura così come avviene nelle opere di Ludwig Mies Van Der Rohe dove si predilige l’acciaio. La sua architettura è universale, semplificata ed essenziale, “pelle e ossa” (skin and bone – con riferimento allo scheletro a travi e pilastri di acciaio e il relativo tamponamento ossia “la pelle”). La sua visione è palese nella Casa Farnsworth (1950) a Chicago. L’edificio rettangolare, con struttura a otto colonne di acciaio divise in due file parallele. Tra le colonne si trovano due superfici (il pavimento e il tetto) e tutti i muri esterni sono di vetro. In pratica la Casa è tutta struttura, mentre il tamponamento in vetro, che corre sottile per tutto il perimetro, è appena percettibile. Mies Van Der Rohe tocca il proprio apice anche nella realizzazione dei Grattacieli come il Seagram Building (1958) a New York capolavoro d’ingegneria, dove la struttura è esposta, mostrata, visibile. Costituito da una struttura a scheletro di acciaio portante, alla quale sono appesi i pannelli in vetro a chiusura esterna il cosiddetto sistema “curtain wall”. Non si può non citare l’opera ultima di Mies Van Der Rohe la Neue Nationalgalerie (1968) a Berlino, un’aula quadrata di quasi sessantacinque metri di lato con un tetto che poggia solo su otto pilastri di acciaio. L’effetto è grandioso: una lastra di acciaio nervata è sospesa su un numero minimo di supporti verticali arretrati rispetto al filo esterno. Le tamponature sono interamente vetrate. Anche qui l’architettura è struttura. Nel tempo, con lo sviluppo della tecnologia, l’edificio ha assunto forme più organiche, estreme. Ad esempio La Mediateca di Sendai, a nord di Tokio- Giappone, progettata da Toyo Ito e realizzata nel periodo 1998/2000: una scatola
di vetro dove si rilevano le parti strutturali. Lo schema strutturale riprende le forme casuali della natura attraverso un sistema di tubolari metallici saldati insieme, che formano tredici cilindri costruttivi e che si sviluppano dal piano terra alla copertura, forando i piani quasi naturalmente. La struttura si eleva verso l’alto compiendo diverse torsioni e deformazioni senza un ordine preciso come gli elementi in natura. Toyo Ito afferma «Ogni elemento è un tubo irregolare e non geometrico e assomiglia alla radice di un albero che cresce in spessore verso l’alto». Un altro architetto che coniuga semplicità estetica e complessità tecnica è la giapponese Kazuyo Sejima nell’opera Rolex Learning Center (2009) a Losanna. Rettangolare in pianta, la costruzione in prospetto è un’onda continua sinuosa formata dal pavimento e dalla copertura: tra di esse ampie vetrate. Qui si porta al limite la struttura con forme sinuose tanto che l’ing. Manfred Grohmann, curatore dei calcoli strutturali ha definito il complesso «una lastra curva con parecchie forze di compressione». Questi esempi non esaustivi non pretendono di completare il tema del ruolo e dell’influenza che la struttura ha nella composizione architettonica, ma quello che vogliamo mettere in luce è la direzione, la tendenza. Nella produzione moderna, si è cercato d’integrare le ragioni e le necessità strutturali all’interno della composizione architettonica e cioè di trovare una sinergia tra motivazioni tecnico-costruttive e motivazioni estetico-simboliche. La Tecnologia, i materiali, l’architettura si fondono e spesso la tecnologia è a supporto dell’architettura e anche viceversa. Tutto è proteso per il raggiungimento della massima economicità-sostenibilità, funzionalità e libertà espressiva. Anche qui Ingegneria e Architettura possono camminare insieme, dal latino classico insimul “nel medesimo tempo”.
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La vignetta di Michelangelo Lucco.
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Concretamente fluido. Daniele Stiavetti
Mi è difficile dire che cosa siano veramente i miei vasi da fiori. Sicuramente nascono da una ricerca sui materiali, infondo sono un architetto. La loro connotazione artistica è forse solo un elemento aggiunto che, credo, certe volte possa scaturire da solo, quando non si sa bene quello che si sta facendo. Posso provare a dire quello che i miei vasi non sono. Non sono opere di design, perché presupposto dell’oggetto di design è quello di poter essere fabbricato in serie su scala industriale. I miei vasi sono invece pezzi numerati, unici e irripetibili. Non sono arte di ispirazione dadaista, surrealista o pop, infatti gli artisti di queste correnti usavano rendere artistico l’oggetto di uso comune decontestualizzandolo, rendendolo inutilizzabile, cambiandone la scala dimensionale. A questo proposito è utile ricordare le opere di Marcel Duchamp (Fountain - 1917), Man Ray (Cadeau - 1958), Claes Oldenburg (Clothespin - 1976). I miei vasi, invece, rimangono sempre e comunque oggetti con una loro utilità pratica, una sorta di artigianato artistico. Posso provare a dire da dove i miei vasi arrivano. Mi interessa molto lo studio del panneggio, noto fino dall’arte antica, che è senz’altro il tentativo di rendere concreta e invariabile l’essenza di qualcosa di morbido e fluido. Già dalle opere del famoso scultore greco Fidia (Frontone del Partenone – 435 a.C.), è possibile osservare una evoluzione di questa tecnica denominata “panneggio bagnato”, che evidenzia le forme fisiche pur mantenendole pudicamente coperte. Nella storia dell’arte lo studio del panneggio non si è mai arrestato, neanche in epoca medioevale, ed ha conosciuto momenti elevati nel Rinascimento e nel Neoclassicismo. Sicuramente nel mio lavoro è importante l’influenza delle opere dell’artista informale Alberto Burri, nell’uso che fa dei tessuti (famosi i suoi “sacchi”) e del cemento usato nella sua estetica grezza. La massima espressione di Burri nella realizzazione di opere in cemento è il “Grande Cretto” di Ghibellina (1989), opera di land art realizzata per commemorare il terremoto del 1968. Riconosco nel mio lavoro anche l’influenza del Metamorfismo, corrente artistica contemporanea, che deve però molto a Burri e alle sue ricerche sui materiali e sulla composizione. Il mio interesse nella fluidità delle forme riemerge anche oggi nella cultura Hip Hop e in particolare nello studio del graffitismo. Sicuramente però l’influenza più importante arriva da Joseph Monier, che sorprendentemente non è un artista, ma un giardiniere. Monier, nel tentativo di fare vasi da fiori di cemento leggeri e resistenti vi inserì all’interno una rete di ferro. Brevettò questo sistema nel 1867 e nello stesso anno lo presentò all’Esposizione Universale di Parigi, con grande successo. Fu così che nacque il cemento armato, e oggi sappiamo bene cosa ha significato l’invenzione di questo materiale per tutti noi. Come Monier, ho raggiunto il risultato di riuscire a produrre vasi da fiori in 7
cemento leggeri e resistenti, è molto improbabile però che la mia invenzione possa avere il successo e l’importanza della sua. Comunque la storia del giardiniere Monier ci insegna che il progresso necessita di sperimentatori, e che le loro idee possono prendere il volo in direzioni assolutamente imprevedibili. Il cemento armato inventato da Monier ha scritto la storia dell’architettura del novecento e oltre. L’uso che ne è stato fatto ci ha però portato ad associarlo ad una idea di materiale rigido, geometrico, squadrato e ci ha fatto perdere la visione della sua vera essenza di fluido. Sono estremamente rari gli esempi di architetti che hanno sfruttato questa qualità del cemento in senso estetico, primo fra tutti Miguel Fisac. Fisac usò spesso del tessuto, o dei teli leggeri per realizzare le casseforme del cemento armato, la prima volta fu nel 1956 per costruire la sua propria casa. L’esperienza di Fisac è stata ripetuta da vari architetti anche in tempi recenti (un esempio degno di nota è quello di Walter Jack e del suo Crushedwall del 2011), ma nessuno di questi ha sostanzialmente evoluto la tecnica di Fisac, e cioè rivelare la natura fluida del cemento attraverso l’uso di casseforme non rigide. Al contrario, io realizzo i miei vasi da fiori immergendo direttamente dei pezzi di tessuto in una miscela di cemento, sabbia e acqua. Dopo che il tessuto si è ben impregnato nella miscela lo metto in forma fino all’indurimento. Durante tutto il processo non faccio mai uso di alcuna cassaforma. Per quanto semplice e intuitiva questa tecnica è originale e innovativa, in quanto mai sperimentata prima. I risultati sono sorprendenti. I vasi sono realizzati facendo assumere al tessuto posizioni inusuali, quasi come se fossero istantanee di processi dinamici. Le opere sembrano fotografare attimi fuggenti, in cui dei pezzi di stoffa sembrano cristallizzati in posizioni che sfidano la gravità. Per questo materiale uso molto semplicemente il nome di “tessuto cementato”. La tecnica sembra essere decisamente versatile e attualmente sto lavorando ad altri manufatti diversi dai vasi da fiori, quali opere da appendere a muro e basamenti per tavoli e altari. Sto conducendo anche una ricerca analoga sugli stessi materiali (cemento e tessuto), che riguarda travi strutturali in cemento armato con tessuti e filati. Questo lavoro, meno artistico e più ingegneristico, è volto a trovare una valida alternativa al ferro per realizzare le armature del cemento armato. Infatti, il ferro delle armature del cemento armato, è soggetto a ossidazione e degrado, che minano gli aspetti statici ed estetici delle opere realizzate con questo materiale. I risultati sono incoraggianti. Sul cemento c’è ancora moltissimo da scoprire, è bene che la sperimentazione su questo materiale non si fermi, ed è bello stare a vedere dove la ricerca potrà condurci.
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Lo strappo nel cielo di carta. Cinzia Argenti
“Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. - Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle. - Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. - E perché? - Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.” In questo celebre passo de “Il Fu Mattia Pascal” Pirandello ci racconta come la tragedia antica possa trasformarsi nel dramma moderno, a mezzo di un semplice strappo. E’ proprio quello strappo nel cielo che ci pone il dubbio, l’incertezza, facendo sì che la nostra mente inizi a intravedere qualcosa al di là del conosciuto, oltre l’orizzonte del reale. Cosa si nasconde oltre la percezione fisica della realtà? In quale mondo veniamo catapultati quando iniziamo a grattare la superficie delle cose e cerchiamo di andare al di là? Proprio questo è il tema di ispirazione di una serie di lavori che in un anno si sono arricchiti di idee e collaborazioni. L’intento parte da quello più naturale per un architetto, raccontare parti di città da varie prospettive, intento che si concretizza mettendo a confronto due tecniche diverse, la fotografia da un lato e la pittura dall’altro. In un’epoca in cui l’immagine digitale vive virtualmente, come una meteora, il tempo di un like, ecco che la fotografia acquista unicità e 9
diviene mezzo di interazione artistica. La lucidità dello scatto fotografico descrive il reale con precisione e razionalità, salvo poi perdere una sua parte. Da questa menomazione, o se vogliamo da questo strappo, nasce e si rivela la parte pittorica. E’ la parte immaginifica che affiora, stravolge e decontestualizza l’immagine reale. Se nei primi lavori che danno forma all’idea, (“madrid, il cielo sopra” , “Berlino, il cielo sopra” ), lo skyline della città si confronta con l’elemento della natura in una prova di forza che vede anche i più alti grattacieli di Berlino e Madrid soccombere all’immensità del cielo, quasi fosse lecita l’operazione del rimettere in scala l’opera dell’uomo con l’infinito, i lavori successivi sono forse più astratti e onirici e raccontano Livorno con la preziosa collaborazione del fotografo Alessandro Poggi. Così il grattacielo di Michelucci, le sfumature dei grigi del cemento brutalista di Tomassi, ed il più contemporaneo ex metropolitan di MDU e Archea, diventano occasione di riflessione e lavoro. I materiali usati si alternano tra carte di varie grammature e finiture a supporti che vengono riciclati dai cantieri edili: frammenti di cartongesso tagliati o spezzati in esubero rispetto ai disegni di progetti di abitazioni, trovano nuova vita, e danno corpo ad un percorso il cui tema principale rimane la trasformazione, in cui il reale si fonde con l’immaginato, e fotografia e colori ad acrilico e olio si intersecano evocando altri mondi. Alla fine lo spettatore diventa partecipe di un viaggio, di una domanda, o forse, semplicemente, di un racconto. “La bellezza non è ciò che gli occhi vedono: a un certo punto gli occhi non vedono più e l’uomo scopre relazioni infinite che dissolvono la sua solitudine. Allora si è nel mondo e fuori del mondo al tempo stesso, insieme a tutti quelli che sono intenti a cercare oggi, hanno cercato ieri, cercheranno domani, una risposta. A che cosa? Non è possibile saperlo: forse lo spirito della ricerca esaurisce la verità che si cerca.” (G.Michelucci)
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Villa bifronte a Livorno.
La conversione di una villa in un complesso sostenibile e lussoso. Cristina Cipolli La conversione di una villa della prima metà del ‘900 di circa 800mq, sviluppata su 3 livelli (2 fuori terra) nel centro di Livorno, in 4 unità immobiliari, segue un metodo d’intervento per operare sul costruito legando memoria storica e segno contemporaneo. La scelta progettuale è stata quella di salvaguardare la memoria, tipologica ed urbana, della casa rispondendo pienamente alle nuove esigenze abitative senza rinunciare ad un esplicito approccio contemporaneo dal punto di vista della disposizione degli spazi, dei materiali impiegati, della figura compositiva dell’insieme. La facciata principale su Via Montebello viene completamente restaurata mantenendo cornici e modanature originali ma con l’inserimento di nuovi moderni infissi a taglio termico, e ripitturandola di colore bianco con le parti decorative in grigio perla. Proprio sul contrappunto fra figura storica ed intervento attuale, gioca l’intero progetto che, riprendendo i 3 livelli originari e lasciando la scala preesistente, riorganizza in modo radicale gli spazi interni sviluppando la nuova grammatica compositiva sul fronte interno, verso il nuovo giardino con piscina. Il parallelepipedo del fronte posteriore, si spinge verso l’esterno grazie alle
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grandi vetrate che danno un senso di prolungamento della casa verso l’esterno. Al primo piano altri 2 appartamenti, di cui uno si affaccia sul giardino tramite un balcone ricavato da un elemento architettonico-scultoreo ‘appeso’ al fronte posteriore del fabbricato. Infine il quarto appartamento ricavato da un locale mansardato, arricchito di lucernari e caratterizzato da un’enorme terrazza al piano. L’intervento architettonico è stato concepito seguendo innovative tecniche volte a soddisfare le caratteristiche di biocompatibilità ed ecosostenibilità. Tutti gli appartamenti sono dotati d’impianti a risparmio energetico: impianto di riscaldamento a pavimento, isolamento termico, pannelli solari per la produzione di acqua calda sanitaria. Anche il progetto illuminotecnico segue tale concetto in quanto caratterizzato da luci a led. Lo spazio interno, che si ispira al concetto dei loft americani, non risulta mai statico, ma dinamico ed aperto, definito da una particolare cura dei dettagli costruttivi e chiarezza di espressione formale. Scelta accurata dei materiali: teak burma, pietra, vetro, policarbonato, resina spatolata cementizia, rovere naturale, iroko.
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Persa in Persia.
Un architetto in viaggio di nozze in Iran. Marta Niccolai PROLOGO Avevo 8 anni e frequentavo la terza elementare; sul mio sussidiario coloravo la capitale dell’impero persiano Persepoli con il grande Serse, ed immaginavo che prima o poi sarei andata in Iran. Avevo 16 anni e frequentavo la terza superiore; sul libro di storia dell’arte mi perdevo nei colori delle ceramiche islamiche di Esfahan e nella mia mente ritornava un’idea: prima o poi in Iran ci dovevo andare. Avevo 24 anni, ero al Louvre di Parigi; contemplavo i pezzi del palazzo di Dario provenienti dall’antica città di Susa e dentro di me pensavo: devo assolutamente andare in Iran. Dopo 10 anni ho trovato il compagno della mia vita; ci siamo sposati ed abbiamo deciso che la nostra luna di miele sarebbe stata in Iran. Purtroppo per mio marito io ero già diventata un architetto. TEHERAN Siamo arrivati in Iran il giorno dell’Ashura, che è una festa religiosa Sciita in cui si commemora la morte di Husayn, nipote del profeta Maometto e terzo Imam per gli Sciiti; insomma un grande giorno. Le strade principali della città sono percorse da numerose processioni di uomini, tutti vestiti di nero, che ritmando si battono una mano sul cuore, mentre le donne stanno sui lati della strada intente a chiacchierare e
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bere tè; ci sono bancarelle di datteri e tè ovunque. Io immaginavo di vedere grandi gesti di penitenza, punizioni corporali....l’unica punizione invece è quella che, se non ti fermi ad ogni bancarella a mangiare dolcetti, datteri e bere tè in onore a Husayn è maleducazione. L’immagine di Teheran a noi più familiare è rappresentata dalla torre Azadi quella, per intenderci, che fa da sfondo ai giornalisti della televisione, quando si collegano da laggiù. La Azadi Tower è circondata da magnifici giardini, caratterizzati da aiuole con cavoli. Si, proprio cavoli... e ci stanno benissimo. Parchi e giardini, bellissimi e molto frequentati, sono una costante in tutte le città che abbiamo visitato. A Teheran c’è un ponte pedonale il Pol-e Tabiat che unisce il parco Taleqani ai giardini Banader e Ab-o-Atash, passando sopra l’autostrada. Questo ponte, che si snoda sinuoso con i suoi elementi in acciaio, è caratterizzato da passerelle con giardini pensili che creano un continuo con i due parchi che collega. L’architetto che lo ha progettato è la giovanissima Leila Araghian, classe 1983. Per una “giovane” architetta italiana, sembra quasi surreale che una sua coetanea, per di più in un paese dove si pensa che le donne non siano ben rappresentate, abbia potuto progettare e realizzare una simile struttura. Parlando però con alcune studentesse di architettura, incontrate nel mio viaggio,
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non mi è sembrato poi così surreale: in Iran l’architettura è un vero e proprio sostantivo di genere femminile. La città di Teheran è congestionata da un traffico veicolare caotico che crea anche un grande inquinamento (che tanto la benzina non costa un cavolo). Per ovviare a questo delirio Teheran si è dotata di una metropolitana fantastica, attualmente realizzata per il 30%, ma già fa le scarpe a quella di Roma. La metropolitana è divisa in due settori: la parte per sole donne e la parte mista (dove possono entrare sia uomini che donne). Le prime volte, mio marito ed io, abbiamo deciso di non separaci e di andare insieme nella parte mista (anche per non perderci). Vedevo però che le donne, anche se accompagnate dai loro rispettivi padri-mariti-amici, preferivano andare nella parte riservata a loro; incuriosita, dopo un pò abbiamo deciso di separaci. Aidan nella parte mista ed io in quella riservata a sole donne. Mi si è aperto un mondo! Primo: Tra sole donne si chiacchiera e ci si racconta tutto; appena entrata da sola mi hanno quasi assalito “di dove sei, come posso aiutarti, la vuoi una caramellina, indicami tuo marito, è bravo...etc”. Secondo: Nel reparto di sole donne entrano le venditrici ambulanti che vendono cosmetici e abbigliamento intimo a prezzi stracciati! IL NORD Tabriz: lasciamo Teheran per il Nord, destinazione Tabriz, capoluogo della regione dell’Azerbajan. Un viaggio di 650 Km, affrontato con un treno notturno, della durata di 14
ore. Il biglietto costa 12 Euro e porta la data 05/08/1394 (in Iran è in vigore il calendario persiano, un calendario solare, l’anno inizia il 21 marzo, con l’equinozio di Primavera e parte dall’anno dell’Egira, 622 d.c.). Siamo capitati in uno scompartimento misto, insieme ad un’altra giovane coppia iraniana ed io e l’altra pora figliola abbiamo dovuto dormire con la pezzola in capo e lo scafandro addosso. A proposito di pezzola; all’inizio io indossavo il velo (hijab) in modo da nascondere completamente i capelli, poi ho incontrato una ragazza iraniana che mi ha detto: “Ricordati che, per noi donne, la rivoluzione inizia anche da un ciuffo”. A Tabriz abbiamo visitato la parte rimanente della cittadella di Arg: un mastodontico maschio murario interamente in laterizio, unica parte sopravvissuta della vecchia cittadella trecentesca. Stavo osservando un gruppo di studenti di ingegneria fare una esercitazione di rilievo sul monumento, e spiegavo a mio marito il perché di tutti quei chiodi piantati in terra. Si avvicina un signore, si presenta come Alì, ingegnere, direttore dei lavori di riqualificazione urbana all’interno dell’area della cittadella di Arg e domanda il perchè di tanto interesse per una esercitazione di rilievo, da parte di due turisti. Sono un architetto è la mia risposta. Lui ridendo dice che anche sua moglie è un architetto, e se venisse a sapere che non ha offerto una tazza di tè ad una sua collega lo avrebbe linciato. Ci troviamo così all’interno della sua baracca di
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cantiere a bere tè ed a discutere delle lesioni subite dal monumento, prevalentemente causate dalle continue vibrazioni per i lavori relativi alla costruzione della vicina moschea Mosallah. Lasciamo Tabriz e la gentilezza dei suoi abitanti e proseguiamo il nostro giro: destinazione il sito archeologico di Takht-e Soleyman, la “Mecca” degli zoroastri, attraversando tutto il Kurdistan Iraniano. Ci accompagna un autista-guida di nome Alì, un omone alto dai capelli corvini, tossicodipendente da zucchero (i quattro denti che si ritrova in bocca sono una chiara dimostrazione di questa dipendenza, molto comune in Iran, mangiano zollette di zucchero come se fossero ciliegie!). Prima tappa Kandovan: un pezzettino di Cappadocia in Iran, più piccola ma meno finta. Contadini e mercanti di spezie vivono ancora in questi gioiellini di architettura “troglodita” scavati nella roccia, erosa in stranissime forme. Il villaggio si estende sui pendii del monte Sahand, che secondo alcuni dovrebbe essere la “montagna di Dio” citata nelle Bibbia, quindi mi sa che eravamo nel giardino dell’Eden (...e ‘sti ca...voli). Il paesaggio del Kurdistan sembra uscito dalla tavolozza dei colori dei pittori impressionisti. Sulla terra ferrosa rossa che lascia trapelare, con lunghe scie verdastre, la ricchezza del rame presente nel sottosuolo, risalta il giallo delle foglie autunnali dei noci ed il verde acceso di alcuni sempreverdi. Qua e là, ammassi di piccoli villaggi costruiti con il fango, animati da donne vestite con colori sgargianti e pastori intenti a badare il gregge. Takht-e Soleyman: Questo sito archeologico, si trova nella parte nord-occidentale dell’Iran ed è il più sacro santuario dello Zoroatrismo, una religione-filosofia basata sugli insegnamenti di Zarathustra. L e rovine del centro religioso, risalenti al periodo Sasanide (V-VI sec. DC), testimoniano la combinazione armonica degli elementi naturali considerati sacri dagli zoroastri. L a Terra: è quella di un’immensa vallata circondata dalle montagne dell’Azerbaijan iraniano; L’Acqua: è quella di un limpidissimo lago artesiano, profondo circa cento metri, posto al centro del santuario, continuamente alimentato da una sorgente sotterranea di origine vulcanica; Il Fuoco: è quello eterno, alimentato in maniera costante e naturale dai gas vulcanici del sottosuolo, che venivano incanalati con tubazioni di terracotta. Un fantastico e suggestivo esempio di architettura organica, 1300 anni prima di Frank Lloyd Wright. Soltaniyeh (la città dei sultani): Soltaniyeh fu costruita dai mongoli agli inizi del XIV secolo, per diventare la nuova capitale della Persia e fu completamente distrutta da Tamerlano alla fine del 1300. L’unico monumento sopravvissuto di quel periodo è il mausoleo di Oljeitu. Inserito nel 2005 nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO, attualmente è un labirinto di impalcature per i lavori di restauro. Il mausoleo presenta una doppia cupola in laterizio: la più antica e la più grande del mondo, dicono (ma, secondo
me, quella del Brunelleschi a Firenze è più grande). L’interno è caratterizzato da una stratificazione di elementi decorativi che vanno da quelli tipicamente mongoli del 1300 a quelli tipici del periodo safavide del XVIII secolo. Guidata da tre giovanissime studentesse di architettura, e da una giovane restauratrice ho potuto rendermi conto da vicino dei lavori di restauro sulle decorazioni interne. Durante una prima fase sono stati asportati gli strati di decorazione risalenti al periodo safavide, per riportare alla luce quelle del periodo mongolo. Ciò ha provocato un grande dibattito ed un rallentamento dei lavori: è vero che la prima decorazione del mausoleo era quella di origina mongola, ma è anche vero che la società odierna iraniana e di Soltaniyeh sente più prossima a sé quella safavide. In mezzo a quel labirinto di impalcature ci siamo quindi ritrovate a discutere sullo strettissimo legame socio-culturale che esiste tra la popolazione ed un progetto di restauro. Valle di Alamut (I castelli degli Assassini): Ci siamo inerpicati da Qazvin su per le montagne e la pioggerellina umida della città, piano piano che salivamo, si trasformava sempre di più in qualcosa di consistenza materica. Ad un certo punto grido: ma questa è neve! E Yousef, il nuovo autista-guida: “Si! È la prima neve dell’anno, siete molto fortunati!”....o molto stupidi, penso io. Il castello di Alamut, ossia il castello dell’ismaelita Hassan-e Sabbah, si trova in un posto chiamato “il nido dell’Aquila”, su di un picco roccioso, che svetta a circa 2000 metri di altezza. Ho scalato, sotto la neve, con lo scafandro e la pezzola i miei primi 2000 metri! Comunque, vedendola in positivo, il sogno di vedere la Persia sotto la neve lo possiamo dare per realizzato. Arrivati in vetta, tra le rovine del castello, il paesaggio che faceva capolino tra le nubi, lasciava senza fiato: Sulle pendici, tutte imbiancate, risaltavano le foglie rosse dei boschi di ciliegio in autunno. La leggenda narra che Hassan e la sua setta, rapivano e spesso uccidevano importanti figure politiche e religiose; ai mercenari della sua setta faceva fumare erba “hashich”, da qui il nome “hashish-iyun” assassini. L’IRAN CENTRALE: Esfahan: prima tappa Esfahan: da aggiungere alle più belle città del mondo. I persiani orgogliosi della loro città dicono Esfahan nesf-e jahan, che tradotto sarebbe “Esfahan è la metà del mondo”. Situata tra il deserto di Dasth-e Kavir e i monti Zagros, sono principalmente due i motivi che rendono questa città un capolavoro: i suoi monumenti ed i giardini. L’impressionante piazza Meidn Naqsh-e jahn (immagine del mondo), patrimonio dell’umanità dal 1979, può essere considerata una riproposizione a scala urbana del cortile di una casa tradizionale persiana. Il cortile rappresenta il punto centrale di una casa persiana, un grande rettangolo a cielo aperto ai cui lati si sviluppa l’intera abitazione. Tradizionalmente era caratterizzato dalla presenza, in posizione centrale, di una vasca d’acqua circondata da verde su cui si affacciavano quattro Iwan (locali 16
rialzati a cui si accede da un grande arco, dove ci si riuniva per mangiare o conversare, da qui la parola divano). Piazza Meidn Naqsh-e jahn è un grande cortile, sia da un punto di vista architettonico che sociale. Un enorme rettangolo lungo 500 metri e largo 100, caratterizzato al centro da un grande vasca d’acqua con fontane, circondata da prati e alberi a basso fusto. I quattro Iwan sono rappresentati dai principali monumenti della città: A nord: la porta principale del bazar-e bozorg, uno dei bazar più belli della Persia; A sud la moschea dello Shah, mastodontica, ricoperta interamente con piastrelle di maiolica azzurra, una bellezza! A ovest il palazzo di Alì Qapu, un gioiellino dentro al quale c’è una graziosissima sala della musica. E infine a est la moschea Sheikt Lotfollah, più piccola ma con un concentrato di bellezza unico. Le maioliche che rivestono interamente il suo interno, cambiano colore a seconda della luce che entra dalla cupola, passando dal verde della luce mattutina all’arancione della luce serale. L’altra bellezza di Esfahan sono i suoi giardini. Tutto intorno è deserto, ma qui madre natura ha donato a questa stupenda città una ricchezza di verde lussureggiante, che fa invidia all’Irlanda. In questi enormi polmoni verdi, si può fare di tutto: Bere tè: ogni parco avrà minimo una decina di chioschi che oltre a vendere dolciumi (aridaglie di zucchero) e patatine, vendono Tè, per meno di 25 centesimi di euro; Andare in bagno: ogni parco ha per lo meno un bagno pulito ogni 300 metri. Della serie, bevo il te, faccio una passeggiata, mi scappa la pipì, vado in bagno, esco dal bagno, riprendo un altro tè...e via e via e via....; Ricaricare il cellulare: ogni parco ha un chiosco con una decina di prese per ricaricare il telefonino; Giocare a scacchi: in ogni parco c’è uno spazio dotato di tavolini con annessa scacchiera; Studiare poesia: in ogni parco ci sono dei gazebini che sembrano proprio strutturati per fare lezioni all’aria aperta; Fare ginnastica: ogni parco è attrezzato con strumenti per fare esercizio fisico; e poi tutte le altre cose tipiche: fare picnic, dormire sui pratini, giocare a calcio, infrattarsi se siete giovani coppiette, incontrarsi in gruppo e fare critiche sui massimi sistemi se siete anziani..etc. Spotlight su Esfahan: L’ufficio informazioni turistiche è da premio Nobel per la gentilezza e la disponibilità. A Esfahan c’è un fiume che è fiume solo sei mesi l’anno. Ossia per sei mesi c’è l’acqua, per altri sei è completamente asciutto. Gentilezza a quintalate, tranne che per i venditori di tappeti che delle volte sono un po’ assillanti … ma vabbè, siamo anche nella città più turistica della Persia. Il ferdesi, una ciottola piena di budino di riso con caramello, è buonissimo! La caffetteria Roozegar, in una piazzettina dentro il bazar, fanno in caffè degno del nome espresso (dopo 5 giorni di astinenza da caffeina, li ho devotamente ringraziati con tanto di “you save me!” Mi avete salvato!). 17
Oasi di Farazhad (nel deserto): L’attuale popolazione è composta da: 100 persone, un topo, una lepre, 20 capre, 3 mucche, 3 cammelli (quelli dentro il recinto), una miriade di mosche, una iguana. Sistemazione: Barandaz Lodge. Il viaggio per arrivarci da solo merita un viaggio in Iran: sei ore in autobus fino a Khoor e 45 minuti di taxi per raggiungere l’oasi. Il nostro autobus è di colore rosso fuoco, stile tuk-tuk indiano; dentro è ancora meglio: rose finte, adesivi “Ferrari”, foto di Khomeini, tazze per il tè ed una zuccheriera incollata accanto al volante, colma di zollette. L’autista si presenta con un panino (falafel) in mano, cinque denti in bocca, ma in divisa! Arriviamo a Khoor che è già buio. Chiediamo ad un signore anzianotto, vestito con un gessato grigio un pó unto, per il “Barandaz” e lui si mette a gridare “Barandaz, Barandaz, me taxi” e ride ripetendo cento volte “Welcome in Iran”. Ci fidiamo di lui! Il nonnino ci spiega (mezzo in inglese e mezzo in persiano) che Farahzad è a 45 minuti di macchina da Khoor e quando capisce che Aidan spiccica qualche parola di Farsi è la fine! Dalla contentezza mette la musica della radio a palla (musica tradizionale iraniana) e incomincia a cantare e a dire a mio marito “bravo bravo”, il tutto andando a 100 km orari in mezzo al deserto. Ad un certo punto l’autista incomincia a spegnere i fanali e a riaccenderli, avvicinando la faccia al parabrezza, come per vedere meglio. Non capiamo. Ci spiega allora che qui è pieno di cammelli, che pascolano allo stato brado, che incuriositi dalla luce delle macchine si avvicinano e se li pigli in pieno è un guaio “dangerous camels, dangerous!”... a volte ti attraversano la strada dal nulla; praticamente come da noi i cinghiali. Surreale! Piena notte, non sai nemmeno di preciso dove sei, sicuramente su un taxi giallo parecchio malandato, con alla guida un nonnino really che canta a squarcia gola e che ti dice Welcome in Iran...ma attenti ai cammelli! Ripeto o siamo estremamente fortunati o siamo parecchio stupidi. Finalmente arriviamo, ci accoglie Hossein, un ragazzo giovane bellissimo. Alto, slanciato, capelli medio lunghi nerissimi, barba lunga nera tendente al rosso, occhi languidi color pece, olivastro di pelle, vestito completamente di lino color beige. L’agriturismo è fantastico, un vecchio caravanserraglio in mattoni di terra cruda e paglia completamente ristrutturato, per fare posto a sei stanze enormi e la parte dove vive la famiglia. Al centro un grande cortile con un iwan rialzato coperto da tappeti coloratissimi che serve come spazio per mangiare. Le stanze sono grandi, piene di tappeti. In un angolo ci sono materassi e cuscini e biancheria pulitissima per fare il letto, alla maniera tradizionale, ossia per terra. La mattina mi sveglio, faccio la doccia, mi vesto, mi metto la pezzola ed esco. Il cielo è grigio, meglio per lo meno non morirò di caldo, esco per vedere con la luce del giorno dove sono. Varcata la porta del Barandaz rimango di sasso.
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Ripenso alla questione dei miraggi, ma razionalmente penso che i miraggi sono solo visivi, mentre quello che sento sulla mia pelle e che mi sta bagnando come un pulcino è reale. PIOVE! O siamo incredibilmente fortunati o …..... Hossein ci porta la colazione dicendoci che gli dispiace per la pioggia, ma che lui e la sua famiglia sono tanto, tanto contenti... anzi...se possiamo tornare più spesso, perchè, non per essere scaramantici, ma non si sa mai. Dopo pranzo esce un pochino di sole. Aidan torna a fare il Lorence D’Arabia “denoartri” sulle dune, io rimango al villaggio per disegnare tutte le casine di fango e paglia. Mentre sono lì a disegnare arriva Hossein e mi chiede di voltarmi; mi giro e…… c’è l’Arcobaleno! L’Arcobaleno nel deserto. Si, siamo veramente fortunati. Yazd (la città dell’acqua e del vento) Cari colleghi architetti, se siete interessati alla bioclimatica e alla bioarchitettura, prendete in seria considerazione un viaggetto a Yazd. La città di Yazd, risale ad oltre 3000 anni fa ed forse la città più antica del mondo. E’ stata una importante città zorastriana, lo testimoniano la presenza di uno dei pochi templi del fuoco ancora funzionanti e delle torri del silenzio (le tombe degli zoroastri), dove vengono lasciati i corpi dei defunti, per non contaminare la terra. Si trova nella parte centrale dell’Iran, tra il deserto sabbioso di Dasth-e Lut e il deserto di sale di Dasth-e Kavir, perciò i suoi abitanti hanno dovuto risolvere due problematiche decisive per la sopravvivenza: Combattere il caldo e garantirsi
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l’acqua. Per il controllo della temperatura fu ideato e adottato il sistema dei Badgir (torre del vento), una specie di condizionatore di 2000 anni fa. Il centro storico di Yazd è caratterizzato da piccoli edifici, da ognuno dai quali si innalza una specie di camino, un po’ più grande e più alto, che attraverso aperture laterali, dotate di alette di legno, è in grado di intrappolare i venti provenienti dai deserti, ed incanalarli, attraverso tubazioni in fango e muratura, verso l’interno della casa. Se poi, sotto il camino è posizionata una vasca piena d’acqua, l’aria che scende si raffresca ancora di più. I badgir si differenziano per quanti venti provenienti da differenti direzioni possono intercettare: ardakami (una direzione, quello più diffuso); kermani (due direzioni); yazdi (quattro direzioni); fino ad arrivare a vere e proprie meraviglie dell’architettura bioclimatica, come la torre del vento nel giardino di Bagh-e Dolat Abad, che riesce ad intercettare venti, provenienti da 8 direzioni. Queste torri sono caratterizzate anche da pioli di legno che fuoriescono, all’esterno, dai muri. Non riuscivo a dargli una precisa funzione; l’unica cosa che mi veniva in mente era la possibilità che servissero come scala per la manutenzione del camino. In realtà, come mi ha spiegato il Signor Davood, servivano come appoggio per i colombi. Non è che nel deserto si trovano molti animali da mangiare e nemmeno è facile sviluppare l’agricoltura. Quindi, se vicino a un luogo fresco ci faccio appollaiare un po’ di
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colombacci, prima raccolgo il guano che creano e lo uso come concime e poi...... Per l’approvvigionamento idrico fu adottato il sistema dei Qanat, una tecnica sviluppata inizialmente proprio nell’antica Persia. Il sistema consiste nell’intercettare una falda acquifera con dei cunicoli verticali, simili a pozzi, che sono collegati da un canale sotterraneo, in lieve pendenza, in modo da trasportare l’acqua, senza bisogno di pompaggio e senza perderne una grande quantità, per l’evaporazione. Una volta arrivata in città l’acqua viene accumulata in grandi cisterne, sopra le quali sorgono almeno quattro Badgir, che raffrescano e ventilano l’acqua costantemente. La distribuzione avviene attraverso canali che vengono aperti, a rotazione per un periodo di tempo, in modo da assicurare a tutti l’accumulo dell’acqua, in maniera equa. Shiraz (la città dei poeti e delle rose): Welcome to Shiraz! E subito dopo...”che è molto più bella di Esfahan!” Perchè in Iran c’è molto campanilismo tra Shiraz e Esfahan. Quelli di Shiraz dicono che gli Esfahani sono tirchi. Gli Esfahani dicono che gli Shirazi sono fannulloni. Tutti i torti non ce l’hanno. Gli orari dei negozi e dei monumenti sono... come dire...abbastanza variabili. Questo rilassamento forse deriva dal fatto che Shiraz è la patria della poesia, estremamente importante in Iran. A Shiraz è sepolto Hafez, uno dei più grandi poeti iraniani,
vissuto nel XIV secolo. Un buon iraniano deve avere in casa almeno due libri: il Corano e le poesie Hafez. I versi di questo poeta sono ancora largamente utilizzati nelle conversazioni, i politici e gli avvocati per rafforzare le proprie argomentazioni usano spessissimo citazioni delle sue poesie. Il mausoleo con la sua tomba è una vera e propria metà di pellegrinaggio. Un giardino bellissimo pieno di rose, aranceti e fontane; con altoparlanti che diffondono ovunque le sue poesie. Un’altra meraviglia di Shiraz è il bazar: un dedalo di viuzze che si aprono in tanti caravanserragli, dove la fa da padrone un inebriante profumo di acqua di rose. Uscendo da bazar, in un punto non ben precisato, ci siamo ritrovati davanti al mausoleo di Shah-e Cheragh, uno dei posti più sacri dell’Iran. Praticamente ci troviamo in quel posto in cui sulle nostre guide c’è scritto: Posto straordinario ma, ci dispiace, niente da fare, i turisti e i non mussulmani non sono ammessi. Un guardiano ci guarda e ci invita ad entrare. Mi portano un chador, me lo metto e ci accompagnano davanti ad una ragazza completamente vestita di nero, con una fascia a tracolla con su scritto “international affairs Office”; é una studentessa di teologia e fa volontariato in questo mausoleo. Le dico che sulla guida c’è scritto che non possiamo entrare, lei sorridendo risponde che i gruppi non sono ammessi, ma se il custode vede una coppia di turisti rispettosi e non rumorosi, permette loro di entrare sotto la vigilanza di una guida. E
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quindi eccoci dentro, il santuario dove è sepolto Sayyed Mir Ahmad, fratello dell’Imam Reza, morto nel IX secolo DC a Shiraz. L’interno è completamente decorato con un mosaico di specchi. In realtà gli specchi dovevano essere interi, ma arrivarono da Venezia tutti rotti, per non buttarli via decisero di tagliare gli specchi come le maioliche e decorare gli interni. Una meraviglia! (Mio marito, da buon nord-europeo, freddo come il ghiaccio, ha pensato ad una versione religiosa di Las Vegas...che in effetti rende l’idea). Le vetrate a nord presentano bellissimi disegni con colori rossi, quelle a sud, con colori blu. Si creano così due zone: in una, utilizzata in inverno, la luce incontrando il rosso, riscalda l’ambiente; nell’altra, utilizzata d’estate, incontrando il blu, lo raffresca. Nel centro della sala c’è una grata in argento, con decorazioni d’oro, dove una fila di donne si aggrappa piangendo e pregando. La ragazza ferma la fila un attimo, parla con una anziana signora, mi fa segno di avvicinarmi e mi dice: metti la mano destra sulla grata ed esprimi un desiderio. Tutte le donnine mi guardavano con aria di approvazione. Chiedo alla bimba: “perché pregate sbattendo la testa su una pietra?” Lei si mette a ridere e mi dice: “si vede che vieni da una cultura cristiana penitenziale. Non è un gesto di penitenza né di tortura. L’Islam dice che veniamo dalla terra e torneremo alla terra; per ricordarcelo sempre, prendiamo questo quadretto di argilla e ci appoggiano la testa quando preghiamo, anche perché la moschea è piena di tappeti, quindi questo è l’unico contatto con la terra che abbiamo.” Cavolo...è vero! Domando ancora a cosa servono i soldi che la gente getta oltre la grata, la ragazza risponde che di solito vengono usati per beneficenza, ma ora servono per il restauro della vecchia moschea. Non abbiamo pagato nessun biglietto di ingresso, vorrei contribuire anche io; la ragazza mi accompagna dal Mullah al quale do i soldini corrispondenti a due ingressi, in altri monumenti iraniani. Quando esco la ragazza ride e mi dice: lo sai che hai appena adempiuto a uno dei cinque pilastri dell’Islam. La zakat, l’elemosina volontaria e legale.” All’ora di pranzo seguiamo i bazari che scendono in un ristorante, posto in un seminterrato del bazar, dove abbiamo mangiato mezza pecora, cotta alla perfezione, per meno di 30 euro. Persepoli: Nell’ufficio informazioni turistiche di Shiraz ci troviamo davanti la faccia di uomo, bianca come il latte, con un naso rifatto alla francese è piena di botulino, che sembra Michael Jackson. “Ciao sono Marta, sono italiana, lui è mio marito, è irlandese, siamo in viaggio di nozze in Iran, zaino in spalla e vogliamo andare a Persepoli. Come si fa?” ed il Michael Jackson di Shiraz risponde “Dipende: volete andare a Persepoli nella maniera più economica o in quella più confortevole? Ditemi come e vi dirò come farlo”. Ok, mi ripresento di nuovo: “ciao sono Marta, sono italiana, sono un architetto e vorrei visitare Pasaegade, la tomba di Ciro, la necropoli di Naqsh-e Rostan e Persepoli.
C’è la faccio a vederle in un giorno? Se si, quanto mi costa ed è possibile farlo di sabato?” Ed il tizio “ buone notizie! Un’italiana che parla inglese e che ha le idee chiare. Si! Ma ti serve un taxi privato. Ti costa circa 70 euro per tutto il giorno, ed ho la persona che fa al caso vostro.” “Piacere mi chiamo Shaharam, Gabriele in farsi”. Gabriele ... mi stai parecchio simpatico! E quindi si va! Pasargade: fu la prima capitale dell’impero persiano. La Tomba di Ciro (Kurúsh in farsi) è una specie di mini ziggurat su cui si erge una tempietto in pietra dove era sepolto il grande Re, Ciro l’achemenide. Naqsh-e Rostam: la necropoli dei grandi Re. Sulle pareti rocciose della montagna sono state intagliate in alto, quasi verso la cima, le tombe di quattro grandi re persiani: Ataserse, Serse, Dario, Dario II. Monumentali, visibili anche da lontano, in tutte e quattro il rilievo di ogni re che riceve l’investitura divina da Ahura Mazda (Dio, in zoroastriano). Ed infine la capitale: Persepoli. Non è rimasto tantissimo. Si entra dalla porta di Serse o porta delle nazioni e a dare il benvenuto sono due coppie di colonne con tori androcefali. Sulle incisioni laterali è scritto (in elamita, in persiano ed in babilonese) che tutto quanto è stato costruito da Dario il grande e continuato da suo figlio Serse, per volere del grande Ahura Mazda. Persepoli era una città di rappresentanza, costruita in maniera monumentale per mostrare la grandezza dell’impero Persiano. Era anche una sorta di Assemblea Generale delle Nazioni in quanto i rappresentanti dei ventitre popoli che costituivano l’impero, in occasione del Nouruz (inizio del nuovo anno persiano), qui si incontravano per discutere delle questioni politico-amministrative e portare doni al Re. L’imponente scalinata del Palazzo delle Udienze (Apadana) è caratterizzata da bassorilievi che raffigurano proprio questo evento: ci sono gli Arabi che portano al Re tessuti e un dromedario, gli Etiopi con vasi ed una zanna di elefante, gli Egizi con tessuti e tori; e così per tutte le altre nazioni. Il simbolo del Nouruz, il leone (nuovo anno) che vince sul toro (anno vecchio) è presente ai quattro angoli dell’edificio, i bassorilievi che rappresentano gli Immortali (la guardia scelta di Serse) sono presenti in tutti i palazzi. L’unica parte che è stata ricostruita è l’harem di Serse, al suo interno è collocato il museo del sito archeologico, dove si possono osservare i reperti rinvenuti durante gli scavi ed alcune parti dei bassorilievi dell’Apadana. L’ANTICA MESOPOTAMIA: Decidiamo di riavvicinarci a Teheran, passando per la parte ovest dell’Iran: la regione del Khzestn, l’antica regione dell’Elam, la parte iraniana della Mesopotamia, la regione dove sorgeva Susa, la capitale scelta da Dario il grande durante l’impero persiano, dove Alessandro Magno sposò la figlia di Dario III, unendo così i due imperi. Dopo aver lasciato l’inebriante profumo di rose di Shiraz, abbiamo preso di nuovo un pulmino e abbiamo passato tutta la notte in viaggio, con accanto a noi un tizio 22
che russava da fare schifo (ho avuto seriamente degli istinti omicidi), per arrivare ad Ahvaz. La città più brutta, più inquinata e più calda del mondo (in estate si sfiorano i 70 gradi); per raggiungere la mezzaluna fertile bisogna arrivare qua, nel centro del mondo petrolifero iraniano, quello che Saddam Hossein voleva occupare durante la guerra degli anni 80. Alla fine dei monti Zagros, dove la terra rossa di questi monti scende dolcemente fino ad incontrare una piana alluvionale piena di fiumi, di erba verde, di nomadi, di uccellini, aironi e fenicotteri, si trova il più imponente è meglio conservato ziggurat di tutta la Mesopotamia. Choqa Zanbil: interamente costruito con mattoni di terra cruda e rivestito con mattoni di laterizio, questa meraviglia, che in pianta ha le dimensione di 105x105 metri e muri spessi oltre 2,50 metri, si staglia all’orizzonte come un miraggio. Tra i mattoni, se ne scorgono alcuni che riportano diciture in cuneiforme elamita, babilonese e persiano. Se, come dicono gli storici, possiamo dividere la Preistoria dalla Storia, con la comparsa della scrittura, qui siamo nel posto dove l’umanità ha fatto il grande salto. Un gruppo di operai stava ristrutturando una parte dello ziggurat, alcuni di loro erano intenti a confezionare la malta come la facevano gli elamiti (terra, uova, lana di pecora, carbone ed acqua). L’antica Susa: Susa (o Shush in farsi) è caratterizzata dalle rovine del palazzo di Dario. Negli scavi aperti, dove ancora gruppi di archeologi lavorano, è riconoscibile il passaggio delle varie civiltà (26 in tutto) che si sono succedute. Partendo dai mattoni grandi degli elamiti, passando ai mattoni degli achemenidi (Ciro, Dario, Serse e co.) e così via, fino ad arrivare ai mattoncini piccoli piccoli, delle civiltà islamiche. Di fronte a questo sito si staglia un gigantesco castello in stile francese. In realtà è proprio un castello francese. La prima equipe di archeologi che alla fine del 800 iniziarono gli scavi dell’antica Susa, furono proprio i francesi, che incominciarono ad impacchettare e spedire delle “cosette” che mano mano, portavano alla luce: tipo Il Codice
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Di Hammurabi ed altri reperti della civiltà elamita-babilonese e di quella achemenide, destinazione il Louvre. Per proteggere i tesori scavati e salvaguardarsi dalle insurrezioni della popolazione locale, i francesi decisero di costruire un fortino usando i mattoni provenienti dagli scavi archeologici. I restauratori di Susa, ci hanno detto che il castello è importantissimo, non tanto per l’edificio, ma per i mattoni, sui quali sono ben visibili incisioni cuneiformi. Shushtar: ultima tappa della Mesopotamia. Qui l’imperatore romano Valeriano fu sconfitto dal re sasanide Sapore nel 260 a.c. Fatto prigioniero, insieme ai suoi soldati, furono utilizzati per progettare e costruire: dighe, ponti, acquedotti ed i mulini ad acqua, particolarmente suggestivi, alimentati da condotti sotterranei. Molto singolare risulta la visione dei capolavori dell’ingegneria romana, decorati con motivi della civiltà sasanide. Purtroppo però, quando gli inglesi posizionarono le loro compagnie petrolifere nella vicina (e brutta) città di Ahvaz, fecero saltare in aria i ponti-diga costruiti dai romani, con lo scopo di interrompere i collegamenti commerciali con Shushtar e costringere la gente del posto a trasferirsi e cercare lavoro presso i loro impianti. A conclusione di questo bellissimo Viaggio (di nozze) voglio evidenziare alcuni aspetti che mi hanno particolarmente colpito: La grande gentilezza e disponibilità delle persone incontrate in ogni contesto e situazione; La facilità ed il senso di sicurezza riscontrato nel visitare il Paese, anche fuori dai circuiti turistici (per ora molto limitati); Lo straordinario e vastissimo patrimonio artistico e culturale, presente in Iran, da conservare, tutelare e valorizzare. Consiglio a tutti l’Iran come prossimo meta per un viaggio, in particolare ai colleghi architetti, spesso chiamati ad operare in contesti caratterizzati dai manufatti delle varie civiltà del passato.
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Centro fieristico Rachid Karami in Libano. L’opera incompiuta di Oscar Niemeyer a Tripoli. Daniele Menichini Nel mese di ottobre ho avuto l’occasione di andare in Libano, e visitare la città di Beirut, per un grande evento per il mondo arabo e l’architettura; una città bellissima e molto europea, nonostante la sua collocazione, ed in cui la ricostruzione post guerra ha ancora il suo bel da fare, si trovano edifici nuovi vicino ad edifici bombardati da demolire e ricostruire, molte suggestioni ed emozioni nel girarla sia di giorno che di notte. L’occasione più interessante è però stata quella di poter far visita alla città libanese di Tripoli, in un viaggio organizzato e guidato dal Presidente dell’Ordine degli Architetti ed Ingegneri del Libano, l’architetto Wassim Naghi del quale vi riporto la traduzione ed il riadattamento del comunicato che ci ha dato. Nella città libanese, il celebre architetto brasiliano Oscar Niemeyer ha lasciato un sogno che purtroppo si è trasformato in un’enorme fiera irrealizzata. Questo importante progetto di Niemeyer non è molto noto all’interno della comunità internazionale di architettura, in quanto il sito di 100 ettari coi suoi 15 edifici e monumenti costruiti a metà del ventesimo secolo, oggi rimangono strutture incomplete di cemento, dentro un’oasi
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utopica catapultata nei nostri tempi moderni. La storia comincia nel 1958. In quel periodo, il Libano stava attraversando la sua “età d’oro” quando, nell’autunno del 1958, Fouad Shehab fu nominato Presidente della Repubblica con il compito di ricostruire l’unità nazionale all’interno di una strategia equilibrata di sviluppo socioeconomico per il paese, in linea con le principali tendenze del periodo. La costruzione di una grande fiera internazionale a Tripoli, la capitale del nord del Libano, fu un progetto cruciale in questa nuova politica, e ci vollero alcuni anni di trattative e selezione di terreni in collaborazione con i politici tripolitani, e coi servizi pubblici comunitari. La fiera era ispirata dall’idea delle grandi esposizioni delle capitali europee dell’ottocento e del novecento, e da importanti strutture chiamate “esposizioni universali (o mondiali)” nelle capitali dei paesi arabi da poco indipendenti, come la Fiera Internazionale di Damasco (1955) che copre 23 ettari, la Fiera Internazionale di Baghdad (1956) che occupa 30 ettari, e la Fiera Internazionale di Smirne (1937) che occupa 46 ettari. La decisione di creare una
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fiera internazionale a Tripoli è arrivata per affermare il ruolo centrale di Libano nell’economia della regione, e per annunciare la fine della egemonia di Beirut, e la distribuzione dei frutti della crescita nelle regioni del paese fino al quel momento trascurate. Nel 1962 l’architetto brasiliano Oscar Ribeiro de Almeida Niemeyer Soares Filho, conosciuto come Oscar Niemeyer, aveva appena finito di lavorare su Brasilia, la meraviglia del modernismo della capitale del suo Paese, insieme ai suoi colleghi Lucio Costa e Roberto Burle. In quell’anno, egli fu incaricato da parte del governo libanese di progettare una fiera internazionale permanente. Aveva 52 anni, ma quel viaggio era particolarmente significativo perché rappresentava la sua prima commissione oltreoceano, fuori del continente americano. Qualche giorno dopo il suo arrivo in Libano, Niemeyer andò a Tripoli (85 km a nord della capitale Beirut). Lì passò due mesi, durante i quali produsse l’essenza delle sue idee, dando forma al progetto della fiera internazionale. Nelle sue memorie pubblicate 40 anni dopo, spiegò i principi che avevano guidato il suo approccio. La progettazione del concetto e lo sviluppo del progetto hanno impiegato quasi 4 anni prima della costruzione, che cominciò nel 1967 e fu al punto di essere terminata nel 1974, ma nel 1975 la guerra civile libanese interruppe il completamento dei lavori di edilizia dello storico luogo modernista. Brasilia sembra essere stata presente nella testa di Niemeyer quando progettò il sito nel 1963. A prima vista, nel piano generale della fiera di Tripoli con la dominante “grande couverture”, si possono vedere le somiglianze con il piano urbanistico brasiliano. Questa, a forma di boomerang, era stata designata a sovrastare gli stand dell’esposizione internazionale. Da notare come Niemeyer non fu d’accordo con l’idea di avere i padiglioni dell’esposizione in edifici separati, in quanto “confondono il visitatore.” Al contrario, avrebbe permesso che tutti i padiglioni fossero ospitati sotto un’ala o copertura flottante a forma di boomerang la cui struttura, inoltre, era simile a quella dell’Università di Brasilia, con l’utilizzo intensivo di cemento e una tendenza verso curve e vasche riflettenti (3,3 ettari). Il visitatore si sarebbe aggirato fra le strutture distese, dando un’occhiata al piccolo museo nazionale cilindrico — o, perché no, — al museo dello spazio sotterraneo. Il “Pavillion du Liban’, il museo libanese, ricorda il palazzo presidenziale di Brasilia (Palacio Alvorada), ma con i portici posti in su e in giù per imitare l’architettura tradizionale del Libano. Un rivoluzionario alloggiamento collettivo progettato da Niemeyer che aveva molto in comune con il suo precedente Brasilia Palace Hotel (1958), nel 2000 fu trasformato tramite un intervento pesante e distruttivo in un “Quality Inn”, hotel a tre stelle. Questo evento danneggiò il complesso di Niemeyer, e portò l’attenzione sulla necessità di creare una politica di protezione dell’autenticità degli edifici. Paradossalmente, questo hotel è l’unica struttura che oggi rimane in attività, insieme all’ufficio amministrativo dell’ingresso principale. La casa-tipo (Residence Type) si ispira alla casa di Niemeyer 27
a Rio de Janeiro, la “casa das canoas”, costruita nel 1953 e oggi utilizzata come sede della Fondazione Oscar Niemeyer. Realizzata su un unico piano, ha il tetto di copertura a forma organica. Il soggiorno e la sala da pranzo si affacciano, attraverso la vetrata continua, su una piscina realizzata con ceramica bianca e roccia artificiale dall’aspetto naturale. “Il mio interesse era progettare questa residenza con la massima libertà, adattandola alle irregolarità del terreno, senza cambiarlo, modellandola in curve, così da permettere alla vegetazione di penetrare al loro interno, senza la presenza di un confine palese di linee rette… ” Oscar Niemeyer. Il teatro sperimentale, a cupola di cemento con un diametro di 60 metri, potrebbe ospitare circa 1200 poltroncine girevoli. Fu progettato originariamente con una disposizione teatrale flessibile. Il palco circolare rotante è elevato idraulicamente, e gli spogliatoi degli attori e le strutture tradizionalmente dietro le quinte, si trovano a un piano interrato sotto la platea. Ha lo stesso aspetto dell’Auditorium Ibirapeura (anni 50) e l’Oca Auditorium costruito nel 1951, e chiamato “oca” perchè assomiglia alla dimora tradizionale dei nativi americani. Niemeyer fu una tra le figure più autorevoli nello sviluppo dell’architettura moderna, noto come un grande artista e come uno dei migliori architetti del suo tempo. Le sue innovazioni si focalizzarono sulla filosofia della forma sopra la funzionalità, e a questo proposito due domande rimangono per il futuro: – Per cosa dovrebbero essere utilizzati gli edifici? La maggior parte non può più essere usata per lo scopo originale, ma dobbiamo elaborare qualcosa di nuovo. – E a chi appartiene la fiera? A Tripoli? Al Libano? O si tratta di una proprietà che non dovrebbe avere alcun limite territoriale? Secondo me è troppo grande per essere d’interesse esclusivo dei tripolitani. La fiera appartiene alla comunità internazionale e ora, finché non è ufficialmente registrata, fa parte del patrimonio mondiale dell’architettura e della cultura. Per avviare un piano d’azione al fine di rendere questa struttura leggendaria indimenticata, l’unione di ingegneri libanesi ha svolto, nella primavera del 2014, un grande esercizio accademico rivolto al patrimonio architettonico moderno in Libano. Abbiamo scelto come tema la “fiera internazionale Rashid Karami” a Tripoli. Dieci scuole e facoltà pubbliche e private di architettura hanno partecipato a questo brainstorming a livello nazionale sul futuro della fiera, sotto il tema del riutilizzo abusivo dell’architettura. Oltre 300 idee sono state adottate dagli studenti ed esposte sotto la “grande couverture” di Niemeyer a giugno 2014, in un evento celebrativo chiamato ”Fiera di Tripoli 2020”. Più tardi, ad agosto del 2014, una selezione dei progetti migliori è stata esposta presso il congresso dell’U.I.A (Unione Internazionale degli Architetti) a Durban, Sud Africa. I passi futuri saranno includere questo capolavoro di Niemeyer nelle liste del patrimonio nazionale e internazionale e promuovere, insieme agli investitori, il suo utilizzo futuro nel miglior modo possibile per Tripoli, per il Libano, e per l’umanità.
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Il passo che plasma lo spazio. Gaia Seghieri Nel 2011 Wim Wenders ha voluto rendere omaggio ad una delle più importanti coreografe, e danzatrici contemporanee, Pina Bausch (Solingen, Germania, 27 luglio 1940 – Wuppertal, Germania, 30 giugno 2009), attraverso un film/documentario che ho avuto occasione di vedere poco tempo fà. Al termine del film mi sentivo molto nutrita, e completa, sensazione che provo ogni qualvolta vedo, sento o tocco un qualcosa che ha lasciato un piccolo seme di cambiamento dentro di me, può essere un opera d’arte, una canzone, un testo letterario, un paesaggio, un gesto, uno sguardo. Una delle cose che mi hanno più colpito del film, oltre alla bravura dei danzatori, sono stati l’architettura ed il paesaggio affrontati in modo così diverso da Pina, in modo, così, non convenzionale. Mi sono sempre interessata alla danza, e per alcuni anni ho partecipato a corsi di teatro danza, ma per me questa passione era un qualcosa che si limitava allo spazio teatrale, ed anche nel momento in cui poteva uscire fuori dal teatro, nella mia mente, questa disciplina, rimaneva inclusa in una bolla protettiva, che non aveva niente a che fare con la vita ordinaria. Ed invece non è così, la danza ed il movimento creano lo spazio, un piccolo passo del danzatore trasmette una vibrazione diversa della materia di cui lo spazio è costituito. Pina faceva muovere i suoi danzatori negli spazi urbani e periferici, della cittadina tedesca, Wuppertal, dove aveva sede la sua compagnia di
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teatro-danza, e qui ogni angolo veniva riutilizzato per creare una relazione di armonia tra la danza e gli edifici, tra il movimento ed i mezzi urbani, tra il corpo umano ed i materiali che compongono i palazzi e le strade, investendo di una nuova luminosità luoghi, dove di luce ce ne piuttosto poca, o dove la neutralità degli spazi e dei colori, non rimanda di certo ad ambienti solari e calorosi. Ma il movimento ideato da Pina ha trasformato questo spazio urbano, generando quadri dinamici, immagini che ci riportano ad un uso diverso, e sicuramente onirico del luogo, dello spazio, della città. Un uomo che interloquisce con una scala mobile, nel centro cittadino, disegnando cerchi danzanti nell’aria, seguendo con i piedi il movimento continuo dei gradini rotanti, proiettando un’immagine poetica che si allontana dalla visione grigia, smorta, e fissa di una semplice scala mobile. Quattro sedie ed un tavolo posizionati lungo un torrente, in un bosco al di fuori della città, dove una donna seminuda, abbraccia il tavolo, nell’atto di avere un ultimo momento di rilassamento. Nella Schwebebahn, la tipica ferrovia monorotaia sospesa a 8 metri da terra e a 13 metri dal fiume Wupper, una ballerina in abito da sera entra in uno dei vagoni, ed inscena, attraverso rumori e movimenti meccanici, una dolce lotta con il suo cuscino, che alla fine sistemerà su di una seduta; nessuna delle persone presenti all’interno del vagone la guarda, come se non esistesse, proprio come in un sogno.
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Danzatori in abiti da sera, uno dietro l’altro in fila indiana, percorrono lo spazio urbano della città, scrivendo con i gesti le quattro stagioni, sotto un raro sole tedesco, trasmettendo un atmosfera di rilassamento e di serenità. Lo spazio di una piscina coperta viene rivisto, e rimodellato dalla danza sensuale e iniziatica di una giovane danzatrice: attraverso gesti semplici ed amplificati l’ambiente acquista un nuovo significato, e la quotidianità trova la possibilità di essere vissuta in modo totalmente diverso. Nello stabilimento industriale Zollverein una donna mette carne nelle sue scarpette da ballerina, per poter danzare sulle punte, in un ambiente che trasuda abbandono e trascuratezza, la sua danza catalizza l’attenzione dello spettatore ed i grossi blocchi cementizi, e le tubazioni ferrose si trasformano in un castello, come in una favola. In un incrocio stradale, sotto la ferrovia sospesa, una coppia di danzatori trasforma l’aiuola urbana in un giardino incantato dove il loro amore nasce, si sviluppa e termina. All’interno di una struttura completamente in
vetro, in un bosco dedicato alla mostra di sculture, i danzatori trasformano lo spazio espositivo in un punto di incontro, dove le emozioni esplodono in tutta la loro pienezza. Negli spazi conseguenziali di un capannone industriale, due danzatrici, l’una danzando con il pavimento, l’altra gettando terra e sabbia sulla prima, riescono a riempire con la reiterazione dei loro gesti, spazi troppo immensi. In una ex cava, alla periferia della città i danzatori in fila indiana, continuano la loro iniziale camminata urbana, proseguendo in un paesaggio lunare e desertico, aggiungendo note di colore ad un paesaggio non più vissuto. In tutti questi passaggi è come se l’architettura non fosse più fatta di materiale solido, ma riuscisse ad acquisire una nuova sostanza, che insieme alla coreografia, traccia una nuova scrittura scenografica, concepisce relazioni tra uomo ed ambiente dove non vi sono, dona la possibilità di avere lampi di luce in aree completamente in ombra, esalta emozioni e sentimenti ordinariamente compressi, dona la facoltà di ispirazione in qualsiasi situazione e luogo.
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