Architetti livorno n 8 maggio 2016

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N.8_2016

ARCHITETTI L I V O R N O

Ordine

degli

Architetti

Paesaggisti

Pianificatori

Conservatori


In copertina: Gae Aulenti Museo Gare D’Orsay Parigi

N.8_maggio_2016

Presidente Arch. Daniele Menichini presidente@architettilivorno.it mobile +39 333 9339212 Vicepresidenti Arch. Sergio Bini Arch. Enrico Bulciolu Arch. Marco Del Francia Segretario Arch. Iunior Davide Ceccarini Vicesegretario Arch. Simone Prex Tesoriere Arch. Sibilla Princi Consiglieri Arch. Simona Corradini Arch. Vittoria Ena Arch. Fabrizio Paolotti Arch. Guelfo Tagliaferro Segreteria Barbara Bruzzi Sabrina Bucciantini Redazione Arch. Gaia Seghieri redazione@architettilivorno.it Grafica e impaginazione Arch. Daniele Menichini Pubblicazione a cura Ordine Architetti PPC Livorno Largo Duomo, 15 57123 Livorno Tel. 0586 897629 fax. 0586 882330 architetti@architettilivorno.it www.architettilivorno.it


Sommario.

pagina 1

L’editoriale. Daniele Menichini

pagina 3

Controeditoriale. Sergio Bini e Daniele Menichini

pagina 5

La vignetta. Michelangelo Lucco

pagina 7

Il piano paesaggistico PIT. Paradigma della nuova realtĂ regionale. Mauro Parigi

pagina 9

Architettura del Novecento. Casa Esagono a Baratti. Marco Del Francia pagina 13

Storia e misteri del Tempio di Gerusalemme. Gian Matteo Bianchi

pagina 15

Costruire in terra cruda. Dal PerĂš a Baratti. Cristina Guerrieri

pagina 19

N.O.F. 4 e il condominio della follia. Marco Del Francia

pagina 23

Markthal. Il mercato di Rotterdam. Gaia Seghieri

pagina 31

La Moschea Hassan II a Casablanca. Lusso e tecnologia, i paradossi del Marocco. Daniele Menichini

pagina 37

Archmarathon. Riscoprire la vera relazione tra uomo e architettura. Gaia Seghieri


Daniele Menichini

Piantiamo il seme dell’Architettura che verrà . Rigenerazione urbana sostenibile.

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L’editoriale

Potrebbe sembrare una enunciazione dal sapore solo comunicativo, invece pensare all’Architettura del futuro è sicuramente il metodo necessario, oltre che per la riqualificazione della città, anche per riappropriarsi del proprio ruolo culturale, sociale ed umanistico che in questo periodo complicato di crisi del mercato immobiliare, abbiamo teso a perdere od a dimenticare; solo l’architetto infatti è in grado di pensare ad un vero progetto di vita e dell’abitare il futuro, utilizzando tutto il suo sapere e la sua capacità intrinseca a trovare soluzioni. Il futuro delle città è indissolubilmente legato alla figura dell’Architetto che è in grado di conoscere le nuove regole del gioco in cui le keywords diventano recupero, riuso, rigenerazione e risparmio delle risorse, un nuovo paradigma con cui operare sul campo e con cui confrontarsi con la realtà contemporanea. Abbiamo in mano un metodo di lavoro di qualità che però è fortemente ostacolato dalla possibilità di applicarlo a causa delle complesse e sbagliate scelte di governo del territorio, che poco guardano verso un futuro reale e concreto dello sviluppo sostenibile dei territori, norme e leggi sembrano rifuggire dall’applicazione seria del concetto di rigenerazione urbana e rurale e delle loro declinazioni. L’Architetto con la sua creatività, conoscenza e competenza deve farsi portatore di questo messaggio, cercando di scardinare in ogni piccola azione un meccanismo ed un sistema che sono ormai arrugginiti ed immobili, quasi coperti da una coltre di asfalto che tiene tutto coperto ed impermeabile, ma in questa spessa e fitta coltre di norme e burocrazia, dobbiamo diventare facilitatori dei processi e piantare il seme dell’Architettura che verrà, pensando al piano per la rigenerazione urbana sostenibile, ed accompagnando i cittadini in questo difficile percorso attraverso la sensibilizzazione e l’informazione.

Serve certo la sinergia tra politica, i tecnici, le imprese e la finanza, ma serve soprattutto la consapevolezza dei cittadini italiani sulle condizioni del loro habitat; un esempio per tutti è la pressocchè diffusa non conoscenza della certificazione energetica, o delle ancora alte percentuali di mancata messa a norma, delle certificazione degli impianti nelle loro abitazioni. E’ necessario ricordare che il primo destinatario della rigenerazione urbana è, e deve essere, il cittadino, è un dovere di tutti noi renderlo consapevole dello stato della sicurezza dell’abitare e delle condizioni, anche patrimoniali, dell’immobile su cui ha investito e acceso lunghi mutui, tanto più nel momento in cui si aumentano gli estimi catastali e le tasse sul patrimonio immobiliare: il cittadino consapevole deve perciò sapere che gli edifici non sono eterni, che la manutenzione deve essere finalizzata in prima istanza alla sicurezza, al risparmio di risorse e che la qualità e la sicurezza degli spazi pubblici sono un diritto. La rigenerazione urbana sostenibile non deve essere vista dalla politica e dai gestori del governo del territorio come il desiderio dell’Architetto di speculare, ma come uno strumento di sviluppo, di occupazione e di economia; un’occasione per riconnettere il progetto della città alla vita quotidiana dei cittadini rendendoli consapevoli delle condizioni abitative, ma anche rispondendo alla loro richiesta di bellezza delle città: un quarto degli italiani ritiene che la qualità delle costruzioni sia riconducibile al concetto di bello. Questo è il nostro mestiere, questa deve essere la nostra mission se vogliamo che la rigenerazione urbana sostenibile diventi il seme del lavoro che verrà, iniziando dalla cultura dei piccoli sino ad arrivare a quella degli anziani. 2


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Sergio Bini e Daniele Menichini

La burocrazia e la morte della qualità. Riportare il progetto al centro dei processi edilizi.

Cercare di trovare spunti, proposte ed idee per il rilancio della città e del suo territorio è, allo stato attuale delle cose, ormai un puro esercizio di fantasia e di intelletto. Affascinante e stimolante sicuramente, ma senza speranza di avere risvolti pratici. Si ascrive, troppo spesso oggi, la responsabilità di un arresto delle attività edilizie, alla famigerata crisi, che innegabilmente esiste ed ha prodotto rallentamenti economici considerevoli, ma c’è anche un’altra crisi più strisciante e meno manifesta; è la crisi di un sistema normativo e burocratico che è divenuto bolso e insostenibile, totalmente inadeguato alle sfide della contemporaneità. Gli strumenti varati recentemente dalla Regione Toscana, sommati ad un quadro normativo nazionale già di per sé estremamente complesso, rendono pressoché impossibile parlare di progetto e di qualità di quest’ultimo. Nei decenni passati si è costruito molto, e male, facendo talvolta scempio del paesaggio e costruendo senza alcuna qualità architettonica. La risposta negli anni successivi è stata esclusivamente volta a limitare le possibilità di creare danni, e quasi mai è stata volta ad indirizzare buone pratiche all’insegna del raggiungimento della qualità. Si è così assistito ad un sommarsi, senza soluzione di continuità, di prescrizioni normative nazionali e locali fino a far lievitare, a proporzioni quasi inconcepibili, la documentazione riguardante la pratica edilizia anche più semplice. Normative riguardanti la sismica, l’impiantistica, l’energetica, l’acustica la sicurezza etc. si sommano alle prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio, le quali, spesso e volentieri, ragionano su personali 3

indici e parametri. Tutto si è pensato meno alla cosa più importante: il progetto e la sua qualità. Il progetto, che è il risultato di un processo di sintesi non lineare ma ragionato e soppesato più volte, nel quale confluiscono aspetti tecnici, funzionali estetici e culturali, meriterebbe un approccio molto più sapiente ed accurato rispetto a ciò che si è visto negli ultimi anni, ossia un proliferare di norme, vincoli e paletti vari che lavorano linearmente in maniera semplicistica, e che riducono sempre più lo spazio di manovra rivolto alla qualità del progetto. Queste leggi e norme hanno poi insita, di fatto, spesso una impossibilità alla loro applicazione, sopratutto nel confrontarsi su vari campi. Chiunque tenti di conciliare norme riguardanti più aspetti di un progetto, si trova a constatare l’impossibilità di pervenire ad una soluzione. Ci si deve allora addentrare in una girandola di voli pindarici, per cercare di giungere ad un compromesso che spesso relega in fondo alle priorità la qualità architettonica, rifugiandosi in progetti standardizzati e senza spessore culturale. Leggi e regolamenti infatti sono solo strumenti di verifica, non sono strumenti progettuali. Il progetto architettonico è cosa ben più seria che la mera verifica di parametri quali dB, Kwh, superfici etc. Per una qualità architettonica del progetto servono cultura, adeguata formazione e competenze. Generalmente si sente spesso dire che progetti come si vedono in Europa, non si vedono mai dalle nostre parti, spesso pensando che sia colpa della incapacità degli architetti. Niente di più falso: il dedalo di norme e leggi in cui ci si trova ad operare,

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finisce di fatto per escludere, processi qualitativamente più significativi, e decretare inoltre l’incertezza del diritto, motivo per cui gli investimenti sopratutto esteri dalle nostre parti sono rarissimi. Gli strumenti di governo del territorio varati dalla regione toscana, offrono una visione ingessata del paesaggio, e restituiscono un proliferare di titoli edilizi che hanno come principale effetto, scoraggiare chi vuole investire. Il carattere fortemente proibizionista delle norme e dei parametri, di fatto esclude un corretto sviluppo del progresso e del pensiero. La storia ci insegna che se in passato si fosse continuato a ragionare per stilemi assodati, avremmo perso esperienze come il Rinascimento ed il Barocco, che rendono il nostro paese e la nostra regione, conosciuti in tutto il mondo. Si è voluto smettere di pensare, credendo di poter affidare processi progettuali che necessitano di elevata capacità di analisi culturale, a norme precostituite, standards urbanistici fissi ed invariabili, ai quali poi si sono fusi gli interessi del libero mercato, che spesso hanno portato a nefaste speculazioni. I territori sono stati costellati di costruzioni spesso tutte uguali, in serie, senza carattere, energivore, ed ignoranti nel loro proporsi al paesaggio. La soluzione non può essere quella di dare prescrizioni su come deve essere fatto un tetto, o come deve essere rivestito un muro, o quanto debba essere evitata l’alterazione anche minima, di ciò che è ritenuto invariabile sotto il profilo paesaggistico. C’è bisogno di un approccio olistico al progetto; tutte le variabili devono potersi armonizzare tra loro, trovando

anche soluzioni e forme mai sperimentate, progredendo da un punto di vista estetico, e tenendo ferma la barra della salvaguardia dell’ambiente e del patrimonio territoriale, che si realizza principalmente raggiungendo emissioni zero e con l’autosufficienza energetica, caratteristiche che non possono coniugarsi con il costruire tradizionale, né tanto meno con le tipologie storiche. Se si vuole rendere di fatto possibile, recuperare volumi esistenti nelle periferie, e nelle città, si deve poter lasciare lavorare il progetto, che serve ad un raggiungimento di obiettivi prefissati e non al mero soddisfacimento della norma. Il primo sforzo che deve essere fatto, ma veramente sentito ed avvertito come necessità imprescindibile per poter sperare in un futuro roseo e sostenibile, è quello della deburocratizzazione, e dell’aprirsi a criteri di valutazione più mirati sul progetto e sulla sua qualità. Come rappresentanti di un Ordine di Architetti, dobbiamo gridare a gran forza che la burocrazia uccide la qualità. Che le necessità funzionali, energetiche, strutturali ed architettoniche, già da sole hanno riferimenti normativi assodati anche in Europa, atti a poter esprimere progetti di qualità, e che sono caratteristiche, comunque, già richieste da un mercato, che rifugge invece l’investimento, quando si viene costretti ad operare continue forzature di aspetto, tipologia, e di dimensione. Senza cambio di mentalità non si recupera virtuosamente l’esistente, e si continuerà a costruire, anche negli sporadici casi ancora rilevabili, con sistemi e visioni obsoleti. 4


La vignetta. Michelangelo Lucco

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Il piano paesaggistico PIT.

Paradigma della nuova realtà regionale. Mauro Parigi Esprime la contraddittoria fase, forse ineluttabile nel frangente attuale di complessi percorsi di riforma istituzionale, di un ente impostato per legiferare e programmare la spesa, da allocare in genere con procedure concorsuali a cui sono chiamati gli enti locali, per quanto le mediazioni politiche non siano escluse, che si trova a imporre e gestire norme, prescrizioni, previsioni immediatamente cogenti e comportanti la disapplicazione di ogni altro strumento contrastante. La regione ha assunto cioè prerogative di giudizio di merito e di verifica di legittimità sino ad oggi insussistenti, inusitate, certamente estranee al modello di governo sin qui concretizzato. Questa fattispecie emerge peraltro abbastanza chiaramente dalla lettura della normativa del PIT. Si fa ancora riferimento ai piani provinciali, ma le province sono in dismissione e chiusura progressiva, si esprimono anche su materie rilevanti indirizzi generali, obblighi di verifica in sede di pianificazione conformante, si stabiliscono norme prescrittive sia procedimentali che di merito progettuale, immediatamente cogenti addirittura sul singolo intervento edilizio. Non è difficile rilevare una strana divergenza tra gli indirizzi generali afferenti il tema delle grandi infrastrutture, porti, aeroporti, strade, e le norme di tutela paesaggistica. Fattispecie significativa, se sembra ammissibile, qualsivoglia proposizione progettuale che può scatenare competizioni interne al sistema regionale, quando è evidente che soluzioni non coordinate, estemporanee possono avere effetti ampi e significativi sull’assetto territoriale, mentre la normativa relativa alla tutela paesaggistica pone sotto tutela ogni strumento urbanistico, e interi territori, come

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quelli costieri, sono acriticamente condizionati da norme generalizzate che non tengono in nessun conto della concreta, fattuale realtà, come quando si ammette tout court, che una struttura alberghiera può essere ampliata ma solo non oltre un incremento massimo di superficie coperta del 5% di quella esistente, cioè conoscono tutte le strutture ricettive poste entro 300 metri dal mare? La loro data di nascita? Le loro caratteristiche dimensionali in termini di lotto, di pertinenza, di superficie coperta, di esigenze maledettamente concrete connesse ad una competizione su di un mercato turistico ormai globale? Altrettanto non può essere taciuto il fatto che la parte paesaggistica del PIT sconta la dispersione della normativa in più elaborati; che la lettura delle trasformazioni territoriali viene cristallizzata per lo più, almeno per il territorio rurale, alla metà del XIX secolo, negando di fatto che il territorio ed il paesaggio sono esito giusto o sbagliato di evoluzioni e modificazioni economiche, sociali e politiche; che appare improponibile applicarsi ad un generale blocco dell’edilizia, mentre è evidente che è stata l’esplosione dell’edilizia residenziale a costituire un potente veicolo di trasformazione-degradazione del paesaggio senza particolari ritorni di utilità generale, come invece possono riscontrarsi per gli insediamenti produttivi. Infine come non sottolineare la mancata individuazione delle aree di degrado paesaggistico, obbligo specificatamente previsto dal Codice dei Beni Culturali, obbligo rinviato alla candidatura di questa aree da parte dei comuni ed alla loro validazione, o meno, da parte della Regione, con l’evidente rischio di letture diverse per diversi contesti territoriali. Letture diverse che possono sussistere, ma che andrebbero evitate in ragione

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di una base conoscitiva condivisa che non c’è, perché anche solo il rischio di essere considerate frutto di diversi schieramenti politici sarebbe esiziale per la credibilità del piano. Se non bastasse questo, è bene ricordare che non trattasi di un problema in prospettiva, ma di un problema che agisce già. Perché la mancata individuazione di aree di degrado paesaggistico induce il venir meno di semplificazioni procedimentali relative alla realizzazione di tutta una lunga serie di interventi edilizi minori a partire dal banale spostamento di una finestra o dalla trasformazione di questa in porta. Come dire si vuole contrastare la crisi dell’edilizia, ma la si “impalla”. Due anni fa era evidente che c’era un interesse primario, politico, di portare a casa il risultato, anche indipendentemente dal risultato, dato atto che è stata del tutto evidente la divaricazione di pensiero tra l’assessore, allora competente, ed il maggior partito dell’alleanza di governo, che sul punto si è concretizzato un braccio di ferro, consumato un rapporto politico, in ragione di un irrigidimento ideologico che ancora oggi si stenta a credere possibile in politica, al netto di altre ragioni, forse neanche politiche, ma di prestigio personale. Ma oggi non si capisce perché sussista il silenzio su 80 ricorsi al TAR che invece sarebbe utile rendere noti, studiare perché possono essere utili alla comprensione delle caratteristiche da conferire al piano paesaggistico. Perché non si rilevi un movimento di riforma del piano, considerato che 80 ricorsi al TAR, dopo oltre 400 osservazioni, non possono essere considerati l’espressione di un’orda di barbari. Tanto più in una regione come la Toscana, ove il territorio, tutti insieme in qualche modo, l’abbiamo governato e tutelato, forse non sempre al meglio, ma certamente meglio degli altri.

Dunque, a circa un anno dall’approvazione del PIT/piano paesaggistico, se è trascorso poco tempo per una valutazione degli effetti del piano, effetti che comunque ci sono stati perché, ad esempio, nel sistema territoriale costiero molte strutture ricettive sono in difficoltà nell’avviare programmi di riqualificazione che non perseguono tanto l’incremento di ricettività, ma l’adeguamento delle strutture a standard internazionali correnti per provare ad essere competitivi, una riflessione appare comunque utile, ed un confronto sarebbe necessario. Altrettanto non sembra fuori luogo domandare se le strutture regionali rese gracili anche dalla spending rewiew, siano adeguate quantomeno alla nuova mole di lavoro? Se sia possibile discutere dei contenuti del piano per esempio, in ragione della necessità di individuare le aree degradate secondo logiche comuni e condivise. Se sia possibile indicare un quadro conoscitivo apparso “accademico” e storicizzato scarsamente attento alla evoluzione dei territori. Insomma, in una terra, quale la nostra, abituata al confronto, alla disputa sui contenuti, l’attuale fase, pur riconoscendo che è passato poco dall’approvazione del PIT, riprendere le fila di un confronto non dovrebbe essere una concessione, ma un concreto impegno. Tutto ciò considerato, anche che in alcuni contesti si è fatta strada l’ipotesi che di fatto a Firenze si siano individuate 2 toscane, o meglio una Toscana imperniata sull’area metropolitana fiorentina, ed una Toscana che, fatti salvi i poli industrialiportuali, sia il parco dei divertimenti al mare, in campagna ed in montagna, degli abitanti della prima. E comunque se non si ritiene che possa sussistere chi promana norme e soluzioni e chi deve solo accoglierle, il confronto non è una concessione, ma un dovere.

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Architettura del Novecento. Casa Esagono a Baratti.

Marco Del Francia - B.A.Co. Archivio Vittorio Giorgini Dal 1957 trascorrevo le vacanze estive a Baratti, dove avevo progettato e realizzato la mia casa in legno prefabbricata. Là conoscevo oramai un po’ tutti. Un giorno il signor Allori, proprietario della pensione accanto al ristorante Demos, mi presentò la famiglia Saldarini, ospiti nella sua struttura. […] Siamo diventati presto amici. Spesso erano a cena da me. Gli progettai la casa, che prevedeva inizialmente il concepimento di una piccola costruzione movibile in legno. Una cosa semplicissima. Fu durante una cena sulla terrazza della mia casa, l’Esagono, che cominciai ad esporre a Saldarini le mie vere intenzioni progettuali. Complice probabilmente il vino, il buon pesce appena mangiato, l’allegra serata, Rino [Salvatore Saldarini N. d. a.] si appassionò a quanto gli stavo spiegando. Su fogli sparsi abbozzai con la matita quello che in realtà avrei desiderato realizzare. Mi disse: “Eh, così sarebbe tutta un’altra storia!”. Nacque così casa Saldarini, più nota come casa “balena” o casa “dinosauro”, la più significativa delle opere dell’architetto fiorentino. Nacque sulla casa di vacanza di Giorgini, a cui nel 1963 la rivista “Aujourd’hui” dedica un servizio di due pagine [Cfr. “Aujourd’hui” n° 41, Maggio 1963, pp. 80-81]: casa Esagono.

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Certo meno famosa di casa Saldarini, ma non meno particolare: una costruzione prefabbricata in legno il cui impianto planimetrico descrive una trama modulare di elementi esagonali che ricorda molto, per analogia, una struttura molecolare o un nido d’api. Sospeso tra gli alberi, articolato in un flessibile ed efficace utilizzo delle componenti seriali, il fabbricato denota una forte integrazione con il paesaggio scaturito sia dal sopra-elevamento dal terreno sia dall’uso del legno che diviene così elemento di raccordo con la natura. Gli arredi erano stati studiati su misura sia per adattarsi ai particolari lati delle pareti non perpendicolari tra loro, sia per il loro uso di utilizzo vacanziero; le camere erano ottimizzate, anche con letti a castello, giusto per le necessità di dormire, visto che gli spazi da vivere principali erano fuori (la costruzione si ergeva a pochi metri dal mare, all’interno di un giardino a macchia mediterranea;) un modulo esagonale era diviso in due per contenere da una parte i servizi igienici e dall’altro la cucina, che si affacciava direttamente sulla sala pranzo, caratterizzata da un ampio tavolo esagonale che poteva ospitare quindi da un minimo di sei persone a un massimo di dodici, con le panche a parete come sedute. Da quest’ambiente si accedeva ad un

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altro spazio da vivere a giorno, la terrazza esagonale che affacciava sull’intero golfo di Baratti Qui Vittorio Giorgini ha trascorso dodici estati della sua vita, tra il 1957 e il 1969, anno in cui si è trasferito a vivere e a lavorare negli Stati Uniti. Non c’era corrente elettrica; all’epoca con la famiglia (la prima moglie Romen e i figli piccoli Laila e Giovan Battista) utilizzavano candele e lampade a petrolio per l’illuminazione. L’acqua potabile la reperivano con le damigiane a una delle fonti di Baratti. L’estate la casa diventava non solo il luogo delle vacanze familiari, ma anche il ritrovo di amici e personalità del mondo artistico e intellettuale (che spesso coincidevano) con cui Vittorio si è sempre relazionato nell’arco della sua vita, in un rapporto di scambio e anche di influenze reciproche professionali. L’Esagono nel tempo ha visto ospiti, tra gli altri, Robert Sebastian Matta e Gordon Matta

Clark, Emilio Villa e Isamu Noguchi, Aurelio Ceccarelli ed Emilio Vedova. Spesso le discussioni, iniziate con il tramonto sul golfo, cenando sulla terrazza a mare col pesce pescato dallo stesso Vittorio, proseguivano sotto il cielo stellato fino all’arrivo dell’alba, che alle spalle del bosco coglieva i commensali del cenacolo ancora intenti a parlare dei massimi sistemi con dell’immancabile vino nel bicchiere. Nel 1969 la casa fu venduta a un privato e a sua volta, negli anni ’80, espropriata dal Comune di Piombino. Oggi è in uso all’Associazione ”B.A.Co. – Archivio Vittorio Giorgini” che ne ha fatto un museo di se stesso, organizzando visite guidate ed eventi culturali temporanei. Purtroppo gli arredi originali sono andati perduti nei vari passaggi di proprietà. Crediti fotografici: ©Archivio Vittorio Giorgini

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Storia e misteri del Tempio di Gerusalemme. Gian Matteo Bianchi Fra tutti i luoghi sacri del mondo, il Monte del Tempio di Gerusalemme è sicuramente quello più ricco di storia e di religione, dove si sono succedute le più antiche e potenti civiltà umane, tanto da costituire ancora oggi un sito di fondamentale importanza non solo per la cultura ebraica ma anche per quella musulmana e cristiana, oltre ad essere una tra le mete turistiche più visitate in assoluto. Le origini del Primo Tempio di Gerusalemme risalgono all’era antecedente la nascita di Gesù, ovvero quella a cui si riferisce il Vecchio Testamento. Ciò conferisce a questo sito un fascino straordinario, non solo perché esso racchiude in sé i grandi misteri della nascita e della morte, della divinità e quindi della vita dell’uomo stesso, ma anche perché la sua storia si intreccia con quella del prezioso tesoro contenuto nel Tempio, di cui si parla negli antichi testi sacri, e del quale si sono perse le tracce nel corso dei secoli; cerchiamo dunque di ripercorrere in ordine cronologico le alterne vicende di questo mitico edificio. Nel decimo secolo a.C. Gerusalemme fu conquistata dal Re Davide, che scelse questo luogo sul monte Moriah -

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a nord del monte Sion - per costruire un grande tempio, dove poter collocare l’Arca dell’Alleanza (la cassa di legno dorato costruita da Mosè per ordine di Dio e descritta dettagliatamente nel libro dell’ Esodo); l’edificio, completato solo nel 957 a.C. dal figlio Salomone (Re dell’allora unico Regno di Israele), era adornato da finiture preziose e doveva contenere, secondo le cronache del tempo, inestimabili ricchezze, gran parte delle quali furono probabilmente donate dalla Regina di Saba (che fece visita a Salomone per metterne alla prova la grande saggezza). Nel 930 a.C. gli egiziani, sotto la guida del faraone Ramesse, saccheggiano Gerusalemme portando via buona parte del tesoro custodito nel Tempio; nel 586 a.C. il Re babilonese Nabucodònosor II attacca nuovamente la città, fa incendiare il Tempio e tutti i palazzi reali, deportando tutti i prigionieri ebrei a Babilonia. Dopo oltre cinquant’anni di esilio babilonese, gli Ebrei fanno ritorno a Gerusalemme dove si narra che, nel 536 a.C., per volere del Re Ciro di Persia, viene ricostruito un Secondo Tempio all’interno del quale fu riportata una parte del tesoro accumulato dagli Ebrei nei secoli precedenti (tuttavia non

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sappiamo con esattezza se si tratti dello stesso tesoro di Salomone, inoltre già dal 650 a.C. si perde ogni traccia storica dell’Arca dell’Alleanza). Nel 164 a.C. si registra un primo restauro del Tempio ad opera di Giuda Maccabeo, che lo riconsacrò dopo la profanazione operata da Antioco IV Epifane dei Seleucidi (che voleva ellenizzare la Palestina), mentre in seguito Erode il Grande, Re di Giudea, decide di ampliare (anzi addirittura raddoppiare) il tempio esistente per crearne uno più maestoso, in ricordo del primo grande Tempio di Salomone; per dare un’idea delle enormi dimensioni di quest’opera, basti pensare che le sue fondamenta misuravano circa 470 metri di lunghezza per 300 metri di larghezza (quasi dieci volte l’area dell’attuale basilica di San Pietro a Roma). Il tempio di Erode fu iniziato nel 19 a.C. e completato nel 64 d.C. (circa trent’anni dopo la crocifissione di Gesù di Nazareth). Nel 66 d.C. inizia una ribellione ebraica contro i Romani (la guerriglia degli Zeloti) che culminerà nella devastazione del Tempio da parte del generale Tito, il 10 agosto del 70 d.C.

Questo episodio è riportato sull’Arco di Tito a Roma (fatto costruire dal Senato nell’81 d.C. all’inizio della via sacra, vicino al Foro e al Colosseo), dove un bassorilievo raffigura il ritorno vittorioso delle truppe romane che trasportano il tesoro razziato a Gerusalemme (è ben visibile anche la famosa lampada d’oro a sette bracci, chiamata Menorah, portata sulle spalle dai prigionieri ebrei – anche di essa si perdono le tracce, in seguito al Sacco di Roma avvenuto nel 455 d.C.). Ciò che rimane oggi del Secondo tempio, è un muro di contenimento del cortile esterno (detto anche Muro Occidentale, o forse più noto come Muro del Pianto), che fu lasciato intatto da Tito come ricordo della sua vittoria contro la Giudea; questo muro, diventato il simbolo di questo luogo sacro, è la meta di tutti i pellegrinaggi, e nelle sue fessure esterne gli Ebrei lasciano dei foglietti con sopra scritte delle preghiere (rito che è stato eseguito anche da Papa Francesco, nella sua visita del 26 maggio 2014 a Gerusalemme). Lascio ai lettori la possibilità di approfondire ulteriormente le proprie ricerche su questo tema molto complesso ma certamente molto interessante.

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Costruire in terra cruda. Dal Perù a Baratti. Cristina Guerrieri Ha una data la mia attrazione per la terra cruda. Si colloca tra la prima e la seconda settimana dell’agosto 2000 quando, in modo tutt’altro che pianificato, mi ritrovai ad Amantanì, una delle due isole del versante peruviano del lago Titicaca. Non ricordo molto della piccola stanza in cui una famiglia locale mi dette ospitalità. Le pareti erano in terra, sono certa, ma sul momento non ci feci caso. Fu durante un bellissimo trekking sulle vette di Pachatata e Pachamama, a vedere le antiche rovine inca e un panorama mozzafiato sul lago, che mi imbattei in quella che sarebbe stata, da quel momento, una vera e propria seduzione. L’isola non conosce il concetto di villaggio. Le case sono in ordine sparso con terreni tutti intorno coltivati in terrazzamenti e occupati dal bestiame al pascolo per cui, apparve insolito vedere riuniti in un grande piazzale diverse decine di persone, uomini e donne, che andavano avanti e indietro, maneggiavano pietre, portavano brocche d’acqua, rimestavano nella terra con le pale. Mi ci vollero diversi minuti prima di capire che quello che stavo vedendo era un cantiere in piena regola, dove gli operai erano

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uomini e donne arrivati da tutta l’isola per costruire la casa di due sposini, freschi, freschi di nozze, usando pietre e terra, raccolti sul posto e l’acqua, trasportata da non si sa dove. Non riesco a ricordare quanto tempo restai ad osservarli, ma ricordo molto bene il fascino che subivo guardando quei corpi operosi, coordinati, che, apparentemente privi di fatica, si dirigevano a passo svelto in un punto ben preciso del “cantiere” dove un gruppo di uomini riceveva le pietre, un altro le posizionava e un altro le rincalzava con il fango, gettando così le basi per le fondazioni. Consideriamo che fino a quel momento non ero mai stata in sud America, nè in Africa, anzi, diciamo più precisamente che non ero mai uscita dalle capitali europee. Aggiungiamo che durante i miei studi universitari non mi ero avvicinata a tecniche costruttive di tipo ecologico: all’epoca la bioedilizia era un ramo di tecnologia riservato a pochissimi docenti e a qualche assistente illuminato. Concludiamo che subito dopo la laurea mi ero occupata di urbanistica, e quindi le prime

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esperienze lavorative non avevano stimolato la ricerca di tecnologie costruttive in senso lato. Non è difficile pertanto comprendere che durante quel viaggio ne vidi “di tutti i colori”. Le case dei campesinos erano fatte di mattoni di terra essiccati al sole ed attraversando le Ande a bordo di scassatissimi autobus, era frequente scorgere, lungo le strade, piazzali polverosi occupati da centinaia di mattoni, messi ad essiccare in file ordinate, come piccoli soldatini. Mi capitò spesso, durante i lunghi trasferimenti da una parte all’altra del paese, di fissare nella mente quelle abitazioni, la loro forma, i tetti di legno e paglia, i telai delle finestre, i blocchi di cui erano costituiti i muri che spesso, privi della necessaria manutenzione, erano dilavati dall’acqua, talvolta diroccati. Dal finestrino di quegli autobus vidi tantissime case e cose e persone e bambini e vecchi e mattoni, tanti mattoni ad essiccare. Era il primo viaggio impegnativo e presi l’abitudine, per fortuna conservata fino ad oggi, di fotografare, disegnare e annotare su un diario di bordo, impressioni e dettagli che neanche la fotografia può talvolta fissare così bene.

Sembrava si stesse chiudendo un cerchio. Come spesso capita nella vita, da uno stimolo se ne crea un altro, quest’ultimo si alimenta di coincidenze, di scoperte, di incontri fortunati e ciò che fino a quel momento non ci apparteneva, diventa all’improvviso di casa, una sorta di pane quotidiano. L’architetto presso il quale avevo cominciato a lavorare da circa un anno aveva un’amica dalle idee stravaganti, una signora sulla cinquantina di origine olandese, molto interessante, che parlava in modo tutt’altro che convenzionale e viveva con uno stile di vita perfettamente coerente con quello che diceva. Si era messa in testa di vivere in Val di Cornia e ci era riuscita diventando la casiera della più bella tenuta all’epoca ancora in vita nel mio territorio: la tenuta di Vignale. Aveva deciso di comprare un terreno sulla terra degli etruschi e l’architetto, con tenacia, le aveva trovato un meraviglioso appezzamento affacciato sul golfo di Baratti, un terreno antico, etrusco allo stato puro; voleva vivere di colture vecchie come l’uomo, legate alla tessitura e alla produzione di oli benefici e naturali e, 16


scavalcando tutte le difficoltà burocratiche, aveva seminato i suoi campi di canapa e lino. L’ultimo desiderio, ma non certo per importanza e difficoltà nell’attuazione, era stato quello di voler realizzare un annesso in terra cruda, a servizio dell’attività agricola e come laboratorio per la trasformazione dei prodotti coltivati. Durante le riunioni di lavoro guardavo la signora olandese e il mio architetto con l’aria di chi nutre, sotto sotto, non poche perplessità; li lasciavo ragionare sul come e sul dove, discutere del quando e del perché nelle lunghe serate in cui venivo invitata per seguire passo passo il progetto, alternando sprazzi di vivida curiosità ad una sorta di distacco catatonico, convinta che il “ruzzino” gli sarebbe ben presto passato e io avrei continuato a lavorare su cose ben più solide e certe, fatte di mattoni cotti! Con questo spirito, più o meno consapevole, ero partita per il Perù, eccitata, curiosa, felice, ma senza particolare predisposizione nel cercare, a tutti i costi, conferme per significativi cambiamenti nel mio modo di lavorare e vivere. T ornata in Italia mi portai nella memoria quella 17

specie di film al rallenty, visto ad Amantanì, in cui un intero villaggio concorreva alla costruzione della casa di due giovani sposi, una forte curiosità di sviluppare le foto fatte con l’analogica, e la voglia di rivedere la signora olandese e l’architetto per condividere con loro la bella esperienza peruviana e la consapevolezza che un fabbricato in terra cruda era quanto di più “normale” si potesse immaginare sul globo terrestre. Non solo normale, ma coinvolgente, solidale, aggregante, corale, oltre che, ovviamente, pulito, ecologico, sano, integralmente reversibile. Con il 2001 è partita l’avventura burocratica e progettuale: il piano di miglioramento agricolo ambientale con i suoi incontri, le integrazioni, i chiarimenti e il rilascio; il permesso di costruire con il suo iter, lungo e complesso, infilato a forza nei binari procedurali e burocratici di una edificazione “tradizionale”; le prove dei mattoni, con diverse proporzioni di terra, argilla e paglia, portate alla Sigma di Livorno, per scoprire il mattone migliore, il più resistente, e poter depositare la pratica edilizia al genio civile.

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La mancanza di normativa nel panorama legislativo nazionale, per un tipo di costruzione come quella che volevamo fare, non era un problema da poco, sia per noi che per i tecnici comunali. Non era uno scherzo neppure la sicurezza sul cantiere, visto che l’edificio doveva essere realizzato in autoproduzione, secondo i principi di solidarietà e coinvolgimento sociale visti ad Amantanì per la prima volta, ma che sono diffusi in mezzo mondo, là dove ancora esiste la cooperazione come forma di investimento e risorsa umana. Nell’estate del 2008 siamo partiti concretamente a realizzare l’edificio, con la sola forza delle braccia e il materiale recuperato in loco, ovvero senza uso di impastatrici, escavatori, muletti, o altra sorta di mezzo meccanico. Questo aspetto merita un approfondimento. Non era indispensabile realizzare proprio così. L’uso di mezzi meccanici poteva essere introdotto e sfruttato utilizzando i materiali del luogo che presentava ottima argilla, un pozzo per l’acqua, paglia e terra in abbondanza ma, come spesso succede, l’entusiasmo ci ha preso la mano e la

voglia di accentuare l’esperienza nel senso di qualcosa di assoluto, di autenticamente ecologico, di specificatamente etrusco, ci ha trovato tutti concordi. Oggi potete vedere l’edificio quasi completato. E’ una creatura vivente, credetemi, appena visibile sul crinale che scende dolcemente a mare, mimetizzando il suo essere di terra con la terra. Su di lui restano le impronte di mille mani provenienti da tutto il mondo, le alchemiche prove dell’architetto per ogni fase della sua costruzione, dai mattoni, alle malte, agli intonaci. Sulle sue pareti risuonano le voci pronunciate in mille lingue, le risate e i silenzi, trasuda il sudore delle lunghe estati trascorse a rimestare fango e pulsa il mal di schiena (il mio di sicuro) a trasportare pietre. Ci sono cose che non si possono raccontare, vanno vissute, ma queste quattro righe vogliono condividere qualcosa di unico, nell’attesa che veniate a visitarci e possiate lasciarvi affascinare da quella che ormai la mia amica olandese, l’architetto e io chiamiamo affettuosamente “la creatura”.

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N.O.F. 4 e il condominio della follia. Marco Del Francia La prima volta che vidi l’ospedale psichiatrico di Volterra avevo vent’anni; era sera, d’inverno, con una nebbia che rendeva ancora più inquietante quel luogo abbandonato da anni al pari delle sue strutture fatiscenti. In fondo c’eravamo andati apposta, di notte, con quel tempo lì, per vivere insieme a pochi amici l’avventura di una sera che volevamo rendere diversa dal solito. Ci avevano detto che, da quando il manicomio era stato chiuso, molti dei degenti (ovvero i matti), continuavano a vagare tra quelle mura e tra quei cortili. L’adrenalina che ci accompagnava in quell’ora e mezza di macchina per arrivare a Volterra aumentò decisamente quando, con circospezione, oltrepassato un varco nella recinzione, ci trovammo a camminare in quegli spazi, tra panchine consunte, calcinacci, vetri delle finestre rotte, pareti stonacate, portoni semiaperti oltre cui non ce la siamo sentita di avventurarci. Non di notte, non quella volta. Quella adrenalina si è ripetuta negli anni quando, per motivi affettivi che mi legano tutt’ora a quella città, sono stato di nuovo a visitare quei padiglioni, non più di notte bensì di giorno, e non limitandomi solo agli esterni, a mio rischio e pericolo. Ecco, per rendervi un minimo partecipi, provate a immaginare quelle strutture come a dei particolari condomini, i cui inquilini abitavano non per libera scelta (a loro non era consentito scegliere), ma sottostando a precise disposizioni date da chi, a quegli ‘stabili’, davano motivo di esistere. Costruzioni realizzate con criteri architettonici che ubbidivano ai principi di custodia coatta: mura di cinta provviste di reti metalliche altissime, enormi cancelli a sbarrare l’ingresso, cortili interni delimitati da muretti, finestre con inferriate, gli spazi interni disposti in modo da rafforzare il senso di separazione ed isolamento. Il tutto immerso, paradossalmente, in ettari di bellissimo verde. Immaginate quelle strutture in stato di abbandono fin dagli anni ’80, svuotate dei loro ospiti e delle loro funzioni per rimanere, in tutti questi anni, alla mercé delle intemperie e del degrado più totale. Questo era lo scenario che ogni volta mi trovavo a percorrere addentrandomi nel manicomio, questo il nome di tale condominio, che nell’immaginario collettivo si è spesso risolto, nella migliore delle ipotesi, come una visione delle carceri del Piranesi raccontate da Edgar Allan Poe. Ed è in questo contesto, negli anni ’90, che ho conosciuto la storia di N.O.F., ovvero Nannetti Oreste Fernando. Per circa 35 anni Nannetti è stato un particolare ‘inquilino’ dell’ospedale psichiatrico di Volterra, un’istituzione che con gli anni è divenuta l’oggetto di identificazione più significativa per l’intera città. In questa cattedrale della follia, come l’ha definita Vittorino Andreoli, N.O.F. sembra uscire dalla penna di Victor Hugo, abitando tale cattedrale allo stesso modo di Quasimodo in NotreDame. Solo che in questo caso il senso di abbandono, di isolamento e del diverso non è frutto di fantasia, ma di pura e drammatica realtà. Nel corso della sua degenza forzata, in un ambiente che per concezione custodialistica tende ad annullare l’individualità e a reprimere il proprio 19

io, Nannetti è riuscito a comunicare il suo essere nel mondo tramite una inconsapevole espressione artistica dal contenuto enigmatico, capace però di trasmettere un fascino particolare; suggestioni che portano a riflessioni che vanno al di là della fruizione dell’opera grafica in sé. Per più di venti anni, ogni giorno, approfittando dell’ora d’aria concessa, con la fibbia del suo panciotto Nannetti ha inciso l’intonaco del reparto ‘Ferri’, producendo un ‘librograffito’ lungo quasi 200 metri per un’altezza media di oltre un metro; esaurito l’intonaco proseguì sul passamano in cemento di una scala lunga un metro per un palmo di larghezza; infine, munito di carta e penna, produsse qualcosa come 1600 lavori. Agli inizi degli anni ‘80, grazie a Mino Trafeli (e allo splendido foto racconto di Pier Nello Manoni), scultore, nonché insegnante dell’Istituto d’Arte di Volterra, cominciò la ‘riabilitazione’ sociale di Nannetti come e in quanto artista, lui che probabilmente neanche sapeva di esserlo; lui che su quell’intonaco, semplicemente, proiettava il suo mondo fantastico fatto di immaginari deliri, unica, poetica salvezza dalla assoluta e isolante spersonalizzazione del manicomio. Se per Quasimodo il rifugio era rappresentato dai suggestivi antri di Notre-Dame e dall’amore per Esmeralda, Nannetti ha trovato in una particolare tela, l’isola dove riparare da un naufragio mentale totale. Come l’urlo di Munch, quel graffito, per forza espressiva, sembra gridare la voglia e il diritto di vivere del suo autore. Ma non c’è angoscia in questo caso. Il meticoloso e paziente lavoro d’incisione si traduce in un enigmatico linguaggio cifrato accompagnato da ingenue figure. Quel linguaggio, ad una attenta visione, è in realtà leggibile, ma incomprensibile rimane il suo significato: «Io Signor N.O.F. (4) Ho dichiarato tutto ciò che vi è scritto Nucleare Orientale Francese = Nannetti Oreste Fernando Grado Colonnello Astrale Titolo Imperatore di Francia comprese le sue Colonie… Io sono un Astronautico Ingegnere Minerario nel sistema mentale, questo… e la mia chiave Mineraria, sono anche un colonnello dell’Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre… questa è la mia spiegazione Nucleare del Signor Nanof, N.O.F. (4) detto lo Scassinatore Nucleare.» Nannetti si sente al centro di un sistema telepatico di cui si fa interprete: un ponte che lo collega con lo spazio ed i suoi pianeti, fino al centro della Terra ed i suoi minerali. Inutile cercare ipotetiche interpretazioni. Anche perché la vera utilità non sta tanto nel decifrare quel ‘sistema telepatico’ quanto nell’afferrare un messaggio che Nannetti ci ha (in) volontariamente offerto. Scriveva Michelucci: «Quando vado in una clinica psichiatrica e vedo il vecchio ambiente con le inferriate, le finestre sbarrate e dentro questi pazzi che non fanno nulla, mi chiedo come posso intervenire io come architetto per la loro sorte, come posso togliere un’inferriata… Ma risolvo veramente il problema della libertà di questi uomini? No, non ho questa facoltà. Intuisco però che una possibilità c’è,

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ed è quella di superare un nostro atteggiamento che è venuto dalla vita, che è venuto da una scuola infame, più attenta alla moralità di una cosa che non a un atto generoso. Allora ho pensato che avvicinandomi al pazzo, avvicinandomi ad un carcerato, ad uno che è a letto malato, semplicemente trovando in me un argomento che possa interessare e l’ammalato e il pazzo e il carcerato, ho pensato che realmente si supera un muro, che questo fa veramente buttar giù i muri costruiti…». Nannetti aveva imboccato la strada giusta, trovandosi però da solo ‘l’argomento’. Di quel libro-graffito oggi non sono rimaste ormai che poche pagine. Negli ultimi anni, grazie all’associazione “Inclusione Graffio e parola”, c’è stata una riscoperta di Oreste Nannetti e del suo lavoro e così, prima che la sua tela sparisse del tutto sotto i colpi dell’incuria, del tempo e dell’indifferenza, circa otto metri dell’opera sono stati recuperati con la tecnica dello “strappo”; grazie alla collaborazione tra l’associazione stessa, il Comune di Volterra, l’Asl 5 proprietaria della struttura, la Sovrintendenza ai Beni Architettonici di Pisa e la Regione, i graffiti possono essere ammirati nella sala appositamente dedicata all’interno della biblioteca Lombroso di Volterra. A distanza di quasi trent’anni da quella serata con amici, mi viene in mente che solo attraverso un’altra opera artistica ho potuto ripercorrere e rileggere le vicende di un’istituzione fatta certamente e principalmente di aspetti dolorosi e violenti, di un fenomeno che non è stato solo quello locale, ma bensì di molte città del nostro Paese. A restituire con forza il senso di reclusione e di impotenza dei tanti Nannetti vegetati negli ospedali psichiatrici, luoghi di reclusione e non di cura, è stato infatti, a mio avviso, il magistrale intervento di Marina Abramovic nel 2001, all’interno del Padiglione Charcot di Volterra. Il pubblico poteva entrare nell’edificio soltanto in piccoli gruppi e doveva indossare all’entrata delle scarpe con una particolarità: sotto ai tacchi erano applicate delle calamite. Con queste calzature ai piedi c’era da seguire un percorso lungo i corridoi dell’ospedale; percorso costituito da una lastra metallica che, per l’attrazione magnetica con le calamite delle scarpe, appesantiva il passo, rendendo impotenti i partecipanti fra l’impulso mentale all’azione e i limiti fisici imposti dai magneti attratti dal pavimento. Ma d’altronde, nel corso degli anni, molti artisti e scrittori (e forse non è un caso che siano stati proprio loro a essere tra i più ricettivi), hanno saputo cogliere non solo la potenzialità artistica di N.O.F. - Nannetti è stato inserito nel filone dell’Art Brut -, ma anche un importante aspetto: il padiglione, il cortile, il graffito diventano chiave di lettura per interpretare e vivere un senso di isolamento che non è stato solo quello di Nannetti e dei suoi compagni, ma è quello forse di molti individui della città contemporanea, che – come notava anche Michelucci - offre spazi per la follia collettiva, ma nessuno per il delirio individuale. Crediti fotografici: ©Cristina Guerrieri ©ph Davide Dainelli

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Markthal.

Il mercato di Rotterdam. Gaia Seghieri Markthal di Rotterdam, nonostante la sua giovane età, è stato inaugurato il 1° Ottobre del 2014, è già divenuto un’icona dell’architettura contemporanea, ed uno dei luoghi più visitati dell’Olanda. Con le sue dimensioni, 120 metri di lunghezza, 40 metri di altezza, e 70 metri di profondità, rappresenta uno dei mercati più grandi d’Europa. All’interno la struttura si sviluppa su 16 piani, e si articola tra 90 negozi, 228 appartamenti, e 1200 posti auto, distribuiti nei quattro piani del garage sotterraneo, aperto 24 ore su 24, sia ai residenti che ai visitatori, ed equipaggiato con un sistema di guida al parcheggio, con un dispositivo di riconoscimento della targa, un sistema di prenotazione del posto on-line, e punti di ricarica per i veicoli elettrici. Queste tecnologie innovative hanno lo scopo di evitare percorsi inutili all’interno del parcheggio. Naturalmente non mancano i posti bicicletta, 800, ricavati in una zona appositamente realizzata vicino al Markthal nel 2015. Tutti i lati sono accessibili, e presentano vetrine, e gli abitanti possono raggiungere i loro appartamenti attraverso sei entrate separate, difronte agli ascensori. A causa della curva della struttura, gli ascensori cambiano gradualmente di dimensione e di posizione. Al piano terra l’ascensore è localizzato nella facciata interna, ed all’ultimo piano attraverso le facciate esterne. Ogni ascensore, dalla hall, serve un massimo di 4 appartamenti, due dei quali hanno le finestre sul mercato, e tutti hanno grandi vetrate sul fronte

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verso l’esterno. L’originalità di questo edificio, oltre che nella forma e nei colori, è nel modo in cui le diverse funzionalità, mercato, appartamenti, negozi, supermercato e ristoranti, si integrano tra di loro. L’edificio nasce nella località di Binnenrotte, vicino alla Blaak Station, ed ad un altro grande mercato all’aperto. Il sito su sui sorge ricopre una grande importanza, visto che questo è lo stesso sito, sul quale la città di Rotterdam, nel 1270 ha visto la sua nascita, in concomitanza con la costruzione di una grande diga sul fiume Rotte. Come un po’ tutte le grandi città dell’Olanda, nel XVI secolo, anche quest’area era in grande sviluppo economico e fortemente popolata, caratterizzata da costruzioni civili e dalle sedi delle compagnie di pesca. Progressivamente con il tempo, in questa zona vennero costruiti locande, negozi ed uffici. Nel 1940 la parte storica urbana venne rasa al suolo, e nel luogo dove ora si trova Markthal, venne costruita una scuola, successivamente demolita per permettere la costruzione dell’attuale edificio. La scuola è stata spostata dentro un edificio per uffici in disuso, sulla parte ad ovest di Markthal; dalle loro classi e dall’area giochi sulla copertura, gli studenti possono godere di un’ottima vista verso tutta la lunghezza del Markthal. Tra il 2009 ed il 2010 il dipartimento di archeologia della città di Rotterdam (BOOR) eseguì una serie di scavi nel sito dove ora sorge Markthal, ed i resti delle abitazioni, e gli utensili ritrovati, hanno fatto comprendere

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come quest’area fosse abitata sin da tempi molto antichi, ed hanno ispirato l’idea di costruire un vero e proprio museo, sviluppato in verticale, lungo l’ascensore, che dal piano più basso del parcheggio sotterraneo, porta alla sala del mercato. Il museo prende il nome di ‘De Tijdtrap’ (la scala del tempo), ed è caratterizzato da immagini, colori, suoni, e da reperti e modelli, che dal passato antico e sotterraneo, conducono il visitatore, verso il tempo attuale moderno e dinamico, rappresentato dai movimenti del mercato, dei negozi, e dei ristoranti. Il piano terra di Markthal dispone di macellerie, pescherie e negozi di frutta e verdura. Gli stand hanno una superficie di 20 mq ciascuno, con una larghezza di 9 metri, e possono essere affittati singolarmente oppure come unità contigue. Gli impianti di raffreddamento e stoccaggio sono stati disposti nel primo livello interrato, dove avviene anche la consegna della merce: i furgoni possono arrivare direttamente a questo primo livello, senza procurare disturbo agli abitanti, e senza creare ingorghi nel traffico del quartiere.

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Gli stand sono aperti tutti i giorni dalle 10 alle 20 nei giorni feriali, e dalle 12 alle 18 la domenica, mentre i ristoranti sono aperti più a lungo ed hanno un accesso lungo la strada. Progetti futuri prevedono la disposizione di un manto erboso sul soffitto, in modo tale da migliorare la qualità dell’aria interna e l’acustica, e per rafforzare il senso di freschezza e naturalità. Come attività durante la settimana si tengono regolarmente eventi e corsi sulla nutrizione, mentre alcuni spazi sono dedicati alle ultime tendenze e agli sviluppi nel settore alimentare, sotto forma di laboratori di cucina. Markthal è raggiungibile da tutti i mezzi di trasporto, metropolitana, bus, treno; proprio di fronte si trova la Blaak Station. Ritornando all’architettura, nel 2004 il team di progettisti Provast e lo studio di progettazione MVRDV vinsero il concorso per la costruzione di Markthal. Motivo di questo progetto fu’ l’introduzione di un nuovo regolamento della comunità Europea, che vietava la vendita di carne e pesce fresco all’aperto. Allo stesso tempo dovevano essere creati

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una serie di alloggiamenti all’interno del quartiere Lauren. La costruzione fu iniziata nel 2009. La società di costruzioni JP van Eesteren ha progettato e sviluppato l’arco principale dell’edificio. Le persone possono sostare liberamente all’interno, senza temere la presenza di vento o di pioggia, perché i lati delle due grandi aperture arcuate, sono caratterizzate da grandissime vetrate, unite da un telaio rigido di cavi in acciaio. Grazie a questa straordinaria opera ingegneristica è possibile ammirare il disegno sulla parte superiore, interna, dell’arco, direttamente dall’esterno. Queste due grandi aperture fanno da integrazione tra il mercato, il quartiere, ed il mercato all’aperto già esistente, creando un unico percorso che invita le persone a muoversi fluidamente da una zona all’altra. Per quanto concerne la parte tecnologica, l’interno, se così si può definire, dell’edificio, è caratterizzato da un sistema di teleriscaldamento che consiste essenzialmente nella distribuzione, attraverso una rete di tubazioni interrate, di acqua calda o vapore, e raffrescato da delle aperture

nella struttura del soffitto, che forniscono continuamente aria fresca. I disegni che ricoprono interamente le superfici interne del Markthal, sono opera degli artisti Arno Coenen e Iris Roskam, i quali hanno creato una personale versione moderna della mitologia popolare della cornucopia. Oltre alla frutta e alle verdura, al pane, al pesce e ai fiori, troviamo anche il campanile della chiesa di Lauren, come omaggio al quartiere. I soggetti sembrano dipinti, ma dietro si nasconde una vera e propria tecnologia sofisticata: si tratta di uno strato multiplo di stampa digitale. I pixel dei disegni creati sul computer, sono stati stampati su 4500 pannelli di alluminio, e vanno a ricoprire 11.000 mq di superficie. Personalmente penso che i tre elementi che caratterizzano il Markthal, colore, movimento, apertura, siano gli stessi della mentalità olandese, che nonostante il clima, non prettamente solare, riesce ad avere un’ingegnosità, una praticità, ed una semplicità incredibili, che ci portano in una dimensione di rinascita e spinta in avanti, verso il futuro. Grazie Olanda

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La Moschea Hassan II a Casablanca. Lusso e tecnologia, i paradossi del Marocco. Daniele Menichini Qualche anno fa mi è capitato di andare spesso in Marocco per lavoro. Per circa 18 mesi ho viaggiato in questo splendido paese, almeno due volte al mese, per spostarmi tra Casablanca, Rabat e Tangeri, posti bellissimi ed ognuno con le sue particolarità, se pur di base improntate sugli stessi elementi tipici della cultura araba, ma anche contemporanea, visto il legame di questo paese con la Francia e con la Spagna. Rabat è la capitale politica del Marocco, dove ha sede anche la dimora principale del Re, e dove si stanno facendo una quantità di lavori ed opere pubbliche incredibili e necessarie a rendere la città una capitale ai massimi livelli e che non abbia nulla da invidiare alle altre capitali mondiali, nonostante questo, la vecchia città storica tra le mura è sempre bellissima: qui, colori e profumi si fondono, e lasciano sensazioni indimenticabili. Tangeri è una bellissima città turistica che si trova sulla parte mediterranea della costa marocchina, e dove

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si sta mettendo in atto un grande sviluppo urbanistico, che consenta di creare una ospitalità di tipo contemporaneo dedicata sia al turismo interno che al turismo estero, vista anche la vicinanza e facile raggiungibilità dalla costa spagnola. Lo sviluppo turistico è stato lanciato grazie anche allo spostamento del traffico merci dal porto di Tangeri al vicino porto di Tetuan. Anche a Tangeri il rapporto tra la città vecchia e la città nuova è in netto contrasto e fortunatamente, le viuzze del centro con il suo souk (mercato), restano quelle storiche con anche qui colori, musica e profumi che fanno vivere bellissime esperienze. Ma la città dove il contrasto tra il vecchio paese tipico marocchino, e la città contemporanea europea è più evidente, è sicuramente Casablanca che a tutti gli effetti è la capitale economica di questo paese, e dove l’estensione urbana si perde a macchia d’olio dividendosi tra una parte storica pressochè sparita, un’espansione coloniale di grande importanza caratterizzata da architetture di gusto europeo,

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una ricostruzione in stile europeo con edifici moderni ed alti, ed una bidonville che circonda tutta la città, e dove vivono tutti quelli che ogni giorno danno vita alla città con la loro manovalanza. Casablanca è un vero e proprio centro di affari, in cui ogni giorno arrivano da tutto il paese e dall’estero centinaia di migliaia di persone per sviluppare rapporti commerciali e finanziari; la mattina presto il porto, la stazione e l’aereoporto sono presi d’assalto dagli arrivi ed i piccoli taxi rossi viaggiano su e giù per le strade, per portare tutti nel centro economico della città, dove le lounge dei grandi hotel diventano veri e propri uffici temporanei, in cui si fanno affari ed in cui si parla di lavoro. In tutti questi viaggi fatti dall’italia verso il marocco, ho sempre cercato di ritagliare il tempo per visitare queste tre città e combinare quindi lavoro con il tempo libero, e per questo devo ringraziare il nostro committente che ci ha sempre dato la possibilità di farlo, lasciandoci la massima

libertà di movimento; le cose che ho visto sono tante e tutte a loro modo mi hanno lasciato qualcosa da raccontare, a partire dalle architetture per arrivare fino alla scoperta delle usanze, dei sapori, delle musiche e del modo di vivere; una esperienza bellissima. Tra le tante cose viste, certo sono rimasto affascinato da una delle architetture più importanti realizzate a Casablanca negli ultimi decenni, ovvero la Moschea Hassan II, che proverò a descrivere non tanto con le parole, ma con alcune immagini, e per la quale basta l’altezza della torre Minareto per farne capire la scala ed il rapporto urbano con il contesto. La Moschea si affaccia sull’oceano atlantico e fa da sfondo alla città, diventando un punto di riferimento da ogni direttrice urbana, in sintesi l’architettura ha elementi islamici e marocchini e la sala della preghiera ha anche un tetto scorrevole che può essere aperto; dalla sommità del Minareto, inoltre, due fasci di luce laser sono indirizzati verso la Mecca.

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Opera dell’architetto francese Michel Pinseau, la Moschea Hassan II è un tempio grandioso che sembra galleggiare sulle onde. Nella realizzazione di quest’opera colossale hanno partecipato più di 6000 artigiani marocchini che, venuti da tutto il paese, hanno prestato la loro opera per i lavori di intaglio, dei rilievi in stucco, delle decorazioni zellij (mosaici), e per la tessitura dei tappeti. Le misure sono di per sé eloquenti: dall’ingresso principale, alleggerito da raffinate decorazioni, si accede ad un complesso architettonico di ben 90.000 metri quadrati. La sala della preghiera può ospitare ventimila fedeli, altri ottantamila possono riunirsi sul piazzale e dal Minareto, alto 210 metri, un laser, visibile da 35 chilometri, indica La Mecca. Nella sua costruzione sono state utilizzate notevoli innovazioni tecnologiche; per esempio è stato realizzato un riscaldamento a pavimento che dona ai fedeli scalzi, una piacevole sensazione di calore nei periodi invernali, ed un immenso tetto scorrevole apribile, costituito da 1100 tonnellate di legno di cedro, che nei periodi caldi, durante i grandi assembramenti religiosi, permette l’areazione naturale delle grandi sale. All’interno della Moschea giochi di luce esaltano gli intarsi e gli ornamenti realizzati dai bravissimi artigiani marocchini. Il marmo bianco di Carrara

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ed i ricchissimi lampadari di Murano ne accentuano la bellezza. Il tempio, oltre alle grandi sale per la preghiera e per le abluzioni, ospita una biblioteca ed un museo, oltre il garage sotterraneo. La moschea fortemente voluta dal sovrano Hassan II di cui porta il nome, fu inaugurata il 30 agosto 1993 a seguito dei lavori iniziati nel 1980, e che sono stati finanziati da una sottoscrizione nazionale. L’idea di costruire questa Moschea venne al re negli anni ’80 pensando di voler costruire un edificio che rappresentasse l’Africa del nord, come la Statua della Libertà rappresenta gli Stati Uniti. Dal grigiore della città economicamente più produttiva del Marocco si staglia, adagiata sull’Oceano come il trono di Allah, l’immensa e lussuosa Moschea di Hassan II. Il Paese dell’estremo ovest maghrebino è uno dei pochi che non consente ai turisti di visitare le sue moschee, mantenendo intatta una vecchia legge adottata in periodo coloniale per evitare tensioni fra francesi e marocchini nei luoghi di culto. Al turista però, dopo aver controllato gli orari deputati alle visite, è concesso entrare solo all’interno dell’incredibile Moschea.

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Lo Stato arabo turisticamente più visitato, secondo forse solo all’Egitto delle piramidi, è in sé pieno di contraddizioni. Orde di turisti “da weekend”, vi arrivano in massa armati del loro biglietto low-cost e del solo bagaglio a mano. Spesso incuranti, forse disinteressati e irrispettosi di cultura e religione del posto. Il Marocco, ormai abituatosi, non sembra cercare una soluzione ai suoi paradossi. La guida, in un italiano perfetto, illustra i costosissimi dettagli della Moschea, camminando sui tappetini strategicamente posti per non sciupare lo splendido, e lunghissimo, pavimento, che d’inverno, come per magia si riscalda. Marmi di Carrara, lampadari in vetro di Murano, legni pregiati dal Canada. Un sistema di apertura automatica dell’intero soffitto per arieggiare lo spazio e far vedere le stelle, questo è il suo vero scopo nelle funzioni religiose. Acustica perfetta per la riproduzione della voce dell’Imam, anche se storicamente non soggetta ad alcun metodo di amplificazione. Gli altissimi e fragili lampadari calano automaticamente in poco tempo per favorire una loro efficace pulizia. Il pesante portone in titanio preposto all’accesso privilegiato del re, dal lato dell’oceano, si apre, anch’esso, automaticamente. Una zona del pavimento consente di osservare il sottostante blu del mare. Così la

tecnologia irrompe prepotentemente all’interno di una cultura ancestrale. Al di sotto di tutto questo è situata la zona dove si compiono le abluzioni. Accanto ad essa una fantastica, enorme piscina aspetta da vent’anni, che qualcuno ne possa usufruire. Magari uno dei tanti normali contribuenti che con una tassa pubblica hanno favorito la nascita di questo immenso edificio fuori dal tempo, progettato dall’ architetto francese, che per edificarlo, ha reso impellenti i lavori di demolizione di una vasta area impoverita della città, i cui abitanti non hanno ricevuto alcun compenso in cambio dello sfratto religioso. Simbolo stridente di una modernità che cozza con le bidonville situate fuori dai percorsi del turismo di massa, questa Moschea richiama inevitabilmente una casta reale in crisi di legittimità, per la quale il vento rivoluzionario non ha soffiato ancora così forte da costringerla ad adottare cambiamenti radicali, ma che sono tangibili in una cultura del paese che sta diventando sempre più europea, come in molte delle grandi città arabe di tutto il mondo. Un’esperienza bellissima quella in questo paese, e che davvero consiglio di fare con un biglietto low-cost in un weekend lungo, visto anche il costo della vita in Marocco.

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Archmarathon.

Riscoprire la vera relazione tra uomo e architettura. Gaia Seghieri Il 13 Maggio ho avuto l’opportunità di assistere alla prima delle tre giornate di Archmarathon, un evento internazionale, vivace, carico di energia propositiva, e di volontà di portare un cambiamento in tutti gli aspetti dell’architettura, di apportare una nuova visione nella relazione tra l’uomo e l’architettura. All’evento, svoltosi presso lo Studio 90, all’interno del quartiere degli studi televisivi conosciuto come East End, di Milano, hanno partecipato 42 studi di progettazione provenienti da 20 paesi del mondo. I progettisti si sono alternati, su un palco di fronte ad una platea, che ha visto l’affluenza di più di mille persone, esponendo, in lingua inglese, le loro realizzazioni, le loro creazioni, accuratamente scelte tra le più significative del panorama dell’architettura mondiale, e realizzate dal 2014. Gli studi di progettazione hanno concorso per il prestigioso Award assegnato da una giuria internazionale composta da critici dell’architettura, giornalisti e curatori. I progettisti sono stati affiancati dagli ArchAngels, studenti di architettura e design, preselezionati dall’organizzazione dell’evento, che per i tre giorni della kermesse hanno assistito i singoli studi nella gestione del calendario incontri, e per ogni necessità logistica. Oltre ai 42 studi di progettazione stranieri, era presente una prestigiosa delegazione estera formata

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da studi di architettura provenienti da Slovenia, Turchia, Libano, Libia, Marocco, Portogallo, Messico, Stati Uniti, Canada e Cina. Il livello internazionale dell’evento è stato arricchito dalla presenza di 5 delegati VIP della Federation of Lebanese Engineers and Architects. Questa è la terza edizione di Archmarathon, le altre due si sono svolte la prima a Milano nel 2014, con una presenza di più di 1800 persone, e la seconda, special edition, si è tenuta a Beirut, con una particolare attenzione ai Paesi Arabi e del Mediterraneo, che ha visto l’affluenza di 8000 persone. All’interno di questa organizzazione perfetta e fluida, mi sono mossa con le mie emozioni e con la percezione, di trovarmi di fronte a qualcosa di veramente importante: il nuovo ad Archmarathon si respira nell’aria. Dalla mattina alla sera un susseguirsi di idee, di input, di informazioni, che ti avvolgono, e ti fanno comprendere come sia possibile il cambiamento, come sia possibile il rinnovamento. La stanchezza durante un avvenimento di questa portata non esiste, c’è solo entusiasmo, allo stato puro. Osservavo ed ascoltavo con attenzione i relatori, il modo in cui esponevano le loro idee, il modo in cui parlavano delle loro creazioni, ognuno con la propria esperienza e professionalità: abitazioni,

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Overall Winner

luoghi sacri, luoghi di incontro, biblioteche, scuole, uffici, un alternanza di immagini e rimandi a quella che è la vera funzione dell’architetto. Parlando con Simona Finessi, direttrice della rivista Platform, e fondatrice della Kermesse di Archmarathon, mi ha spiegato come questo evento serva, in un certo modo, a riportare l’architettura alla dimensione umana, con una sua funzionalità ben precisa. L’architettura non è semplicemente una griffe, l’architettura è vivere la quotidianità nel rispetto del totale benessere psico fisico delle persone. Questo importante punto emerge dai progetti scelti e selezionati, sia nella prima fase, per poter partecipare ad Archmarathon, sia nella seconda fase per poter concorrere ai premi Awards. I progetti premiati sono stati 12, suddivisi per categorie, nel modo seguente. Per la categoria Overall Winner, è stato scelto lo studio Vector Architects, dalla Cina, con il progetto Seashore Library. Si tratta di un edificio con la funzione di biblioteca, posizionato su una spiaggia, dalla quale sembra nascere, all’interno di una area di vacanza. Le forme dell’edificio sono pure, ed essenziali, così come i colori, rispettosi dell’ambiente circostante, e come ha detto la giuria, motivando la sua scelta, l’edificio è: “un equilibrio poetico tra l’architettura e la natura. Un rifugio umano dalla complessità della vita urbana.”. Lo studio Vector, ha scelto per gli interni, delle forme semplici, in movimento, che si compenetrano tra di loro, con eleganza ed armonia. I materiali predominanti sono il legno, per le poche scaffalature, e per la pavimentazione di entrambi i piani, ed il cemento lasciato a vista, per l’intera struttura. Non vi sono percorsi segnati che portano alla biblioteca, l’unico modo per raggiungere l’edificio, è camminare direttamente sulla sabbia, entrando così da subito, in questo ingresso naturale, che ci accoglie e ci protegge. Per la categoria Arts & Culture ha vinto lo studio Francisco Mangado & Asociados, dalla Spagna, con il progetto Fine Arts Museum of Asturias. Il progetto vincitore, consiste nella riqualificazione del museo delle belle arti del principato delle Asturie in Spagna. Osservando gli elaborati grafici dell’edificio ne emerge sicuramente una certa complessità, ma allo stesso tempo un’affermazione di leggerezza, che traspare dalle grandi aperture senza telaio, che si stagliano verso l’esterno, come a voler catturare la luce solare, e dare risalto alla luminosità delle grandi superfici bianche dell’interno. In riferimento alla molteplicità formale dell’edificio la giuria afferma: “questo progetto celebra la complessità dell’unione tra la struttura esistente ed i nuovi spazi.”

Arts & Culture

Education Buildings

Per la categoria Education Buildings, è stato scelto lo studio Perkins+Will, dagli USA, con il progetto Case Western Reserve University, Tinkham Veale University 38


Religious Buildings

Center. Si tratta di una struttura, per un centro universitario, che rappresenta il punto d’incontro delle tre aree del campus in cui si erige. L’edificio nasce direttamente sulla mappa urbana, dall’intersezione di queste tre aree, e mostra facciate vetrate a tutta altezza, che si affacciano su spazi di riunione e di incontro per gli studenti, sulle sale da pranzo, e sugli uffici per la gestione amministrativa. Anche questo edificio è un esempio intelligente di connessione tra gli spazi esistenti ed il nuovo, così come viene indicato dalla giuria: “rappresenta un connettore di valore all’interno dell’ambiente pubblico dell’università.” Workspaces

Hotel & Leisure

Per la categoria Religious Buildings, ha vinto lo studio Espen Surnevik, dalla Norvegia, con il progetto Våler Church. Il progetto vede la realizzazione, di una chiesa, che è stata costruita dopo la distruzione di quella più antica, a causa di un incendio. La nuova struttura mantiene la funzione di incontro della comunità, accentuandola in alcuni spazi. All’esterno le facciate pur essendo lineari, si esprimono in un senso scultoreo totale, che viene ripreso all’interno, nell’arredamento, e nell’illuminazione. La chiesa è un incontro di arte ed artigianato, attraverso la lavorazione del legno e del vetro. Ogni particolare è curato come se fosse un opera d’arte, affinché spiritualità ed architettura si incontrino in un’unione armonica. Per la categoria Workspaces, ha vinto lo studio 00 Architecture, da Londra, con il progetto The Foundry Social Justice Center. The Foundry, è un nuovo edificio punto di riferimento, in Vauxhall, a Londra, per le organizzazioni di volontariato e beneficenza, per la giustizia sociale e per i diritti umani. La completa apertura al piano terra, e la presenza di ponti esterni ai piani superiori, invitano le persone ad entrare, ed ad usufruire degli spazi, a condividerli con gli utenti, nella creazione di una maggior comprensione e senso di appartenenza. Ogni piano possiede una grande flessibilità, e facilità nella ripartizione degli spazi, incoraggiando diverse destinazioni d’uso, come asili nido e negozi locali. Sicuramente un edificio che vede, come motivazione base, per la sua realizzazione, quella sociale, e comunitaria. Per la categoria Hotel & Leisure, ha vinto lo studio Park Associati, dall’Italia, con il progetto Priceless Milan. Suggestiva la motivazione della giuria per la scelta del progetto: “ un architettura temporanea, nomade, che esplora gli spazi sconosciuti della città, in un nuovo modo. Una reinterpretazione dello spazio ricreativo”. Architettura nomade, perché costituita da una struttura leggera in metallo,per le pareti mobili, ed in alluminio per la copertura, assemblabili in diverse location. Queste due parti formano uno spazio, che può nascere in una piazza, così come su di una terrazza, e può ospitare 24 ospiti, seduti intorno ad un unico tavolo, o 66 in piedi per eventi speciali. La copertura trasmette il senso del movimento

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Private Housing

attraverso queste due ali, che si spostano nella città, esplorando nuovi angoli, e godendo di nuove visuali. Per la categoria Private Housing,, è stato scelto lo studio a21 studio, dal Vietnam, con il progetto Saigon house. Il progetto è costituito da un abitazione privata, ricavata dalla casa in abbandono, di un colto collezionista di oggetti d’antiquariato, di nome Mr. Vuong Hong Sen, che avrebbe voluto che la sua casa venisse trasformata in un museo, per non lasciare che le sue opere andassero rubate. Adesso questo edificio, dopo un periodo di abbandono, è stato trasformato in un abitazione privata, dove la classica casa locale vietnamita, viene trasformata, in modo giocoso e colorato, per andare al di fuori degli schemi costruttivi tradizionali. Per la categoria Mixed Tenure Housing & Buildings,, ha vinto lo studio dello spagnolo Urko Sánchez Architects, dal Kenia, con il progetto SOS Children’s Village, un complesso residenziale di 15 case. Le abitazioni tengono conto delle condizioni climatiche estreme dell’area, siamo a Djibouti, nel corno d’Africa, zona soggetta a forti siccità. I progettisti hanno deciso di prendere come riferimento abitazioni tradizionali, in ambienti culturali e climatici simili, il risultato è stata la creazione di una medina. Le particolarità del complesso sono: la sicurezza, in quanto non vi possono circolare automobili, i vicoli si trasformano in luoghi in cui i bambini possono giocare, la presenza di spazi aperti pubblici, che si fondono con gli spazi privati, la forte presenza del verde, e di torri per una ventilazione naturale dove necessario. La giuria motiva la sua scelta con questa frase: “una interpretazione altamente sensitiva dei bisogni della comunità dei bambini, ed un progetto che si adatta perfettamente a questo particolare contesto e tradizione”. Per la categoria Retrofitting & Refurbishment, è stato scelto lo studio People’s Architecture Office, dalla Cina, con il progetto Courtyard House Plugin. Questo sistema costruttivo ideato da People’s Architecture Office, è costituito da una struttura prefabbricata, che può essere posizionata all’interno di case esistenti senza la necessità di abbattere le strutture, e senza necessità di un trasferimento dei residenti. Questo permette di ottenere condizioni di vita più agiate in case in rovina. La house Plugin, fa parte di un progetto chiamato Dashilar, volto al rinnovamento urbano di un quartiere storico di Pechino. La struttura è costituita da pannelli prefabbricati, leggeri e facili da montare, che si possono bloccare con una chiave esagonale. La struttura può essere montata in un solo giorno, da chiunque, non sono necessarie competenze particolari, e permette di ridurre il consumo energetico di un terzo. Plugin costa la metà di una ristrutturazione, ed un quinto di una nuova costruzione. Plugin non obbliga le persone a spostarsi, in questo modo

Mixed Tenure Housing & Buildings

Retrofitting & Refurbishment

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Urban Design & Public Spaces

la comunità rimane unità ed il suo patrimonio culturale preservato. Per la categoria Urban Design & Public Spaces è sato scelto lo studio Knight Architects, dall’Inghilterra, con il progetto Merchant Square Bridge. Si tratta di un ponte diviso in più sezioni che si alzano in sequenza, creando una forma scultorea di alta qualità, posizionato nella zona di Merchant Square. Ad un estremità sono presenti i martinetti idraulici, che alzano le cinque travi in acciaio che formano il ponte. I martinetti idraulici sono aiutati da dei contrappesi sagomati, che riducono il consumo di energia per muovere la struttura. I componenti dello studio hanno lavorato ad un alto grado di precisione, che ha come risultato, come la giura indica, una relazione creativa tra architettura, ingegneria, ed Urban design. Transport

Crowd Award

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Per la categoria Transport ha vinto lo studio ZUS Architects, da Rotterdam, Netherlands, con il progetto Luchtsingel pedestrian bridge. Il progetto di questo ponte pedonale è stato finanziato attraverso il sistema di crowdfunding, per cui i proprietari della struttura sono ca 10.000, i cui nomi sono incisi su assi di legno del ponte stesso. Il ponte, parte da un parcheggio dietro l’edificio Schieblock, verso i quartieri di Pompenburg, Hofbogen, e Delftse Poort, per uno sviluppo totale di 1,5 Km, dei quali 350 metri sono costituiti dalla struttura in legno. L’altezza del ponte, colorato di giallo varia dai 5 agli 8 metri. In diversi punti sono presenti delle scale, che conducono ad aree specifiche, come parco giochi, fermata dell’autobus, e l’ingresso ad un edificio pubblico. Il ponte, così come sviluppato, diviene una vera e propria infrastruttura urbana. Questo ponte è un’impronta significativa nella città di Rotterdam, per il movimento che crea, e per il nuovo modo di collegare parti così distanti della città stessa. Ed infine per il Crowd Award, lo Studio Díaz y Díaz Arquitectos, dalla Spagna, con il progetto Maternity and Oncologic Parking, è risultato il più votato dal pubblico telematico. Si tratta di un parcheggio che è stato realizzato per essere a servizio del dipartimento di maternità e del dipartimento oncologico dell’ospedale, in Galizia. L’edificio nel quale si trova il parcheggio, si snoda su due livelli con una differenza di 1,60 metri. Un lato è adiacente alla roccia ed alla vegetazione, a formare un incavo naturale per lo sviluppo del parcheggio stesso. L’edificio è separato dal pendio roccioso per permettere una ventilazione naturale che si sviluppa lungo tutto il perimetro dell’edificio. La struttura è come un contenitore costituito da una base di gabbioni in pietra, che ripara i due piani inferiori, e che lavora come la fondazione della costruzione. Sopra questo poggia una facciata leggera composta da profilati metallici verticali, che sono posizionati ad angoli diversi per creare un senso di movimento.

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