PRIMO NUMERO, Settembre/Ottobre, a.s. 2013/2014

Page 1


L’editoriale di Alessandra Venezia

B

en risvegliati Carducciani! Il letargo estivo si è ormai concluso da un pezzo, la scuola è ricominciata e anche il nostro amato Oblò è pronto per un nuovo anno. Nuove rubriche, nuovi racconti, nuove vignette e nuovi redattori. Ogni timore nato alla fine dell’anno scorso, quando la redazione ha dovuto salutare alcuni suoi membri fondamentali cresciuti con il giornale, oggi non c’è più. In queste settimane il Carducci ha saputo dimostrare quanto tenga al suo giornalino: ragazzi e ragazze, sia del biennio che del triennio, si sono presentati entusiasti e carichi di idee alle prime redazioni. Ed ecco qui, fra le vostre mani, il risultato: un numero ricco e intenso. Bisognerà abituarsi a stili e parole diverse e forse all’inizio vi sentirete un po’ disorientati. È difficile distaccarsi da ciò che si conosce bene per buttarsi in un mondo tutto nuovo. Ma in fin dei conti in un giornale e in un liceo è proprio questo che avviene: ogni anno si verifica un silenzioso cambio generazionale e volti più giovani sostituiscono quelli ormai più maturi. Ma se le novità sono tante, tuttavia dobbiamo fare ancora una volta i conti con alcune situazioni che non cambiano mai. Noi italiani abbiamo una certa difficoltà ad accorgerci dei

problemi a tempo debito, è più forte di noi, proprio non riusciamo a prevenire. È solo l’arrivo della tragedia che ci spinge a fermarci un secondo a riflettere. Ci bendiamo gli occhi perché noi non vogliamo vedere. Perché vedere significa diventare consapevoli e la consapevolezza porta all’azione. E agire ci fa paura. Dobbiamo abituarci sin da ora, qui a scuola, a vedere. Io vedo un barcone di immigrati che affonda nel Mediterraneo, nei pressi di Lampedusa. È il tre ottobre scorso. Se strizzo un po’ gli occhi riesco anche a vederne un altro. Questa volta è l’undici ottobre. Due tragedie nel giro di una settimana, centinaia di morti e un mondo che piange. Piange perché non è la prima volta, perché è da anni che il Mediterraneo è teatro di spettacoli dell’orrore, ma nessuno si muove. Abbiamo bisogno di toccare il fondo con il naso per decidere di alzarci. Ma siamo ancora in tempo per cambiare, le speranze sono tutte riposte in noi, che siamo gli adulti del domani. Iniziamo ora. Iniziamo con il guardare e il provare emozioni. Una volta arrivati a questo punto, il desiderio di migliorare verrà di conseguenza. La cosa peggiore che ci possa capitare, come dice Papa Francesco, è cadere nella globalizzazione dell’indifferenza.

La redazione dell’oblò redattori | Cleo Bissong, Francesco Bonzanino, Bianca Carnesale, Giulio Castelli, Letizia Foschi, Sofia Franchini, Alice de Kormotzij, Martina Locatelli, Edo Mazzi,

Beatrice Penzo, Francesca Petrella, Carlo Polvara, Beatrice Sacco, Claudia Sangalli, Alessia Tesio, Alessandra Venezia vignettisti | Leonardo Zoia, Silena Bertoncelli. DIRETTRICE | Martina Brandi Capo redattore e impaginatore| Chiara Conselvan Docente referente | Giorgio Giovannetti Collaboratori esterni | Simone Possenti, Beatrice Servadio, Andrea Sarassi

2

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

Pag

sommario

4

laicite

5

6 7

8 9

laicite

moldavia moldavia

lea garofalo malala

10 canterbury

comunicazione

11 12

bose

bose

13

cinema 18 milano 1417

19 milano

20 touring club italia 21 touring club italia

22 pollock

23

pollock

24

audiophiles

25

mumford and son s

26 peter gabriel 27

rtney

lennon & mcca

fumetti

28 29

30

31

clacson

fratello fratello

rio 32 concorso lettera


la via maestra

di Carlo Polvara

S

abato 12 ottobre 2013 si sono riunite a Roma, in una grande manifestazione, innumerevoli associazioni, impegnate nei settori più disparati e apparentemente senza alcun legame. Tra le protagoniste le più note sono Libera, la rete di associazioni da vent’anni impegnata nella lotta alla criminalità organizzata; la FIOM, il sindacato degli operai metalmeccanici, e la FLC, sindacato dei lavoratori della scuola, entrambi aderenti alla CGIL; l’ARCI; Libertà e giustizia, associazione di giuristi, intellettuali e semplici cittadini attiva nella diffusione, difesa e promozione della Costituzione. La Costituzione: difficile immaginare un documento più al centro del dibattito politico attuale. È da quasi trent’anni ormai che si parla di riforma della Costituzione con esiti inconsistenti, se si esclude in parte la revisione del titolo V, nella parte relativa alle autonomie locali. Negli ultimi mesi, tuttavia, sembra che il processo abbia subito una rapida ac-

celerazione con la creazione di un “comitato di saggi” con il compito di studiare le possibili modifiche e con la riforma prevista dell’articolo 138, che stabilisce procedure molto rigide e un lungo iter per le riforme costituzionali. È stata proprio questa mutata situazione politica, sicuramente nata dalle larghe intese, a provocare la reazione della piazza del 12 Ottobre. La manifestazione si opponeva a questa riforma costituzionale: è importante sottolineare, di fronte alle critiche di “conservatorismo” e “immobilismo” avanzate da giornali, forze politiche ed esponenti delle istituzioni, che nessuno in quella piazza era contrario a quelle modifiche, come il superamento del bicameralismo perfetto, per esempio, che si proponevano di migliorare l’efficienza del nostro sistema politico mantenendone l’impianto. Ciò a cui da sempre ci si oppone è il tentativo, avanzato in prevalenza, benché non esclusivamente, dal centrodestra di questo paese, di trasformare l’Italia in una repubblica semipresidenziale, in totale rottura con il disegno di Stato

tracciato dai padri costituenti. Un altro elemento di confutazione delle critiche rivolte ai manifestanti è il fatto che la manifestazione stessa non fosse solo “contro”: il nome stesso, “La via maestra”, indica la volontà di costruire dalla Costituzione e con la Costituzione un percorso programmatico preciso, che la attui in tutti quegli aspetti di diritto al lavoro, all’istruzione e alla sanità pubbliche, di difesa della legalità, di tutela dei beni comuni, ambientali e culturali che sessant’anni di politica italiana hanno purtroppo in gran parte disatteso. Le associazioni mobilitate attuano, in campi diversi, la Costituzione tutti i giorni e chiedono soltanto che sia lo Stato ad attuare i suoi stessi principi fondanti. Chiedono solo il riconoscimento reale di diritti per troppo tempo garantiti solo a parole. Chiedono solo che le forze politiche si riconoscano nella Costituzione come frutto della resistenza, maturata dopo la guerra e la dittatura fascista, figlia dell’incontro tra le migliori tradizioni politiche e culturali del suo tempo.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

3


Attualità

laïcité à la française di Giulio Castelli

O

rmai le vacanze sono terminate e ci si ritrova in classe tra i banchi all’inizio di un nuovo anno scolastico, certamente segnato da novità. Qui in Italia per esempio la novità prende il nome di “vietato fiumare all’interno dell’intero edificio scolastico, compreso cortile, campetto ecc.” ma questo è ormai risaputo. Quello che forse non vi sarà così noto è ciò che un comunissimo studente francese, giungendo a scuola il primo giorno, noterà all’entrata: la carta della laicità, voluta dal ministro dell’istruzione francese, Peillon, formata da due pagine divise in diciassette punti e due capitoli: “La Rèpublique est laique” e “L’ècole est laique”, che verranno affisse sulla facciata dei 55 mila edifici scolastici Francesi.

Per comprendere meglio tale carta, di cui riporterò in seguito alcuni punti, mi rifaccio alle dichiarazioni del ministro che, in occasione della presentazione del suo libro “la Rivoluzione non è finita”, afferma: “Non si può fare una rivoluzione unicamente in senso materiale, bisogna farla nello spirito. Adesso abbiamo fatto la rivoluzione essenzialmente politica, ma non quella morale e spirituale. Quindi abbiamo lasciato la morale e la spiritualità alla chiesa cattolica. Dobbiamo sostituirla(...) Questa nuova religione è la laicità (…) La scuola deve strappare il bambino da tutti i suoi legami prerepubblicani per insegnargli a diventare un cittadino. È come una nuova nascita che opera nella scuola e per la scuola, la nuova chiesa con i suoi ministri, la sua nuova liturgia e 4

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

le sue nuove tavole della legge”. Un ideale di scuola che si sostituisce alla famiglia, sottraendola al suo compito specifico di educare i figli secondo le proprie convinzioni e tradizioni. Inoltre l’articolo 31 della legge di Peillon, intitolata “Rifondazione della scuola della Repubblica”, si propone di diffondere l’uguaglianza di genere per “decostruire gli stereotipi” sessuali, ovvero la banale distinzione tra maschi e femmine. Verrà poi introdotta una nuova disciplina, la morale laica, che sarà insegnata in ogni scuola in aggiunta all’educazione civile per formare un “individuo libero”. E verranno sostituite “le categorie come il sesso con il concetto del gender, il quale mostrerà come le differenze tra uomini e donne non siano fondate sulla natura, ma siano storicamente costruite e socialmente riprodotte”. Per vedere concretamente questa nuova religione all’opera basta ricordare la scomparsa dei termini padre e madre dai fogli di iscrizione delle scuole, sostituiti dal responsabile sociale 1 e responsabile sociale 2. Oppure il testo consigliato dallo Snuipp, il principale sindacato degli insegnanti della scuola, intitolato “Papà porta la gonna”. Ma vediamo ora alcuni punti della Carta. 4. “La laicità garantisce la libertà di coscienza di tutti: ognuno è libero di credere o non credere. Essa permette la libera espressione delle proprie convinzioni…” 7. “La laicità della scuola offre agli studenti le condizioni adeguate per forgiare la propria personalità, esercitare il libero arbitrio e formarsi alla cittadinanza. Essa li tutela da qualsiasi forma di proselitismo e da ogni pressione passibile di pregiudicare le loro libere scelte”. 8. “Essa garantisce l’accesso a una cultura comune e condivisa”. 11. “Tutto il personale è tenuto a trasmettere agli studenti il senso e il valore della laicità” 13. “Il personale deve essere assolutamente neutrale: nell’esercizio delle proprie funzioni non deve pertanto esprimere le proprie convinzioni polit-

iche o religiose”. 14. “Gli insegnamenti sono laici al fine di garantire agli studenti l’apertura più obiettiva possibile alle diverse concezioni del mondo…” 16. “…E’ vietato invocare la propria appartenenza religiosa per rifiutare di conformarsi alle regole applicabili nella scuola della repubblica. Negli istituti scolastici pubblici è vietato esibire simboli o divise tramite i quali gli studenti ostentino palesemente un’appartenenza religiosa”.

A questo punto mi sorgono spontanee quattro domande: 1) In che modo la scuola della Repubblica pensa di tutelare i ragazzi da “ogni pressione passibile di pregiudicare le loro libere scelte”, se nel contempo mira ad “una cultura comune e condivisa”, privilegiandola? 2) Come potrebbe lo studente “forgiare la propria personalità” ed essere aperto “più obiettivamente possibile alle diverse concezioni del mondo” se agli insegnanti è vietato “esprimere le proprie convinzioni politiche o religiose” e se gli stessi professori sono tenuti a trasmettere i valori della laicità, e quindi di un credo aconfessionale e secolari sta ? E’ solo nel rapporto sincero con l’altro che uno ha davvero la possibilità di crescere e di creare la “propria personalità”; è entrando in relazione vera con l’altro, accettando anche la diversità e dunque aprendosi ad un confronto, che si può pensare di percorrere un pezzo di strada assieme, come ci insegnano in questi giorni papa Francesco ed Eugenio Scalfari. 3) In che modo è conciliabile il punto 16 che vieta l’invocare la propria appartenenza religiosa ed “esibire simboli


o divise tramite i quali gli studenti ostentino palesemente un’appartenenza religiosa” con il punto 4 che permette “la libera espressioni delle proprie convinzioni”? Quest’ultima è ulteriormente contraddetta nel quattordicesimo punto che proibisce al personale scolastico “l’espressione delle proprie convinzioni politiche e religiose”. Bisognerebbe allora chiedersi cosa significhi per Peillon libertà di coscienza, se essa, come egli esplicita nel quarto punto, può essere ridotta alla semplice libertà di pensare e credere in maniera prettamente personale, o forse qualcosa di più. In ultima analisi è chiaro l’intento di trasformare la scuola, dove fino a poco fa si educavano i giovani con la cultura, in una fabbrica di cittadini modello, a cui non è trasmessa la totale conoscenza delle discipline ma solo una parte di essa (quella laica), in funzione della creazione di individui mentalmente e ideologicamente formati. Questa carta descrive nitidamente il concetto di laicitè, basata sull’idea dell’indifferenza dello Stato, chiamata neutralità, rispetto al fenomeno religioso; questa potrebbe sembrare una soluzione efficace per garantire veramente

la libertà religiosa a tutti. Bisogna però riconoscere che viviamo in un tempo in cui nelle società occidentali la vera divisione è tra il secolarismo e una visione della realtà che invece poggia sulla fede in Dio, espressa dalle religioni. Ora, uno stato come quello francese, che abbraccia totalmente la visione atea della società, inevitabilmente prende una posizione, quella della secolarizzazione e, come abbiamo visto, della scristianizzazione, astenendosi così dall’aconfessionalità, essenziale in uno Stato laico. E’ lo stesso ministro a dichiarare l’intento di formare una nuova religione, la laicità: “la nuova chiesa con i suoi ministri, la sua nuova liturgia e le sue nuove tavole della legge”. Ma questa è una tra le tante visioni culturali della società, che però così, attraverso la legislazione, diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose. Infatti in Occidente, dove il modello francese continua a farsi strada, sono numerosi gli atti giuridici che danneggiano la libertà religiosa: “dai divieti all’obiezione di coscienza in ambito professionale, all’interdizione di indossare o esporre simboli religiosi, all’insegnamento

obbligatorio, anche nelle scuole di ispirazione religiosa, di materie basate su un’antropologia contraria al proprio credo, eccetera.” [1] Dunque lo Stato laico, dichiarando la sua aconfessionalità, non deve assumere una posizione di distacco dalle religioni ma promuovere ed incentivare le singole realtà religiose e non solo, affinché con la propria libertà e creatività possano contribuire all’edificazione del bene comune. [1] A. SCOLA, Non dimentichiamoci di Dio, libertà di fedi, di culture e politica, Rizzoli, Milano, 2013

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

5


Attualità

moldavia: bambini nella polvere di Simone Possenti

Q

«Anche in Moldova nascono uomini». uesta frase, pronunciata dal preside della scuola dello sperduto paese di Roşu, è una delle più preziose che mi porto dietro dall’esperienza di volontariato che ha segnato la mia estate. Voglio premettere fin da subito che quest’articolo non ha la pretesa superba di colmare da solo le emozioni vissute in quei quindici giorni tra luglio e agosto, ma vuole offrire degli spunti, delle brevi immagini che possano suscitare almeno curiosità. La Repubblica Moldova è un piccolo staterello schiacciato tra Romania e Ucraina, uno di quei posti dimenticati dal mondo, e te ne accorgi appena atterri all’aeroporto di Chişinău. Sono partito col progetto Cantieri della Solidarietà di Caritas Ambrosiana con altri dieci ragazzi che avevo già avuto modo di conoscere in Italia, negli incontri di preparazione. E ripensandoci credo che l’aspetto più utile della preparazione sia stato proprio quello di portarci a confrontare che cosa significhi affrontare certe tematiche qui, e che cosa invece voglia dire viverle là, sulla propria pelle. Ma andiamo con ordine. La nostra attività sul posto era fondamentalmente di animazione per i bambini, tutte le mattine, mentre il pomeriggio si organizzava la giornata successiva e a gruppi si andava ai “lavori sociali”. Questi potevano essere tra i più vari: dallo spaccare la legna per l’anziana sola, allo sradicare le erbacce attorno alla chiesa. Come si può già intuire la prospettiva è quella di giornate lunghe e stancanti, e confesso di non essere mai stato messo così tanto alla prova.

6

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

Bisogna aggiungere che c’erano anche i volontari moldavi, molti dei quali vivevano con noi, e riuscire a organizzarsi non era facile, dato che loro parlavano solamente rumeno, e anziché l’inglese il russo. Ma se gli ostacoli linguistici non sono mai stati insormontabili, ecco che ne intervenivano alcuni prettamente culturali: le discussioni e i confronti, tuttavia, si sono sempre rivelati un arricchimento reciproco. Col gruppo di italiani si sono subito create una sintonia e un’amicizia stupende, quasi forzate dal nostro stare sempre insieme e condividere tutto in ogni momento del giorno (e della notte). Ritrovarsi a cucinare sempre le stesse cose (tonnellate di cetrioli) accontentandosi di quel che c’era, organizzare le attività, dormire per terra, usare una doccia in venti, l’assenza di un gabinetto, l’acqua sporca per lavare le stoviglie... abbiamo condiviso tutto. E se detto così non sembrerà molto allettante, posso garantire che è stato estremamente utile. Non solo per comprendere appieno la vita che conduce la gente del posto, ma anche per un ritorno all’essenzialità che in quel contesto era necessaria. Per quanto sapessi che la Moldova è l’ultima economia d’Europa, viverlo sulla propria pelle è molto più sconvolgente. La speranza è quasi nulla: è un paese di vecchi e bambini, quasi tutti gli adulti sono andati all’estero a lavorare, e manca quella parte della società che può cambiare le cose. Così, le cose non cambiano, e sotto la forte influenza russa, la Moldova non riesce nemmeno ad entrare nella UE. Spesso a Chişinău abbiamo letto sui muri la scritta “moldavi,

quindi romeni”. Ci hanno spiegato che il “moldavo” non esiste, ma è solo un dialetto del romeno, con piccole variazioni d’accento. Per di più sembrava che se avessero avuto l’opportunità di fare un referendum, il giorno dopo la Repubblica Moldova sarebbe stata abolita, e avrebbero felicemente accettato di entrare nella Romania. Ma questa è la visione di quella parte del paese più vicina alla Chiesa ortodossa legata al patriarcato di Costantinopoli, se avessimo chiesto a qualcuno legato al patriarcato di Mosca, certo ci avrebbe risposto in modo diverso. Dei militari russi sono ancora nella zona della Transnistria, un’ignota lingua di terra al confine con l’Ucraina, che appartiene alla Moldova per volere dei russi (ma contro quello dei moldavi stessi!). Insomma, la situazione politica è molto complicata, e i danni lasciati dalla dittatura comunista sono evidenti. Ma moltissimi paesi del mondo sono in condizioni simili, la differenza è che qui si avverte molto come la situazione sia pericolosamente stagnante. Le strade sono tutte sterrate, non ci sono i gabinetti e bisogna prendere l’acqua al pozzo. Questo nell’Europa del 2013. Perché il fatto molto triste da ammettere è che siamo stati abituati da decenni di pubblicità e slogan all’immagine del bambino-nero-povero. Così, quando a solo tre ore d’aereo troviamo il bambino-bianco-povero, di cui nessuno parla mai, restiamo turbati. Perché viene quasi istintivo pensare a quanto si parli d’Africa solo in vista della ricchezza di quel continente, mentre una piccola regione povera e priva di beni particolari come la Moldova può essere dimenticata e lasciata a se stessa, anche se è a due passi da noi! Ma cosa possono fare anche i giovani del posto? Una ragazza che è diventata mia amica si stava laureando in psicologia a Chişinău, ma già con la consapevolezza che fuori dalla Moldova quel documento è carta straccia, e può aspirare a fare la badante. È un paese che non offre garanzie di nessun tipo, a nessuno. Così, si ritrova ad avere un solo primato: il tasso d’alcol consumato per persona. È una terribile piaga ed è l’unica alternativa, il mezzo per non pensare. I ragazzi che ho conosciuto erano lì, nel “rifugio” di Diaconia (un’organizzazione della Chiesa ortodossa), altrimenti sarebbero stati facilmente preda dell’alcolismo e della prostituzione. Sì, questo è un altro tragico aspetto. Avere delle amiche moldave, e sapere che tantissime ragazze come loro vengono prese e mandate nei grandi paesi d’Europa come schiave del sesso a pagamento, e che esistono


tanti ricchi europei con la faccia tosta di fermarsi e far salire quelle ragazze in macchina, senza chiedersi che storia ci sia alle loro spalle. A Roşu abbiamo visto una casa con dei bambini che giocavano nella terra, completamente nudi, controllati da un uomo che stava nascosto dietro, nell’ombra. Sul muro c’era la scritta “rom” e un numero di telefono. Quei bambini erano in vendita. L’idea di esserci passato davanti, e di non aver potuto fare nulla, è così straziante… A Feteşti, invece, avevamo fatto delle scatoline di carta in cui i bambini avevano scritto i propri desideri, poi la sera li abbiamo letti. Quasi tutti chiedevano di rivedere i loro genitori, di andare a Parigi o a Mosca, certo per trovarli. Uno aveva disegnato la Torre Eiffel, un altro aveva chiesto una grande bambola parlante. Sono tutti segni di un’intera generazione a cui mancano dei punti di riferimento. È molto triste, e mi fa anche riconsiderare la mia personale idea di famiglia. Quei bambini passano tutto l’anno in grandi collegi, con un regime quasi militare, perché non possono essere seguiti singolarmente. Poi, d’estate, tornano al loro villaggio dai nonni. I più fortunati vedono i genitori una volta all’anno, ma sono delle eccezioni, molti non li avevano mai visti. E cosa ancora più triste è che spesso l’affetto dei genitori lontani arriva tramite soldi e regali, così il bambino che non ha il gabinetto in casa può sfoggiare il suo cellulare touch! Proprio per questi motivi ci avevano detto di stare attenti, di non affezionarci in partico-

lare a un bambino, perché noi sappiamo che non lo rivedremo mai più e l’ultima cosa di cui hanno bisogno è di essere illusi. Ovviamente non è per nulla facile: soprattutto la seconda settimana ero molto vicino a un bambino di nome Rostic, e non dimenticherò mai i suoi piedini nudi, sempre sporchi di terra, le sue unghie piene di polvere, la ferita infettata sul palmo della sua piccola mano. Come faccio a non interrogarmi sul suo futuro? E sul suo presente. Dove sarà adesso Rostic, che cosa gli starà succedendo? Dopo i lavori sociali ci capitava di fermarci a parlare con gli anziani, col nostro coordinatore che faceva da traduttore. Una signora ci ha raccontato gli anni terribili del comunismo, le deportazioni, la fame. Suo marito l’aveva abbandonata alle prime difficoltà, e lei, sola coi bambini, andava a bere l’acqua degli animali. E in contrapposizione a tutto questo, alla vita della campagna così legata alla Chiesa ortodossa, un po’come in Italia era ai primi del Novecento, c’è la capitale: Chişinău è una città poco illuminata, per niente turistica, con nulla di famoso da visitare, ma numerosi locali e casinò. Siamo anche andati in un ristorante di lusso dove abbiamo mangiato tantissimo (e speso “addirittura” sei euro a testa perché era proprio in centro città!). La sera siamo anche andati in un locale molto carino, non diverso da quelli di Milano. Questo è il contrasto, e questo ci infastidiva: ritornare così, alla normalità, dopo quelle due

settimane di sudore, dopo tutto quello che avevamo visto. Ma ho pensato che infondo, se fossi nato a Chişinău, anch’io avrei voluto uscire in un locale il sabato sera e avere una vita normale. Insomma, la Moldova è anche fatta dei cittadini della capitale (che comunque resta per lo più una città sporca e decadente). Voglio però concludere questa lunga serie di ricordi con delle immagini positive: le verdi colline della campagna dell’est Europa, e quelle infinite distese di girasoli! Il rapporto stretto che c’è tra l’uomo e la terra, e una vita all’essenziale, senza le troppe futilità a cui siamo abituati. Ma soprattutto il cielo: di un azzurro così intenso durante il giorno, con stupendi tramonti rosati e la profonda oscurità della notte. Sono certo di non aver mai visto così tante stelle in vita mia, tutta la Via Lattea era distesa davanti ai nostri occhi, e facilmente si trovavano i due Carri, la cintura di Orione, Cassiopea. Per di più eravamo nel periodo di San Lorenzo, così in una sola notte ho visto ben ventidue stelle cadenti! Ritornare in Italia non è stato per nulla facile. Guardo con occhi nuovi la mia ricchezza, le mille opportunità che mi offre il mio paese, con la consapevolezza di essere molto fortunato. E mi innervosisco sentendo gente che non sa far altro che lamentarsi dell’Italia. Il giorno stesso che sono tornato a casa sono scoppiato a piangere, perché avevo troppe emozioni accumulate, un senso d’ingiustizia troppo grande.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

7


Attualità

un garofano bianco anche per lea di Alessandra Venezia

I

l finale di una storia, solitamente, racchiude l’effetto sorpresa che ci spinge a rimanere in silenzio durante l’intera narrazione. Ma con le storie di mafia non funziona così. Spesso il finale già lo conosciamo. Il finale della storia corre ancora più veloce della storia stessa. La storia di Lea però dev’essere raccontata a partire dall’inizio. Fingiamo dunque di non conoscere il finale e srotoliamo, dall’inizio, il filo della vita di una giovane piccola donna: Lea Garofalo. Lea nasce nel 1974 a Petilia Policastro, in Calabria, e non ha certo un cognome qualsiasi. I Garofalo sono uno dei clan ‘ndranghetisti del paese. È il 7 maggio 1996 quando viene effettuato il blitz a Milano, in via Montello, e viene arrestato anche Floriano Garofalo, fratello di Lea. Lo stesso Floriano viene ammazzato nove anni dopo nei pressi di Petilia Policastro. È una guerra fra clan mafiosi. Una rarità, nella ‘Ndrangheta, dove tutti sono parenti di tutti. E non solo perché si definiscono “fratelli”, come i camorristi, ma perché sono davvero fratelli, zii, cognati e cugini. E anche qui, Floriano viene ucciso dal cognato di sua sorella, Giuseppe Cosco. È 8

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

proprio Lea a denunciare l’accaduto al pubblico ministero. Lea decide di collaborare e diventa una testimone di giustizia. Viene ammessa al programma di protezione già nel 2002, per poi esservi estromessa nel 2006. Si verifica il primo errore: Lea viene lasciata sola. Nel 2007 viene riammessa nel programma, al quale poi rinuncia nel 2009. Ancora una volta si tratta di una mancanza fisica dello Stato. Perché forse, se l’avessero costretta a rimanere nel programma di protezione, Lea ora sarebbe ancora viva. Nel maggio 2009 Carlo Cosco (ex compagno e padre della figlia Denise) organizza il rapimento di Lea a tavolino. Manda Massimo Sabatino nella casa a Campobasso dove vivono madre e figlia con l’ordine di rapire ed uccidere l’ex moglie ma fortunatamente le due donne riescono a fuggire. La denuncia ai carabinieri ha poco peso e il 24 novembre 2009 Lea, che si era recata a Milano per discutere di Denise con l’ex marito, viene rapita da un camioncino bianco nei pressi dell’arco della pace, in pieno giorno, sotto gli occhi di molti. Torturata e uccisa da Vito e Giuseppe Cosco, viene poi bruciata all’interno di un contenitore metallico, la sua cenere è

gettata in un tombino. La storia continua. Dopo due ordinanze di custodia cautelare per Carlo, Vito e Giuseppe Cosco, Massimo Sabatino, Rosario Curcio e Carmine Venturino, nel luglio del 2011 inizia il processo di primo grado. Si tratta di un processo travagliato, interrotto nel novembre 2011 e ripreso nel marzo seguente, quando i sei imputati vengono condannati all’ergastolo per sequestro, omicidio premeditato e dissolvimento in acido del cadavere. Infatti il corpo di Lea non è stato ritrovato e la prima ipotesi è che sia stato sciolto nell’acido. È solo attraverso la collaborazione di Carmine Venturino che il corpo di Lea viene trovato, carbonizzato, in Brianza. È il 6 novembre 2012. La sentenza di secondo grado arriva il 29 maggio 2013: confermati gli ergastoli per Carlo Cosco, Vito Cosco, Massimo Sabatino e Rosario Curcio, venticinque anni per Carmine Venturino e assoluzione per Giuseppe Cosco. Negli omicidi di mafia le date hanno una loro importanza. I giorni diventano fondamentali, perché contribuiscono a costruire la memoria. Più si hanno punti fissi, più la memoria è stabile. E per fare antimafia è obbligatorio avere una memoria il più stabile possibile, addirittura una memoria incancellabile. Per questo, un altro giorno che dev’essere ben scolpito nella nostra testa è il 19 ottobre 2013, il giorno dei funerali pubblici di Lea, richiesti dalla figlia Denise e celebrati a Milano, in presenza del sindaco e del presidente nazionale di Libera, Don Ciotti. Non bisogna dimenticare questo giorno perché è il segno di un impegno che Milano, la Lombardia e il Nord Italia si prendono. L’impegno a ricordare le vittime delle mafie e a riconoscere che la mafia al nord c’è, opera e succhia denaro e vite. E anche Denise c’è. E con lei non possiamo permetterci di sbagliare, non possiamo permetterci di lasciarla sola. Denise vive sotto scorta, ha poco più di vent’anni, è orfana di madre, ha un padre mafioso e tutta la vita davanti. E la storia continua.


malala day « Non mi importa se a scuola mi fanno sedere per terra.Tutto ciò che mi interessa è ricevere un’educazione. E non ho paura di nessuno. » di Alessia Tesio

U

n anno è ormai passato da quel nove ottobre, ma il mondo non ha dimenticato, non vuole dimenticare. Quel giorno una ragazza pakistana iniziò la sua lotta contro la morte in una corsa disperata contro il tempo. ‘Iniziò’ non è forse la parola più esatta da usare, poiché nel suo paese le ragazze rischiano la propria vita per tanti motivi, che rientrano spesso nella categoria delle violazioni dei diritti umani dell’ONU. Le ragazze muoiono per strada di parto, a soli quindic’anni, perché negli ospedali non ci sono condizioni sanitarie idonee, o perché spesso viene data la precedenza agli uomini. Un altro di questi diritti trascurati è l’istruzione femminile. Nelle zone tribali al confine con l’Afghanistan infatti, dal 2003 i talebani hanno distrutto centinaia di scuole, intimato alle ragazze di starsene a casa, hanno costretto le più coraggiose a rischiare la vita per andare a lezione, con i libri nascosti sotto lo scialle. Nei fatti, poco o nulla è cam-

biato; invece tutto deve cambiare. Ed era contro queste ingiustizie che Malala lottava, parlando con i giornalisti, denunciando sul suo blog gli orrori della sua vita e di quella delle sue coetanee, difendendo il diritto allo studio dei giovani del paese. Finché quel giorno d’autunno i talebani decisero di farla finita. Ne avevano abbastanza di quella ragazzina di soli quindici anni, che metteva in discussione i principi del loro integralismo. Così la seguirono, salirono sul suo pulmino che doveva riportarla a casa da scuola e le spararono un colpo alla testa, ferendo lei e una sua compagna. Il mondo però non stette a guardare ma reagì: venne trasportata nell’ospedale di Birmingham in Gran Bretagna, dove è stata seguita in lungo processo di guarigione. Decine di migliaia di persone firmarono una petizione per assegnarle il nobel per la pace. Pensarono di poterla fermare con quel colpo, ma è stata ella stessa a dire nel suo discorso all’ONU lo scorso luglio - che anziché timore e paura, da quel colpo sono nati coraggio, forza e

energia. Questo dieci novembre sarà il secondo ‘’Malala Day’’ osservato per ricordare gli sforzi internazionali per garantire l’istruzione a tutti e a tutte. Di questo giorno la ragazza, ormai sedicenne la pensa così: “Cari fratelli e sorelle, ricordiamo una cosa: il Malala Day non è il mio giorno. Oggi è il giorno di ogni donna, ogni ragazzo e ogni ragazza che hanno alzato la voce per i loro diritti.’’ Nel mondo ci sono ancora 61 milioni di bambini che non vanno a scuola, 32 dei quali femmine. Questo è dovuto in alcuni paesi al divario tra i sessi che si allarga al momento della pubertà: l’adolescenza è il momento in cui i maschi scoprono l’indipendenza e le femmine la perdono. Per gli uni il mondo si apre, per le altre si chiude. Si potrebbe dire anzi che per molte bambine l’adolescenza neppure esista: ieri bambina, oggi sposa e domani madre. Non ci resta quindi che sperare che le voci di ogni ragazzo e ragazza che urlano al mondo i loro diritti non si spengano mai e che siano ascoltate.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

9


cronache carducciane

canterbury tales di Francesca Petrella e Bianca Carnesale

W

elcome everybody! We are F&B, che per gli appassionati di Topolino potrebbe essere Filo&Brigitta, ma vi dico subito che non si tratta di quello. Infatti, siamo Fra&Bianca, due ragazze che hanno vissuto quest’anno l’ebbrezza di partecipare allo stage linguistico in Inghilterra, proposto dalla nostra scuola. Abbiamo avuto il grande onore di avere come accompagnatori la professoressa Alessandra Frigerio e…., rullo di tamburi, il prof. Giuseppe Russo: la prima, per chi non la conoscesse, è una prof d’inglese che ha sempre partecipato a questi stage, il secondo, la novità di quest’anno, è un valente insegnante di scienze che, parlando un ottimo inglese, ha saputo benissimo gestire la situazione oltre che imparare a giocare a bowling e a travestirsi da crocerossina (sono in vendita le foto al miglior offerente). Con loro abbiamo trascorso dieci giorni densi di emozioni, sia positive che negative, abbiamo imparato a collaborare gli uni con gli altri, a stringere amicizie con persone che ti accettano così come sei, siamo diventati un gruppo e per altri qualcosa di più, ma abbiamo anche imparato che, se non hai 18 anni, in Inghilterra non ti danno un solo goccio di alcolico: nemmeno la birra. Io, Francesca, l’ho sperimentato a mie spese. Accade che, nel giorno di venerdì 13, usciamo a cena, visto che le nostre famiglie ci lasciano affamati; alla pizzeria d’asporto Domino’s ordiniamo, ovviamente, delle pizze. Nel frattempo, io e un altro ragazzo del gruppo entriamo da Tesco, equivalente del Conad italiano, per comprare delle birre. Appena entrati, ci dirigiamo verso il reparto alcolici. Arrivati in cassa la signora chiede il documento al mio amico, maggiorenne, e dopo averlo visionato, si rivolge a me e chiedendomi la mia “ID card”. Io non ho con me il documento e, pensando che basti quello del ragazzo, spiego 10

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

alla cassiera che l’ho solo accompagnato e che le birre sono tutte per lui. A quel punto mi domanda l’età e le rispondo “quasi diciotto”. Imperturbabile mi informa che, anche se io sono con un maggiorenne, ma non ho la carta d’identità, non possiamo comprare le birre. Non ci resta nient’altro che andarcene. Usciamo e raggiungiamo gli altri. Ma la storia non finisce qui… La sera seguente ci si ritrova al “car park”, il nostro punto di incontro. La serata sta volgendo al termine e un nostro amico aspetta l’autobus per tornare a casa, ma lo perde. Chiama pertanto la sua mamma inglese, che arriva, lo fa salire in macchina e comincia a fissare me e i miei amici. Mi chiede di avvicinarmi, io non capisco e mi guardo intorno perplessa. Inizia a chiedermi quanti anni ho: le rispondo “quasi diciotto” mentre tra me e me mi domando cosa diavolo voglia questa signora. Ma è lei stessa che mi rivela l’arcano mistero. Mi chiede se sono io la ragazza ad aver tentato, il giorno prima, di comprare la birra senza documento e senza essere maggiorenne. Le rispondo affermativamente e a quel punto riconosco in lei la cassiera del Tesco. Così mi becco un’inglese che mi fa il terzo grado sul perché ho tentato di acquistare un’innocua birra. Bla bla bla, non importa se siamo in Italia o in Inghilterra c’è sempre qualcuno che fa la ramanzina. Come se non bastasse, due giorni dopo, prendiamo il pullman per andare in gita e chi vedo scendere da una macchina? Mi dicono che è la

“Director of Concorde International”, la nostra scuola, ma io vedo in lei solo la signora che tre giorni prima mi ha negato la birra e quello dopo mi ha fatto il terzo grado. Ecco come farsi riconoscere all’estero! Ma è anche vero che lì esistono luoghi che in Italia non ci sogniamo neanche. Sì, amici lettori, e soprattutto, amici di Cantabbari (forma italianizzata di Canterbury) che state leggendo questo articolo, sto parlando proprio di Poundland, il paese dei balocchi, il posto in cui i sogni diventano realtà: tutti i generi alimentari e altre sciocchezze a solo £1.00. Anche lì ci siamo fatti riconoscere come italiani all’estero e abbiamo arraffato tutto ciò che ci sembrava carino da comprare, cioè tutto il negozio. Il nostro è stato un atto di pura necessità primordiale: i packed lunch erano molto scarsi e avevamo spesso fame: Poundland era lo shop adatto alle nostre esigenze. Gli acquisti più frequenti sono stati, infatti, Twix, Mars, chips e caramelle, di quelle che, se mangiate tutti i giorni, rischiano di farti diventare obeso. Naturalmente, oltre a queste divertenti vicende, abbiamo anche studiato un po’ d’inglese, grazie alle memorabili lezioni dei nostri insegnanti John e Hendrick. Certo, l’Inghilterra è un paese stravagante: i nostri “genitori” inglesi erano convinti che un hamburger potesse sostituire la cena, oppure facevano abbinamenti improbabili come fagioli e ketchup. Paese che vai... usanza che trovi!


cultura la settimana della comunicazione di Martina Locatelli

S

i è aperto così questo primo mese autunnale, con la quarta edizione della “Settimana della Comunicazione”. Un evento che si ripete ogni anno, rivelandosi sempre interessante perché ricca fonte di informazioni e spunti per giovani e adulti. Dal 30 settembre al 6 ottobre Milano si è messa a disposizione dei suoi cittadini fornendo vari spazi, gestiti da Fondazione Milano e adibiti ad accogliere mostre, presentazioni, lezioni aperte, workshop, dibattiti e molti altri eventi, tutti gratuiti, inerenti al mondo della comunicazione nelle sue varie forme. Questa manifestazione culturale vuole essere un mezzo utile non solo alla formazione intellettuale e all’ampliamento della propria cultura nel campo della comunicazione, settore che muta e rimane uguale allo stesso tempo, ma vuol anche fornire a noi giovani strumenti concreti per le scelte lavorative future. A tal proposito la “Settimana della Comunicazione” è decollata favorendo studenti liceali e universitari, con un evento finalizzato all’orientamento sulle professioni tradizionali della comunicazione, quali marketing, pubblicità e graphic design. Dei complessivi 100 appuntamenti tenuti da professionisti del settore ricordo il workshop sul significato della traduzione nella quotidianità; un corso di approfondimento sul senso della

parole e sul loro significato, connesso all’interpretazione che ne dà l’uomo. Tale iniziativa, in collaborazione con varie accademie, scuole e aziende italiane, ha fornito anche l’opportunità di visitare redazioni di diverse copertine. Così spazi privati e comunali aprono ogni anno le porte a coloro che desiderano partecipare ad un’iniziativa creativa, diversa e poco pubblicizzata rispetto a numerosi altri eventi che, come la settimana della moda, attirano molto di più l’interesse dei media. Il clima che si respira partecipando agli incontri è confidenziale dal momento che vi è grande apertura al dialogo e al confronto. Allo stesso tempo, i temi trattati sono curati da chi fa della comunicazione il proprio mestiere, perciò è necessario che i partecipanti abbiano sufficienti competenze a riguardo. Il risultato è la scoperta dei significati più profondi che il termine comunicazione possiede, oltre a quello più immediato. Lo si fa partendo dal presupposto che indubbiamente si comunica con le parole, ma queste hanno diverse accezioni, possono essere intese in modi differenti a seconda dei vari significati, quindi la loro scelta nel comunicare,come nel tradurre, è una scelta coraggiosa.

siamo più legati, che rimangono fisse nella nostra mente e ci condizionano inconsciamente nella vita. Queste sono sommarie nozioni ricavate dai pensieri di filosofi quali Peirce e Kant, ma fanno riflettere sull’importanza del valore della comunicazione, su quanto non sia da sottovalutarne lo studio e l’approfondimento per capire i comportamenti della società. E come ci viene indicato dalla scelta della copertina di questo evento, le modalità dello scambio continuo di messaggi di cui sono artefici gli esseri umani ,“Gli animali comunicanti per eccellenza”, trovano le loro fondamenta nella comunicazione animalesca, nel recupero della vera natura dell’uomo. Come se il messaggio che noi meglio riusciamo a cogliere ed apprezzare sia quello che fa leva sugli istinti animali. Oltre ad essere un modo piacevole per trascorrere un pomeriggio insolito nell’atmosfera ancora mite e soleggiata dei primi di Ottobre, girando per luoghi che, poco frequentati nella quotidianità, possono essere riscoperti, è soprattutto l’occasione per cogliere al volo le opportunità di una Milano, che ogni anno, anche con questo evento, mostra che ha molto da offrire a chi ne sa approfittare.

E così secondo la teoria affettiva nella comunicazione e nella traduzione adoperiamo parole a cui

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

11


cultura

Pensieri di bose: Vita in un monastero di Beatrice Servadio

Q

uando sono arrivata il primo giorno non mi aspettavo nulla da quel posto per me sconosciuto e di cui mai mi sarei interessata, se mio padre non me ne avesse parlato. Appena giunta ho trovato un ambiente alquanto movimentato; la zona dell’accoglienza, della chiesa, era piena di persone in visita. Tanto era disteso, animato, persino familiare quel clima, che mai avrei detto che quello era un monastero. Mi accolsero un monaco e una monaca dall’aspetto divertito e simpatico. Essi si rivolsero a me con una semplicità, una naturalezza, un interesse genuino, tali che io subito (di questo me ne accorsi ripensandoci) mi sentii a casa. Ed è così che ha avuto inizio una delle esperienze, se non la esperienza, che più profondamente ha scosso, e spero segnato, la mia vita. Io forse dall’esterno non appaio diversa da quella che sono sempre stata, eppure sono consapevole ch’è in me il principio di un cambiamento, di un percorso. E sento davvero il bisogno di raccontare, di condividere con gli altri ciò che ha messo, per così dire, 12

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

in moto questo cambiamento. Ho vissuto nel Monastero di Bose tre settimane in tutto, partecipando a due campi-lavoro per giovani in giugno e luglio e, in agosto, alla cosiddetta settimana dei giovani: una settimana di incontri tenuti da un monaco e un filosofo sul tema “Crescere in Umanità”. L’esperienza del campo-lavoro mi ha davvero permesso di partecipare alla vita della comunità, condividendo sia il momento spirituale, la preghiera, sia il lavoro. La mattina mi alzavo alle cinque e mezza per la le lodi del mattino delle sei. Dopo la preghiera la colazione si faceva insieme agli altri ospiti (giovani che, come me partecipavano al campo, ma anche persone di tutt’altro genere, ch’erano li per un ritiro spirituale o per dei corsi biblici). Alle otto iniziava il lavoro. Nonostante molti siano i tipi di lavoro che i monaci svolgono, a livello professionale, erano principalmente tre gli ambiti in cui noi giovani eravamo chiamati ad aiutare: l’orto, il frutteto e il laboratorio in cui venivano lavorati i frutti per la produzione di marmellate e confetture. Tra le dodoci e le

dodici e mezza si finiva di lavorare per la preghiera di mezzogiorno; all’una si pranzava insieme con i monaci. Subito dopo questi tornavano al lavoro fino alle cinque o alle sei, mentre noi ospiti ne eravamo esentati. Per chi volesse alle cinque c’era un incontro su un qualche tema, oppure una lectio divina. Alle sei e mezzo, il vespro, la preghiera della sera, seguita dalla cena in comunità. Come vedete la vita è molto cadenzata, molto ordinata e asseconda i ritmi della natura. Forse, penserete,che monotonia! Anch’io lo pensavo, ma, vi assicuro, non è affatto così. Il silenzio, la pace, la bellezza della natura incontaminata, l’ordine: tutto ciò ci aiuta a pensare. Dapprima il silenzio ci spaventa e ci coglie impreparati: i pensieri ci assalgono in folla, caotici. Ma poi, a poco a poco, troviamo un ordine, un equilibrio. La nostra mente si libera di tutto ciò ch’è superfluo; tutti quei pensieri che sembravano così importanti scompaiono, naturalmente, e ci rivolgiamo a ciò ch’è di più profondo in noi: noi stessi, la nostra verità. E allora scopriamo che in realtà noi non ci conosciamo,


non sappiamo davvero chi siamo e perché siamo. Ci chiediamo: fino a questo momento della mia vita sono stata davvero io? Quante volte nella mia vita quotidiana mi sono fermata a pensare: chi sono? La nostra società, il mondo che l’uomo occidentale è arrivato a crearsi, il mondo in cui siamo nati e cresciuti, un mondo frenetico, dove sembra sempre mancare il tempo, in cui siamo sempre di corsa e pieni di affanni, non ci dà l’opportunità di fermarci a pensare, a indagare dentro di noi, a trovare noi stessi. Vedete, questo l’ho scoperto a Bose: perchè lì si è liberi di essere se stessi, paradossalmente liberi e costretti, inevitabilmente portati ad essere veri, a cercarci, a volerci cercare. Lì davvero si scopre che l’uomo è una creatura meravigliosa. Lì vedi l’uomo, la donna veri, l’uomo, la donna buoni. E stando lì con loro è più facile essere buoni: proprio perché sei portato ad essere te stesso davvero e sei circondato da persone che sono o ricercano se stessi e il vero, e quindi sei buono. E scopri che il vero te stesso è il te stesso buono. Che l’uomo dunque è intimamente buono; e che la cattiveria è

una maschera, è una menzogna, è un fuorviamento. Cattivo è l’uomo che non si è trovato, che non è arrivato a conoscersi. Ed è questo che tanto mi manca di Bose: il rinnovo quotidiano di questa ricerca del vero, del buono; il rinnovo della ricerca di se stessi, e dell’altro; la semplicità della vita, e quindi la sua essenzialità, la sua autenticità. Parlare con i fratelli e le sorelle e sentire che non ti giudicano, come con vera gioia e semplicità ti accolgono, lavorare, pregare con loro e sentire come sono profondamente autentici in tutto ciò che fanno. Sentirti davvero prossimo all’altro, sentirti vivo fino dentro nella tua essenza, e amato, ma soprattutto amare. Scoprire che la felicità sta nella semplicità della vita, e nella sua autenticità. E cosa di più semplici che essere se stessi? Eppure nel nostro complicato mondo questo è quanto mai difficile. Spesso le situazioni in cui ci troviamo, l’insicurezza, il giudizio degli altri, ci obbligano a indossare una maschera. Ma questo a cosa ci porta ? Alla falsità: falsi diventano i nostri rapporti con gli altri, e soprattutto falsi diventiamo noi. E il rischio più grande

è che indossiamo la maschera senza accorgercene e non ci prendiamo la briga di levarcela, e così il nostro se stesso si confonde con essa, e arriviamo a smarrire la nostra identità, o, meglio, a pensare che noi siamo la nostra maschera. Ebbene a Bose non c’è maschera che tenga: lì sei indotto a spogliarti di tutti gli schermi e i falsi tu che ti eri creato, e che magari anche l’esterno giudizio altrui aveva contribuito a creare, e rimane il tu autentico. E cosa scopriamo? Che questo tu autentico per tutto questo tempo l’abbiamo lascito da parte e solo rare volte lo abbiamo aiutato a crescere e a formarsi. Ecco a Bose ho cominciato questo percorso di ricerca, di me stessa, degli altri, di Dio, in me, negli altri. Parlo da cristiana, ma ho conosciuto a Bose giovani e adulti non credenti per i quali la permanenza in questo luogo ha avuto un forte impatto. E invero, io credo, tutti noi uomini, cristiani e non, tendiamo naturalmente alla ricerca del Vero, ch’è in noi stessi e nell’altro. In Dio cerchiamo la verità, in Dio cerchiamo l’uomo.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

13


INGLORIOUS REVIEWERS

I

n questa rubrica ci occuperemo tutto l’anno di cinema. Speriamo che in tanti vogliano dare suggerimenti su film nuovi o storici o semplicemente amati. Permettetemi un’osservazione personale. Nel 1994 usciva il film di Gianni Amelio Lamerica, sull’Albania che sognava l’Italia come riscatto dalla miseria. Nella scena finale i migranti scrutavano il mare su un barcone carico e fatiscente, cercando di vedere la loro “Lamerica”. E’ di questi giorni la notizia delle centinaia di morti a pochi chilometri dalle coste di Lampedusa, in un viaggio che ci si ostina a chiamare della speranza. Il mare è pieno di morti – hanno detto dalla capitaneria. A noi resta solo la vergogna, perché non si parta più con uno sguardo pieno di speranza e un animo carico di disperazione per andare incontro alla morte. - Bianca Carnesale

the bling ring di Bianca Carnesale e Alice de Kormotzij

T

ratto da una storia vera, girato negli USA nel 2013, Bling Ring è un film prodotto, scritto e diretto da Sofia Coppola, figlia del celebre regista Francis Ford Coppola, ambientato nei quartieri ricchi di Los Angeles. Con uno sguardo che non giudica, ma che induce a riflettere, la regista basandosi sull’articolo di Nancy Jo Sales, pubblicato nel 2010 su Vanity Fair “I sospetti indossavano Loiboutins”, racconta la storia paradossale di quattro ragazze e un ragazzo. Nicki, Sam, Marc, Chloe e Rebecca compiono numerosi furti nelle mega ville e nelle auto dei vip: sono ribattezzati dal Dipartimento di polizia di Los Angeles “i 14

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

Bling Ring”, gergalmente “brillante” o letteralmente “banda del ninnolo”. I ragazzi, ossessionati dalle celebrità, scoprono gli indirizzi delle star e i loro impegni tramite siti web. I vip rapinati non si accorgono neanche dei furti: Paris Hilton impiega quasi un anno a realizzare di essere stata derubata, dopo aver subito ben otto visite. La smisurata ricchezza delle vittime le porta a non far neppure caso a ciò che possiedono, tanto da lasciare le chiavi di casa sotto lo zerbino, le macchine aperte e non ricorrere ad alcun sistema di allarme. Tali situazioni sono parse irreali alla critica e al pubblico, ma si sono realmente verificate, a dimostrazione che per questi vip gli oggetti posseduti sono solo il segno ostentato di fama e di ricchezza. Le foto pubblicate sui social network, ricorrenti quanto le lunghe sequenze di oggetti firmati, mostrano quanto sia importante l’apparenza per i protagonisti che desiderano omologarsi al mondo mostratogli dai media. Del tutto inconsci delle proprie azioni e della vacuità dei miti da loro inseguiti, ai ragazzi non basta vedere come vivono i vip:

vogliono essere come loro. Dopo l’arresto i ragazzi si accusano a vicenda. Nicki, interpretata da Emma Watson, che affianca attori esordienti e sconosciuti, diventa famosa proprio per aver partecipato ai furti, tanto da dichiarare di potere “magari un giorno diventare presidente.” Colpisce poi una frase di Marc: “L’America ha un fascino perverso per le storie alla Bonnie e Clyde”: ma qui si ruba per noia e non per ribellione e si finisce sui network e non morti ammazzati. Le inquadrature sono veloci, accompagnate da un’efficace colonna sonora, frammentate dai post su facebook e da brevi pezzi di interviste e interrogatori, che inizialmente risultano difficili da comprendere, ma che aiutano a cogliere il finale della vicenda. Gli adulti non compaiono quasi mai, ma quando ci sono rappresentano un pessimo esempio per i ragazzi e si comprende la loro superficialità, la loro assenza di ambizioni, quasi fossero privi di un’anima, eppure pericolosi come una pistola senza sicura, proprio come quella che trovano in casa di una star. Sono burattini nelle mani di un burattinaio, che ha costruito un mondo finto in cui a prevalere è solo il vuoto dell’apparenza, purché firmata. Noi questo vorremmo sottolineare: non siamo tutti così, non siamo tutti vittime di questo sistema, molti di noi del gossip, delle firme, delle notizie sulle star non sa che farsene. Che il film irriti tanto la critica, forse dipende anche da questo, da un senso di fallimento di chi vede, e non vuol credere, di non aver saputo fermare questa discesa verso un grande reality. Guardatelo questo film, e pensate che è realtà: non la nostra, non la vostra, ma di tanti, forse di troppi.


Frankenstein Junior

di Francesca Petrella

T

utto inizia in una fredda giornata, tra tuoni e saette, in uno spazio desolato e sullo sfondo una natura fatiscente. Tranquilli, non sto parlando del primo giorno di scuola, non voglio terrorizzarvi, anzi, vorrei introdurvi nella stuzzicante e affascinante atmosfera di “Frankenstein junior”, un film che ci ha fatto, ci fa e ci farà sempre sbellicare dalle risate. È una versione riadattata del romanzo di Mary Shelley, “Frankenstein”. La regia è di un inedito Mel Brooks che da abile Mangiafuoco ha saputo manovrare come marionette gli attori Gene Wilder e Marty Feldman in questo film comico-parodico. Siamo nell’America degli anni trenta: un giovane professore universitario, interpretato da Gene Wilder, sta tenendo una lezione ai suoi allievi, quando giunge un uomo con una lettera che desta la sua curiosità. A lezione terminata, i due vengono a colloquio e qui si chiariscono gli interrogativi dello spettatore: il professore è nientemeno che il nipote del tristemente famoso barone Victor von Frankenstein, mentre l’uomo della lettera è un notaio che gli comunica il testamento di suo nonno. Il buon

Frederick ha infatti ereditato il castello di famiglia in Romania e da qui il destino del nostro uomo è segnato. Arrivato in Romania, il protagonista conosce l’affascinante assistente Inga, interpretata da Teri Garr, e gli altri abitanti del castello, come Frau Blucher, impersonata da Cloris Leachman, il cui nome, ogniqualvolta viene pronunciato, fa scaturire nel film un nitrito di cavalli, e come l’esilarante personaggio che tutti noi conosciamo come Aigor, interpretato da Marty Feldman. La storia narra di come Frederick trova gli appunti di suo nonno e decide di seguire le sue orme, dando così vita alla Creatura, un essere nato dal corpo di un morto e dal cervello di un pazzo. Alla fine il frutto delle ricerche e degli esperimenti del dottor Frankenstin - così si fa chiamare Frederick - è una Creatura socialmente pericolosa e mentalmente instabile; appena la popolazione lo scopre cerca di reprimere l’esperimento del dottore. Ma ecco il colpo di scena: il dottor Frankenstin cede il suo cervello alla Creatura, che diventa così un essere intelligente, mentre Frederick,

che sembra morto, poi si riprende. Il finale non può essere che lieto: Frankenstein sposa la fedele assistente Inga e contemporaneamente assistiamo alle nozze della Creatura, ormai parte integrante della società, con la ex fidanzata del dottore, Elizabeth, interpretata da Madeleine Kahn. Sembra quasi una delle favole Disney, ma questa volta in compagnia delle principesse c’è una sorta di orco buono: la Creatura. Ma non dimentichiamo il buon vecchio Aigor, che sforna battute esilaranti nel corso di tutto il film: celeberrima quella in cui il dr Frankenstin nota la gobba sulla schiena del suo assistente: “Sa, sono un chirurgo di una certa fama. Magari potrei fare qualcosa, qualcosa… per la sua gobba”. Aigor lo guarda come stralunato e risponde: “Gobba, quale gobba?”. Scene comiche a non finire, con allusioni e fraintendimenti. Il film ha una sua morale: a volte la diversità non deve essere percepita come un difetto, ma può diventare un pregio. E’ una storia che vi tiene incollati allo schermo: 106 minuti di risate che ve la renderanno indimenticabile!

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

15


INGLORIOUS REVIEWERS

re della terra selvaggia di Cleo Bissong

H

ushpuppy ha sei anni e vive in una roulotte situata in una palude nel sud del Louisiana che si chiama Bathtub (la grande vasca), località dove si verificano spesso cicloni e inondazioni. Ma la bambina affronta queste avversità in una maniera diversa da come le vediamo noi. Quelle che per noi sarebbero catastrofi naturali difficile da affrontare, per la bambina sono avvenimenti della vita di tutti i giorni, contro i quali se non si combatte, semplicemente si soccombe. Naturalmente non è da sola, ha un padre che prova per lei un affetto smisurato, ma che sa essere anche rude e distaccato, tanto da vivere lontano dalla figlia. Più avanti nel film quando lui si ammalerà gravemente e verrà ricoverato in un ospedale lontano da lei, si comprende che il suo fare brusco e poco amorevole è mirato a temprare l’animo della figlia in un ambiente così complicato. Hanno una parte fondamentale nel film gli Aurochs, creature preistoriche che nella mente di Hushpuppy la perseguitano, ma nei confronti dei quali lei non deve mostrarsi debole perché altrimenti verrebbe uccisa. Il messaggio principale che il film cerca di comunicarci è la maniera in cui gli abitanti della Bathtub vivono, coraggiosamente e con gioia pur sa16

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

pendo di abitare in una zona del pianeta destinata ad essere distrutta in poco tempo. Quella degli Aurochs è una metafora nella quale le creature rappresentano la natura, qualcosa di enorme che può schiacciare l’uomo senza difficoltà, ma con la quale è possibile una conciliazione. Nel finale Hushpuppy dovrà scegliere se stare con la natura o contro di essa. La realizzazione del film è stata molto particolare, a partire della scelta del cast. Nessuno degli attori scelti è un professionista, e molti di coloro che si erano presentati incuriositi alle audizioni provenivano da New Orleans o da zone del bayou (zone come quelle abitate dalla protagonista del film). Ad esempio Hushpuppy (interpretata da Quvenzhané Wallis), è stata scelta dopo un lungo casting durato nove mesi tra quattromila concorrenti, non solo per le sue naturali doti recitative e per il suo fare professionale, ma anche per la somiglianza caratteriale con il personaggio che doveva interpretare. Stesso discorso per l’uomo che avrebbe interpretato suo padre (Dwight Henry), il quale gestiva la panetteria di fronte alla scuola dove si tenevano le audizioni e che, pur non avendo particolari doti recitative, aveva colpito i produttori per le straordinarie storie che raccon-

tava riguardo a New Orleans in seguito all’uragano Katrina. Così il giovane regista esordiente Benh Zeitlin ha scelto gli attori che avrebbero avuto delle parti rilevanti, cercando quelli che riproducevano meglio lo spirito dei personaggi. Zeitlin ha tratto l’idea di produrre questo film da un romanzo scritto da una sua amica d’infanzia, la scrittrice Lucy Alibar, da cui è tratto il filo principale della trama. La realizzazione stessa del film ha contribuito ad arricchire la trama, a causa di tutte le fatiche e imprevisti che si sono verificati di continuo durante le riprese, come il clima umido, l’infortunio di un attore, la perdita della voce dell’altro, o ancora l’esplosione di un attrezzo al momento sbagliato. Produzione inoltre fatta con un budget molto limitato, fattore che contribuisce a definire questo film un “miracolo cinematografico.” Infatti, “Re delle terre selvagge” senza cast stellari o budget vertiginosi è arrivato a candidarsi a ben quattro nomination agli oscar: miglior film, regia, sceneggiatura, e migliore attrice protagonista.


l’addio del maestro

Dopo quarant’anni di carriera artistica e undici film il regista giapponese abbandona il cinema. I suoi capolavori hanno raccontato la guerra, l’infanzia, il dolore. Ma guai a chiamarli ‘cartoni’. di Beatrice Penzo

E

sistono molte forme d’arte. A partire da quelle più antiche, come la pittura o la musica, fino ad arrivare alle più recenti, come la fotografia o il cinema. Il concetto di arte non è fisso, è mutato nel corso della storia, e non sempre tutti sono stati d’accordo su cosa davvero si potesse definire “arte”. Per i greci l’astronomia e la storia erano impersonate da due muse, mentre oggi le definiamo discipline tutt’altro che artistiche. Anche diverse branche della stessa materia possono essere considerate o no come forme d’arte. Il cinema, ad esempio. Parte della cinematografia nata per intrattenere i bambini spesso è considerata solo animazione, con pochissime eccezioni. Una di queste è quella rappresentata dal grande regista Hayao Miyazaki. Un’eccezione, perché i suoi lavori sono stati in più occasioni considerati veri e propri capolavori artistici. Sarà per le riflessioni a cui inducono i suoi film, sarà per gli ideali, le tematiche ricorrenti presenti nei lungometraggi, la poesia, contenuta nei dialoghi e nelle immagini: una cosa è certa, i suoi non possono essere banalmente defini-

ti “cartoni animati per bambini”. La ragione sta forse nel fatto che non sempre la fantasia del regista, così simile a quella di un bambino, è tranquilla e spensierata, e spesso spaventa chi è ancora molto sensibile alla forza delle immagini. D’altronde, chi non si è inquietato vedendo, ne “La città incantata” i genitori di Chihiro trasformarsi in maiali? Ma sta anche nel fatto che definirli solo cartoni li escluderebbe dal mondo degli adulti, cui invece sono destinati molti messaggi contenuti nei film. Il maestro Miyazaki inserisce spesso alcuni temi ricorrenti nei lungometraggi. Ad esempio il suo odio per la guerra è sempre ribadito, nelle sue varie forme: ne “Il castello errante di Howl” si parla della guerra tra uomini, ne “La principessa Mononoke“ di quella tra uomo e natura. È presente anche in “Nausicaä della valle del vento“, in “Porco Rosso” e in altri. Un altro tema ricorrente è quello del volo. Hayao Miyazaki vi è stato a contatto sin da piccolo, poiché il padre possedeva una fabbrica di componenti per aerei. L’argomento, infatti, è affrontato in tutte le sue forme: a par-

tire dai voli di fantasia, a cui siamo abituati sin da bambini, fino all’azione vera e propria del volare, con un velivolo o con il solo ausilio della magia. Attorno a questa tematica ha ricamato due suoi film. Il primo è “Porco Rosso“, in cui si narra delle avventure di un maiale (divenuto tale a causa di un sortilegio non meglio specificato) che vaga per i cieli tra la prima e la seconda guerra mondiale. Il secondo è “Si alza il vento”, che racconta la vita di Jiro Hirikoshi, progettista dei temutissimi Mitsubishi AM6 Zero, impiegati per l’attacco di Pearl Harbor durante la Seconda Guerra Mondiale. È proprio con quest’ultimo film, presentato al festival di Venezia, in cui tutta la poesia e la fantasia di Jiro e Miyazaki sono simboleggiate dal volo, che il grande regista annuncia il suo ritiro dal mondo del cinema. È stato un duro colpo per tutti i suoi fan, che presenti al festival hanno udito le parole di Miyazaki attraverso Koji Hoshino, presidente dello studio Ghibli. E così, come sempre sulle note di Joe Hisaishi, sfuma dallo schermo anche l’ultimo capolavoro, in un turbinio di ali, speranza e fantasia.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

17


arte

cantaMI LA NOstra città, o Musa... di Martina Brandi “Seduto in riva al mare/sotto le stelle paterne/io sono triste pensando/alla lontana gioventù/alla perduta gioventù/lassù a Milano. Tanti anni sono passati/ i volti i nomi le immagini/ sono appassiti ormai/ ma batte il cuore se torna/ il ricordo di tutti più caro/ la Galleria. Là sotto la gelida cupola/ in una notte di Novembre/mentre giravo felice/con le stanche speranze e basta,/mi ricordo all’improvviso/ho incontrato la vera Milano.” (da “Galleria” di Dino Buzzati)

N

on potevo davvero sperare in nulla di meglio di questi versi del grande Dino Buzzati per inaugurare la rubrica su Milano che quest’anno occuperà il suo angolino all’interno dell’Oblò. L’idea è nata casualmente, una sera, quando insieme ad alcuni amici ci siamo ritrovati sotto l’immenso portale del Duomo per iniziare un’escursione notturna alla scoperta di Milano. Volevamo passeggiare attraverso i suoi vicoli più nascosti e suggestivi, fra i suoi antichi e lussuosissimi palazzi, che ogni giorno sfuggono al nostro occhio stanco e disattento, offuscato dalla nostra proverbiale fretta! Ed è un peccato, ve lo assicuro. Perché non appena ci si sofferma un attimo ad osservare, ecco comparire scorci meravigliosi, particolari mai visti, fregi, cornicioni, cariatidi, giardini, chiese, colori, luci, simmetrie che non avremmo nemmeno osato immaginare e che dopotut-

18

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

to, dopo tutti i casermoni di cemento e il traffico delirante, sembrano restituire un sorriso fresco alla burbera e indifferente città; sono quegli elementi che le regalano una passionale atmosfera e che colorano un po’ del suo eterno grigiume. Basta riposarvi gli occhi sopra. E allora anche la coltre di nebbia diventa d’un tratto vivibile. D’altra parte, Milano io non riesco a immaginarla in altro modo: umida e fumosa, popolata da un turbinio di persone che corrono, urtandosi, da una parte all’altra, rumorosa e vociante, vivace, trafficata, scalpitante, illuminata dal bagliore delle luccicanti vetrine, dai bar, dai caffè. Non è una città di quiete, eppure la sua frenesia è bella, è vibrante e carica di energia. Da qui, il passo al caos totale è breve, ma proprio per questo è importante imparare a vivere in sintonia con la città, scoprirla nei suoi piccoli sprazzi di grande bellezza: per capire che, in sé, non è un mostro, bensì un luogo per il quale da anni transitano personaggi sommi, un cuore pulsante nella storia. Ecco dunque che subentra il mio proposito: di volta in volta vorrei raccontarvi due, tre, quattro luoghi più o meno ignoti di Milano e tuttavia meravigliosi, sperando di indurvi a recarvici di persona per rimanere anche voi almeno piacevolmente sorpresi...o, con un po’ di sensibilità, letteralmente incantati. In aggiunta selezionerò, tra le numerose composte, una poesia dedicata a Milano, città che incantò i poeti di altre generazioni.

Villa Reale - A voi nèpioi che pensate si tratti di Palazzo Reale dirò subito che non è così. Villa Reale, infatti, si affaccia su Via Palestro e guarda sul lato meridionale dei Giardini di P.ta Venezia, ragion per cui, forse, è così “snobbata” dai più. Oggi la Villa è sede della ricchissima Galleria d’Arte Moderna, ma attenzione a non confonderla con il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea), ospitato nel più moderno edificio sorto accanto alla Villa. Costruita tra il 1790 e il 1793 su richiesta del conte Ludovico di Belgiojoso (da qui anche il nome di Villa Belgiojoso), opera dell’architetto Lepold Pollack, allievo del celebre Piermarini, l’edificio codifica perfettamente lo stile neoclassico assai in voga a fine ‘700. La facciata frontale ci appare sobria ma elegante ed è la facciata posteriore a riservarci la sorpresa più grande. Penetrando all’interno dei Giardini della Villa, infatti, il cui ingresso è situato appena sulla sinistra rispetto alla facciata, ci si trova sul retro dell’edificio, assai sontuoso e riccamente decorato con statue, bassorilievi, semicolonne. La bellezza della facciata nel suo insieme è mozzafiato, soprattutto se, bianchissima, si staglia contro l’azzurro di un cielo estivo (ormai lontano...). Interessante, poi, è prestare attenzione ai bassorilievi che decorano i timpani degli avancorpi laterali, quello di destra rappresentante il Carro di Apollo, quello di sinistra il Carro di Diana; più piccole, corrono lungo tutta la facciata raffigurazioni tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. Incantata è anche l’atmosfera dell’intero giardino, progettato dallo stesso Pollack per la prima volta su modello dei giardini inglesi: le piante crescono rigogliose qua e là seguendo in apparenza il loro corso naturale; un piccolo ruscello ricco di fauna scorre placido fra i prati e le alture e i ponticelli che lo sormontano conducono alle panchine più appartate; i vialetti si intrecciano lungo le rive fino a giungere al piccolo tempietto o alle finte rovine che furono collocate nel giardino, dove ancora sono leggibili due incisioni tratte dal X e dal VI libro dell’Eneide. Il giardino, nel complesso, costituisce una vera e propria oasi di pace, dove i suoni della città scompaiono d’incanto e si può trovare un dolce, e un po’ malinconico,


momento di raccoglimento in se stessi. Silenziosi e meditativi, si ergono in un angolo del parco anche i Sette Savi di Fausto Melotti, le bianche statue che lo scultore lasciò in dono, oggi di proprietà del Museo del Novecento. Ma la Villa è meravigliosa all’esterno tanto quanto all’interno. Per accedervi è necessario tornare sul davanti e attraversare il portone principale d’ingresso; esso costituisce anche l’ingresso alla Galleria d’Arte, che è possibile visitare, incredibile dictu, gratuitamente. Si dirama, così, fra le sale della Villa, ancora ornate da sfarzosissimi specchi e lampadari, pareti color pastello e parquet a intarsio, una vastissima collezione di quadri e statue dal valore incommensurabile. Per citarne solo alcuni, lì si trovano la celeberrima “Ebe” di Canova, la suggestiva “Maternità” di Segantini, il “Ritratto di Alessandro Manzoni” di Hayez, “Paolo e Francesca” di Putti-

nati, i primi Van Gogh ed altri ancora. Solo in questo luogo incantevole si potrebbe trascorrere un’intera giornata, senza accorgersi dello scorrere delle ore fra le meraviglie di opere d’arte senza tempo. Santa Maria presso San Satiro - Ci sarete passati davanti almeno almeno un centinaio di volte senza notarla, e su questo non ci sono dubbi! Incastonata fra il Foot Locker e un altro insignificantissimo negozio di via Torino, al civico 15/17, esiste da più di cinque secoli la piccola chiesa di S. Maria. Costruita fra il 1476 e il 1482 per custodire un’immagine della Vergine divenuta icona miracolosa per aver sanguinato -si dice- sotto i colpi di pugnale di un vandalo, la chiesa divenne subito meta di pellegrinaggio per molti fedeli, e tale è rimasta tutt’ora. L’affresco in questione, custodito all’interno della chiesa, costituisce oggi la pala dell’altare maggiore.

Ma l’attrattiva a mio avviso principale è costituita dal coro della chiesa, realizzato da Donato Bramante, principale architetto di S. Maria. La genialità dello stratagemma con cui Bramante realizzò il coro, infatti, mette chiaramente in luce l’eccezionale padronanza dell’arte prospettica e architettonica da parte dell’artista. Entrando dall’ingresso principale si ha la normale impressione di trovarsi all’interno di una chiesa a “croce latina”: davanti a sé si può vedere l’altare, seguito dalla concavità dell’abside destinata al coro. Avanzando sino a giungere al punto d’incrocio fra il transetto e la navata principale, sovrastato dalla bellissima cupola cassettonata in oro e azzurro, ci si accorge però dell’inganno, dell’incredibile illusione prospettica! Il coro, infatti, che sembrava per l’appunto proseguire in profondità per qualche metro alle spalle dell’altare, fu in realtà realizzato in una concavità della parete profonda appena 97 cm: la chiesa infatti è priva di abside e proprio per ovviare a questo inconveniente Bramante dipinse una finta abside prospettica fino ad ottenere l’effetto di un reale sfondamento della parete. Sarà inevitabile girarvi attorno per osservare l’opera da ogni angolatura, increduli di ciò che (non) vedono i nostri occhi!

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

19


arte

volontariato culturale a milano di Chiara Conselvan

T

utto è cominciato l’anno scorso, quando ho seguito un corso di arte contemporanea organizzato dalla Feltrinelli. No, aspetta, forse è iniziato quando, in quarta ginnasio, siamo andati a vedere la mostra di Roy Lichtenstein con la classe. Non mi è chiaro quando, né come, ma un giorno ho cominciato a interessarmi all’Arte più del giorno prima, e il giorno dopo ancora un po’ di più. Quest’estate a Londra mi sono sorpresa ad aggirarmi non solo per i grandi e famosi musei quali la National Gallery e il British, ma nelle piccole sale di quelle case museo, solitamente molto pittoresche, dei protagonisti indiscussi della letteratura inglese. Luoghi graziosi, che fanno rivivere il clima suggestivo dei nostri amati romanzi. Non solo, mi sono ritrovata anche in grandi sale completamente affrescate che costituivano le mense 20

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

di storiche caserme militari. Ma chi si è mostrato disponibile per un chiarimento sulla vita del proprietario di casa? Chi ha risposto alle mie domande sui protagonisti dell’affresco? Volontari. Questa parola, che da sempre accostiamo al sostegno dei malati, alla sensibilizzazione sui temi sociali e ai servizi medici di pronto soccorso, si può finalmente impiegare senza timore anche in riferimento alla cura del Patrimonio Culturale. Ed eccoci in Italia, Paese con la ricchezza culturale più invidiata al mondo, in cui queste iniziative esistono e, a dispetto dei pessimisti cronici, stanno riscuotendo un successo superiore rispetto alle previsioni. Il Touring Club Italiano ha consolidato questo tipo di volontariato ormai da cinque anni con un’iniziativa chiamata Aperti per voi, partita proprio da Milano e diffusa attualmente in diciassette città con più di quaranta siti. Questo progetto of-

fre la possibilità di tenere “aperti” alcune chiese, case museo, gallerie, che altrimenti non avrebbero modo di esporre i propri tesori al grande pubblico. A Milano questi luoghi sono dodici, se si escludono le prossime aperture della Fabbrica del Duomo e del suo Archivio Storico, e impiegano più di cinquecento volontari. Io, come molti altri, mi sono fatta coinvolgere in prima persona in un percorso che ovviamente comincia con una fase di formazione del volontario, che deve essere in grado di rispondere alle domande dei turisti. I luoghi si trovano quasi tutti all’interno della cerchia dei bastioni, tra Missori, Cordusio e Duomo. Tra questi uno dei più visitati è la Chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore in corso Magenta, definita da Sgarbi “la cappella Sistina di Milano”: una costruzione del ‘500 divisa originariamente in due zone, l’una riservata ai fedeli e l’altra alle monache,


che ospita assai spesso concerti grazie al grande organo di cui dispone. Una facciata molto più spoglia ci accoglie, invece, vicino all’Università Statale: si tratta della chiesa di Sant’Antonio Abate dentro alla quale riconosciamo lo stile tipico del periodo barocco milanese; anche qui abbiamo il piacere di riconoscere un organo che la leggenda narra essere stato suonato da Mozart bambino. Spostandoci verso via Torino troviamo lo Studio Francesco Messina, ricostruito dalle fondamenta di un’antica chiesa. Fuori dai bastioni, in zona Lima, la Casa Museo Boschi Di Stefano, dimora storica donata al Comune di Milano negli anni ’70, contiene una ricca collezione di arte contemporanea. Non mancano le vere e proprie gallerie d’arte, come la Collezione Grassi, che i volontari tengono aperta nel suo ultimo piano. Poi la Cripta di San Giovanni in Conca: originariamente una basilica

di epoca paleocristiana di cui rimane solamente un abside e la cui cripta è stata in seguito destinata dai Visconti alle sepolture nobiliari. Il Parco dell’Anfiteatro Romano e l’ “Antiquarium” Alda Levi sono tra i luoghi più antichi, risalenti al II-III secolo, costruiti su vie di comunicazione molto sfruttate e intitolati all’ archeologa che ha guidato i primi scavi negli anni ‘30 del Novecento. Lungo via San Vittore vediamo, invece, i Resti del Mausoleo Imperiale di San Vittore al Corpo, che, nato come luogo di sepoltura, è diventato una cappella, distrutta nel XVI secolo. Lungo il Corso di Porta Romana troviamo poi l’Area Archeologica dei Santi Apostoli e San Nazaro Maggiore, una basilica fondata da Ambrogio proprio lungo la principale via d’accesso alla città. Tornando in via Torino si riconosce la Basilica di Santa Maria presso San Satiro, il cui primo edificio nasce come dono per

il fratello di Ambrogio, San Satiro, ricostruito in seguito per conservare un’icona miracolosa. Di essa è famoso il coro prospettico del Bramante, artista che è riuscito, nonostante il problema della mancanza di spazio, a dare armonia e monumentalità all’interno della chiesa. C’è inoltre la Cripta della Beata Vergine Annunciata nell’Ospedale Maggiore, luogo di prima sepoltura dei caduti delle Cinque Giornate di Milano. In ultimo Palazzo Litta, in corso Magenta, fino a pochi anni fa sede delle Ferrovie dello Stato, è ora aperto al pubblico solo per eventi specifici. I luoghi sono molti e li consiglio a tutti: a chi è curioso per natura, a chi è appassionato di arte figurativa o di architettura, ma anche a chi desidera conoscere qualcosa di più riguardo della storia artistica, politica e culturale di Milano.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

21


arte

pollock e gli irascibili di Sofia Franchini

«

Quando sono “dentro” i miei quadri, non sono pienamente consapevole di quello che sto facendo. Solo dopo un momento di “presa di coscienza” mi rendo conto di quello che ho realizzato. Non ho paura di fare cambiamenti, di rovinare l’immagine e così via, perché il dipinto vive di vita propria. Io cerco di farla uscire. È solo quando mi capita di perdere il contatto con il dipinto

22

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

che il risultato è confuso e scadente. Altrimenti c’è una pura armonia, un semplice scambio di dare ed avere e il quadro riesce bene. » Se a prima vista si dovesse descrivere uno dei quadri di Pollock sono sicura che l’aggettivo non sarebbe di sicuro “armonioso”. Schizzi di vernice, linee frammentate, colori casuali e occasionalmente sabbia, frammenti di vetro, bottoni, tutti accostati in modo confusionale su una tela di dimensioni enormi. È questo lo straordinario stile del celebre pittore che rivoluzionò l’arte degli anni ’50 dando vita a quel movimento poi chiamato “Action Pa i n t i n g ” . Infatti, semplicemente osservando il dipinto, si possono ricostruire i movimenti dell’artista, i suoi stati

d’animo, le emozioni che cerca di trasmettere allo spettatore. Il carattere scontroso di quasi tutti gli artisti di questa corrente è chiaramente visibile dalle linee intricate che si avvolgono sulla tela. Non a caso si chiamano irascibili: il nome è un appellativo dispregiativo datogli in seguito alla loro protesta contro il Metropolitan Museum di New York. A seguito della loro esclusione da una un’importante mostra di pittori nascenti organizzata dal museo, gli irascibili – ovviamente risentiti ̶ prima scrissero una lettera al direttore del museo, poi si vestirono da banchieri e, per protesta, si fecero fotografare come degli impiegati appena usciti dall’ufficio. Ma come iniziò Jackson Pollock a dipingere? Sappiamo che tutti gli irascibili si ispirarono molto a Pablo Picasso, il famosissimo pittore cubista: Pollock in modo particolare rimase tanto colpito dal dipinto “Guernica” ̶ in cui Picasso raffigura un episodio della guerra civile spagnola ̶ che i suoi primi dipinti finirono per esserne in un moo o nell’altro delle imitazioni. Ricalcò anche l’arte dei muralisti messicani, che gli lasciarono in eredità la passione per le grandi dimensioni, e dei nativi americani, da cui imparò una speciale tecnica di pittura con la sabbia: la “Sand Painting”. Solo più tardi maturò il suo stile unico. Dipingeva nel fienile dietro


casa, che aveva trasformato in studio. Aveva infatti bisogno di spazio per le sue tele non riposte sul cavalletto, dato che preferiva dipingere per terra per facilitare il “dripping”: la sua tecnica esclusiva. Consisteva nel camminare intorno alla tela con un pezzo di legno in una mano e un barattolo di vernice nell’altra, facendo colare, sgocciolare e schizzare il colore. Non amava il pennello, quindi si serviva di spatole, cazzuole e coltelli. La mostra di Palazzo Reale non è dedicata esclusivamente a Pollock. Vi troviamo Mark Tobey, con il suo tratto finissimo e preciso, completamente diverso da quello di Pollock, ma ugualmente privo di riferimenti a figure riconoscibili: i suoi dipinti sono infatti composti da sottili trame di colori che si intrecciano e costruiscono un delicato disegno. E ancora Franz Kline, che dipinge spesse fasce nere su sfondi bianchi. Era inizialmente un disegnatore di architetture contemporanee, fino a

quando un suo conoscente, il pittore Willem De Kooning gli fece notare che ingrandendo un disegno geometrico, ad esempio una sedia, ne risultava un quadro che non rappresentava più la sedia in sé ma qualcosa di più misterioso e intrigante. Kline stesso diceva: “ A volte la gente pensa che io prenda una tela bianca e che ci dipinga sopra un segno nero, ma non è vero. Dipingo il bianco cosi come dipingo il nero, e il bianco è altrettanto importante.” Un altro artista è William Bazotes, che si ispira alle poesie di Baudelaire e dipinge figure più simili alla realtà rispetto a quelle dei suoi colleghi. Morris Louis, invece, fece parte della “Colorfield Painting”: un altro movimento di quegli anni che consisteva nel dipingere grandi campi di colore molto diluito senza alcun senso raffigurativo facendo scorrere il colore sulla tela. Morì giovanissimo, ucciso da un cancro ai polmoni causato da un tipo di pittura acrilica che era solito usare.

Il massimo esponente della “Colorfield Painting” fu probabilmente Mark Rothko, il quale riempiva intere tele di colori puri accostati: abbaglianti rettangoli di colore che sembrano avanzare o arretrare rispetto all’osservatore, a seconda dei contrasti. L’allestimento annovera numerose sale, con non più di sei dipinti ciascuna in modo da permettere al visitatore di concentrarsi su pochi dettagli. C’è anche la possibilità di confrontare i vari periodi di uno stesso artista e l’evoluzione del suo stile nel tempo grazie a quadri esposti vicini. La mostra è inoltre arricchita di alcuni filmati in cui si possono ammirare le varie tecniche di pittura e confrontare le tendenze musicali, letterarie e artistiche degli anni ’50. Una mostra interessantissima, che permette di comprendere le idee di questi pittori un po’ stravaganti e imparare a non guardare un quadro dicendo: “Potevo farlo anche io!”

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

23


musica audio philes

“ Every day the dreamers die to see what’s on the other side ” (U2, In God’s Country) Paul Simon – Concert in the Park (Warner Music, 1991)

U2 – The Joshua Three (Island Record, 1987)

di Edo Mazzi

di Andrea Sarassi

L

e canzoni eseguite durante lo storico concerto di Paul Simon –famoso cantautore statunitensenel Central Park di New York, il 15 agosto 1991, sono state racchiuse in quest’album. I brani eseguiti, costituiti dai molti successi del cantante, sono stati distribuiti su due dischi, dai quali emerge tutta l’adrenalina e la vitalità di un live ( essendo perfettamente udibili le urla, gli applausi e l’entusiasmo del pubblico presente). “The Obvious Child”, con le esotiche percussioni eseguite dagli OLODUM(Grupo Cultural), apre le danze del concerto, seguita da una splendida versione di “the Boy and the Bubble”. L’abilità di cantante di Simon si evince da subito in“Kodachrome®”, nel favoloso assolo vocale. In questo concerto, inoltre, Paul Simon, con una splendida interpretazione, si riappropria della paternità di “Bridge Over the Troubled Water”- canzone fino ad allora sempre cantata da Art Garfunkel -. “The Coast” chiude la prima parte del concerto, in una versione resa ancora più speciale dall’accompagnamento delle percussioni, e del coro dei Waters. Il lato C si apre con la famosa “Graceland”, seguita da una piacevole “You Can Call Me Al”. Splendidi ritmi africani ed esotici caratterizzano, invece, “Diamonds on the Soles of Her Shoes”. Nella parte finale ritroviamo “Late in the Evening”, in cui emergono moltissimi ottoni, come trombe e sax, e nuovamente allegre percussioni; inoltre sono presenti anche alcuni dei pezzi più famosi del duo Simon & Garfunkel, come: “America”, “the Boxer” e “Cecilia”. La storica “the Sound of Silence”, che ha inizio, sotto scroscianti applausi, con la celebre strofa: « Hello darkness, my old friend, I’ve come to talk with you again, Because a vision softly creeping, Left its seeds while I was sleeping, And the vision that was planted in my brain Still remains Within the sound of silence.» va in fine a chiudere uno straordinario album, in cui si possono davvero apprezzare le melodie e i testi di splendidi capolavori. Un album singolare, consigliato a tutti quelli che vogliono ascoltare il meglio di Paul Simon, in un’eccezionale versione live.

24

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

D

isco epico, realizzato da una band che non ha alcun bisogno di presentazioni. E’ il lontano e toccante suono di organo a presentare la canzone entree, “Where The Streets Have No Name”, e a proiettare immediatamente l’ascoltatore nell’atmosfera del disco. La prima traccia è un crescendo di suoni e melodie, dove la calda e irraggiungibile voce di Bono invoca un amore incontrollabile e privo di limiti in un confronto catartico ed empatico con la grandezza del mondo naturale. Segue poi “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” che, sulla scia emotiva della prima traccia, invita a un quête del proprio io e scoperta dell’amore.« I have run, I have crawled / I have scaled these city walls / only to be with you/ But I still haven’t found what I’m looking for» canta Bono, imponendo prepotentemente la potenza del suo io all’ascoltatore, che non può fare a meno di lasciarsi trasportare dolcemente. La melodia è semplice e tuttavia appare quasi soprannaturale grazie all’armonica sincronia di percussioni, batteria e chitarra elettrica. La terza traccia con la melodica armonia di “With or Without You” spezza l’atmosfera fin qui portata avanti: «My hands are tied, my body bruised/ She got me with nothing to win/ and nothing else to win/ and you give yourself away». Dolcemente straziante è la conclusione della canzone, lasciando una vaga consapevolezza impressa nell’ascoltatore dal verso «With or Without You I can’t live». L’assegnazione del numero sette non è un caso per la meraviglia dell’album intitolata “In God’s Country”. Questa canzone può essere considerata migliore delle altre tracce e, ad ogni modo, completa in ogni suo aspetto. Il testo esterna un forte senso di misticismo col quale ogni uomo prima o poi si andrà a confrontare, con la particolarità che la divinità in questione è la Libertà. «She is Liberty, and she comes to rescue me/[…]Sleep comes like a drug in God’s country» è il triste messaggio di questa canzone, accompagnato e addolcito da un trascendente giro di chitarra che ben rende l’altezza dei sentimenti in questione. Infatti, l’ascolto di quest’album lascia aperti molti interrogativi di cui vi lascio una libera e piena interpretazione. L’album è dedicato a Greg Carroll, assistente di Bono, morto in un incidente stradale nel 1986.


mumford & sons di Claudia Sangalli

I

Mumford and Sons sono un gruppo indie-folk formatosi nel 2007 a Londra. E’ composto da Marcus Mumford, Winston Marshall, Ben Lovett e Ted Dwane, quattro polistrumentisti di tutto rispetto; è proprio in virtù di questa caratteristica che i loro pezzi appaiono così ricchi e dinamici pur riproponendo le stesse strutture e le stesse variazioni. Quattro ragazzi semplici, con capelli arruffati e maglioni di lana: viene quasi naturale immaginarseli “on the road” come personaggi di Kerouac, in viaggio verso l’ignoto, pronti a portare per il mondo la loro arte tradotta in musica. Loro stessi si definiscono “Gentlemen of the Road”, espressione che dà nome anche alla casa discografica di loro proprietà. Debuttano il 6 ottobre 2009 con l’album “Sigh No More”, titolo tratto da una celebre commedia di Shakespeare, “Molto rumore per nulla”. La naturalezza con la quale questi dodici brani riescono a stamparsi nella memoria di chi ascolta è disarmante: in un primo momento si viene cullati dal calore della voce di Marcus, poi l’ordinato affollarsi degli strumenti musicali ti cattura; le pause tra una canzone e l’altra spiazzano, e quando si arriva alla fine del disco ci si sente spaesati, come quando un amico ti abbandona senza preavviso. Le danze vengono aperte dalla canzone che intitola l’album: un’invocazione al cielo lamentosa al punto giusto, che viene sdrammatizzata dal suono del banjo. Proprio come il secondo brano The Cave, attira l’attenzione con una voce sussurrata, per poi travolgere e stupire con un ritmo più deciso e incalzante. Winter Wind è tutt’altro che un vento gelido invernale: il suono della tromba addolcisce l’eterna e faticosa lotta tra il cuore e la ragione. White blank page, è la storia di un cuore tormentato con tutte le sue pagine bianche ancora da scrivere; sullo sfondo è facile immaginare

il mare di un’Irlanda verde e piena di speranza. Il singolo Little lion man richiede una forza straordinaria, ovvero il raccogliere i cocci di una vita che non è così facile come si pensava. Negli ultimi brani i toni calano e si fanno elegiaci, ribadendo e sottolineando i temi sin qui presentati: lasciatevi rapire e condurre da tutta la dolcezza e delicatezza possibile fino alla fine del disco. Immagino, però, che le suole delle vostre scarpe non siano ancora completamente consumate: ebbene, non stupitevi se anche voi sentirete il bisogno di partire ancora in compagnia della musica senza barriere di questi ragazzi. Sono nuovamente pronti a scaldarci il cuore e a farci girare il mondo, e lo dimostrano con il loro secondo album intitolato Babel (2012). La sottile insicurezza e titubanza del primo cd sono solo un ricordo: i Mumford hanno ormai il passo di chi ha già raggiunto la piena padronanza dei propri mezzi. Hanno le idee chiare e i piedi ben piantati per terra. L’immagine di copertina è un indizio: hanno saputo restare composti e concentrati mentre alle loro spalle impazzavano confusione e caos. “Babel” non

è una rivoluzione ma un’evoluzione: il suono è sempre quello, e inconfondibile. Rimangono attaccati con forza alle loro radici, ma l’anima e la passione rimangono. Il loro scopo è quello di mescolare musica antica e sentimenti moderni, donando gioia a chi li ascolta. La voce ruvida di Marcus ci racconta altre storie, accompagnata sempre da un banjo incandescente. Veniamo accolti in un clima familiare, che poi come nel primo disco esplode in un’euforia contagiosa. I brani che non mi stancherei mai di ascoltare sono Lover of the light, che immagino ambientata in un’iniziale oscurità, lacerata da una luce intensa e accecante che cresce insieme alla musica, e Hopeless Wanderer, canzone che si è intrecciata con la mia vita. Chiudendo gli occhi senti la strada che corre e sparisce, sei un girovago senza speranza ma sai che non sarà sempre così, perchè una possibilità c’è per tutti, e devi cercarla negli angoli più remoti del mondo oppure in un semplice abbraccio. Io non voglio svelarvi altro. Correte il rischio di affidare il vostro cuore a questi quattro ragazzi: girerete il mondo, scaverete in voi stessi. Ve lo prometto, ne varrà la pena.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

25


musica peter gabriel: live at assago di Beatrice Sacco

O

serei dire che lo sbatti che ho è pari a zero. Ci mancava pure di seguire mio padre ad Assago Forum per il concerto di Peter Gabriel… In preda ad un raptus aveva comprato i biglietti mesi fa, ed ora sono costretta ad andarci. Sarà di sicuro una noia pazzesca. Il forum è pieno zeppo, e ad occhio l’età media sembrerebbe essere sulla cinquantina/sessantina. Io, i miei fratelli e qualche altro ragazzo rassegnato come noi siamo i più giovani, persi in questo mare di adulti invasati ed entusiasti che inizi il concerto. Dopo una particolare esibizione di due musiciste svedesi, che accompagneranno poi il protagonista della serata come coriste, a luci accese, tra brividi di emozione degli ascoltatori che non stanno più nella pelle, Peter Gabriel entra in scena con una spensieratezza invidiabile di un ultra-sessantenne ancora pieno di voglia di vivere. Sedutosi al pianoforte presenta la serata, 26

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

in un italiano modesto, come potrebbe essere un tipico pranzo italiano: ci sarà un antipasto acustico, un primo elettrico e un gustoso dessert composto di tutte le canzoni dell’album “So” nel medesimo ordine del disco. Di pezzi ne conosco solo alcuni; a quanto pare mio padre non mi ha trasmesso la sua stessa passione per questo artista. Ma nel frattempo, tra un brano e l’altro, ci rifaccio un pensierino: non è così male come pensavo; d’altronde sembra simpatico dal modo in cui si atteggia, saltando con vivacità sul palco. Ma nell’aria si percepisce qualcosa di strano. Forse è nostalgia, nostalgia dei vecchi tempi che si legge negli occhi delle persone attorno a me, intensi e illuminati dai bagliori scenografici. Deve certamente aver lasciato un bel segno nella storia musicale questo Gabriel. Finalmente in sala è buio: siamo al primo piatto, un misto elettrico di “Family Snapshot”, “Digging in the Dirt”, “Secret World”, “No Self Control” accompagnati da un contorno di fasci abbaglianti di luci bianche. Tutti i musicisti sono vestiti di nero, lo scenario e alcune canzoni sono un po’inquietanti. Ma quando parte “Solsbury Hill”, il primo successo di Peter in cui racconta i motivi per cui ha lasciato nel 1975 il suo vecchio gruppo, i formidabili Genesis, anch’io mi lascio

travolgere dal clima caldo e sincero che si crea fin dal primo accordo. Al termine di “Why don’t you show yourself” tutti si preparano per ricevere il dessert; un posticino nello stomaco lo si trova sempre per il dolce finale, nonché la parte migliore. Peter esegue per intero il disco della maturità e di maggior successo “So”, del 1985. Archiviata l’esperienza con i Genesis degli anni ‘70, dopo quattro dischi incisi da solo (tutti con lo stesso titolo, e la sua immagine in copertina sempre deformata, se non irriconoscibile), in questo disco si mostra finalmente così come è (‘So’) senza più maschere. E’ una scioccante esplosione di colori, dal rosso di “Red Rain” all’arcobaleno di “In Your Eyes”, che rispecchiano la stravagante solarità della musica. Come al solito l’ultima canzone, last but not least, forse la migliore, è dedicata a Steven Biko, attivista sudafricano ucciso in carcere nel 1977. Peter ricorda che Steven Biko è morto per sconfiggere l‘apartheid e chiede di non dimenticare coloro che ancor oggi vengono incarcerati solo per motivi di opinione, in quei Paesi del mondo in cui i diritti umani non sono rispettati. Tra un coro di voci da tutto il mondo che accompagna Peter con le parole “Oh Biko, Biko, because Biko…” e un pugno alzato al cielo ho capito che Peter Gabriel è un artista completo, coinvolgente, libero di esprimersi come vuole, dallo sguardo sincero e altruista. E’ una persona umile, sempre aperta ad accogliere nuovi spazi e tempi. Trent’anni fa non esitava di sicuro a ‘tuffarsi’ dal palco durante i concerti e a fare surfing sorretto solo dalle mani dei fans, proprio per abbattere ogni barriera tra pubblico e artista. Di personaggi del genere, così estranei ai condizionamenti dello show business, ne sono rimasti veramente pochi. Oh beh, dal sentire mio fratello che in camera sua canta a squarciagola “Solsbury Hill” credo proprio che Peter sia riuscito a coinvolgerci, noi giovani, che finora eravamo rimasti all’oscuro di un tesoro così vicino e prezioso.


LENNON & McCARTNEY: LA COPPIA che HA SCRITTO LA STORIA di Letizia Foschi

A

prima vista ogni cantante o attore sembra una persona che vive in posti lussuosi, assalita dagli ammiratori ogni volta che si affaccia alla finestra, del tutto priva di una vita sociale; ma cosa sono in realtà? Ve lo dico io: sono esattamente come noi. L’esempio più bello che ho sono proprio Paul McCartney e John Lennon: migliori amici, grandi autori e ottimi musicisti. Non è che perché stessero nei Beatles le loro vite fossero avvantaggiate, o che trascinassero un rapporto falso avanti negli anni al solo scopo di avere fama e successo, anzi, come raccontò Paul dopo lo scioglimento, non potevano stare l’uno senza l’altro; anche Yoko Ono, moglie di Lennon all’epoca, ribadì più volte che, secondo lei, John amasse davvero l’amico. Tutto è cominciato il 6 luglio 1957, ad un concerto dei Quarrymen. Nascosto tra la folla, il quindicenne Paul ammirava il cantante della band, che suonava la chitarra solo su quattro corde. In quel momento si accesela scintilla. McCartney chiese ad un amico in comune di presentaglielo, e così si conobbero John e Paul, e, di conseguenza, iniziò la storia dei favolosi Beatles. L’intesa tra i due cominciò rapidamente a sfornare successi, facendo diventare i Fab Four la prima band di Liverpool, della Gran Bretagna, e, infine dell’America. Si sviluppò in fretta anche una specie di protezione, un istinto, che John aveva nei confronti dei tre compagni, a lui più giovani di età, in particolare per Paul. Ad esempio, quando facevano le trasferte, erano obbligati a compiere strani cambi di auto per evitare l’assalto delle ammiratrici urlanti e John faceva salire l’amico per primo con la scusa che fosse il più bello dei quattro e che le fans avrebbero po-

tuto mangiarlo vivo. In fondo erano persone normali, come noi, che vivevano in posti normali e facevano tutte quelle cose che fanno i ragazzi normali, stupidaggini comprese (Paul a 19 anni dette fuoco ad un preservativo facendosi bandire dalla Germania quando si trovava ad Amburgo con la band). I contatti si ruppero nel momento in cui fu dichiarato lo scioglimento dei Beatles. Si scrissero sempre meno lettere e smisero presto di vedersi. Ciò non significa, però, che non si mancassero: ammisero entrambi che, in futuro, non ci sarebbe mai più stata una coppia come la loro, per il resto della vita e che qualunque compagno di avventura non sarebbe valso il primo. Intrapresero carriere soliste, Paul formò i Wings con sua moglie Linda, John dette vita alla Plastic Ono Band, meno conosciuta, con la moglie Yoko. La loro fantasia come cantautori non finì con i Beatles nel 1970, anzi, Lennon compose altre splendide canzoni quali “Imagine” e “Give peace a chance”. Si videro l’ultima volta nel 1976, a casa di Paul, e quello è l’ultimo ricordo che hanno uno dell’altro. John fu ucciso l’otto dicembre 1980, all’età di quarant’anni, da un suo stesso ammiratore, impedendo così una possibile rinascita dei Beatles e distruggendo una delle più grandi menti creative della musica pop/

rock. Tutt’oggi, durante i suoi concerti, Paul McCartney ricorda il suo migliore amico e canta per riportarlo nei cuori della gente, anche solo per un attimo. “John mi manca tutte le volte che mi siedo a scrivere una canzone. Mi mancano i suoi commenti, quando ci insultavamo a vicenda se non ci piaceva una parte della canzone, e poi facevamo pace e ci rimettevamo a scrivere in pace, cercando un compromesso. In fondo, non era solo il mio migliore amico, per me era quasi un fratello, e i Beatles sono stati la mia famiglia per dieci anni. Ora che John non c’è a parlare con me quando scrivo, ho capito che certe cose riuscivo a farle in pace solo con lui” ha detto McCartney pochi anni fa. In fondo, come ho detto prima, erano ragazzi normali, e di loro oggi abbiamo più di cento canzoni targate “The Beatles” e, per chi può, il ricordo di un concerto, o di un incontro casuale per strada. I loro nomi sono incisi a caratteri cubitali nella storia. E la leggenda continua.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

27


fumetti

28

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n째 I


racconti

clacson di Silena Bertoncelli

C

lacson, le persone che urlano in strada, il fischietto del vigile, il mercato poco distante e l’odore pungente di pesce fresco, l’acqua. L’acqua della Senna che scorre imperterrita, l’acqua che scroscia dal cielo come se dovesse spegnere un incendio infinito, la sua prima sigaretta della giornata. In piedi, affacciata al ter-

razzo dell’attico di turno, rilassata e perfetta, appagata e a suo agio, si sta gustando la sua sigaretta come fosse una boccata d’aria fresca. Ha pochi minuti ancora, ma non le interessa, lei ama il rischio. Sono quasi le nove e ha saltato la colazione, sente fame e programma un brunch al Cafè de la Paix. Ama quel cafè. Ci andava con mamma e papà quando erano a Parigi per lavoro, quando ancora erano una famiglia. Questa volta è stato facile, ama i lavori facili, puliti, perché le ricordano suo padre e i suoi insegnamenti, della madre ha una sola foto, in quel medaglione vintage che più di una volta l’ha messa nei guai: nel lontano 2007, al Cremlino, uno dei suoi primi lavori da free-lance, mentre all’entrata passava sotto il metal detector. Nella villa-vacanze in Venezuela, 2011, in cui ha rischiato di strozzarsi nell’impianto di aerazione. Dopo una doccia nelle terme private del magnate industriale Andrèes, Siviglia, l’anno prima, quasi dimenticandola sul piano in marmo. Ma non le importa il pericolo se ha accanto sua madre. Lavoro semplice: lei ha un orecchio sopraffino, un tentativo per imbeccare la giusta sequenza, uno basta, e quell’ebrezza allo sblocco e all’apertura automatica: quello è il momento che preferisce, quando

viene ripagata della fatica. È la più brava in quello che fa, e ne è totalmente consapevole. Spegne la sigaretta, rientra nello studio e ripone lo zippo placcato in oro di fianco al portasigari. Ha un altro cliente ma non le importa. Inizia una “perlustrazione” come la chiama lei, o impicciamento, come in realtà è. Ampio ingresso, sobrio, corridoio lungo, asettico, anonimo, stanza padronale ordinata, ben tenuta, arredamento moderno grigio metallo e bianco latte, cabina armadio sorprendentemente grande, completi maschili, scarpe lucide, cravatte in seta della miglior qualità, nota la totale assenza di un tocco femminile, se non quello della colf. Si è fatto tardi, meglio andare. Raccatta la sua roba, la solita e la novità del giorno. Attraversa l’enorme salone, apre la pesante porta in mogano e si dirige all’ascensore. Se qualcuno vedesse una stanga in tailleur in uno tra gli stabili più costosi di Parigi, con fare quasi regale e occhi magnetici, non penserebbe mai che sia una ladra professionista.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

29


racconti a mio fratello

di Ilaria Porro Il mio esercito rimane immobile, mentre il vento spira tra la sabbia rossa delle dune. Sono tutti paralizzati dalla paura, non tanto quella di morire a quella avevano rinunciato una volta dopo esserci schierati contro i Profondos, la dinastia regnante, i nostri carcerieri - quanto quella di perdere la guerra. Temono che tutto quello in cui credono, in cui hanno riposto le loro speranze, per il quale hanno rinunciato alla loro patria, alla loro famiglia , ai loro stessi amici, si annulli. Come quando una statua di sale, posta sotto la pioggia, si scioglie lentamente fino a quando non ne rimane più nulla. In me, la paura aveva lasciato spazio alla certezza e quando la sicurezza alberga in noi, la calma regna sovrana. Quando mi alleai con i Lavakon credevo fermamente in quello che pensavo e non mi tirai mai indietro. Ora sono sicuro che perderemo, che il mio sogno di un mondo migliore non si avvererà mai e con questa convinzione guardo calmo il procedere degli eventi. La regina osserva il campo di battaglia dal suo altissimo trono. 30

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

Splendida come sempre, nel suo vestito di lino bianco e con la sua corona scintillante, ostenta la sicurezza di chi ha la vittoria nel palmo della propria mano. I suoi occhi, verdi come un prato in primavera, non si staccano dal profilo di Fansiata e i suoi capelli scintillano sotto il sole come le armature dei suoi soldati: le Guardie della Regina, coloro che avevano portato distruzione nel regno, i veri malvagi di questa storia. Sono tutti sul campo di battaglia, schierati ad uno ad uno e a guidarli, davanti a tutti, mio fratello, colui che non ha pensieri e non ha coscienza. Un uomo trattenuto a forza in una prigione senza avere alcuna colpa perde la capacità di avere idee, giuste o sbagliate che siano, e a quel punto, una volta smarrito il senso del bene e del male, è facile impiantargli i nostri ideali. Quando venne rapito, non solo un membro della mia famiglia ma una parte di me mi venne strappata a forza. Soffrii in modo talmente profondo che nessuna guerra, nessuna dittatura, poteva distrarmi da quello che stavo provando.

Però, nel momento in cui seppi che si era schierato con la monarchia, allora l’odio ed il sangue colmarono il vuoto che mi aveva lasciato lui. Per tutto questo tempo sono stato cieco: la guerra ha serrato i miei occhi. Ora riesco a vedere ciò che mi si prospetta davanti in modo così chiaro e nitido da rendermi completamente asettico a qualsiasi sentimento. Posso vedere perfettamente gli occhi lucidi di mio fratello, le sue mani tremanti mentre regge la bandiera, ma non ho più intenzione di amarlo o di odiarlo, di soffrire o di combattere per lui e non mi rimprovero per questo. Lui crede nella monarchia. Si è immerso sino al punto più profondo della sua convinzione. La fede brucia viva in lui. Lo logora con i sensi di colpa, con i dubbi, con la vergogna, come un leone, appostato dietro l’erba alta, che sceglie e scruta la sua preda per poi spiccare un grande balzo e piombarvi sopra, conficcare le sue unghie nella carne tenera, sbranarla e divorarla. Volgo lo sguardo agli uomini di mio fratello. Sono delle vere e proprie macchine


da guerra, uomini scelti tra i migliori combattenti di Fansiata. Se una colomba non conosce il cielo, mai potrà adempiere alla sua natura: spiccare il volo e librarsi alta. Potrebbero aspirare a fini ben più alti di una dittatura, di padroni a cui rendere conto, ma questo non l’hanno mai saputo. Questi soldati non sono dei mercenari, ma individui ben peggiori: degli schiavi. Essere liberi, in tutti i sensi, è il nostro più grande dono, ma, se questo non ci viene insegnato, siamo solo macchine per raggiungere altri scopi. La falsa realtà delle Guardie della Regina non potrà mai competere con la paura dei miei uomini: questa è un’emozione momentanea, che presto volerà verso altri destini, ma le bugie rimangono con noi per tutta la vita, in un modo o nell’altro. Il sole è ormai alto nel cielo, è il momento di caricare. Salgo svogliatamente a cavallo: l’ultima cosa che vorrei in questo momento è scontrarmi con altri soldati. Credo sempre nel mio ideale più che in qualsiasi altra cosa: mi ha salvato mentre ero perso. Capisco però che ormai la mia sia una causa destinata a perire e che

non debba più combattere per lei. Come quando un meraviglioso vaso di porcellana cade a terra e si rompe in mille pezzi: rimarrà sempre magnifico, ma cessa di esistere. La mia, la nostra rivoluzione ormai fa parte della storia ed il suo destino è già segnato. Ormai sono nel pieno della battaglia. Galoppo in mezzo alle spade sguainate mentre il terreno si tinge di rosso. Lo scintillio del ferro sotto il sole ed il suo stridore accompagnano i miei gesti. Vedo i miei compagni cadere sotto i miei occhi, come alberi colpiti da un fulmine. Damos, un mio fedele amico, è a terra gravemente ferito ad una gamba. Faccio per caricarlo sul mio cavallo e portarlo alle tende, poco distanti, quando sento qualcosa i gelido affondare nella mia gola. Mi sento fiacco e debole, non riesco a reggermi e cado a cavallo. Ho i brividi di freddo, mentre sento ancora il sangue caldo sgorgare dal mio collo. Ci hanno sconfitto, quindi. Io, il capo dei ribelli, la figura da temere di più, sono morto. Non c’è più speranza ormai. Come quando la neve cade dal cielo incessantemente, coprendo ogni cosa con il suo manto bianco, candida

ma nello stesso tempo inarrestabile, così la monarchia ha soppresso i nostri desideri. Alcuni compagni si radunano intorno a me. Volgo lo sguardo a mio fratello. Lui si avvicina velocemente a me. Ormai non riesce più a trattenere le lacrime. Si piega su di me e chiede perdono. Una sensazione i calore inizia a spandersi nel mio basso ventre: mio fratello è tornato da me. Ormai non c’è più sicurezza o calma che tenga, perché la mia famiglia è qui davanti a me e io lo perdono: non potrei fare altrimenti. Vorrei dirgli di non piangere, ché non serve a niente: siamo di nuovo uniti, ma tutto quello che riesco a fare è stringergli la mano un’ultima volta, forte. Per quanto possiamo esserne certi, non ci lasciamo mai alle spalle le persone che amiamo: un sentimento davvero forte è universale, non cessa mai di esistere. Quando lo riscopriamo è tutto più bello, come un bruco che esce dal suo bozzo e diventa una splendida farfalla. Riesco persino a lasciare questa guerra con un sorriso.

Ottobre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

31


concorso carducciano: arte & racconti L’Oblò mette alla prova la creatività dei Carducciani! Noi vi proponiamo un quadro, voi ne ricavate ispirazioni per un racconto. Ne verrà pubblicato soltanto uno, messo a confronto con quello di un redattore. Cosa vi trasmette “Morte e Vita” di Klimt (1916)? Scavate dentro di voi, andate oltre, e impugnate una penna. Ne siete capaci!


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.