Primo numero

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L’editoriale di Alessandra Venezia

L

’ inverno è alle porte, i dizionari sono aperti e il Carducci racchiude di nuovo pensieri, paure e speranze dei suoi studenti, vecchi e nuovi. E allora: Good morning Giosuè! Lo storico giornalino scolastico è pronto a ricominciare: redattori giovani e belli, articoli coinvolgenti e idee originali. Il vento è cambiato e c’è aria di novità. Fa un certo effetto vedere come, negli anni, studenti ormai maturi cedano il posto a nuovi piccoli uomini. Soffermarsi su ciò che avviene in una scuola è un po’ come studiare in scala quello che avviene nel mondo. Le persone si susseguono le une alle altre, cambiano, crescono, vanno via, magari ritornano e intanto l’equilibrio è tutto diverso e noi non ce ne siamo neppure resi conto. Arriva però il momento in cui ci si risveglia dal torpore liceale: l’ultimo anno. La situazione è la stessa di quando ti piacciono delle scarpe che però non ti entrano più. Ti vanno strette. Ti provocano vesciche. Fai fatica a camminarci. L’anno della maturità è senza dubbio il momento in cui lo studente diventa totalmente consapevole di sé e del suo bisogno di cambiamento. C’è chi taglia già i ponti con il mondo liceale e chi, come me, vi si aggrappa con le unghie. È in questa condizione

di semi-libertà e allo stesso tempo di profondo affetto per ciascuno di voi, che fate parte di quella che per me è diventata una seconda casa, che sento il bisogno di fare una riflessione. Più volte mi sono chiesta cosa significasse andare a scuola per me e i miei compagni e cosa invece significasse fare scuola per i professori. Solo ora, anche alla luce della precedente assemblea d’istituto, ho il coraggio di dire apertamente che la scuola non è solo un luogo fisico in cui si collezionano voti, ma è innanzitutto uno spazio di formazione della persona. Lo sviluppo del senso critico e la partecipazione attiva sono requisiti fondamentali per diventare dei buoni adulti e dei buoni cittadini. Prendete la scuola come un’occasione unica: solo qui avrete la possibilità di scegliere i vostri rappresentanti direttamente, solo qui vi verrà richiesto di fare la differenza. Non fatevi intimorire dai professori che vogliono imbottirvi di nozioni, ma appassionatevi a ciò che studiate e fatelo subito! È tempo prezioso il vostro! In un attimo vi ritroverete ad essere vecchi dinosauri come me, a cavallo fra l’adolescenza e l’età adulta, e allora sarà troppo tardi per tornare indietro. Preoccupatevi di essere uomini e donne straordinari, più che studenti modello. È con questo augurio che voglio iniziare l’anno. E ora godetevi queste pagine.

La redazione dell’oblò

redattori | Cleo Bissong IIIB, Alice De Gennaro IIB, Bianca Carnesale IIIA, Giulio Castelli IIID, Letizia Foschi IIB, Margherita Ghiglioni IC, Giulia Caramella IB, Giorgia Mulè IE, Alice de Kormotzij IIIA, Martina Locatelli VA, Beatrice Penzo IIIE, Francesca Petrella VC, Rebecca Daniotti IIF, Cristina Isgrò IIIA, Valeria Galli IIIA, Federica Del Percio IIIB, Julia Cavana IIID, Marta Piseri IIIE, Giulia Casiraghi IVC, Tatiana Ebner IF, Davide Recalcati IB, Olivia Manara IF, Filippo Lagomaggiore VA, Giulia Pasquon VA, Sara Sorbo IIIB, Marco Recano VA DISEGNI DI | Olivia Manara, Giulia Caramella, Beatrice Penzo DIRETTRICE | Alessandra Venezia VB Capo redattore| Beatrice Sacco IVD Docente referente | Giorgio Giovannetti Collaboratori esterni | Federica Angelini IIIE, Emanuele Caporale IVD impaginatori | Beatrice Sacco, Rebecca Daniotti, Bianca Carnesale 2

L'Oblo' sul Cortile | Anno IX, n° I

sommario

Pag 4-5 la guerra santa del xxi secolo 6

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it’s the same love

8 9 elias

#herforshe

libera anche tu una terra

10 noi che non tutti ci alziamo 11 12

13 14-15

nto love

burro, just dance e ta noi siamo quello che leggiamo

una settimana da archeologa

Paestum, un gioiello nascosto

16 the giver - il mondo di jonas

lucy

17

18 resta anche domani 19

the maze runner: il labirinto

20 mad sounds

21

erican idiot

don’t wanna be an am

tredici

22 23

2425

il trono di spade|

christine

colpa di john green

freddo 26 27 la sesta amica 28 la fusione tra ciccio e o rey 29 serbia-albania 30

31 32

ostriche senza perla

giochi a

retro copertin


Attualità

sierra leone, è emergency a prendersi cura dei malati di ebola di Rebecca Daniotti

I

l virus Ebola, o febbre emorragica, è una malattia di cui ormai si sente parlare sempre di più da maggio 2014, ossia da quando è scoppiata una vera e propria epidemia in Africa, in particolare negli stati di Sierra Leone, Liberia, Guinea e Nigeria. L’Ebola è una malattia grave, spesso fatale, con un tasso di mortalità fino al 90%, che colpisce uomini e primati (scimmie, gorilla, scimpanzé). L'epidemia che ha colpito l'Africa nel 2014 è la più estesa mai verificatasi da quando l’Ebola è apparsa la prima volta nel 1976 in due focolai contemporanei: in un villaggio nei pressi del fiume Ebola nella Repubblica Democratica del Congo e in una zona remota del Sudan. In Sierra Leone il governo si è trovato in serie difficoltà non sapendo come far fronte a questa pandemia che continua a mietere numerose vittime. Infatti, da quando il virus ha iniziato a diffondersi, i casi di Ebola riscontrati sono stati quasi 9.000. Come se non bastasse le strutture sanitarie della Sierra Leone, già instabili in precedenza, sono state piegate dall’epidemia. Nei casi di Ebola i primi ad ammalarsi sono stati i familiari del paziente e il personale sanitario. L'ultimo report ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara che 51 sanitari sono stati infettati dal virus Ebola e 27 di loro sono deceduti. Gli ospedali pubblici, che in Sierra Leone funzionano a singhiozzo, sono spesso vuoti perché, come afferma Luca Rolla (coordinatore di Emergency in Sierra

Leone), i pazienti non vogliono essere ricoverati in ospedali dove il personale sanitario si ammala. In molti casi, nelle strutture pubbliche, e anche in quelle private, medici e infermieri si sono rifiutati di assistere i casi sospetti, o addirittura non si sono più presentati al lavoro. Le poche strutture private esistenti (quattro) sono ormai state chiuse. Emergency, in collaborazione con il governo sierraleonese, ha aperto giovedì 18 settembre 2014 un centro per la cura dei malati di Ebola a Lakka,

vicino alla capitale Freetown. Il coordinatore Luca Rolla dichiara “Abbiamo deciso di aprire questo centro perché l'epidemia non accenna a fermarsi: i casi positivi aumenteranno e c'è bisogno di altro personale sanitario, altri reparti di isolamento e altri posti letto per la cura dei pazienti.” A sole quattro ore dall’apertura è stata ricoverata la prima paziente: da allora il centro ha ricevuto moltissimi casi e, stando agli ultimi dati del 9 ottobre, il centro di Lakka è al completo. “Non è facile dire a una persona ‘ci dispiace non abbiamo posto’ – spiega Luca – ‘ma dobbiamo garantire la sicurezza

del nostro staff e mantenere le condizioni per curare al meglio le persone che sono già ricoverate qui.’” Eppure gli sforzi che vengono fatti dai medici e dal governo stesso, che aveva imposto tre giorni di coprifuoco, non garantiscono a nessuno l'immunità. Proprio un medico di Emergency, il pediatra ugandese Micheal, è stato infettato dal virus e le sue condizioni sono critiche. E non è l'unico caso di un operatore sanitario che ha contratto il virus, sono oltre 110. «In Italia il governo può decidere di cambiare la Costituzione o di mandare armi ai curdi ma non di emanare un decreto, un foglietto, un sms in cui si dice: gli operatori che lavorano in strutture pubbliche o convenzionate possono andare in Africa per l’emergenza Ebola senza che questo debba interferire su contributi, assicurazioni, pensioni e tutto il resto. L’abbiamo fatto per lo tsunami e i terremoti. Ebola no perché è l’epidemia dei poveracci? Se c’è un’emergenza internazionale, come dice l’Oms, chi deve rispondere se non il personale internazionale?». Così provoca Gino Strada, in un’intervista al Corriere della Sera, contestando il governo italiano che non lascia partire medici e infermieri per la Sierra Leone. Mettendo però da parte il risentimento e l'amaro in bocca che questa realtà rilascia, Emergency non può che essere soddisfatta di sé stessa perché, come dice Strada, “Quando Emergency si mette in moto è una Ferrari. Di quelle che vincono però!”.

Ottobre 2014 | L'Oblo' sul Cortile

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Attualità

La guerra santa del xxi secolo a cura di Giulio Castelli

S

ono centinaia i martiri massacrati in Iraq dalla bestiale violenza degli jihādisti del Califfato, l’autoproclamato Stato Islamico. Nel luglio 2014 l’investigatore capo delle Nazioni Unite avanzò la possibilità di aggiungere i combattenti dell’IS alla lista dei sospettati per crimini di guerra in Siria, e solo un mese dopo (due mesi dalla nascita dello stato) le Nazioni Unite accusarono lo Stato Islamico di commettere atrocità di massa e crimini di guerra. Ma che cos’è veramente questo Califfato, prima Isil (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), poi Isis (Stato Islamico dell’Iraq e Siria), ora IS cioè Stato Islamico? Ne parliamo con Michele Brignone, segretario scientifico della Fondazione Internazionale Oasis e docente di Lingua araba all’Università Cattolica di Milano. Da dove arriva il Califfato Islamico? Storicamente il califfato non è propriamente un sistema di governo, ma la funzione esercitata dal successore (in arabo khalifa) di Maometto alla guida della comunità islamica. Secondo la dottrina islamica classica il califfo dovrebbe idealmente presiedere alla vita della comunità islamica in tutti i suoi aspetti, dall’applicazione della legge islamica, alla riscossione dei tributi, alla difesa del territorio. Ma questo ruolo è stato storicamente interpretato in modalità molto diverse, a seconda delle circostanze storiche e delle capacità dei singoli califfi. Quando oggi si parla di califfato in realtà non si fa riferimento a un modello storico. In epoca moderna il concetto di califfato è diventato nella propaganda fondamentalista sinonimo di Stato islamico, cioè di un sistema di governo fondato sull’applicazione di una legge islamica a sua volta reinventata e in cui non c’è posto né per i non-musulmani né per i musulmani considerati “devianti”. Hanno ragione i musulmani che accusano i jihadisti di non conoscere il Corano oppure il Califfato sta semplicemente facendo quello che dice il Corano? 4

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Il Corano contiene versetti pacifici e concilianti e versetti che trattano esplicitamente il tema della guerra. Questi ultimi sono a loro volta variamente interpretati. Per alcuni esegeti il combattimento di cui si parla nel Corano è sempre difensivo. Per altri si tratta invece di una vera e propria guerra santa cui i musulmani sono chiamati per consentire l’espansione dell’Islam. Ovviamente l’IS sposa ed estremizza questa seconda lettura. In generale quella dell’IS è un’interpretazione unilaterale non solo del Corano ma dell’intera tradizione islamica. Cosa vuole veramente l’IS? Come dice il suo nome, l’IS vuole istituire uno Stato territoriale fondato sull’Islam nella sua versione più intransigente e diventare un polo di attrazione per tutti i

militanti jihadisti del mondo. Il suo obiettivo immediato è ridisegnare la cartina politica del Medio Oriente rifiutando sia la pluralità religiosa che ha finora caratterizzato la regione che il principio dello Stato nazionale. Ma non credo che i militanti dell’IS agiscano sulla base della definizione di scopi chiari e misurabili. Piuttosto sono mossi dalla mistica perversa del totalitarismo fondamentalista. L’IS è paragonabile a gruppi terroristici islamici come Al-Qaida o Boko Haram o è qualcosa di più di un’organizzazione terroristica? La novità dell’IS consiste esattamente nella sua propensione a creare immediatamente un’entità politica basata sull’applicazione della legge islamica

sharî’a. I militanti di Al-Qaida pensano invece a un’instaurazione graduale della “città islamica”. Inoltre, mentre Al-Qaida opera soprattutto a livello globale con azioni terroristiche spettacolari anche in Occidente e l’apertura di fronti locali, lo Stato Islamico concentra i suoi sforzi sull’istituzione di un unico Stato in grado di espandersi progressivamente. Col senno di poi che responsabilità hanno avuto America ed Europa? Se si considerano le cause remote del successo dell’IS, gli Stati Uniti hanno innanzitutto la grave responsabilità della guerra in Iraq del 2003 e dell’instabilità politica, economica e sociale che ne è derivata. A questo si aggiunge la responsabilità non solo di aver sottovalutato le capacità e le ambizioni dell’IS, ma di averne favorito più o meno direttamente l’ascesa per provocare la caduta del Presidente siriano Bashar al-Asad. L’Europa, se si può parlare di Europa come soggetto politico, appare totalmente disorientata e incapace di svolgere un proprio ruolo in Medio Oriente. Se nei Paesi arabo-islamici rovesciare il dittatore di turno ed “esportare la democrazia” crea più disordine e violenza, come bisogna agire allora? Il problema è uscire dalla logica binaria dell’alternativa tra l’autoritarismo spesso di stampo militare e il fondamentalismo. Alcuni Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, come la Tunisia o il Marocco, stanno dimostrando che una transizione verso la democrazia è possibile. Certo è un percorso lento, faticoso, imperfetto, ma reale. Inoltre, anche dove le Rivoluzioni arabe sono fallite, come in Egitto, o più drammaticamente in Siria, è emerso nella società un desiderio autentico di liberazione, che è stato soffocato, ma non è svanito. Bisogna ripartire da qui, avendo la pazienza, come dice Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, di lavorare a lunga scadenza e di occuparsi di <<iniziare processi più che di possedere spazi>>.


Come fermare l’avanzata del Califfato? È convincente la coalizione messa in piedi da Obama? Sulla coalizione grava una duplice ipoteca: da un lato i Paesi che la formano hanno evidenti responsabilità nell’ascesa dell’IS, dall’altro essa non ha una visione comune. Per esempio alcuni Stati considerano IS una minaccia ma allo stesso tempo ritengono che, se contenuto entro certi limiti, esso sia funzionale al raggiungimento di taluni obiettivi. Il presidente russo Vladimir Putin mostrò lungimiranza quando nel 2013 si oppose ad un intervento militare contro Damasco da parte USA, prevedendo le conseguenze di una guerra contro lo Stato laico di Assad che avrebbe rafforzato i gruppi estremisti islamici. Sarebbe auspicabile un’alleanza con la Russia vista anche la crisi ucraina? In realtà neanche la Russia è innocente. La posizione di Putin non è stata dettata tanto dal desiderio di salvaguardare un regime “laico” capace di arginare le spinte fondamentaliste, quanto di mantenere in vita un’importante alleato della regione. Detto questo è chiaro che il superamento della tragica situazione mediorientale esige il raggiungimento di un accordo tra i grandi attori della regione, non solo la Russia e gli Stati Uniti ma anche l’Iran e l’Arabia Saudita. Un altro uomo che mostrò grande

saggezza e lungimiranza fu l’allora papa Benedetto XVI che nel discorso di Ratisbona aveva posto la ragione come presupposto fondamentale di ogni dibattito interreligioso, condannando la conversione violenta praticata da alcune frange del mondo musulmano: <<La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. Dio non si compiace del sangue.>> Perché la lectio non fu capita e presa sul serio, ma fu invece attaccata duramente e considerata da molti un errore? Molti si sono concentrati sulla critica a Maometto formulata dall’imperatore bizantino Manuele II Paleologo. Di certo è quello che hanno fatto molti media panarabi, tra cui al-Jazeera, che hanno contribuito a infiammare il mondo islamico. Ma quel discorso non ha generato solo polemiche. C’è stata la famosa iniziativa dei 138 studiosi musulmani, che hanno raccolto la “sfida” di Benedetto XVI e avviato un percorso di dialogo con il Cristianesimo. C’è chi critica la posizione espressa da papa Francesco su un possibile intervento armato in Iraq (<<fermare l’aggressore ingiusto senza bombardare>>) come reticente e inadeguata, mettendola in contrasto con la posizione dei vescovi orientali che spingono ad un deciso intervento militare nella regione. Che bombardare non sia la soluzione lo dimostra il fatto che finora i raid aerei non sono riusciti a fermare l’IS,

che anzi ha continuato ad avanzare. I Vescovi orientali e in particolare il Patriarca Caldeo Sako chiedono un intervento di terra sulla base di una collaborazione con il governo locale e con i curdi, ma sanno che neanche questo basterà. Occorre piuttosto una strategia di lungo periodo per estirpare dalla regione la malattia del fondamentalismo e dell’estremismo. E qui è chiaro che la politica, l’educazione, la cultura saranno molto più importanti delle armi. Quanto potrebbe durare il conflitto? E quanto è realistica l’ambizione dello Stato islamico di giungere in Europa? Il conflitto sarà lungo, perché lo Stato islamico si è ormai impossessato di zone nevralgiche e di importanti città, come Raqqa in Siria e Mossul in Iraq. È difficile che lo Stato islamico arrivi a minacciare militarmente l’Europa, ma questo non esclude il ricorso a operazioni terroristiche sul suolo europeo. Come affrontare l’inevitabile afflusso di migranti e come aiutare l’integrazione senza cadere nell’islamofobia? Intanto bisogna considerare che tra chi arriva in Europa non ci sono solo musulmani, e che molti musulmani non sono fondamentalisti ma vivono un’esperienza autentica di fede. La paura può essere comprensibile, ma non aiuta né a capire i processi in corso né a orientarli positivamente.

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Attualità

#Heforshe: emma watson si mette in gioco per le donne di Beatrice Penzo e Federica Angelini

Per la cronaca, il femminismo per definizione è la convinzione che uomini e donne debbano avere pari diritti, pari opportunità. E’ la teoria dell’uguaglianza politica, economica e sociale dei sessi”. Così Emma Watson mette subito in chiaro nel suo discorso, pronunciato all’ONU circa un mese fa, che il termine femminismo, al contrario di quello che sempre più spesso si legge e sente in rete, non è assolutamente sinonimo di “odio nei confronti degli uomini”. Per questa erronea definizione le donne stesse si rifiutano di identificarsi come femministe per ignoranza o per paura di essere fraintese, e addirittura si trovano ad attaccare coloro che invece conoscono appieno il significato di questa parola e non hanno paura di mostrarlo; in questo modo si manifesta, purtroppo, l’assenza di complicità tra donne. Per questo l’intervento di Emma Watson è importante: perché lei è una delle poche celebrità a definirsi femminista, quando le altre donne nell’industria si mostrano disinteressate o contrarie a questo movimento. Lo percepiscono come se si trattasse di una questione troppo lontana da loro, che in quanto cantanti, attrici, personaggi in vista, sentono meno il problema della differenza di stipendio, e dall’alto del loro piedistallo si rendono poco conto della situazione reale delle donne in normali ambienti lavorativi. Anche quest’ultime però non sempre sentono su di sé una discriminazione abbastanza forte da farle reagire, forse 6

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per il fatto che la donna europea o americana, nonostante non si sia ancora giunti a una totale parità dei sessi, si trova comunque in una posizione migliore rispetto a quella dei paesi in via di sviluppo. Questo potrebbe farla desistere, farla sentire ipocrita, e spingerla ad accontentarsi della sua posizione. Non dobbiamo di certo dimenticare la difficilissima situazione delle donne di mezzo mondo che ogni giorno devono fare i conti con violenze e soprusi da parte degli uomini, ma non dobbiamo neanche accontentarci della nostra situazione fino a che non avremo ottenuto l’effettiva parità tra i sessi. Per raggiungere questo obiettivo però, la Watson specifica che anche gli uomini hanno un ruolo fondamentale. Le donne non sono infatti le uniche ad essere imprigionate negli stereotipi; anche l’uomo è soggetto ad aspettative riguardo al suo ruolo nella società, che lo definisce virile quando assume un atteggiamento di superiorità nei confronti della donna. Questa situazione, dunque, non potrà essere risolta fino a quando entrambe le parti non si impegneranno per abbattere gli stereotipi di genere che impediscono agli uomini di essere sensibili e alle donne di essere forti. Per questo motivo Emma Watson durante il suo discorso richiama l’attenzione degli uomini e dei ragazzi e li invita ad attivarsi partecipando alla campagna #HeForShe, un’iniziativa lanciata perché metà dell’umanità venga in soccorso all’altra metà. Al progetto hanno aderito anche molte celebrità, come Chris Colfer, Tom Hiddleston, Logan Lerman,

Douglas Booth, Russell Crowe, probabilmente sperando di dare l’esempio sia ai ragazzi sia alle altre celebrità, che a loro volta contribuirebbero in maniera importante alla diffusione di informazioni corrette per combattere l’ignoranza che si trova su internet. Spesso sui social network, infatti, si trovano ragazze che, convinte di esprimere idee femministe, insultano gratuitamente il sesso opposto, che a sua volta reagisce mettendosi sulla difensiva e invitando a non fare di tutta l’erba un fascio: la tipica reazione a un commento contro il sesso maschile, a volte anche giustificato, è “ma non tutti gli uomini…”, una frase con cui riescono allo stesso tempo a respingere le accuse dissociandosi dalla cosa e poi lavarsene le mani. Questo non è però un fenomeno che riguarda solo la parte maschile, perché entrambi i sessi tendono a reagire ferocemente quando sentono il rischio di venire arbitrariamente inseriti in una corrente di pensiero che non è la loro. Per questo molte volte le donne stesse danno contro ad altre donne, o addirittura contro il femminismo in sé ritenendolo, erroneamente, un movimento caratterizzato all’odio verso il sesso maschile che punta alla superiorità femminile. È necessario combattere questa disinformazione, e sfruttando la grande spinta data dalla Watson, fare in modo che finalmente anche l’altra metà del mondo si accorga che non deve restare indifferente, ma aprire gli occhi e cominciare ad agire.


it’s the

same love di Giorgia Mulè

G

ay. Parola utilizzata come se fosse un insulto, mentre in realtà è un semplice aggettivo. Un termine come tanti, ma a cui spesso si attribuisce un valore dispregiativo, come se esistesse un muro invisibile che separa gli etero dagli omosessuali, dividendo le due “categorie” in base a critiche e pregiudizi infondati. Purtroppo, in alcuni casi, questo ipotetico muro prende forma, si costruisce intorno a noi e talvolta ci rende poco tolleranti verso un modo altro di sentire la propria sessualità. La muraglia di cui sto parlando impedisce a coloro che amano persone del loro stesso sesso di avere pari diritti delle coppie eterosessuali. Fortunatamente anche in Italia c’è il tentativo di abbattere questa inutile barriera, anche se i matrimoni gay non sono ancora celebrati per motivi religiosi e politici. La Chiesa Cattolica, infatti, non riconosce l’unione tra individui dello stesso sesso. Quali sono le posizioni delle forze politiche su questo problema? Nella nostra Costituzione non sono presenti articoli che vietano le nozze gay, ma l’opinione pubblica

sembra divisa in due: da una parte, chi è disposto ad accettare l’unione in matrimonio di coppie omosessuali; dall’altra, chi è legato alla tradizione e crede in un nucleo familiare composto da un’entità maschile ed una femminile (marito e moglie, padre e madre…). Questi ultimi non sono disposti a cambiare la loro idea di famiglia e sono contrari, oltre che ai matrimoni, anche alle adozioni gay. Tuttavia, è attualmente caldeggiata dal governo la “Civil partnership”, riforma adottata in Germania e nel Regno Unito, al fine di garantire maggiori diritti alle coppie omosessuali: esse potranno iscriversi all’ufficio dello stato civile in un apposito registro, dedicato alle nozze di persone dello stesso sesso. In questo modo potranno usufruire degli stessi diritti e doveri delle coppie eterosessuali, con un’unica postilla: non potranno chiedere bambini in adozione, ma sarà possibile per un partner adottare il figlio dell’altro, al fine di garantire una continuità relazionale. Intanto nel nostro Paese è approdata l’agenzia matrimoniale “Just2! Gay wedding planner”, proveniente dalla Gran Bretagna: non solo si occupa di organizzare matrimoni tra coppie di ugual sesso, ma offre anche un’assistenza legale.

Inoltre, le persone appartenenti alla comunità lgbt (acronimo di Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender), desiderose di una visibilità sociale, sono sostenute dall’Arcigay, che ha ottenuto qualche successo specie nell’ambito lavorativo : il numero di aziende che riconoscono il congedo matrimoniale tra coppie omosessuali è aumentato, così come il numero di avvocati e centri studi per i diritti dei gay. Perché gli omosessuali vengono derisi? Per il semplice fatto che nutrono dei sentimenti, che siano rivolti ad una persona di sesso diverso o dello stesso sesso non è importante: si tratta comunque di amore. E l’amore è una delle poche cose uguali per tutti: chi è innamorato sente le farfalle nello stomaco, il cuore scoppiare dal petto e vede lui/lei ovunque. Che uno ci creda o no, anche i gay provano le stesse sensazioni. Quindi, prima di giudicare, domandatevi se esista un reale motivo per cui prendere di mira gli appartenenti al gruppo lgbt. Non bisogna limitare i sentimenti e la tolleranza verso gli altri. Penso che questa situazione sia come una candela: finché non la accendiamo, non capiremo mai cosa si cela nel buio sconosciuto.

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Attualità

libera anche tu una terra di Beatrice Sacco

Caro Don Ciotti, siamo qui che cerchiamo di scriverti una lettera ma non sappiamo neanche da dove cominciare. Dopo aver letto tutti insieme la tua risposta alla minaccia di Riina, ci siamo chiesti a vicenda: “Ma tu cosa ne pensi?” e ciò che è venuto fuori è che tutti abbiamo provato rabbia. Però abbiamo capito che la nostra rabbia va trasformata in positività, in motivazione, in concretezza. Questa concretezza per noi è iniziata con un campo di lavoro di Libera, a cui abbiamo partecipato e in cui ci siamo conosciuti. Questo campo ha cambiato il nostro modo di percepire il meccanismo della criminalità organizzata e, in generale, della società. Non riusciamo a descrivere queste nostre emozioni con le parole e non potremo mai comprendere ciò che tu hai provato. Rimaniamo stupiti di quanto potere continuano ad avere le mafie, che addirittura da un carcere, riescono a farci percepire la loro latente presenza. La mafia è così radicata che, come ci hai fatto capire, il modo per sradicarla è collaborare insieme, uniti. La minaccia che è stata rivolta a te è indirettamente rivolta a tutti noi. Non dobbiamo aver paura per le persone a cui teniamo, ma esporci con loro in prima linea. Infatti, abbiamo avuto la dimostrazione di non essere insignificanti ai loro occhi, ma anzi, di costituire noi stessi una minaccia per il loro sistema che, giorno per giorno, si sta sgretolando. A Riina rispondiamo: “La tua minaccia è segno della tua debolezza”. Infinitamente grazie.” È così, con questa lettera al minacciato Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, che noi, quattordici ragazzi da tutta Italia, abbiamo cambiato la nostra visione della società e delle mafie, in una calda mattina tra i tetti di Firenze. Alquanto impacciati, sì eravamo alquanto impacciati: “Come iniziamo? Cosa scriviamo? Questo va bene o non è abbastanza formale? Dobbiamo es8

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sere noi stessi?!”. Già, dovevamo essere semplicemente noi stessi. Dopo aver avuto il coraggio di buttar giù le prime parole, non ci siamo più fermati. Però era comunque difficile: scrivere ad un uomo che ha fatto solo il bene nella sua vita, e che ora si ritrova colpito da minacce di morte da parte di Riina, boss mafioso di Cosa Nostra ora in carcere, non era cosa da poco. Ma a scrivere questa lettera, noi come siamo arrivati?

D i ciamo che tutto è partito da un viaggio in treno, destinazione: Sessa Aurunca, Campania. Ciò a cui io e due mie amiche andavamo incontro era assolutamente nuovo e sconosciuto: la partecipazione ad un campo di volontariato di Libera, associazione contro le mafie. Ammetto che, scesa dal treno, mi chiesi dove fossi finita, vedendo davanti a me la desolazione. Ma, come si suol dire, l’apparenza inganna. Le persone che ho conosciuto in questo luogo hanno davvero cambiato il mio modo di vedere le cose. Forse mi hanno cambiato la vita. Eravamo quarantaquattro giovani provenienti da varie città italiane, tutti venuti per dare il loro contributo

sulle terre confiscate alla mafia. Sveglia ore sei, colazione scarsa, e alle sette nei campi a zappare la terra, una terra che è stata fino a poco tempo fa possedimento della Camorra, del Clan dei Casalesi. Ora sta diventando un’azienda agricola a tutti gli effetti. I sacrifici degli abitanti del luogo, per trasformare questi spazi “malati” in ambienti sani, sono stati estremi. I lavori continuavano fino a mezzogiorno, e al pomeriggio invece c’era il momento di formazione, che consisteva nell’incontro di persone che hanno attraversato un passato assai complicato, faccia a faccia con la mafia. Ma a vederle non sembrava proprio, perché erano persone nuove, oneste e coraggiose. Tra queste abbiamo conosciuto il testimone oculare dell’omicidio di Don Peppe Diana, il quale ha sempre alzato la voce senza paura contro l’ingiustizia, e da cui il nostro campo ha preso il nome. Io mi sentivo come non mi ero mai sentita, e probabilmente è un’emozione irripetibile. Ciò che provavo nell’ascoltare tutte queste storie diverse e tutti questi fatti era un grandissimo senso di rispetto, di fronte a uomini che, per combattere la prepotenza, hanno rischiato la loro vita.Ed ecco che si spiega come mai alcuni di noi si siano ritrovati in seguito a Firenze: sia per la gioia di rivedersi, sia per parlare e soprattutto per scrivere insieme questo messaggio di sostegno ad una persona che lotta contro un sistema fortemente radicato nel nostro Paese e che non smetterà mai di farsi avanti. Lì, nella piccola Sessa Aurunca, ho conosciuto persone fantastiche. Lì, sulle terre di Don Peppe Diana, ho conosciuto volti che non scorderò mai. Anche io, con le mie braccia e con il mio sudore, ho contribuito a portare giustizia dove era stata cancellata. Tutti possiamo rendere la società migliore. In una frase: “Dunque, disse la formica. E cominciò a pisciare nel mare.”


elias

O

di Marta Piseri

ltrepasso la soglia con un passo esitante, e mi ritrovo in piedi nella semioscurità, il volto contratto in una smorfia momentanea per il tanfo improvviso e la mancanza di luce. Mi guardo intorno nella stanzetta angusta, passando in rassegna dei vecchi sgabelli malandati; le mosche mi ronzano intorno incessantemente, aumentando la sensazione di disagio. Ad un tratto, un movimento nell'angolo più buio della casupola; una figura rachitica e zoppicante si fa avanti lentamente, fino a che non riesco a distinguere i suoi lineamenti distorti dal tempo; la bocca sdentata si apre in un sorriso terrificante, solleva la mano nodosa e... Scusate l’inizio melodrammatico. Non siete finiti per sbaglio nella sezione horror, e quest'uomo non è pericoloso. Almeno, non troppo. Si chiama Elias, e la sua capanna di due metri quadrati fatta di sterco e paglia non è che la versione Maasai di uno studio medico. Siamo in Tanzania, in un Boma (villaggio) non troppo lontano dalla città di Arusha, e questo guaritore - per noi, a dir poco singolare - ha appena accettato di illustrarci la sua dottrina. Dicevo, ci stringe la mano e ci invita a sedere, tornando subito a trafficare con quelli che devono essere stati un tempo barattoli di Nutella, contenenti ora erbe e radici essiccate. Quando gli chiediamo, con l'aiuto di un ragazzo Maasai come interprete, dove ha

imparato ciò che sa, la risposta arriva con leggerezza, come se fosse ovvio: in sogno. Dio gli ha indicato in una visione le erbe da somministrare in determinate situazioni, e lui ha seguito l'ispirazione. È così che è diventato un medico a tutti gli effetti, spiega con orgoglio, esibendo un foglio su cui sono elencati tutti e 116 i mali che è in grado di curare, dal mal di testa all'AIDS; i suoi pazienti arrivano apposta dal Kenya, e a quanto pare anche un Milanese si è presentato di recente per farsi guarire dal cancro. Molti tornano a ringraziare, una volta ristabiliti. Di quelli che non tornano non sembra preoccuparsi. Riceve circa venti pazienti al giorno, afferma. Io sposto lo sguardo sull'unico uomo in vista fuori dalla casupola, un compaesano del nostro guaritore intento a sputare serenamente per terra, e mi impegno a non dare voce al mio dubbio. In questa lista, però, non compare niente riguardo alle infezioni, né il guaritore, quando gli viene posta la domanda, sembra sapere di cosa parliamo; in una civiltà in cui la circoncisione è di tradizione, come cosa un po' colpisce. Tra i lamenti del malato agonizzante nella nicchia dietro di lui, Elias procede spiegando come visita i suoi pazienti, metodo non troppo diverso da quello che conosciamo, e ci vengono illustrati i diversi utilizzi delle sue erbe e radici; quali vanno infuse in acqua calda, quali ingerite, quali mescolate con lo sputo e applicate come pomata... Le

raccoglie lui stesso appena fuori dal villaggio, oppure manda i suoi nipoti, unici aiutanti di cui si serve. Elias tuttavia non si preoccupa di tramandare loro il suo sapere, né di raffinarlo in alcun modo. Se Dio vorrà, istruirà allo stesso modo un altro dopo di lui. Di altri guaritori non è al corrente. Non posso fare a meno di chiedermi se, avendo sempre vissuto in un villaggio di quattro capanne, in una tribù che rifiuta quasi ogni tipo di contatto con il centro urbano, senza esperienza di strutture sanitarie come quelle a cui siamo abituati, considererei normale affidare la mia salute ad uno sciamano, più che un medico, che da offrire ha un infuso di radici e la promessa di una guarigione miracolosa da malattie per le quali anche nei migliori ospedali è possibile morire. Certo è che più tempo passo nello “studio” di Elias, meno mi sorprendo di tutto quello che sto imparando. Quello a cui ho appena assistito mi colpisce davvero solo al momento di congedarsi. Certe realtà sono tanto estranee alla nostra esperienza che, pur essendone al corrente, siamo in grado di concepirle solo a metà; e viceversa, vivendo quelle stessa realtà sulla nostra pelle, non percepiamo al momento quanto esse siano contrastanti con la vita che abbiamo sempre conosciuto; è ragionandoci sopra a posteriori che nozioni ed esperienza si intersecano in una forma di conoscenza più completa.

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Attualità

noi che non tutti ci alziamo

di Tatiana Ebner

Sono questi gli adolescenti di adesso, che sembrano sempre essere assenti, incollati ai videogiochi o al telefonino, con le cuffiette per la musica ad estraniarli ulteriormente dal mondo, che dormono quando il resto del mondo è sveglio”. È così che ci descrive lo scrittore giornalista Michele Serra nel suo libro “Gli sdraiati”, e così siamo visti da molti. Siamo i ragazzi che non sanno andare avanti, che non sanno prendere in mano la loro vita; siamo la generazione degli incompetenti, che non sanno cogliere le occasioni, che abusano di tutto, che non sanno staccarsi dal divano e costruire un nuovo mondo. Se solo fossimo come i nostri genitori! Se solo avessimo tutti il coraggio che avevano loro, il coraggio di cercare di diventare qualcuno, la buona volontà che ha caratterizzato la generazione precedente, la generazione di quelli che sono riusciti a costruire per noi, per i loro figli, un mondo “ideale”. Ma se il mondo creato da loro non ci permette di trovare un lavoro, forse non è poi così perfetto e forse, anche i nostri genitori non erano esattamente “alzati”. La generazione precedente è cresciuta in una situazione estremamente diversa da quella attuale. Per noi giovani risulta impossibile adattarci a situazioni di altri tempi. Abbiamo bisogno di trovare un nuovo modo di rapportarci al mondo. Perché allora continuano a cercare di inculcarci i loro ideali, i loro desideri e le loro ambizioni? Forse sperano che facendoci diventare quelli che loro non sono mai diventati tutti i loro rimpianti 10

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svaniranno. Noi giovani non possiamo diventare le ombre del passato. Noi dobbiamo proporre al mondo novità. Dobbiamo trovare metodi alternativi e più efficaci: dobbiamo riuscire a distruggere gli abituali metodi che ci vengono proposti e idearne di nuovi. Ora il compito di noi ragazzi è di guardare oltre gli schemi che ci vengono proposti, aprire la nostra mente e trovare il modo di andare avanti. Un altro argomento che il libro tocca è quello della scarsa partecipazione che si vede nei giovani. Infatti, così ci definisce Serra in un passo del libro: “ Gli adolescenti che dormono quando tutto il mondo è sveglio”. Secondo i nostri genitori non ci interessiamo abbastanza delle scelte che riguardano noi e il nostro mondo. Forse nessuno si rende conto di quanto poco spazio venga dato ai giovani al giorno d’oggi e di quanto noi stiamo provando a conquistarcelo in tutti i modi, perché sappiamo che se non partecipiamo alle scelte che riguardano il nostro futuro viviamo in un mondo non nostro.Tutte le persone che considerano i ragazzi degli “sdraiati” dovrebbero per una volta aprire gli occhi, guardare il mondo fuori dalla loro piccola e chiusa mentalità e osservarci bene, perché così non vedrebbero degli “sdraiati”, anzi, vedrebbero dei ragazzi pronti a fare qualsiasi cosa pur di partecipare attivamente al proprio futuro. Vedrebbero dei ragazzi appassionati, che sanno quello che vogliono e che lottano, hanno lottato, e lotteranno per tutta la vita con tutte le loro forze per ottenerlo! Noi veniamo considerati “sdraiati “

perché ci sono ragazzi che non partecipano a niente e che non fanno parte di nessun gruppo. Ed è a loro che mi rivolgo: a tutte quelle persone che non si interessano di niente. Sono loro che devono sapere come veniamo considerati, e, per la prima volta, darsi una mossa, farsi valere, e aiutarci a far capire a tutti che noi non siamo dei nullafacenti, ma che molti di noi vogliono far qualcosa per far valere le proprie idee. È sempre a loro che noi, in piedi, chiediamo di attivarsi, smettere di poltrire, rimanendo sul divano e sperando che le cose cambino da sole. Perché la possibilità che questo accada è concreta. Ogni giorno si possono vedere dappertutto ragazzi svegli, preparati, propositivi, impegnati. Ragazzi che lottano ogni giorno e allo stesso tempo studiano, svolgono attività extrascolastiche e vivono fino in fondo ogni loro giornata. Se solo pensiamo ai vari gruppi presenti nelle scuole e a tutte le iniziative organizzate, capiamo che ci sono ragazzi che mettono tutti se stessi in gioco, che credono in quello che fanno, che hanno il coraggio di costruire qualche cosa e che si impegnano a portare avanti quello che hanno creato. Non è giusto che ragazzi così vengano etichettati come “sdraiati”. Siamo noi i ragazzi del futuro, siamo noi la generazione che ha l’opportunità di cambiare il mondo. Quindi ragazzi, dimostriamo al mondo che sta crescendo un gruppo di giovani lottatori pronti a sorprendere tutti. Alziamoci in piedi e costruiamoci il nostro futuro!


cronache carducciane

BURRO, JUST DANCE E TANTO LOVE di Bianca Carnesale e Beatrice Penzo

B

ianca! Oggi la prof mi ha chiesto come fosse andata a Salisbury. Sono riuscita a rispondere solo che mi mancava Bennett, il nostro responsabile! Alla fine le ho raccontato di Stonhenge… tu? Bea! Con tutto quello che abbiamo fatto anche io non avrei saputo da cosa cominciare… La prima immagine che mi viene in mente è quella di Stonhenge. E’ davvero incredibile, tutti quei menhir e dolmen di cui sappiamo così poco... E il caldo pazzesco sull’autobus per Stonehenge? Eravamo talmente cotti che non riuscivo a capire più niente delle spiegazioni dell'audioguida... e pensare che l'anno scorso in Inghilterra ho avuto così tanto freddo che quest'anno ho portato solo vestiti pesanti! Ahah spero tu abbia approfittato di Primemark a Bath! E, restando in tema audioguide, ti ricordi cosa diceva quella dei bagni romani? Adriano grande costruttore di muri! Ci ho riso su per un'eternità, ma, a parte questo, i bagni erano davvero impressionanti: certo che i Romani se la godevano la vita! Ovvio che ho approfittato di Primemark! Non ho comprato il pigiamoneanimale, ma mi sono persa in quel negozio per ore. Non solo ho svaligiato Primemark (le mie amabili magliette di Harry Potter!), ho razziato anche le librerie di mezza Inghilterra... E poi le terme erano davvero bellissime. I Romani hanno lasciato ovunque la loro impronta e gli inglesi, quanto a valorizzazione, ci sanno fare. Tu hai assaggiato l'acqua delle terme? No, non ci tenevo troppo, dato che non ho ricevuto un commento positivo su quell'acqua! Invece mentre voi

bevevate quella brodaglia, io avevo già azzannato il mio panino, che con piacevole sorpresa ho scoperto essere sprovvisto di burro! La nostra host mum era davvero la migliore. Non voglio più sentire parlare di burro! Com'è possibile che delle persone pensino che sia buono il panino con burro e prosciutto? O le patatine all'aceto?Comunque – cibo a parte – mangiare con gli inglesi è una bella esperienza: quando ripenso alla sera del barbecue dalla host family di Pietro e Giovanni mi ritrovo ancora a star male dal ridere. Però avrei potuto sentirmi male non solo per aver riso troppo, ma anche per la torta al limone che sapeva di detersivo…

E parlando di dolci, per colpa dei mini-muffin triplo cioccolato (Russo docet) sarò ingrassata di tre chili: me li sono sbafati tutti con Sofia fuori dal British Museum. A proposito, ti hanno chiesto qualcosa sul British? Io avrei parlato per ore di tutto quello che abbiamo visto : la stele di Rosetta, le decorazioni del Partenone, i trent'anni spesi a cercare la dannatissima sezione del Giappone... ma non mi hanno chiesto nulla! Vedere di nuovo il British è stato bellissimo, mi perderei in quel museo un altro centinaio di volte.. ora è anche legato a un ricordo in più, infatti mentre noi cercavamo la sala del Giappone è nato il club dell'ombrellino: Adriano

che vagava senza meta per il museo con l'ombrellino come una guida turistica mi ha fatto morire dal ridere.. Non ricordarmelo! è stato uno dei momenti più imbarazzanti di tutta la mia vita... no, forse è stato il momento "just dance" alle 22 in Market Square. Accidenti come ci guardava male la gente! Ma cosa ci è saltato in mente?! Forse in quanto ad imbarazzo quelle che se la sono passata peggio sono state la Dani e la Carli con il bambino pervertito in casa, dovevano stare attente pure mentre si facevano la doccia! poverine...Già. Anche io e Marta in famiglia abbiamo avuto momenti imbarazzanti, come quando Matt, il nostro host father, facendo le pulizie in camera nostra ha trovato tutto il cibo nascosto… Quando abbiamo cucinato per la nostra host family la pasta Matt è stato tutto il tempo in cucina a fare foto! Ma tutto sommato quest'anno sono capitata in una bella famiglia.. Noi ci siamo dovute ingegnare col cibo perchè i nostri host parents erano ferratissimi in fatto di cucina. Però quando si parla di Inghilterra si finisce sempre a parlare di cibo! Ma indipendentemente dal cibo, la vacanza è stata davvero un successo, vero? Questa è stata una delle esperienze migliori che io abbia mai fatto. Ho migliorato il mio inglese, conosciuto gente meravigliosa, passato momenti splendidi. Lo rifarei un milione di volte e anche di più e sono veramente grata al Carducci per avermi offerto queste opportunità. Giovani carducciani, la scuola organizza uno stage in Inghilterra nel mese di settembre per le classi prime e seconde. Quello che avete appena letto è un piccolo resoconto.

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Cultura

E

ntrai in libreria sotto il peso del mio zaino di scuola, l’ingresso era luminoso e deserto come al solito, i nuovi romanzi esposti in bella vista su un tavolino al centro della sala. Finalmente un po’ di pace e tranquillità, eravamo solo io e i libri. Senza macchiare quel pallido silenzio re della libreria, mi avvicinai agli scaffali: l’odore dell’inchiostro e della carta si facevano sempre più intensi e talmente densi che quasi erano visibili sotto forma di una nuvola grigio perla, che in un attimo mi ha inghiottita. Tossendo un po’, ho liberato la vista dalla nebbiolina polverosa, fino a scorgere alcune copertine stipate sullo scaffale. Dopo aver studiato un titolo dopo l’altro, presi tra le mani diversi volumi, senza curarmi di che genere o di che autore fossero. Spostandomi sempre più a sinistra continuai ad afferrare qualsiasi libro mi capitasse sotto gli occhi, speranzosa che mi potesse, in qualche modo, rapire. Una volta finito lo scaffale, mi resi conto che quello non era il modo giusto per trovare un libro che mi interessasse, ma come fare? Che ci crediate o no, spesso è meglio lasciare che siano i libri a scegliere noi. Mi spiego meglio…a meno che non sia un testo consigliato da un amico o da un professore, il motivo per cui scegliamo spontaneamente di prendere tra le mani un libro è perché tra noi e il romanzo si stabilisce un rapporto, un legame, che nasce dal momento in cui il nostro sguardo si ingarbuglia nella copertina. Certo, capita a tutti di comprare libri che finiscono per non essere ciò che ci aspettavamo, ma anche questo può rendere la ricerca più intrigante e approfondita. Grazie al libro, lo scrittore riesce a dialogare quasi direttamente con il lettore, permettendogli di entrare nel pieno dei suoi pensieri e, più è abile, più 12

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NOI SIAMO QUELLO CHE LEGGIAMO di Margherita Ghiglioni riesce a rendere vivi e palpabili i suoi sentimenti. Spesso associamo al libro la parola rifugio. In molti sostengono che, quando necessitano di fare una pausa e fermare il mondo, che vortica frenetico, trovano nel libro un grande conforto. Sì, i libri servono anche a questo: con le parole dello scrittore ci si costruisce una propria casa sull’albero, sempre aperta al bisogno personale e, soprattutto, sorretta da radici solide e robuste che assorbono, pagina per pagina, l’inchiostro dei nostri libri preferiti. Per questo motivo è importante aprirsi a differenti generi letterari per capire di quale linfa hanno bisogno le radici del nostro albero per divenire robuste e solide. Capita a tutti i lettori di chiedersi, a volte, come un autore possa scrivere di episodi tanto simili ad avvenimenti verificatisi nella nostra vita. È un fatto curioso che fa riflettere. Non so voi, ma io a volte, mi ritrovo a pensare che lo scrittore mi spii da dietro gli angoli delle vie o che registri le mie conversazioni, da quanto ciò che scrive, sia simile a quello che vivo. Ovviamente, non essendo gli autori degli stalker

professionisti, la soluzione è un’altra ed è molto più semplice: ognuno di noi, vive una storia unica, che vale la pena di essere scritta, una storia con delle difficoltà da affrontare e con capitoli di grandi soddisfazioni. Il mondo è una grande libreria, noi siamo i romanzi, stipati uno affianco all’altro, illuminati da uno spiraglio di sole che entra dalla vetrina, uno strato sottile di polvere sulla copertina ci rende simili e analoghi, ma dentro ognuno ha scritta la sua storia, unica e mai letta prima. Come disse Pablo Neruda: “Ognuno ha una favola dentro, che non riesce a leggere da solo. Ha bisogno di qualcuno che, con la meraviglia e l’incanto negli occhi, la legga e gliela racconti”. Lasciate che i libri siano il vostro specchio dell’anima, che vi facciano riflettere e scoprire cosa siete, che i capitoli siano esperienza, lasciate che nascano sorrisi di fronte a dialoghi divertenti o che qualche lacrima inzuppi l’angolino della pagina, perché starete vivendo e quindi scrivendo la vostra storia. Proprio per questo noi siamo quello che leggiamo.


UNA SETTIMANA DA ARCHEOLOGA di Bianca Carnesale

E

’ dall’età di sette anni che ho deciso di diventare archeologa. Merito di una maestra che nell’introdurmi allo studio della storia ha saputo trasmettermi la passione per il passato e soprattutto per il modo di ricercarlo, complici i viaggi in Italia e in Grecia: tra le rovine mi attraevano quelle tende sotto le quali si intravedevano mura, resti e sudati personaggi che guardavano, indicavano, estraevano, pulivano. Sarà stato per mettere alla prova la solidità della mia vocazione, o per vedere se l’avrei archiviata una volta per tutte tra i sogni dell’infanzia, che i miei genitori mi hanno permesso di partecipare ad un campo archeologico di volontari, sotto il controllo della Sovrintendenza del Lazio. Così, quest’estate, ho vissuto la mia prima esperienza da archeologa.Pur essendo guidati da un capo “vero archeologo”, nessuno di noi sovrintendeva gli scavi, ma tutti scavavamo nel senso letterale del termine, in veri e propri cantieri: con pesanti scarpe da lavoro antinfortunistica, guanti a prova di taglio, picozze e attorno la dura terra, quella che lascia sui vestiti tracce quasi indelebili, che quando si sbriciola ti entra nelle scarpe e nei guanti. La nostra zona di scavo si concentrava nell’area della popolazione italica dei Falisci (VIII-III secolo a.C.), di cui i centri maggiori furono Narce, Falerii e Corchiano. Proprio a Corchiano, nella vecchia stazione riadattata per la nostra multiforme comunità di archeologi, c’era la nostra sede. Dico multiforme non a caso: tra di noi c’erano persone di età varia, di esperienze diverse, di idee anche opposte, ma tutti eravamo accomunati

dalla stessa passione per il passato e per l’archeologia. Questa passione e la comune costernazione per la mancanza di investimenti nel patrimonio archeologico e artistico ha fatto sì che il gruppo funzionasse, anche tra il lavoro duro di scavare, quello sistematico del catalogare, le spiegazioni del nostro “vero archeologo” –in inglese, perché nel campo c’erano anche russi e francesi –le corvèe per i pasti, la sveglia data a turni, i momenti di relax tra

calcetto, pallavolo, gelati (birra solo ai maggiorenni) e nelle visite al paese col vecchio furgone alla Scooby Doo. Scavavamo in una zona ricca di tombe, in parte già depredate; eravamo alle prese con lunghi dromos e, quando eravamo fortunati, trovavamo frammenti che poi avremmo pulito e catalogato. No, non è stato come vivere in un film di Indiana Jones; no, non ho scoperto una tomba integra con tutto il corredo funebre. Ma per me è stata semplicemente l’esperienza più bella della mia vita. L’Italia è un luogo talmente ricco di antichità da poterci inciampare. Quello che non comprendo è come questo settore, che potrebbe e dovrebbe essere essenziale per l’Italia sia così trascurato tanto che un sito come Pompei è a rischio e importanti scavi

vengono ricoperti per mancanza di fondi. Scavi che hanno avuto un costo alto e che poi, per mancanza di ulteriori fondi, vengono abbandonati, vanificando l’investimento iniziale. I siti riconosciuti dall’Unesco sul territorio italiano hanno un valore quattro volte e mezzo superiore alla media europea e sette volte maggiore di quella mondiale e tanto resta ancora da scoprire. Ma la parte di Pil destinata al patrimonio culturale è in Italia inferiore a quello di quasi tutti gli altri paesi europei (dati tratti dal Rapporto Bes2014, elaborato da Cnel e Istat). In Francia mi ha colpito la cura dedicata per esempio al pont du Gard, diventato una zona museale, con percorsi guidati e museo interattivo. Ogni città ha il suo monumento che viene presentato come il meglio conservato d’Europa e inserito in un percorso. A Nimes stanno costruendo il più grande polo museale della romanità. Lo faranno e in tempi brevi. Fa impressione in Francia vedere le scolaresche portate in estate a visitare i monumenti storici. Così come fa impressione, ma si comprende benissimo, come ad Ostia antica i visitatori siano in prevalenza stranieri. In Italia i pochi luoghi attorno ai quali si sono mobilitate risorse e tecnologie restano isolati, non inseriti in un’idea complessiva di valorizzazione. Sulla normativa, sull’entità e la modalità di investimento riguardante il nostro patrimonio culturale ci sarebbe molto da dire, ma occorre una conoscenza che ancora non possiedo. Quello che so è che un popolo si giudica anche dalla memoria che ha di sé stesso e da quanta cura ha nel conservarla e nel trasmetterla alle generazioni future.

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Cultura

PAESTUM, UN GIOIELLO NASCOSTO di Alice de Kormotzij

Non potete assolutamente arrivare a Palinuro senza aver visto Paestum. È il sito archeologico più conservato dell’antica Grecia e l’uscita è proprio sull’autostrada. Credetemi, è un vero gioiello, purtroppo non valorizzato, come del resto tanti gioielli nel nostro Paese.” Furono queste le parole di un’anziana signora dagli occhi straordinariamente vivi e brillanti che ci convinsero a deviare dal nostro percorso attraverso il Cilento. Il giorno successivo mi trovai così in macchina a percorrere la statale 18, strada sconnessa che offriva agli occhi uno spettacolo di meravigliose masserie con insegne spropositate e di giardini colmi di statuette di cemento difficilmente identificabili anche da mia sorella dodicenne. Ma, ad un tratto, il gioiello. Inaspettata, meravigliosa ed eterna. Mi apparve in questo modo Paestum, l’antica Poseidonia, città sorta agli inizi del VII secolo a.C. come colonia di Sybaris (l’attuale Sibari). Meta obbligata del Grand Tour di Goethe, trovai tristemente Paestum silenziosa e desolata, 14

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priva della tipica atmosfera da turismo di massa. Il sito conta infatti solamente 242.218 visitatori paganti nel 2013 e, tra i siti più visitati d’Italia, Paestum si trova solo ventiquattresima, invidiando così i 5,6 milioni del Colosseo e i 2,4 di Pompei (Dati presi da “Il Venerdì di Repubblica”, inserto settimanale). La fila per prendere i biglietti procedette velocemente nonostante fosse agosto inoltrato e, non avendo prenotato una guida, prendemmo in dotazione un tablet. La città presentava una regolare struttura a pettine con le tre principali strade in direzione Est-Ovest e una rete di vie minori perpendicolari ad esse in direzione Nord-Sud. Paestum è circondata da una cinta muraria quasi totalmente conservata e, in corrispondenza dei quattro punti cardinali, si trovano le quattro porte principali d’accesso: Porta Sirena sul lato est, Porta Giustizia a sud, Porta Marina a ovest e infine Porta Aurea a nord, che fu però demolita agli inizi dell’800. A nord delle prime tre strade principali vi era il santuario dedicato ad Atena con il tempio omonimo e, tra

questa strada e la parallela di mezzo, si estendeva la città (asty) vera e propria con l’agorà e altri edifici pubblici. Tra la strada di mezzo e quella meridionale, si trova l’area del santuario dedicato a Poseidone, nella quale vi sono i maestosi templi di Hera e Nettuno. Pur essendo necessaria una certa fantasia per immaginare la città rispetto, ad esempio, a Pompei, essa mi apparve estremamente suggestiva. In particolare, mi affascinò molto la Via Sacra, che, lastricata da blocchi di pietra calcarea, conserva ancora il solco del passaggio delle ruote dei carri. Il lastricato è romano, ma il tracciato risale all’età greca. Non è da meno l’ekklesiasterion, che era la sede delle assemblee dei primi coloni, che lì votavano le leggi ed eleggevano i magistrati. Ciò che risulta interessante è che appare visibile il cambio d’uso effettuato dai Romani che costruirono sopra di esso un santuario, essendo essi poco inclini alla democrazia diretta. Naturalmente, i tre templi di ordine dorico sono indubbiamente i resti più affascinanti e maestosi e costituiscono esempi


unici dell’architettura magno greca. Il tempio Hera fu edificato intorno al 540-510 a.C. ed era probabilmente dedicato ad Era, principale divinità venerata a Poseidonia. Esso è noto anche con il nome di Basilica, attribuitogli nel settecento. Infatti, a causa della quasi totale sparizione dei muri della cella, del frontone e della trabeazione e per altre caratteristiche come l'insolito numero dispari delle colonne sul fronte, si credeva che non si trattasse di un tempio, ma di una basilica che, nel senso romano del termine, era un ambiente coperto destinato a sede di tribunale e alle riunioni pubbliche dei cittadini. Si tratta di un tempio periptero ennastilo (cioè con nove colonne sui fronti), con diciotto colonne sui lati. Le cinquanta colonne perimetrali in pietra calcarea grigia sono pressoché intatte, mentre quasi nulla è rimasto del naos, dove, secondo la tradizione si trovava l’adyton, sede del simulacro della divinità e dunque cuore del tempio. Le colonne sono molto rastremate e hanno la particolarità di essere dispari sulla fronte della peristasi. La presenza di una colonna in asse rappresenta un elemento arcaicizzante,

e fu poi rifiutata dall'architettura greca del periodo classico. Il collarino è decorato con incavature regolari che ricordano foglioline stilizzate, decorazioni che ricordano modelli micenei. Nell’area del santuario settentrionale di Paestum sorge un secondo tempio di dimensione minori. Originariamente dedicato ad Athena, esso è ora noto come Tempio di Cerere e risale al 500 a.C. circa. Il tempio è del tipo peripteo, cioè circondato da colonne, e presenta una peristasi di 6x13. Per la prima volta in Magna Grecia, il numero delle colonne sul lato maggiore è uguale al doppio più una di quelle presenti sul lato minore, proporzione che ritroviamo anche nel Partenone di Atene. Esso è strutturalmente più semplice rispetto agli altri due templi: presenta infatti il pronao e la cella, ma è privo di adyton. Infine, a nord della Basilica, sorge il Tempio di Nettuno (460-450 a.C.). Esso presenta una peristasi di 6x14 colonne e risulta il più grande dei tre templi. Le colonne sono assai massicce e notevolmente rastremate. Nel complesso, le proporzioni hanno ormai acquisito l’ordine dorico maturo. Dopo aver visitato gli scavi, visitam-

mo il Museo Archeologico, dove, tra i pezzi di inestimabili di valore storico e artistico, è conservata la Tomba del Tuffatore, unico esempio di pittura di età greca della Magna Grecia. Sulla lastra di copertura è dipinto un uomo che si tuffa in acqua: il tuffo simboleggia probabilmente il passaggio dalla vita alla morte. L’uomo, colto in pieno volo, si tuffa con un movimento di grande eleganza. La fortuna di un parco archeologico non dipende dunque solo dal suo valore, ma da molti altri fattori. Paestum, come mi spiegò la custode del museo, è raggiungibile solamente in macchina e non è affatto pubblicizzata, tanto che riceve solamente 400 mila presenza annuali, quando dovrebbe superarne il milione. Mancano un bar e un ristorante e il parco archeologico fatica ad ottenere visibilità persino a causa del business della mozzarella, di ben 100 milioni di euro l’anno, e degli innumerevoli alberghi della zona, uno dei quali proprio nei pressi del tempio di Nettuno. Un gioiello nascosto dunque, maestoso, eterno, sospeso, ma purtroppo inaspettato.

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CINEMA

Tutti al cinema!!! di Bianca Carnesale

E

ccomi, per il terzo anno consecutivo, a scrivere di cinema per l’Oblò, ad introdurre una rubrica fissa, amata dai redattori e - si spera - anche dai lettori, che vi possono trovare idee per trascorrere un pomeriggio libero (ho detto un pomeriggio libero? Uno alla settimana? No? Troppo? Uno al mese? Uno all’anno? Professori pietà, in fondo si tratta della settima arte!). Scorrendo i numeri degli anni scorsi, ho notato che la rubrica cinema spazia nel tempo e nei generi: le recensioni vanno da quelle dedicate al peggior film commerciale (italiano o straniero che sia) a film impegnati, difficili da comprendere e da recensire, a volte anche classici. Questa libertà di scelta

credo possa essere una ricchezza che rispecchia le molteplici anime dei carducciani, con gusti, idee, visioni del mondo giustamente non unilaterali. Confesso che non sarei mai andata a vedere certi film, mentre mi sono innamorata di altri attraverso le parole che li raccontavano. Questo è uno degli intenti della rubrica; mostrare un panorama vasto, nel quale all’arte a volte si affianca il prodotto puramente commerciale. Anche quest’anno cercheremo di proporvi, accanto alle recensioni, le minirecensioni (brevissime indicazioni sui film appena usciti). Mi piacerebbe anche – redattori e collaboratori redigendo e collaborando – collaborare con il progetto cineforum, lavorando in parallelo. L’entusiasmo c’è, la vo-

lontà anche, ma…avete presente quelle settimane in cui non vi è dubbio che i professori si siano messi d’accordo per andare all’attacco e lo fanno con tutta la loro esperienza e capisci che non hanno solo imparato a leggere Cesare o le reazioni chimiche o la fisica teorica, ma sanno tradurre tutta quella teoria in una spietata tattica militare? Ecco, quelle settimane lì, quando tutto vi sembra impossibile, non pretendete l’impossibile proprio dalla nostra rubrica. Però guardate un film, perché il cinema è illusione per definizione e quindi sogno. Vi risveglierete e ritroverete professori tornati umani, persino sorridenti. Parafrasando Bogart: è il cinema, bellezza, e tu non puoi farci niente. Buona Visione!

the giver il mondo di jonas “da grande sofferenza, scaturì una soluzione: comunità, luoghi idilliaci dove il disordine divenne...armonia” di Olivia Manara

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mmaginate un mondo senza guerre, senza sofferenza, senza differenze sociali. Un mondo in cui le scelte individuali non sono ammesse e l’uniformità regna sovrana: stesse case, stessa composizione familiare…perfino gli stessi vestiti. Tutto ciò che può causare dolore o disturbo è stato abolito. Ma è questo il mondo perfetto? Sì. O forse no; perché per raggiungere questo scopo, l’uomo ha cancellato anche ciò che di più bello offre la vita: emozioni, musica, arte, colori (all’inizio vi ritroverete in un film in bianco e nero!) Ed è questo il mondo in cui vive Jonas (interpretato dal poco conosciuto Brenton Thwaites): un giovane ragazzo di 12 anni, che sta per varcare la soglia del mondo adulto, ricevendo il lavoro che il Comitato degli Anziani ha scelto per lui. Ma Jonas è speciale. Riesce a vedere “oltre” ed è proprio per questo che decidono di affidargli un ruolo delicato: quello dell’“accoglitore di memorie”. Verrà affidato così al Donatore, un 16

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uomo anziano e solo che, come suo predecessore, gli trasmetterà tutti i ricordi delle bellezze e delle tragedie dell’umanità. Tutto ciò che alla gente era stato negato per garantire un mondo di pace. Il compito di Jonas sarà quello di conservarle. Grazie alle memorie, il mondo gli apparirà diver-

so. Proverà emozioni, vedrà i colori delle cose e crescerà, accompagnato dalle mani sapienti del Donatore. Ma non acquisirà soltanto il ricordo della bellezza. Ai suoi occhi, infatti, si presenterà anche l’altra faccia di quella medaglia

che è il mondo in cui vive. Scoprirà che la sua gente ha perduto la consapevolezza dell’omicidio, che chiama “congedo” la pena di morte e che i bambini più deboli vengono soppressi alla nascita, senza che ce ne si renda conto. Capirà, finalmente, che la perfezione non esiste e che la società a cui appartiene non è così giusta come appare. Decide perciò di ribellarsi e scappa, portando con sé Gabriel, un bambino destinato ad essere congedato. Il suo obbiettivo: restituire le memorie alla Comunità. Tratto dall’omonimo libro di Lois Lowry, “The Giver” è un film provocatorio che ci porta a riflettere sull’importanza della conoscenza e su ciò che sia giusto o sbagliato all’interno della nostra società. Un film che, pur basandosi sulla fantascienza, non è poi tanto lontano dalla realtà, in quanto ci mostra un futuro tanto possibile, quanto scioccante. Qualcosa su cui riflettere prima di andare a dormire.


Lucy: siete pronti ad usare il 100% del vostro cervello? di Francesca Petrella

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se un giorno ti svegliassi e scoprissi che puoi utilizzare il 100% del tuo cervello? Che il 10% che utilizzi quotidianamente è solo una briciola di ciò che potresti effettivamente fare e conoscere? La conoscenza rappresenta il Sacro Graal per l’uomo, il fine ultimo al quale ogni individuo anela, ma nessuno è mai veramente capace di sapere tutto di tutte le cose. O forse no? Il regista francese Luc Besson vuole metterci alla prova con questa storia fantascientifica, con sfumature di filosofia e morale. La protagonista è Lucy, interpretata da un’affascinante Scarlett Johansson, una ragazza che si ritrova suo malgrado coinvolta in un traffico di droga, diventandone un corriere passivo. Il suo addome è diventato mezzo di trasporto di una droga sintetica conosciuta come CPH4, ma sembra che la sorte abbia deciso che non arriverà mai a destinazione… A causa di un calcio provocato da un malavitoso rivale, il pacchetto si rompe dentro di lei e il corpo di Lucy assorbe avidamente quella droga che la renderà dotata di conoscenza e poteri inimmaginabili. I giorni passano e la ragazza riesce ad accedere ogni giorno di più a una nuova area del cervello, che la rende persino in grado di trasformare se stessa. Nel corso del film lo spettatore non può che porsi una domanda: cosa accadrà quando arriverà al 100%? Ed è quello che con-

tinuavo a chiedermi anch’io. Dotata di conoscenza e potere, Lucy è consapevole che non può tenere solo per lei una tale mole di informazioni: perciò decide di contattare un neuroscienziato, impersonato da Morgan Freeman, che rimane stupefatto davanti ad un simile prodigio. La protagonista vuole il suo aiuto perché ha intenzione di donare tutto il suo sapere all’umanità, attraverso una chiavetta futuristica creata da lei. Ormai siamo vicini: dal 90% passa al 95% della conoscenza e solo

allora Lucy, l’unico essere umano che ha avuto accesso alle piene potenzialità cerebrali, inizia a ricoprirsi di uno strato nero che fuoriesce dalle mani e piedi fino a quando… non svanisce. Lucy si dissolve nel nulla. L’epilogo di questa storia è una scena in cui il neuroscienzato si ritrova un sapere immenso e al di là della comprensione umana tra le mani. Devo riconoscere che questo film contiene molti tratti del thriller, soprattutto quando la ra-

gazza si ritrova coinvolta in inseguimenti per le vie di Parigi. Però, forse, l’aspetto che di più affascina è il possesso di informazioni di carattere universale, l'essere dotati di poteri che ci permettono di percepire perfino il rumore della foglia dell’albero, fuori dalla porta di casa. Bisognerebbe chiedersi, tuttavia, se è davvero cosi indispensabile tutta questa conoscenza e se l’umanità è pronta ad accedervi. Luc Besson sembra rispondere nel corso del film stesso: Lucy non potrebbe forse rappresentare l’umanità e il suo dissolvimento l’incapacità dell’uomo ad accogliere il sapere totale? Il regista francese è in grado di analizzare nella profondità delle cose, come dimostra nei suoi numerosi lavori. Anche qui utilizza abilmente la macchina da presa per inquadrare un errore che spesso commette l’uomo, il peccato di hybris, rappresentato dalla presunzione di voler sapere tutto. In una specie di mito moderno, gli dei hanno voluto punire l’umanità – rappresentata da Lucy- facendo dissolvere la conoscenza di cui era entrata in possesso; una metafora per dire che gli uomini possono anche ottenere la conoscenza suprema ma che essa è effimera, durevole quanto un soffio di vento. L’uomo anela al pieno sapere, ma a volte dovrebbe capire quando è il momento di fermarsi: altrimenti non si ritroverà altro che polvere.

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CINEMA

Resta anche domani di Valeria Galli

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mmaginate una coinvolgente storia d’amore adolescenziale, che qualsiasi teenager desidererebbe vivere almeno una volta nella vita, e mischiate il tutto con le caratteristiche di un dramma in perfetto stile americano. Ecco, ora voi avrete la trama di “Resta anche domani”. Tratto dall’omonimo romanzo bestseller di Gayle Forman e diretto dal regista R. J. Cutler, “Resta anche domani” è un susseguirsi continuo di romanticismo, emozioni intense e tragicità. Mia, interpretata dalla giovane Chloë Grace Moretz, è una violoncellista talentuosa e introversa; Adam, interpretato da Jamie Blackley di “Biancaneve e il cacciatore”, è un affascinante e misterioso rockettaro emergente. I due giovani sono molto diversi, ma allo stesso tempo simili perché condividono la stessa passione: la musica. La musica sarà ciò che li unirà in una entusiasmante storia d’amore, ma anche ciò che li dividerà nel momento in cui le carriere musicali dei due giovani sembrerebbero doverli neces-

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sariamente portare ad intraprendere strade differenti. Ma all’improvviso avviene una catastrofe: a seguito di un incidente stradale, Mia perde i suoi genitori e il suo fratellino Teddy e finisce in coma. In ospedale, la ragazza vive un’esperienza extracorporea (un suo alter ego si aggira sulla scena del film) con dei flashback che raccontano allo spettatore la sua vita nei mesi precedenti. Mia era posta di fronte a una scelta: perseguire i suoi sogni di musicista presso la prestigiosa Juillard di New York o rinunciarvi per continuare a vivere al fianco dell’amato Adam a Portland. Ora, tuttavia, ha di fronte a sé una decisione ancora più grande da prendere: lottare e restare o arrendersi a un destino ineluttabile che la sta mettendo alla prova. Sembra che il suo futuro dipenda solo da lei, ma “a volte nella vita fai delle scelte e a volte è la vita che sceglie per te”, come le aveva detto il padre Denny. Lo sfondo della vicenda è forse fin troppo sovrannaturale in alcuni mo-

menti, specialmente nella scontata e immancabile luce alla fine del tunnel, per rappresentare il passaggio intermedio tra vita terrena e aldilà. Come avrete già intuito dalla trama, la musica ricopre la parte di un personaggio centrale all’interno del film. Infatti, una nota positiva va senz’altro alla colonna sonora, che spazia da una sonata per violoncello di Beethoven a brani musicali di Zoltan Kodaly, Bach, Buzzcocks, Beck, Sonic Youth, Blondie, Iggy Pop e The Dandy Warhols. “Resta anche domani” racconta una storia d’amore caricata di un romanticismo tipico solo di chi è adolescente, alle volte forse banale poiché fin troppa ricca di cliché e luoghi comuni. Tuttavia, ciò è giustificabile dal fatto che il film sia indirizzato ad un pubblico giovane e per la maggior parte femminile, talvolta alla ricerca di una storia che sappia coinvolgere, appassionare e commuovere. Il regista riesce benissimo in questo intento, poiché “Resta anche domani” è un film che per quasi due ore lascia il pubblico con gli occhi perennemente lucidi e il fiato sospeso. Centosei minuti che ci tengono aggrappati a un continuo “Se”, facilmente riconducibile al “Se resti” che, oltre ad essere la traduzione del titolo originale “If I Stay”, sono le parole pronunciate da Adam nel suo accorato appello mentre l’amata Mia combatte tra vita e morte. La vicenda di Mia, tra ricordi e presente, ci rende consapevoli di come la nostra vita possa cambiare da un momento all’altro e ci tiene lontani dall’happy end, fino ad un minuto dalla fine. Ora che la sua vita è completamente sconvolta, vale la pena per Mia “restare anche domani”?


the maze runner: di Cristina Isgrò

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he Maze Runner – Il Labirinto è il primo capitolo di una saga composta da quattro libri, dalla quale è stato tratto un film che, pur non essendo del tutto fedele al libro, è costruito in modo tale da intrattenere lo spettatore grazie ad un buon ritmo narrativo. Già dalla prima inquadratura infatti, lo spettatore viene catapultato all’interno della vicenda, della quale non conosce ancora i particolari, e viene così invogliato a scoprire di cosa si tratta. Thomas, un adolescente, si ritrova all’interno di un ascensore che sta salendo verso l’alto e quando questo si ferma viene accolto da un gruppo di ragazzi in una radura circondata da un misterioso labirinto. Questi ragazzi hanno costruito una piccola comunità all’interno della radura, con le proprie leggi; nessuno di loro ricorda niente del proprio passato né ha idea del perché si trovi in quella radura, nemmeno Thomas. Ma, al contrario degli altri, Thomas è più curioso, più intraprendente ed in pochi giorni riuscirà ad apportare numerosi cambiamenti e a conquistarsi la fiducia dei ragazzi, guidandoli così all’uscita dal labirinto. Ma la strada non sarà semplice, sia a causa di violenti contrasti all’interno della comunità dei ragazzi, sia a causa dei Dolenti: i mostri che abitano i corridoi del labirinto. Il film subisce l’influenza della filmografia di questi tempi, in particolare tratta un tema molto vicino a quello sulla quale è basato “Hunger Games”, ovvero il tema della prova imposta ai

il labirinto

giovani da una crudele società collocata in un futuro immaginario. Nonostante questo tema si avvicini molto a quello della saga sopracitata, non è una copia sbiadita di qualcosa di più grande; anzi compete con gli antecedenti, arricchendoli e rinnovandoli. Il film è dotato di un assemblaggio di temi e generi differenti sviluppati molto bene e in grado di mischiarsi in modo ottimale fra di loro. Inoltre ho trovato il connubio colonna sonora-inquadrature molto ben riuscito, in grado di coinvolgere lo spettatore trasmettendogli varie emozioni. Un altro punto a favore del film è l’attore protagonista: Dylan O’Brien. Nonostante la giovane età, O’Brien è un attore molto competente e con brillanti prospettive. Lo scheletro fondamentale di tutta la vicenda è il rapporto fra i personaggi, i quali entrano in conflitto tra loro, come è abituale in una normale società; alla fine la personalità più carismatica determina il destino

di tutti gli altri, nel bene o nel male. Molto originale è anche il tentativo di far apparire tutto come un enorme videogioco, in cui il labirinto è solo il primo livello da superare. Infatti l’uscita dal labirinto sarà solo la prima tappa verso la fine dell’esperimento, nel quale raggiungono la salvezza soltanto i più capaci. L’unica critica che mi sento di esporre è che il film non approfondisce molto alcuni temi che sono invece ampiamente trattati nel libro, ma questo è il problema di quasi tutti i film tratti da saghe narrative: essendo presenti molti contenuti è difficile per il regista riuscire ad approfondirli tutti. Nonostante questo, il regista esordiente Was Ball è riuscito a realizzare un film coinvolgente; il finale risolve degli interrogativi, ma contemporaneamente ne pone degli altri, invogliando così lo spettatore a voler sapere dell’altro riguardo alla storia e forse ad andare a vedere il secondo capitolo della saga.

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musica Mad Sounds di Federica Del Percio

Titolo: Everybody Hurts Artista: R.E.M. Album: Automatic for the people Anno: 1992

di Julia Cavana

Titolo: Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me Artista: The Smiths Album: Strangeways, Here We Come Anno: 1987

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When the day is long and the night / the night is yours alone when you're sure you've had enough / well hang on.” Si apre così la sublime ballata “Everbody Hurts” dei R.E.M., i quali già dai primi versi incantano con un'intensa e toccante melodia ed il preludio di un testo magnetico che, come si può intuire, tratterà della solitudine: sentimento capace di insinuarsi nella vita di chiunque come un'ombra nera, corrodendo l'individuo o la maschera protettiva che esso stesso si è costruito intorno. Dunque fin da subito si entra nelle calde e malinconiche note che provocano emozioni limpide, dirette, uniche. Questo però è solo l'inizio. “Don't let yourself go / everybody cries and everybody hurts sometimes” così prosegue il brano, incalzando lievemente il ritmo e giocando con pause ad effetto che, adoperate con ingegno, portano al totale coinvolgimento dell'ascoltatore;

Last night I dreamt / That somebody loved me / No hope no harm / Just another false alarm” (“La notte scorsa ho sognato che qualcuno mi amava, nessuna speranza, nessun dolore, solo un altro falso allarme”). Gli Smiths raccontano la malinconia e il dolore come non lo fa nessuno. Ecco perché, già durante i primi due minuti di Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me, nei quali si susseguono cupi accordi di pianoforte sullo sfondo incerto di urla soffocate, hai la fastidiosa sensazione, ma chiara nella tua testa, che il dolore è tutto lì. D'un tratto arriva la voce di Morrissey, calda, cupa, terribilmente giusta ma anche squisitamente tragica, che canta di una fine, una fine che può essere quella

ed è proprio da queste attente e studiate scelte che si intuisce la bravura di tali artisti. Giungendo finalmente al cuore della canzone arriva anche l'atteso e bramato urlo di rivolta, che sale dal cuore e scalda completamente l’ascoltatore, fin nel profondo. “Everybody hurts / Take comfort in your friends / Everybody hurts / Don't throw your hand/Oh, no. Don't throw your hand / If you feel like you're alone, no, no, no, you are not alone”. La stessa forza viene consumata nelle strofe seguenti, per poi esaurirsi con la voce dai toni dolci-amari di Stipe che ripete “hold on”, “tieni duro”, perché la vita è anche questo e tu, come tutti, puoi affrontarla. Senza dubbio la base qui parla da sé. La purezza degli archi in crescendo che si fonde con un pulito riff di chitarra e una ritmica semplice generano un'armonia surreale, la quale va scemando nel silenzio, portando via con sé le tue innocenti sensazioni e lasciandotene solo un ricordo apparente.

degli Smiths (Strange ways, Here We Come fu infatti l'ultimo album della band di Manchester prima del loro scioglimento) o anche un po' la tua. E dopo averlo fatto magistralmente, come è arrivata, la sua voce se ne va in quello che può essere definito quasi un lamento, un addio. E non ti è difficile immaginare la scena di quell'addio, forse perché gli arrangiamenti orchestrali donano alla canzone un'atmosfera cinematografica, o forse perché Morrissey e Marr hanno trascritto in musica, con la drammaticità che li caratterizza, cinque minuti di dolore i quali, che ti piaccia o no, tutto il tuo corpo ti richiede di ascoltare immobile. “So, tell me how long / Before the last one? / And tell me how long / Before the right one?”


Don’t wanna be an american idiot di Giulia Casiraghi

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olti di voi potrebbero dirmi che sono l’ennesima persona che, ipocrita lei stessa, si mette a criticare un modello affermatosi nel corso dei decenni come il migliore e senza pari. Ma la mia critica non sarà rivolta alla musica in sé, perché di questo proprio non me ne intendo, bensì ai costumi che caratterizzano i musicisti di oggi, spesso personaggi controversi (senza nulla togliere a nessuno, s’intende!). Come ogni anno, anche lo scorso agosto si sono svolti in America gli MTV Video Music Awards, che hanno visto la partecipazione di numerose star americane e anche di alcune new entries internazionali. Penso che i VMAs siano l’esempio lampante di quanto gli americani siano ipocriti. Al di là del fatto che i concorrenti in gara sono sempre gli stessi ormai da anni, ad essere premiati sono raramente artisti internazionali. Ma quello che davvero fa più scandalo e deve far riflettere è il comportamento di molti di loro: c’è addirittura chi si commuove perché a ritirare il proprio premio manda un senzatetto salvato dalla strada, affermando di aver fondato un’associazione, My Friend's Place, che aiuta queste persone, suscitando la commozione del mondo intero (mentre l’anno prima, e tuttora, si esibiva oscenamente sul palco – non perché io sia bigotta, ma è la realtà dei fatti a parlare). Altre personalità di spicco, invece, possono dirsi davvero controverse: c’è chi, ad esempio, partecipò agli MTV Video Music Awards 2010, accompagnata da quattro membri dei servizi delle Forze Armate degli Stati Uniti ai quali era stato vietato di servire aper-

tamente nell’esercito a causa del loro orientamento sessuale, indossando un abito fatto interamente di carne, gesto aspramente criticato dalle associazioni animaliste. E io mi chiedo: che bisogno c’era di indossare un vestito fatto di bistecche bovine per protestare contro la politica del Don’t ask, don’t tell, intrapresa in America tra 1993 e 2010 ai dan-

n i dei soldati omosessuali? Non sarebbe bastato un discorso o un diverso modo di protesta (anche perché, diciamocelo, quale mente sana potrebbe mai indossare un vestito di carne, al di là dello spreco di cibo)? La persona in questione risponde così in un’intervista: "Se non lottiamo per ciò in cui crediamo, e se non lottiamo per i nostri diritti, presto andremo a disporre dei diritti tanto

quanto la carne sulle nostre ossa". D’accordissimo, per carità, ma era necessario arrivare a tanto? Per non parlare poi dei messaggi di violenza e di facili costumi che vengono trasmessi dai video musicali, anche se, bisogna dirlo, è un’abitudine assai diffusa tra i musicisti di tutto il mondo e non sembra essere un fenomeno recente. Anzi, video di numerose pop star degli anni Ottanta, per altro tuttora in attività, sembrano aver dato origine ad un fenomeno davvero inarrestabile. L’anno scorso, per esempio, era in voga una canzone con un motivo orecchiabile, non male dal punto di vista musicale (secondo il mio modesto parere), ma scandalosa e maschilista per quanto riguarda il video annesso (e lo stesso testo). L’autore della canzone afferma di aver chiesto addirittura il permesso a sua moglie, prima di girare questo video (del quale, tra l’altro, esistono due versioni: una che non lascia nulla all’immaginazione e una “pulita”). Quello che, al di là delle banalità, ho cercato di dire in questo articolo, è semplicemente che non è necessario essere famosi per fare del bene, né essere volgari per essere famosi. Penso che il modello che ci viene costantemente trasmesso dalla televisione, ma oggi più di ieri dal Web, sia un modello ipocrita, ingannevole, basato solo sull’apparenza. Il mondo si sta dirigendo verso una frivolezza e una mancanza di profondità senza limiti. Quindi, per concludere come ho iniziato: “Don't wanna be an American idiot. One nation controlled by the media. Information age of hysteria. It's calling out to idiot America” (Green Day, American idiot).

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Libri

In libro libertas

di Letizia Foschi

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arducciani e carducciane di ogni dove, ho il piacere di presentarvi il ritorno della rubrica sui libri (famosa già ai più grandi)! A cosa serve? A invogliare i ragazzi che passano la vita davanti ad un cellulare a scoprire le meraviglie nascoste di un libro o, per coloro che senza tecnologia proprio non vivono, di un e-reader. Tutti, almeno un paio di volte, abbiamo dovuto leggere un libro per scuola, e tutti, almeno una volta, l’abbiamo odiato. Non dite che non è successo, perché è un dato certo: anche i lettori più accaniti detestano i libri che danno di compito i professori. Dopo certe esperienze “traumatizzanti”, non sempre i ragazzi vogliono rischi-

are di nuovo: i libri vengono abbandonati, lasciati alla polvere in un angolo della casa, e la biblioteca della scuola

non diventa altro che una leggenda. Io e i miei soci della redazione siamo

Tredici

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redici (Thirteen Reason Why) è il libro esordio dello scrittore Jay Asher. Il protagonista è Clay Jensen, un ragazzo da sempre innamorato di Hannah Baker, che però si è tolta la vita di recente lasciandolo sconvolto. Due settimane dopo l'accaduto, tornando a casa da scuola, Clay trova un pacco senza mittente contenente una cartina della città e sette videocassette contenenti tredici storie (una per lato). Queste sono state registrate da Hannah e, in ognuna, racconta di una persona che ha contribuito a farla arrivare alla decisione di suicidarsi. Così Clay inizia ad ascoltare le videocassette per capire quale tragica azione possa aver compiuto per portarla al suicidio, e scoprirà che la ragazza che ai suoi occhi appariva perfetta non aveva una vita facile, e che c'era molta gente pronta a prendersela con lei o a credere a stupidi pettegolezzi 22

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qui per questo, per farvi sentire di nuovo il brivido di una lettura con le nostre recensioni, per aprirvi gli occhi davanti a romanzi di cui non sapevate nemmeno l’esistenza che potrebbero addirittura diventare i vostri “migliori amici”! La novità di quest’anno è che, almeno per quanto riguarda i miei articoli, sarete voi stessi a scegliere il titolo: mandatemi un titolo che vi piacerebbe sentire recensito o che vorreste leggere ma non siete del tutto convinti, io lo leggerò e dirò cosa ne penso sul numero che segue, quindi affrettatevi! Potete inviarmelo su Facebook o alla mia e-mail: foschi.letizia.carducci@gmail. com . Aspetto le vostre idee!

di Davide Recalcati che la riguardavano.La trama lo fa sembrare un libro strano, forse anche un po' macabro, ma io la trovo molto particolare e "diversa" da quelle che ci vengono proposte di solito. Iniziamo

il libro scoprendo che Clay è distrutto per la morte di Hannah, soprattutto perché era molto giovane. Quando inizia ad ascoltare le registrazioni, la sua reazione è un misto fra sorpresa e ter-

rore, e non può fare a meno di chiedersi che cosa c’entri lui con il suo suicidio. La "caduta" di Hannah è dovuta a numerosi eventi che si sono accumulati nel tempo e che man mano hanno formato una valanga che ha travolto la ragazza senza che lei riuscisse a fare niente. Durante l'ascolto, Clay diventerà partecipe del dolore provato da Hannah, ma si sentirà anche molto in colpa per non aver potuto fare qualcosa per "salvarla". Leggere questo libro, per me, è stata un'esperienza davvero singolare: sapere che una persona è così distrutta da togliersi la vita è un concetto distante da noi e, nonostante io sia completamente contrario a chiunque decida di privarsi di una cosa importante come la vita (anche perchè niente è irrisolvibile, neanche la peggiore delle depressioni), sono convinto che questo libro possa aiutare a far riflettere sulle conseguenze che hanno le nostre azioni sugli altri.


Il trono di spade

di Davide Recalcati

Christine la macchina infernale di Letizia Foschi

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l trono di spade è il primo libro della serie "Le cronache del ghiaccio e del fuoco" di George R. R. Martin, pubblicato nel 1986 ma diventato molto più noto grazie alla recente Serie Tv della HBO. La storia è ambientata nell'immaginaria regione dei Sette Regni in un'epoca simile a quella medievale, e ha inizio quando il primo cavaliere del re muore e il re Baratheon deve trovare qualcuno che lo rimpiazzi. Quest’ultimo decide di chiedere aiuto a Eddard Stark, Lord di Grande Inverno e suo amico di vecchia data, che inizialmente è un po' scettico e non vuole accettare la proposta, ma poi, grazie anche al consiglio della moglie Catelyn, decide di accettare l'incarico poiché non si fida della regina Cercei (moglie di Baratheon) e della sua famiglia di provenienza, i Lanninster. Il libro è narrato dal punto di vista di vari personaggi e, in questo puntata, seguiamo anche le vicende di Jon Snow, figlio illegittimo di Eddard Stark, che si reca prima della partenza del padre alla barriera, il confine settentrionale dei sette regni dove sono avvenuti recentemente alcuni fatti davvero preoccupanti, e Daenerys Targaryen, legittima erede del Trono di Spade (che spetta al re), costretta a scappare con il fratello dopo l’omicidio dei suoi genitori da parte della famiglia dell’attuale re. Ora il fratello vuole darla in sposa a Khal Drogo, un uomo molto potente che in cambio gli darebbe un esercito per spodestare il re, ma Daenerys si rifiuta di sposarsi perché è ancora giovanissima. Ciò che rende questo libro particolare è l'utilizzo di elementi che caratterizzavano il Medioevo: re, regine, cavalieri, lotte per il potere, omicidi, tradimenti, complotti e scontri all'ultimo sangue. La storia viene sviluppata molto bene e, seppur il libro presenti alcuni punti meno intriganti, non puoi fare a meno di continuare per approfondire la storia. Inoltre, man mano che la storia avanza, le storie si intrecciano, sorgono domande e l'unica cosa che si vuole fare è arrivare al punto in cui tutti i nodi vengono al pettine. Il fatto che la serie venga portata avanti a lungo in più libri non so se sia un fatto positivo o negativo perché la storia potrebbe perdere la sua essenza iniziale e diventare scontata e monotona. Intendo continuare a leggere questa serie il più presto possibile e intanto vi consiglio assolutamente Il Trono di Spadese avete voglia di un fantasy puro.

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utti hanno paura di qualcosa: chi del buio, chi dei testimoni di Geova, chi delle malattie… ma avete mai avuto paura di una macchina? Ok, avete ragione, nemmeno io cammino per strada urlando se passa una Mini Cooper, ma se fosse una Plymouth Fury del 1958, con gli abbaglianti accesi, in piena notte e con la migliore intenzione di ammazzarvi? Sì, in questo caso bisogna avere paura. Stephen King, il Re del Brivido, non delude mai, nemmeno in questo vecchio romanzo del 1983. Arnie Cunningham, il tipico “sfigato” del liceo, si innamora a prima vista di un rottame: la Plymouth suddetta, tutta arrugginita, con i sedili distrutti e i vetri rotti, gli fa perdere la testa… nel vero senso della parola. Nonostante le proteste del suo grande amico d’infanzia Dennis Guilder, decide di comprare l’ammasso di ferraglia per duecentocinquanta dollari, e di lavorarci tutta l’estate come se fosse la sua ragione di vita. Nemmeno quando conosce la giovane Leigh Cabot e riesce per la prima volta a creare un rapporto amoroso si dimentica della macchina. Il dettaglio più terrificante di questo thriller? Arnie chiama la sua macchina Christine, nome che le era stato dato in precedenza dal primo proprietario. Durante il racconto, scritto con una precisione indescrivibile e raccontato in parte da Dennis e in parte da un narratore esterno, sembra che il rapporto del ragazzo con la sua nuova auto sia di vero amore, ma, come tutti sanno, all’amore consegue la gelosia: chiunque faccia qualcosa contro Arnie o contro Christine, muore… misteriosamente investito da una macchina senza conducente. Una storia avvincente, piena di suspense e ricca di agghiaccianti dettagli che la rendono ancora più scorrevole e ancora più emozionante. Anche se non vi piace il genere, provate! Non vi deluderà!

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Libri

Colpa di John Green

di Alice De Gennaro

Okay?” Così una delle 100 persone più influenti nel mondo secondo il Time Magazine ha conquistato più di un milione di lettori tra ragazzi e adulti solamente durante il primo anno di pubblicazione. Ma quanti di voi sanno che è dovuto passare per nove anni e altri cinque libri prima di arrivare a questo? Magari alcuni di voi si sono limitati a guardare l’adattamento cinematografico di Colpa Delle Stelle, ma vi dirò una cosa: ne vale la pena. Vale la pena di passare ore e ore a leggere i suoi libri, anche per chi non apprezza particolarmente romanzi di questo genere, a.k.a. me. Un po’ riluttante, un po’ scettica, ho iniziato a leggerlo e da quelle uniche 313 pagine è partito un vortice inevitabile di curiosità nei riguardi del resto della sua bibliografia e del viaggio che lo ha portato allo stile di scrittura che utilizza tutt’oggi. Perciò, tra tutti i libri scritti da lui che si possano confrontare, perché non quelli che hanno segnato la sua carriera? Non ci sarà quindi una sola recensione, ma ben due (spoiler free): Cercando Alaska, libro vincitore del Printz Award nel 2006, e, ovviamente, Colpa delle Stelle. Cercando Alaska è stato pubblicato per la prima volta nel 2005: Miles Halters abbandona la sua casa in Florida per andare a studiare alla Culver Creek in

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Alabama, alla ricerca del suo “Grande Forse” (“I go to seek a Great Perhaps”, François Rabelais). L’amicizia con il suo compagno di stanza, Chip “Il Colonnello” Martin, lo porta a conoscere la bellissima Alaska Young, una ragazza solare ed entusiasta ma particolarmente instabile a livello emozionale, di cui si innamorerà quasi all’istante. La Culver Creek è divisa in due gruppi: gli studenti normali e i “Weekday Warriors”, ragazzi particolarmente ricchi il cui soprannome è dovuto al fatto che, a differenza degli altri studenti, tornano a casa per il weekend. Il libro è interamente costruito su una linea temporale divisa tra il “Prima” e il “Dopo”. Avviso: la traduzione Italiana lascia a desiderare a causa dello slang, perciò se avete la possibilità di leggerlo in lingua originale, fatelo. Questo, come i libri successivi fino a Colpa Delle Stelle, è narrato da un ragazzo e, come tutti i suoi personaggi principali, tende a due caratteristiche: A) varie riflessioni e B) un punto fisso (per Miles sono le “Ultime parole famose”, per Colin di Teorema Catherine sono gli anagrammi ecc.), e sono entrambe molto importanti per lo sviluppo del personaggio nel corso della storia. Un particolare di questo romanzo che non molti notano riguarda proprio Alaska: rispetto agli altri personaggi femminili prima di Hazel, è particolarmente amata insieme al libro stesso, ma analizzandone il comportamento le si possono attribuire molti dei cliché normalmente attribuiti a una “pessima antagonista”; divertente, bella in una maniera convenzionale e, diciamocelo, ninfomane: sembra quasi, almeno dal mio punto di vista, che Green abbia cercato (riuscendoci piuttosto bene) di capovolgere una figura che potremmo benissimo vedere come di pessimo esempio in altri contesti, ricavandone una femminista (in particolar modo ciò si applica ad Alaska, forte sostenitrice dei diritti delle donne) e creando un personaggio decisamente ambiguo e affascinante; e se tutto ciò è solo uno dei miei viaggi mentali, regalo a tutti voi una copia de Il Generale e il suo Labirinto. I per-

sonaggi che potrebbero venire definiti “secondari”, occupano tuttavia una posizione rilevante nello sviluppo della storia e della crescita intellettuale dello stesso Miles: attraverso il libro, egli subisce infatti una trasformazione di cui vengono riassunti i punti cruciali nelle ultime pagine. Personalmente ritengo sia il migliore tra i libri scritti da Green, offrendo esso spunti di riflessione sui temi più affrontati nell’età adolescenziale: non insegna infatti alle persone cos’è l’adolescenza, perché qualcosa di così impreciso e affascinante non può essere mai veramente definito, e non parla neanche soltanto di quanto sia fantastico l’amore, o di come l’amore sia intoccabile ed eterno: Cercando Alaska è una storia di conflitti e problemi, di rassegnazione e (anche) d’amore nella forma più giusta; ci insegna infatti che l’amore non si riassume nel rapporto sessuale, o nell’attrazione, bensì è qualcosa di molto più profondo ed estremamente complicato, che non ha simbolo; ma soprattutto: come l’amore può significare una svolta nella vita di tutti, così esso è solo uno dei tanti, tantissimi aspetti di un Mondo in cui si può vincere una battaglia contro gli indisciplinati ma non la guerra, gli adolescenti non possono essere fermati e tu non puoi prendere una volpe. Colpa delle Stelle (citazione dal Giulio Cesare di Shakespeare) è stato pubbli-


cato per la prima volta nel gennaio del 2012: ispirato a Esther Earl, un’amica di Green morta nel 2010 per un cancro alla tiroide, trova come protagonista la sedicenne Hazel Grace Lancaster, a cui è stato diagnosticato a tredici anni lo stesso cancro al quarto stadio (che si è successivamente esteso ai polmoni), e che è sopravvissuta grazie a un farmaco sperimentale. Durante uno degli incontri del gruppo di supporto che deve frequentare conosce Augustus “Gus” Waters, un ragazzo di diciassette anni che ha perso la gamba in seguito a un intervento per un osteosarcoma: quando lui la invita a casa sua per vedere un film, lei gli parla del suo libro preferito, “Un’Afflizione Imperiale” dell’olandese Peter Van Houten, la cui protagonista, Anna, vive un’esistenza parallela a quella della stessa Hazel. Quando, una settimana più tardi, Augustus rintraccia l’assistente di Van Houten, Lidewij, e l’autore acconsente a rispondere alle domande di Hazel solo di persona (abita ad Amsterdam), decide di utilizzare il suo desiderio della fondazione de “I Geni” per fare visita alla città per qualche giorno con lei: purtroppo nel cuore della notte la ragazza viene portata in ospedale dove viene ricoverata con una grave polmonite per una settimana e, quando torna a casa,

i dottori si oppongono alla gita ad Amsterdam. Ciononostante, alla fine, Hazel riesce a partire con sua madre e Gus e il viaggio li porta più vicini di quanto non si aspettassero. Il film rimane particolarmente fedele al libro e, nonostante non sia in alcun modo neanche lontanamente un’alternativa ad esso, vale comunque la pena di dedicarci un’ora o due, magari dopo aver finito i compiti di Greco o aver guardato l’ultima puntata di Big Bang Theory (e magari dopo aver letto il libro). Come ho già scritto, questo libro va bene anche per coloro che non sono abituati a questo genere di romanzi: che si ami riflettere leggendo o che si preferisca passare la serata con una lettura scorrevole, è adatto ad una fascia molto più larga, non solo quella

costituita dagli amanti della lettura o della letteratura rosa. Quindi, a discapito dei dubbi ai quali può portare il titolo o il genere del libro, merita effettivamente la fama che gli viene attribuita, più di quanto non si pensi. Da queste analisi ricaviamo lo stile di scrittura generale dell’autore: scorrevole e profondo, divertente ed emozionante, caratterizzato da personaggi che vanno amati insieme ai loro pregi e difetti e che dipingono la vita su una tela più ampia di quanto non lo sia la mente umana con i suoi limiti. Personalmente ritengo siano i due libri più originali, ma il mio verdetto è: Cercando Alaska. Non si può esattamente definire in che modo sia “migliore”: lo si capisce solo nel momento in cui lo si comincia a leggere alle dieci di sera e ci si ritrova a riporlo ordinatamente sullo scaffale alle tre del mattino. Perciò, amanti dei libri e persone comuni, fangirls e fanboys, che abbiate appena finito di guardare l’ultima stagione de Il Trono di Spade o che siate appena tornati da una festa (ciò vale anche se vi siete appena svegliati sul vostro banco durante la lezione di Inglese), non è mai troppo tardi per fare un salto in libreria e intraprendere una nuova, “adolescenzialmente” normalissima avventura.

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Racconti

Freddo di Rebecca Daniotti

I

l freddo stava arrivando. Era questo che si sentiva prima di morire? Il freddo che ti attanaglia le membra e la mente che ti si intorpidisce fino a non sembrare più parte del tuo stesso corpo? Era questo che le stava accadendo? Stava morendo? Il resto del mondo era come offuscato, una spessa patina ricopriva tutto, rendendolo poco chiaro, poco distinguibile. I colori sembravano essere stati risucchiati via e anche le emozioni, se non per il dolore che si faceva largo nel suo organismo. Un grande dolore. Un dolore che le impegnava ogni fibra, ogni minuscola cellula del corpo. Non pensava che soffrire sarebbe stato così sfiancante. Così disumano. E poi il suo cuore iniziò a rallentare, come potrebbe rallentare il passo di una persona: dolcemente e senza fatica. Qualcuno urlava. E quella voce era estremamente stridula, come freni arrugginiti che fischiano, e spaventata, nella quiete che la cullava, quel suono non poteva che stonare. “Carica a duecento” esclamò perentoria la voce della dottoressa, mentre spostava la figlia dal letto della madre. Prese le piastre: “Libera”, si udì un singulto, “Fate uscire quella ragazza da qui” gridò poi, “Forza, forza dai”. Prese di nuovo le piastre: “Carica a due e cinquanta”. Il cuore rimaneva muto. Cos'era quel trambusto? Quel rumore che veniva da fuori? Il suo corpo era come preso da centinaia di mani. Mani che la muovevano, la strapazzavano. Mani che cercavano di salvarla. Mani che non capivano che lei stava bene dove era ora. “Non possiamo perderla”. I ricci della dottoressa guizzavano sulle spalle ogni volta che toglieva le piastre dal corpo della donna. “Dottoressa? È in arresto da cinque minuti” “Caricate a trecento” urlò, le lacrime che minacciavano di uscire. Era in un campo fiorito. I fiori erano arancioni. L'aveva sempre odiato l'arancione eppure in quel momento non poteva essere più azzeccato. Si sposava perfettamente con l'armonia che si era creata intorno a lei, poi le sentì, le risate che provenivano da lontano e si rese conto che quel mo26

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mento l'aveva già vissuto. Si ricordò di chi erano quelle risate e seppe, ancora prima che quelle due figure si facessero vedere, cosa sarebbe accaduto. Si stringevano la mano e lei si vide per la prima volta da piccola, le trecce che sobbalzavano sulle spalle e le risate. Perché lei stava ridendo. Non c'era nulla di più perfetto. Lei e suo padre. Mano nella mano. In un campo di fiori arancioni. “La smetta, dottoressa, l'abbiamo persa, bisogna dichiarare il decesso” “Non doveva morire, non doveva morire”. Ed eccolo lì, silenzioso, che non si accorsero neppure che aveva ripreso a battere fiocamente. “Oh dio mio ha funzionato, ha funzionato, è viva. È viva!”. I muscoli delle gambe le facevano male. Aveva corso tanto che la gola adesso era in fiamme, eppure era felice, aveva vinto. Aveva fatto come aveva detto papà. Corri. Aveva bisbigliato. Corri anche quando sentirai dei rumori. Corri. Corri e vinci per me. Quelle parole se le era ripetute fino a quando non si era fermata, sul ciglio della strada asfaltata. Di macchine in quella zona ne passavano poche e lei non sapeva che fare. Perché era tornata indietro? Perché non aveva ubbidito a papà? “Le condizioni sono abbastanza sta-

bili”, ”Cosa è successo?”. Una donna stringeva le spalle della ragazza: “Complicazioni. Non accadranno più, ve lo prometto”. Perché glielo aveva promesso? Non si ricordava quello che le avevano detto le prime volte? Mai promettere qualcosa che non puoi mantenere. Mai promettere che salverai una vita umana. Non promettere mai. Se lo chiedeva anche adesso mentre teneva le mani premute sul volto per bloccare le lacrime. Perchè non aveva ubbidito a papà? L'arancione la nauseava, così come quella chiazza rossa che ricopriva il terreno. Se lei fosse rimasta con papà magari lui sarebbe stato ancora lì a stringerle la mano eppure lui adesso non c'era. Era per terra. Ed era pieno di sangue. Ed era morto. Come tornò a casa quel giorno? Come parlò a sua madre della collina e dei fiori arancioni? Cosa aveva fatto poi? Cosa era successo dopo? Come era sopravvissuta? Niente. Non si ricordava nulla di quelle ore successive. Il suo cervello era rimasto aggrappato ai fiori arancioni. “Sta andando in arresto di nuovo! Il carrello, il carrello forza”. Perché l'importante erano i fiori arancioni. “Forza. Dai riprenditi”. Perché l'importante era il papà. “Ora del decesso: quindici e ventuno”. Il papà e i fiori arancioni.


La sesta amica di Letizia Foschi

M

i scappò di mano il libro quando lo vidi entrare. Stavo leggendo La Bambina che amava Tom Gordon, di Stephen King, e l’inquietudine mi aveva già catturata trenta pagine prima, ma allora ero sola nella mia stanza da letto. Aveva una giacca verde lurida e una maschera contratta in un ghigno. In mano una corda. Vivevo da sola e mi pentii piuttosto in fretta di aver lasciato correre l’articolo sul Corriere che parlava del Serial Killer che, da giorni, uccideva donne e ragazze di Milano e che, come un’ombra, scompariva nel nulla. Si lanciò su di me ancora prima che io potessi vagamente pensare al chiamare la polizia, una frazione di secondo in cui l’unico barlume di speranza era lanciargli addosso il mio libro e colpirlo in un punto che lo avrebbe ammazzato; ma naturalmente il mio tempo era già scaduto. L’ultima cosa che ricordo è un vago profumo di rose, poi il buio. Quando riaprii gli occhi, avevo un mal di testa lancinante e qualcosa non andava: ero appesa alla lampada del soffitto per le caviglie. Tutto era buio, filtrava solo una delicata luce dal bagno adiacente. L’acqua scorreva e qualcuno fischiava una canzone di Elvis. Non potevo aprire la bocca, urlare, chiamare aiuto. Ero tutta legata, e ogni muscolo che contraevo provocava un dolore straziante. Mugolai ancora per qualche secondo, finchè la canzone di Elvis non finì di vibrare nell’aria e l’acqua di scrosciare, lasciando solo un alone di terrore puro. Sentii dei passi e la luce si accese. Presto la lampadina mi avrebbe bruciato i piedi. Tentai di urlare quando lui si mise davanti a me, con quel suo ghigno terrificante, ma dalla mia bocca uscì solo un sibilo. Lui alzò uno specchio di fronte a me. Avevo gli occhi invasi dalle lacrime, i capelli bagnati e arruffati e… la bocca cucita. Letteralmente.

Un filo nero di dimensioni esagerate passava di labbro in labbro unendo il mio viso in una smorfia di angosciato silenzio. I dolori mi invadevano, i piedi ormai bruciavano e facevano troppo male, e la testa pulsava. Lo implorai con gli occhi di uccidermi, di farmi passare tutto quel dolore. E lui lo fece. «Dove sei stato, Gigi? Non sei tornato per tutta la notte, dove sei stato, amore di mamma?» Gli guardò le mani sporche di sangue e un pacchetto di foto stampate automaticamente da una polaroid appoggiate sul tavolo. «Gigi, ti sei fatto un’ amica?» Lui scosse la testa e, liberando il suo viso dalla maschera, scoppiò a piangere. «Vita di mamma, sei solo incompreso. Un genio incompreso. Cos’è successo? Ti ha implorato?» Annuì. «Devi resistere, completare il disegno. Ripeti nella tua mente: spavento, droga, corda, ago e filo, fuoco, coltello, frusta e violenza sessuale. Poi la uccidi. Avevi deciso così, no?» Lui annuì e ricacciò le lacrime. Era nato sfigurato, senza parola, ed era stato abbandonato. Solo lei

l’aveva amato e solo di lei si fidava, ma sentiva di innamorarsi di tutte le ragazze che per suo conto avrebbe dovuto uccidere, torturare, terrorizzare. Sentiva che davanti a quell’ultima vittima poteva togliersi la maschera, mostrare un sorriso sdentato ed essere amato. Ma la mamma era gelosa, prima la mamma uccideva tutte le sue amiche, adesso il compito era passato a lui. «Questa ragazza era proprio bella, Gigi, dovevi finire il lavoro» disse la mamma guardando le foto «Vuoi che le incolliamo nell’album?» Lui annuì. Il quaderno fotografico si chiamava “Io e le mie amiche”, e a volte Gigi trovava la mamma a sfogliarlo e a sorridere, fiera. Questa era la sesta “amica” che portava a casa. La mamma aveva un album simile che si chiamava “Le amiche di Gigi”. Dentro c’erano solo foto di bambine con il volto sfigurato da un pennarello inquisitore, dimenticate per sempre. Quando ebbero incollato tutti gli scatti, la mamma sorrise e gli disse di andare a dormire, che domani sarebbe stato un altro giorno e che avrebbe trovato un’altra amica. La settima.

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Sport #BOMBER

la fusione tra ciccio e o rey di Filippo Lagomaggiore

A

lcune volte su Fifa, durante un pack opening, ti può capitare di leggere il suo nome; per qualche secondo pensi di aver trovato O Rei do Futbol, poi però osservi la nazione di provenienza e ti domandi se la Perla Nera sia quindi nata in una favela pugliese. Dopo quei, a dire il vero pochi, secondi di smarrimento, dovuti anche all’improvviso cambio di carnagione di Pelé, realizzi che forse l’ottico aveva ragione quando ti consigliava di portare gli occhiali. Davanti a te non hai, infatti, Edson Arantes do Nascimento, ma sua maestà Graziano Pellè, “The Italian goal machine”, come è stato soprannominato dalla stampa inglese. Preso dalla delusione, tra la rabbia e le imprecazioni, decidi allora di fare un quick sell e di passare al pacchetto successivo. Le statistiche dei giochi non possono però rispecchiare in maniera realistica l’efficacia del nuovo bomber della Nazionale, che si è messo recentemente in mostra al suo esordio nel match contro Malta, valido per le qualificazioni agli Europei, sancendo la nostra vittoria con un gol di rapina che Caressa definirebbe da vero rapace d’area. La carriera di Graziano, che deve il suo nome alla grande fede del padre in Ciccio Graziani, inizia nelle giovanili del Lecce, ma i primi gol pesanti arrivano in Serie B con le maglia del Crotone e del Cesena. Grazie alle sue prestazioni si guadagna subito un posto nella nazionale Under-21, 28

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ed è proprio durante l’Europeo U-21 del 2007 che viene notato da un certo Louis Van Gaal, che decide di portarlo con sé in Olanda, all’AZ Alkmaar. Il giovane italiano deve così tanto a quest’uomo che suo padre, in un’intervista, ha dichiarato: “Mio figlio, senza di lui, guiderebbe un fur-

gon- c i n o ” . L’allenatore gli permette, infatti, di fare esperienza e di giocare sempre titolare, vincendo nella stagione 2008-2009 l’Eredivise, il massimo campionato olandese. L’anno successivo, però, quando Louis si trasferisce a Monaco per allenare il Bayern, Graziano viene relegato

in panchina. Deluso per lo scarso minutaggio, torna in Italia e veste la maglia del Parma e della Sampdoria, dove però non riesce ad esprimersi. Nell’agosto 2012 torna nuovamente nei Paesi Bassi, questa volta al Feynoord, e finalmente esplode: durante il primo campionato segna 27 gol in 29 partite, secondo solo all’ivoriano Bony del Vitesse, e disputa anche l’anno successivo ad altissimi livelli. Con la maglia del Feynoord gioca un totale di 57 partite segnando 50 gol. Semplicemente mostruoso! E quest’estate ecco il salto di qualità (e che salto!): con un trasferimento da 11 milioni di euro “Toni 2 - la vendetta” si muove verso Southampton allenato dal buon Ronald Koeman (mister di Graziano anche al Feynoord) per giocare la Barclays Premier League, a detta di molti il miglior campionato al mondo. Finora non sta deludendo le aspettative: le sue 4 reti in 7 presenze dimostrano tutta la sua qualità. Sicuramente rimarrà uno dei gol più belli di questa stagione quello segnato il 27 settembre in rovesciata contro il QPR, che ha sancito il risultato di 2-1 a favore dei Saints. L’Italia si è lasciata sfuggire, come molte volte accade, un’altra occasione: è inutile affermare di essere un campionato di fama mondiale, quando poi si perdono giocatori talentuosi: Pellè è uno di questi, perché se Van Gaal ora allena il trio delle meraviglie (Van Persie, Rooney, Falcao) è anche merito dei gol del “piccolo” italiano.


#jugosquare

SERBIA-ALBANIA: CRONACA DI UNA SORTE ANNUNCIATA di Marco Recano

1

4 ottobre, Belgrado, Partizan Stadium. La cornice parla da sola. Per di più si gioca SerbiaAlbania, per la prima volta nella storia: si sfidano sul campo due popoli divisi, e al contempo uniti, dal Kosovo, indipendentista dal 2008. I presupposti perchè non sia una partita banale ci sono tutti, e vanno ricercati nel background storicosociopolitico delle due realtà. I serbi hanno sempre rivendicato il Kosovo quale loro provincia, sebbene autonoma (come la Vojvodina), sedando sul nascere ogni tentativo separatista da parte dei kosovari i etnia albanese: è celebre in questo senso la repressione ordinata da Slobodan Milosevic nel 1999, che causò centinaia di vittime tra la popolazione kosovara. L’Albania, dal canto suo, rivendica il sogno della “Grande Albania”, vale a dire l’unificazione sotto la bandiera dell’aquila a due teste di tutti i territori abitati in prevalenza da popolazioni di etnia skipetara (Albania, Kosovo, parte della Macedonia, del Montenegro, della Grecia e anche della Serbia). Nel ‘99 la Nato e l’Onu sono intervenute per sedare la Guerra del Kosovo, instaurando un governo provvisorio che è durato fino al febbraio 2008, quando il Parlamento di Pristina ha approvato la dichiarazione d’indipendenza kosovara del premier Hasim Thaçi e ha battezzato bandiera e stemma: lo stesso giorno, Belgrado si affrettò a dichiarare illegittima tale affermazione (contrariamente all’Albania, che riconosce il Kosovo quale stato a sé). Nonostante quindi i rapporti non esattamente idilliaci tra i due paesi, l’Uefa non ha fatto nulla per evitare che in sede di sorteggio le due

nazionali si ritrovassero nello stesso girone (precauzione peraltro presa per evitare un eventuale Gibilterra-Spagna, che di certo sarebbe stato meno a rischio). Le due squadre scendono quindi in campo in un clima surreale: lo stadio dei grobari (“becchini”, gli ultras del Partizan) ribolle come in occasione di un veciti derby; l’inno albanese è, come prevedibile, coperto dai fischi (la trasferta è stata infatti vietata ai tifosi albanesi, almeno quello). Dirige Atkinson. La partita, fino al 40’, sembra correre su un binario quantomeno accettabile: dagli spalti piovono og-

getti contundenti all’indirizzo di giocatori albanesi, i cori “Kosovo è Serbia” si susseguono, ma nulla di tutto ciò può fermare gente come Lorik Cana e compagni. Al 42’ però, il muro della calma apparente crolla e scatta l’ora della delinquenza: sul campo si vede volare un drone a cui è stata legata una bandiera rappresentante la Grande Albania, con la scritta “autochthonous” e le foto di Ismail Kemali e Isa Boletini, i due volti più rappresentativi dell’indipendenza albanese dall’Impero Ottomano e dalla Serbia, ottenuta nel 1912. I serbi rispondono con il lancio di fumogeni e

petardi in campo, fino a quando Stefan Mitrovic, centrale serbo, riesce ad afferrare la bandiera albanese e a tarpare le ali al drone: è il gesto che fa traboccare gli animi nazionalisti. I giocatori albanesi si scagliano contro Mitrovic con l’intenzione di difendere la loro bandiera: si accende quindi un parapiglia al quale partecipano con spiccata veemenza coloro che vestono la maglia albanese, ma sono in realtà di origini kosovare, come i laziali Cana e Berisha. A supporto dei serbi accorrono i tifosi, che invadono il campo (come spesso accade a Belgrado) armati di seggiolini e altri oggetti contundenti: l’istantanea di Cana che “maltratta” un tifoso serbo è l’immagine di ciò che era ovvio che sarebbe successo; dopotutto, chi ha deciso di far volare il vessillo skipetaro, sapeva benissimo cosa avrebbe provocato. Dopo dieci minuti di caos, gli albanesi riescono a raggiungere gli spogliatoi, dai quali usciranno solo per fare ritorno in terra natìa, mentre buona parte dei serbi rimane sul terreno di gioco, primo fra tutti capitan Ivanovic, rassegnato e deluso. Si è così conclusa una partita che non aveva ragione di doversi svolgere, e che di fatto si è giocata solo in parte: quando una partita ha luogo nelle menti e nelle ideologie dei popoli, è bene che ventidue ragazzi non vengano messi in un catino dove è matematico che finirà a calci e a pugni. E non è colpa di chi ha guidato il drone sull’FK Stadium, non è colpa di Mitrovic, non è colpa dei tifosi serbi e men che meno di quelli albanesi, che a Tirana si sono riversati in strada a festeggiare i loro beniamini. E’ solo colpa di chi ha pensato che gli animi jugoslavi possano avere idea di cosa sia la pace.

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varie

OSTRICHE SENZ A PERL A

QUANTO SPESSO QUEI SIGNORI CHE VOGLIONO PARIRE DOTTI E INECCEPIBILI AI VOSTRI OCCHI SI TRADISCONO NEL MODO PIÙ BRUTALE ED ESILARANTE? INVIACI ANCHE TU LE PEGGIORI FRASI DEI TUOI PROF... LEZIONE DI GRECO #1 PROF: il verbo greco “brontao” significa “tuonare”. X: brontosauro... un sauro che tuona? LEZIONE DI GRECO #2 PROF: “ei” significa “se” ed è un dittongo, “aei” significa eterno. X: ed è un trittongo immagino... LEZIONE DI GRECO #3 PROF: X, devi mettere lo spirito sulla parole che iniziano per vocale o per “p”. X: ma io ho paura degli spiriti! PAROLE, PAROLE, PAROLE... PROF: lucus apud portam capitolinam erat. Traduci X. X: allora, Lucio... PROF: no! X: Luca... PROF: no! X: luco.... PROF: BOSCO, lucus vuol dire BOSCO! DURANTE IL TEMA X: ehi Y, come si scrive “d’altronde”? Y: D apostrofo ALTRONDE. X: non DALTRONDE tutto attaccato? Z: DALT apostrofo RONDE, ok? SUPPLENZA CON SPONTON X: prof ma come le vengono queste battute? PROF: sono spontonee! DURANTE LA LEZIONE DI GRAMMATICA PROF: analizziamo la frase 2, “tornano a casa, cadde nel fiume e morì”, mamma mia che tristezza! X: questa di Marinella è una storia veraaaaa. Y: che scivolò nel fiume a primaveraaaa. Z: e il vento che la vide così bellaaaa. X, Y, Z: dal fiume la porto sopra una steellaaaa.

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