L'OblòSulCortile_2013aFebbraio

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L’editoriale di Eleonora Sacco

Mettetevi comodi, nascondete bene la vostra copia sotto il banco, chiedete al prof. di abbassare la voce per favorirvi la concentrazione e fate un bel respiro: vi scriverò tutto quello che posso. Gli ultimi due mesi sono stati, per l’Oblò, un duro travaglio. Il giornalino ha avuto seriamente paura di non esistere più. Martedì 11 dicembre, veniamo convocati d’urgenza in presidenza. La stampa è bloccata. L’articolo su Formigoni non si può pubblicare: “rischiamo denunce”, dice il DS, preoccupato, riferendo le lamentele di un gruppo di professori. “Ricorsi legali”? Non erano opinioni, ma fatti, fondati e accertati minuziosamente. L’articolo si pubblica, dopo lunghe trattative, con piccole correzioni. Esce il numero: anche se, come sempre, aperto a tutti, quel gruppo di professori dice al DS che non merita di definirsi “giornale scolastico”, perché riflette solo l’ideologia di una parte. E la vignetta con la rana, nell’articolo sul CdI, è “offensiva, scorretta”. Una vignetta. Con una rana. Una vignetta con una rana. Non un ottimo esempio di politically correct, d’accordo, ma una vignetta! E’ satira, per Zeus. Lunedì 14 gennaio. Il DS ci consegna, stanco e sfibrato quanto noi, un “decalogo” da lui redatto per tutelar-

ci: dieci principi da seguire per essere giornale d’istituto e poter essere pubblicati sul sito. Li stiamo integrando al nostro statuto, insieme. Abbiamo temuto ogni giorno che ci venissero tolti i fondi e la libertà di distribuzione del giornale - già approvati, con lo statuto, a inizio anno. Il piacere di scrivere e riunirsi in redazione si è trasformato quasi in un’auto-censura per paura di ricevere accuse, in un’ansia collettiva che sfocia in tattiche al limite del militare per difendere la libertà dell’Oblò. Siamo stanchi di stare al gioco dei gruppi di potere. Il giornalino deve essere un’attività stimolante, piacevole ed educativa: l’accanirsi senza tregua su dei ragazzi, da parte di adulti, non è educativo. Ad oggi siamo salvi, e continueremo a lavorare su un giornale che vuole sempre donare uno spunto di riflessione, uno stimolo culturale, un momento lieto a tutti. Un giornale che per ogni studente è un patrimonio e una tradizione da sostenere e difendere. C’è chi ha il coraggio, nonostante gli ostacoli, di continuare a scrivere quello che pensa. Noi non parliamo: scriviamo. Per tutti, pubblicamente, senza paura. Scrivete quello che dite, lo pubblicheremo: ma finiamola con questa guerra fredda. Buona lettura a tutti

La redazione dell’oblò

Pag

sommario

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scientology

5

6

ricorrenze

7

ricorrenze

scientology

8 bullismo 9 1013

bullismo

cinema

bibliobussola

14 15

pride & prejudice & zombies

audiophiles

16

17 audiophiles 18 quattro stracci 19 quattro stracci

20 l’ultima thule 21 l’anonimo del racconto

22 l’uomo... ... che guardava ... 23 24 25

... le stelle

il gallo che salvo ’ roma #3

26 racconti bonsai 27

28 29

biciclette rappus romanus

rappus romanus

redattori | Cleo Bissong 1B, Francesco Bonzanino 4E, Martina Brandi 4E, Gaia

Cantone 1D, Alessandra Ceraudo 4B, Chiara Conselvan 4E, Francesca Grassi 1D, Edo Mazzi 4E, Carlo Polvara 4B, Federico Regonesi 5A, Beatrice Sacco 2D, Claudia Sangalli 4D, Carlo Simone 5D, Alessandra Venezia 3B, Dario Zaramella 5A. vignettisti | Silena Bertoncelli 4C, Francesca Bonini 5A, Federico Regonesi 5A. DIRETTRICE | Eleonora Sacco 5F Capo redattore e impaginatore| Jacopo Malatesta 4C Docente referente | Giorgio Giovannetti Collaboratori esterni | Riccardo Galbiati 5H, Lorenzo Giudici 5A, Morgana Grancia 5E, Pietro Klausner 4E, Paolo Wetzl (LSS A. Volta). N.B. La Redazione si scusa per non aver pubblicato, nell’articolo “Non aspettatevi un miracolo” dello scorso numero, pagina 8, la frase “Non abbiate la spina dorsale piegata dallo statalismo!” nella terza colonna, tra “anni a venire” e “ascoltando le storie di mio nonno”. 2

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superfluo world’s inside : poesie

32 l’isola non trovata


Attualità/Esteri

Guerra in mali. Neocolonialismo? di Carlo Polvara

L

e missioni internazionali, gli interventi militari all’estero e le ingerenze straniere in molti paesi del “terzo mondo” costituiscono uno degli argomenti più discussi del dibattito politico. La stessa obiettività che rivolgiamo alle azioni degli Stati Uniti è doverosa anche nell’analizzare gli atti dell’attuale presidente “gauchista” della Francia, il socialista François Hollande. La Francia è infatti intervenuta in Mali, una sua ex-colonia nell’Africa Occidentale. Questa regione è sempre stata divisa tra la parte meridionale, etnicamente e religiosamente mista, e la desertica parte settentrionale, popolata da tribù Tuareg in cui hanno attecchito vari gruppi fondamentalisti. Il conflitto, già latente dal 1988, é legittimo Amadou Toumani Toure è esploso nel corso del 2012: la stabilità stato destituito da un colpo di stato dell’intera regione è stata sconvolta militare che lo ha sostituito con Didalle “primavere arabe”. In partico- oncounda Traoré. I ribelli non costilare è venuta a mancare la presenza tuiscono uno schieramento compatto: stabilizzatrice di Gheddafi che, utiliz- sono composti da vari gruppi eterogezando brutali nei e spesso Non supportato da alcuna metodi dittain conflitto toriali, repritra loro. risoluzione ONU, non motivato meva nelsangue Innegabilda alcun trattato o vincolo inl’intervento mente tra ternazionale, l’intervento milie la predicaessi è forte zione degli la comtare francese si configura come imam più fa- un’azione di stampo neocoloniale p o n e n t e natici. La sua f o n d a caduta ha aumentato la disponibilità mentalista: le distruzioni e i sacdi armi nella regione, ha ridato forza cheggi a Timbuktu motivati da fiai gruppi sino ad allora semiclandes- nalità iconoclaste possono darcene tini e ha fatto tornare in patria quei una prova. Proprio riguardo a questo Tuareg che militavano come merce- conflitto era già stato previsto un nari al soldo del regime. Tutti processi intervento militare dell’ECOWAS, che il debolissimo governo libico attu- l’organizzazione economica sovranaale non riesce a contrastare efficace- zionale dell’Africa Occidentale: mente. Il 6 aprile 2012 l’Azawad, cioè un’azione estremamente cauta che la regione settentrionale del Mali, ha mirava a contenere l’avanzata dei ridichiarato la propria indipendenza. belli per cercare spazi di mediazione. E’ doveroso ricordare che i Tuareg non si sono ribellati a un governo democratico: nel marzo 2012 infatti, poco prima delle elezioni, il Presidente

I successi militari dei secessionisti, giunti quasi alla capitale Bamako, accelerarono le reazioni a livello internazionale sino all’intervento diretto

della Francia. Come in tutti i grandi conflitti è difficile e semplicistico dare la ragione o il torto a una delle due fazioni: l’intervento militare francese è tuttavia oggettivamente illegittimo. Non supportato da alcuna risoluzione ONU, non motivato da alcun trattato o vincolo internazionale, esso si configura come un’azione di stampo neocoloniale, motivata dal timore di perdere un governo “amico” e le conseguenti risorse naturali. Il sottosuolo del paese è infatti ricco di oro, bauxite e uranio. Attualmente l’intervento è sostenuto logisticamente dagli Stati Uniti e da vari paesi dell’Unione Europea tra cui l’Italia. Spiace constatare che l’“Occidente”, pur avendo nominalmente adottato come principio cardine della politica estera l’autodeterminazione dei popoli e la loro sovranità continui a creare delle condizioni per cui tali processi siano sempre più difficoltosi. Si dovrebbe auspicare che l’azione delle democrazie in Mali come in Siria sia quella di proteggere i civili e di cercare in tutti i modi il negoziato, senza tutelare con virtuosi pretesti la difesa del proprio cortile di casa, grande o piccolo che esso sia.

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Attualità

INSIDE SCIENTOLOGY di Riccardo Galbiati

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TTENZIONE: l’articolo che state per leggere costituisce un serio rischio per la vostra vita. Alcune delle verità qui esposte potrebbero – a detta della stessa chiesa di Scientology – causare traumi psichici permanenti, danni mentali e, nei casi più estremi, la morte. L’autore si ritiene perciò sollevato da qualunque responsabilità riguardante la vostra salute. L’origine della specie I problemi dell’umanità risalgono a 75 milioni di anni fa, quando la Terra – allora chiamata Teegeeack – faceva parte di una confederazione galattica di 76 pianeti agli ordini del malvagio despota Xenu. Per risolvere il problema della sovrappopolazione Xenu, con l’aiuto di alcuni psichiatri, ingannò i suoi sudditi e li trasportò nei vulcani della Terra, dove li distrusse con delle bombe termonucleari. I loro corpi furono frantumati, ma le anime immortali (o thetan) sopravvissero all’esplosione e continuarono a vivere trasmigrando di corpo in corpo. Ogni uomo è dunque un thetan, destinato a reincarnarsi per milioni di anni prima di raggiungere la purifi“Scientology cazione.

« La verità è ciò che è vero per te » Ron L. Hubbard

della verità” – si definisce “la religione a crescita più rapida” del mondo. Nato nel 1954, il movimento afferma di contare oggi più di 10 milioni di fedeli in quasi 160 paesi (le stime non ufficiali ritengono però che le cifre siano molto gonfiate); il suo patrimonio, sparso in tutti i continenti, sembra valere miliardi di dollari. Ma Scientology è anche la religione più controversa d’America: essa è nota soprattutto per l’adesione di alcune star quali Tom Cruise e John Travolta, ma la dottriopera una na ufficiale è poco metodica opera di indottrina- conosciuta ai più. Il sociologo francese Questo – che mento, pretendendo in cambio Regis Dericqueuna dedizione assoluta” all’apparenza bourg, esperto in potrebbe essere religioni comparbollato come fantascienza di serie B ate, definisce il sistema di credenze – è solo uno dei dogmi gelosamente una “utopia regressiva” in cui l’uomo custoditi da Scientology, e fino a pochi tenta, attraverso una rigida serie di anni fa era noto a un ristrettissimo nu- pratiche (spesso costosissime), di pumero di adepti. Per accedere a questi rificarsi e tornare allo stato di origisegreti è tuttora necessario affrontare naria perfezione. anni di apprendistato, ma soprattutto La peculiarità del culto consiste però versare contribuiti economici che pos- nell’alone di mistero che lo circonda: sono agevolmente superare i 100.000 solo accedendo alle più alte gerarchie dollari. è possibile essere informati delle dotUna domanda sorge spontanea nella trine di maggiore importanza. A quesmente di tutti i profani: perché? to proposito dice la giornalista statunitense Janet Reitman che «sarebbe Una chiesa esclusiva come se la Chiesa Cattolica rifiutasse Scientology – il nome significa “studio 4

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di dire a tutti, salvo che a un selezionato numero di fedeli, che Gesù Cristo è morto per i loro peccati». Un percorso difficile I fedeli, una volta avvicinati, vengono indottrinati e avviati sulla strada che porta alla “libertà e verità totale”. I primi passi sono i più semplici: sono però sufficienti alcune sedute gratuite con i ministri del culto per finire intrappolati nella ragnatela. Spesso i proseliti sono raccolti tra gli individui psichicamente più deboli, in particolare eroinomani o carcerati: questi sono avvicinati da fittizie associazioni di recupero (ad esempio il gruppo Narconon) e agevolmente indirizzati – in quanto disperati – tra le sicure braccia di Scientology. Fondamentale per progredire nel proprio percorso spirituale è il servizio di auditing, sedute di dialogo con un “confessore” che aiuta a liberarsi delle influenze negative (o engram) delle vite precedenti. Un pacchetto di 12 ore e mezzo di auditing costa circa 1000 dollari: un buon fedele ne può acquistare a centinaia nel corso della propria vita. Dopo alcune sedute si raggiunge lo stato di purificazione (clear) e si può iniziare quindi la propria scalata nelle gerarchie di Scien-


sviate solo portando altre persone nell’organizzazione, vendendo i prodotti del gruppo o convincendo terzi a fare ricche donazioni.

tology. Liberatosi delle influenze negative, il fedele inizia a controllare il proprio spirito: scalando 8 livelli – definiti Thetan Operanti (OT) – egli può raggiungere il totale controllo di sé. Contemporaneamente crescono i suoi poteri: il livello più alto, OT VIII (quello raggiunto da Tom Cruise), permette di spostare oggetti inanimati con la forza del pensiero, comunicare telepaticamente, controllare la volontà altrui, uscire dal proprio corpo con lo spirito nonché avere pieni poteri sulla materia, sullo spazio e sul tempo. Bisogna necessariamente sottolineare come questo percorso gradualmente assorba tutte le energie e i pensieri dell’individuo, fino ad alienarlo completamente: la chiesa opera una me-

todica opera di indottrinamento, pretendendo in cambio una dedizione assoluta. Ben presto il fedele è invitato a disconnettere (cioè a tagliare ogni contatto) gli amici e i famigliari ostili a Scientology: in breve la sua cerchia di conoscenti è ridotta alle sole persone del movimento. Molti si ritrovano a lavorare per la chiesa stessa: i loro stipendi, a fronte di giornate lavorative di 12 ore, sono erogati sotto forma di preziose sedute di auditing (altrimenti impossibili da acquistare). È d’altra parte buona norma versare abbondanti somme nelle casse dell’organizzazione (che negli USA gode dal 1993 dell’esenzione fiscale in quanto riconosciuta come chiesa): le richieste di denaro, fatte con insistenza a tutti i membri, possono essere

Aspettando LRH L’ideatore - nonché messia spirituale - dell’enorme sistema Scientology è Lafayette Ron Hubbard (spesso abbreviato in LRH), nato nel 1911 in Nebraska. LRH, che in gioventù scriveva racconti di fantascienza per riviste di basso profilo, sarebbe approdato alla verità durante la Seconda Guerra Mondiale. Gravemente ferito nelle Filippine (anche se il fatto è stato più volte smentito da tutte le autorità competenti), egli sarebbe riuscito a curarsi solo grazie a una nuova pratica spirituale intuita in quel momento. Tornato in patria scrisse quindi Dianetics: la scienza moderna della salute mentale, pubblicato nel 1950 e presto diventato il testo sacro di Scientology. Il movimento si scagliò violentemente contro tutti i detrattori e in particolare contro l’associazione degli psichiatri statunitensi, colpevole di aver bollato l’opera come assolutamente priva di un qualunque valore scientifico: gli stessi psichiatri divennero i nemici giurati di LRH, che li avrebbe in seguito accusati di aver causato l’olocausto e di aver aiutato Xenu nel suo diabolico proposito. Non è improprio dire che LRH sia stato divinizzato dalla sua stessa chiesa. Una delle più importanti massime del movimento recita infatti: “se non l’ha detto LRH non è così”. Quelle esposte nell’articolo sono solo alcune delle verità custodite da Scientology: a ciascuno di noi spetta poi decidere se crederci o no. Probabilmente sarà sufficiente aspettare, così che ogni dubbio sia fugato da LRH stesso: stando alle parole ufficiali del movimento, egli non è morto nel 1986 come sostengono i necrologi terrestri, ma si sarebbe recato (sotto forma di puro thetan) sul pianeta Elron Elray per completare le proprie ricerche. Il suo ritorno è tuttora atteso: aspettiamo fiduciosi.

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Attualità/La rubrica

di Alessandra Venezia

O

gni anno nuovo porta novità. Nuovi amici, nuovi amori, nuovi libri, nuovi posti da vedere e questo in particolare porta una nuova rubrica. Per chi di voi avesse letto “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi, il titolo della rubrica, che sta nascendo proprio ora mentre voi leggete, sarà apparso familiare. Una rubrica uguale scriveva proprio Pereira, nel suo caldo studio della Lisbona del 1938. Ma, mentre la rubrica di Pereira poteva essere un tentativo di sfuggire al presente, che lo terrorizzava, la mia rubrica ha un’altra finalità. Io non voglio evitare di parlare della storia di oggi, anzi lo voglio fare, attingendo però alla storia, agli uomini e alle donne di ieri. Perché ricordarli è l’unico modo per mantenerli in vita e anche perché conoscere le loro vite può migliorare le nostre. E dunque, « sostiene, si asciugò il sudore, e poi gli 6

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RICORRENZE: LUIGI TENCO venne una magnifica idea, di fare una breve rubrica intitolata “Ricorrenze”, e pensò di pubblicarla subito per il prossimo sabato, e così, quasi macchinalmente, forse perché pensava all’Italia, scrisse il titolo: “Quarantasei anni fa scompariva Luigi Tenco”. »

ma ancora ad un livello amatoriale. La svolta per Luigi arrivò infatti all’inizio degli anni Sessanta, con l’uscita dei primi dischi e le prime apparizioni cinematografiche. I primi successi furono accompagnati però anche dalla censura: i testi di Tenco, seppur all’inizio non trattassero esclusivamente temi politici ma anche amorosi, erano troppo rivoluzionari per una televisione ancora attaccata alle vecchie tradizioni e abituata alla musica leggera.

Luigi Tenco è stato un cantautore, un compositore, un attore italiano. Una strana coincidenza vuole che Luigi Tenco nascesse a Cassine, in Piemonte, proprio nello stesso anno in cui All’Italia sono sempre piaciute le Pereira iniziò la “Cara maestra”, sua rubrica, nel storie facili, che rispettassero canzone conla tradizione e non 1938. Figlio illetro l’ipocrisia gittimo di un no- suscitassero troppe domande. delle istituzibile di Torino e rioni - scolastica, conosciuto poi dal religiosa e pomarito della madre, trascorse la sua litica - che predicano l’uguaglianza infanzia in Piemonte, finché nel 1948 si sociale e poi praticano la discriminatrasferì in Liguria, prima a Nervi e poi zione, non fu approvata dalla Coma Genova. Negli anni Cinquanta fre- missione per la censura e quindi non quentò la facoltà di scienze politiche, venne trasmessa. Altre sue canzoni avvicinandosi intanto alla musica, furono bloccate dalla censura, “Io sì”


e “Una brava ragazza”. Ma nel frattempo il suo nome acquistò sempre più popolarità e le sue idee iniziarono a radicarsi nei cuori di alcuni italiani. La grande occasione arrivò nel 1967 con la partecipazione alla diciassettesima edizione del festival di Sanremo. Qui Tenco si presentò con “Ciao amore ciao”, cantata con la sua compagna Dalida; l’eliminazione del brano, cui erano state preferite canzoni che Tenco riteneva di minor livello, provocò in Luigi una grande frustrazione, tanto da spingerlo a porre fine alla sua vita la notte del ventisette gennaio 1967, nella sua stanza d’albergo a Sanremo, dopo aver lasciato un biglietto agli Italiani: « Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi. ». Vi sono tuttavia delle ipotesi secondo le quali quello di Tenco non sarebbe stato un suicidio ma un omicidio. Ma, a parer mio, quando si parla di Luigi Tenco non è sulla sua morte che bisogna concentrarsi , come invece fanno in molti, bensì sulla sua vita. Tenco rappresenta il padre dei cantautori italiani: è il contadino che semina ma non fa in tempo a vedere il raccolto (è soprattutto dopo la sua morte infatti che le sue canzoni e le sue idee raggiungono gli italiani). La vita di Tenco è segnata da una visione individualista del mondo. Non componeva le sue canzoni sulla base di quello che accadeva nel mondo esteriore, ma su quello che accadeva nel suo mondo interiore. E allo stesso

modo la sua sofferenza nasceva dal suo sentirsi diverso e inadeguato. È difficile stendere una chiara biografia dei pensieri di Luigi, perché, come lui stesso si definiva, era “Uno che parla troppo poco”. L’unico modo per tentare di capirlo è ascoltare le sue canzoni. Luigi era le sue canzoni. Era un ragazzo introverso, timido, che però riusciva a esprimersi attraverso la musica e per questo desiderava il successo. Non era tanto una questione di soldi, anche se lui stesso diceva che non gli dispiacevano affatto, ma piuttosto un bisogno di essere conosciuto, riconosciuto, accettato, capito. Il problema è che, nonostante i suoi testi malinconici e negativi, Luigi era fin troppo ottimista. Credeva di poter servirsi del mercato della musica come veicolo per trasmettersi e comunicarsi.

e

diventano

persone

scomode.

Uno come Tenco, fedele ai suoi principi e contrario ad ogni tipo di compromesso, che non poteva sopportare di non essere notato e addirittura scelto e preferito a causa della sua eccessiva bravura, si ritrovò schiacciato dallo stesso mondo che aveva scelto. Il mondo dello spettacolo che - come gli altri mondi - aveva imboccato la strada dell’omologazione. Morì così Tenco, a ventinove anni, oppresso da una società che ancora non poteva comprenderlo ed apprezzarlo. Non sono sicura che la nostra società abbia imparato a comprendere e apprezzare figure come la sua, ma voglio credere che un giorno impareremo. Vi lascio quindi con le parole di Luigi, con la speranza che dopo oggi anche voi vi sentirete un po’ più vicini a lui e alla sua musica. “Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà. Forse non sarà domani ma un bel giorno cambierà. Vedrai, vedrai, no, non son finito sai, non so dirti come e quando ma un bel giorno cambierà.”

Ma l’Italia di quegli anni e in particolare la televisione non era alla ricerca di un artista impegnato che avesse il coraggio di esporsi e raccontarsi sinceramente. All’Italia sono sempre piaciute le storie facili, che rispettassero la tradizione e non suscitassero troppe domande. Perché nel momento in cui una cosa inizia ad essere più complicata, i pensanti incominciano a prendere decisioni, a spaccare l’unità

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Attualità

il dramma del bullismo femminile Liceo artistico di Sesto San Giovanni: sconcertante caso di bullismo femminile. di Gaia Cantone e Francesca Grassi Arriviamo al mercoledì. Le due ragazze la avvistano in cortile, con passo svelto la raggiungono e iniziano a discutere animatamente davanti agli occhi di tutti. E. lancia una sigaretta accesa addosso ad F.: incautamente ella risponde ribellandosi e gridando di smetterla. Livida di rabbia, E. la afferra per i capelli ed M. la colpisce con pugni molto forti in pancia. F. cerca di restare in piedi, ma non resiste per molto, infatti dopo pochi minuti cade a terra sfinita. Si ritrova sdraiata per terra in cortile, dove le due ragazze cercano ancora di massacrarla tempestandola di calci.

D

a anni assistiamo ad un bullismo femminile silente e invisibile, fatto di atti calunniosi, insidiosi, volto a distruggere l’immagine esteriore ed interiore della vittima senza torcerle un capello. Tale fenomeno, a differenza di quello maschile, prevalentemente fisico pertanto tangibile, viene meno in considerazione. Insegnanti e genitori hanno difficoltà ad individuarlo, a combatterlo: le ragazzine che recitano la parte delle tormentatrici sono viste semplicemente come “cattivelle”, e non come vere e proprie bulle, quali sono in realtà. Nel caso che tratteremo, lo stupore è determinato dal fatto che la ragazza oltre a subire gli atti predetti è stata anche ferocemente aggredita. In una fredda giornata di dicembre, 8

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una ragazza di 14 anni, F., è stata picchiata da due bulle del secondo anno. F., più piccola di corporatura, è riuscita a difendersi solo per poco ed infine è caduta a terra sanguinante. Quel martedì F. stava camminando verso il bagno. Entrata in quest’ultimo incontra due ragazze, a lei sconosciute, che le iniziano a fare domande sulla relazione che ha con il suo ragazzo (S.). Quando i quesiti iniziano a farsi invadenti, F. si mostra riservata. Le due secondine (M. ed E.) devono però ritornare in classe e le intimano di aspettarle fuori dalla scuola alle 14.00 in punto, per continuare la conversazione lasciata in sospeso. Lo stesso giorno, però, F. non si presenta all’incontro, sia perché impaurita, sia perché di martedì esce un’ora dopo E. ed M.

Mentre F. è ancora per terra giunge il suo ragazzo, S., causa del conflitto, che cerca di difendere la sua fidanzata, ma incredibilmente le due ragazze riescono ad “annientarlo”. Vittoriose e soddisfatte se ne vanno, senza un minimo di rimpianto, spingendo via i gomiti degli “spettatori” lì intorno, per cercare di passare. F. si rialza aiutata dal suo ragazzo. Le lacrime scendono dai suoi occhi e il sangue sul suo viso. Tornata in classe, F. racconta al professore di quell’ora l’accaduto: vengono chiamati i genitori, che immediatamente la vengono a prendere e la portano a casa. In conclusione dell’episodio la famiglia chiamerà i carabinieri per denunciare l’azione commessa dalle due delinquenti. Questi atti violenti sono ormai all’ordine del giorno nella nostra società, soprattutto nelle scuole, e vengono commessi nella maggior parte dei casi per questioni futili. Dov’è finita l’umanità? Sembra stia raggiungendo un livello bassissimo.


F. è stata picchiata senza nemmeno conoscere il vero motivo. L’hanno massacrata fino a farla sanguinare, le hanno provocato dei danni fisici evidenti, per i quali è dovuta ricorrere a medicazioni ospedaliere, e ancora non sa perché in quel momento l’abbiano derubata della sua dignità, strappandogliela dal corpo come bestie, che in preda alla fame arraffano il cibo con atti famelici. Come si fa a pestare una ragazza di quattordici anni, solo perché fidanzata con la persona “sbagliata”? Dovremmo chiedercelo tutti, anche se noi non siamo ancora riuscite a dare una risposta adatta. La frequenza di questi episodi, ormai anche tra ragazze, ci spinge a considerarli sempre più “ordinari”, quando invece si fanno invece sempre più pericolosi. Le persone che assistevano come “pub-

blico” all’atto osceno, alunni, professori, non hanno fatto niente, non si sono intromessi per fermarle, non hanno voluto rischiare. Nessuno si è mosso. Alcuni guardavano anche compiaciuti. È vergognoso che, per timore o per crudeltà, non abbiano aiutato la povera ragazza, ma forse M. ed E., hanno commesso l’atto di delinquenza senza preoccuparsi della reazione dei ragazzi, proprio perché consapevoli che non sarebbero intervenuti a favore della ragazza, che probabilmente nella società scolastica era vittima di ostracismo. È vergognoso è che i professori, consapevoli della rissa (perché svoltasi durante l’intervallo) e totalmente indifferenti alla scena, non abbiano sospeso le due ragazze. Il preside si è lavato le mani di fronte a questo sopruso. È ancora oscura la questione sul per-

ché non siano state punite adeguatamente. Una ricerca CISEM, datata 2006, ha preso per campione 3800 studenti scelti tra licei, istituti tecnici e professionali: nei licei l’8% ha dichiarato di essersi sentito minacciato da situazioni di potenziale o effettivo bullismo; nei professionali la percentuali raggiungevano anche il 13%: valori comunque molto inferiori rispetto a quelli riportati dalle indagini sulle scuole medie. Abbiamo voluto raccontare questo episodio per rendere più visibile ciò che è invisibile, ossia per dare maggior peso a questo fenomeno in costante evoluzione.

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INGLORIOUS REVIEWERS

DEPARTURES di Chiara Conselvan

V

incitore del premio Oscar come miglior film straniero nel 2009, “Departures” è un film toccante e riflessivo che analizza il tema della morte in relazione alla vita. Narra la storia di Daigo, un giovane giapponese, violoncellista in un’orchestra di Tokio, la cui chiusura lo rende cosciente che il violoncello non è il suo sogno. Ritenendo tutto il suo percorso un fallimento, Daigo attende che il suo destino lo raggiunga, e così accade. Nella ricerca di un lavoro egli si imbatte nel più insolito di tutti: il tanatoesteta. Quella di pulire, vestire e truccare i corpi dei defunti è un’antica cerimonia tradizionale giapponese, ma dato che include un rapporto quotidiano con la morte è un lavoro disdegnato dai più. Egli, quindi, vi si avvicina per caso e con diffidenza, ma in poco tempo viene conquistato da quest’arte che ha lo scopo di ridare dignità ai defunti prima dell’“ultimo viaggio”. Le numerose scene in cui viene mostrata questa inusuale e raffinata professione mostrano la riconoscenza 10

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dei parenti nei confronti di colui che ha reso ancora bello il corpo del defunto, portando anche chi aveva delle divergenze con il caro estinto a riappacificarsi con esso.

Il sasso simboleggia, attraverso forma e consistenza, i sentimenti che chi l’ha scelto prova nei confronti di colui al quale lo dona, e per il giovane comincia ad acquisire molto valore.

Daigo affronta il lavoro fin da subito con dedizione, ma quando la moglie Mika ne viene a conoscenza gli chiede, invano, di abbandonarlo. Ma al giovane appare ormai impossibile rinunciare a un ruolo che sente finalmente suo. Tuttavia per Mika si presenterà l’occasione di assistere alla cerimonia tenuta dal marito, inducendola a rimettere in discussione la propria posizione e a considerare Daigo un artista. Grazie al ritrovamento del violoncello che gli era appartenuto da bambino, Daigo si riavvicina alla musica, e non solo: nascosto nello strumento musicale egli ritrova infatti anche un sasso, che gli era stato donato dal padre prima che questi lo abbandonasse alle sole cure materne, e si sente per la prima volta attratto alla figura paterna, nonostante il rancore dell’abbandono.

Grazie alla musica, alla dignità acquisita con la nuova professione e al confronto con la propria infanzia e con la figura paterna, Daigo ritrova se stesso e ciò in cui più crede, portando a compimento il proprio passaggio all’età adulta. Il clima di emozione che domina tutto il film, circondandolo di un’aura quasi sacra, culmina in un ultimo momento di commozione in cui Daigo celebra la più toccante delle sue cerimonie di pulizia e di “accompagnamento verso l’ultimo viaggio”. Sentendosi finalmente in armonia con la propria identità di uomo, marito e figlio, Daigo fa dell’ultimo stadio della vita altrui un nuovo inizio per sé, conquistando l’ammirazione di chi lo circonda, a cui egli trasmette la capacità di guardare alla morte con rispetto e devozione, accogliendola come naturale compimento della vita.


“…Cos’è un nome? Non è una mano, non un piede, non un braccio, né un volto, non è un uomo…” W. Shakespeare

la citta’ incantata

di Martina Brandi

moonrise kingdom di Dario Zaramella

Omnia vincit Amor”, scrisse il poeta Virgilio; e in effetti, da Omero in poi, la love story classicamente intesa ha sempre suscitato un grande interesse di pubblico, tanto da attirare orde di scrittorucoli e cantanti in cerca di fortuna sicura. Vi sono poi i registi, gli sceneggiatori, che spesso credono — ahimè, a ragione — di aumentare esponenzialmente gli incassi inserendo in trame mediocri altrettanto mediocri storie d’amore. Come rivalutare, quindi, una tematica tanto ampia quanto banalizzata? Ebbene, il regista texano Wes Anderson ci dà la sua risposta e lo fa proprio ribadendo con forza quella massima virgiliana ormai abusata: l’amore vince ogni cosa. Gli “eroi” indiscussi della vicenda, infatti, sono due dodicenni, Sam e Suzy, che, dopo essersi conosciuti durante una recita scolastica, iniziano una fitta corrispondenza epistolare che li porterà, un anno dopo, a progettare una vera e propria fuga d’amore. Il fatto stesso che i personaggi principali siano due bambini, a malapena adolescenti, è indice di una volontà, da parte del regista, di rappresentare un sentimento puro, disinteressato, totalmente privo di quei condizionamenti sociali che caratterizzano gli adulti. Accanto a questa stravagante coppia — lei sognatrice, amante di libri d’avventura e di fantasia, eppure a tratti violenta, “problematica”; lui improbabile boy scout con tanto di zaino, occhialoni e cappello di pelliccia — gravitano una serie di personaggi adulti decisi a riportare a casa i due fuggitivi. Abbiamo, ad esempio, i Bishop, genitori

di Suzy, apparentemente preoccupati più per il proprio lavoro che per i figli; poi c’è il capitano Sharp (Bruce Willis), capo della spedizione di ricerca nonché amante della signora Bishop; e ancora il negligente capo scout Ward, interpretato da Edward Norton. Posto che il film mantiene quell’alone di sarcasmo tipica dei film di Anderson, è interessante notare come, paradossalmente, siano proprio le parti dedicate agli adulti quelle più ironiche, mentre i ragazzi — non solo i due fuggitivi, ma anche il gruppo degli scout compagni di Sam — dimostrano una maturità, una consapevolezza e una determinazione che fanno quasi sorridere. Questo ribaltamento di ruoli viene accentuato da un’atmosfera surreale, satura di colori, quasi fosse un mondo idilliaco; e protagonisti indiscussi di questo mondo non sono gli adulti, quasi comici nel loro vano tentativo di razionalizzare la realtà, ma i ragazzi stessi, romanticamente disposti a scavalcare ogni barriera — la famiglia, il dovere, l’emarginazione, persino la morte! — in nome di un ideale: l’amore. Si può essere d’accordo o meno con il messaggio (forse fin troppo ottimistico) di Anderson, ma non si può non riconoscere al film, oltre a un grande pregio tecnico e musicale, quella rara capacità di coinvolgere lo spettatore anche con personaggi appena abbozzati, di riproporre vecchie tematiche in una veste nuova; ma soprattutto di coniugare alla perfezione ironia e dramma, innocenza ed erotismo.

Il film esce in Giappone nel 2001 col titolo originale di “Sen to Chihiro no kamikakushi”, ricevendo da subito innumerevoli premi, tra cui l’Orso d’Oro nel 2002 e l’Oscar nel 2003, e un successo di pubblico straordinario. Si tratta di un lungometraggio animato di altissima qualità, in cui il minuzioso lavoro grafico, curato sin nei più piccoli dettagli, ha permesso la realizzazione di scene straordinarie: sullo schermo si alternano, così, a paesaggi mozzafiato dai brillantissimi colori, accoglienti palazzi dall’armoniosa architettura orientaleggiante, abitati dai personaggi più bizzarri, e pur molto realistici, scaturiti dalla fantasia del regista. Così Miyazaki ci presenta il mondo incantato all’interno del quale si trova catapultata la piccola Chihiro, un mondo parallelo a quello degli uomini dove regnano, secondo la tradizione giapponese dello Shintoismo, spiriti dai caratteri e dalle prerogative umane nei quali è incarnata l’essenza di ogni elemento del mondo naturale. Abbandonata dai genitori trasformati in maiali a causa della loro ingordigia, Chihiro sarà costretta a lavorare duramente al servizio della potente maga Yubaba per riuscire a liberarli e a spezzare l’incantesimo che li tiene prigionieri (forte è qui il riferimento autobiografico dell’autore, che a soli 6 anni vede la madre ammalarsi gravemente e per nove anni farà di tutto per contribuire in qualche modo alla guarigione). Yubaba priverà Chihiro del suo nome; dimenticarlo avrebbe significato perdere per sempre la propria identità e così la libertà. Ma in questo viaggio la ragazza non sarà sola: incontrerà moltissimi amici, che spesso dimostreranno di aver bisogno di lei, più di quanto essi stessi avrebbero potuto immaginare. Haku, il più importante di tutti, accompagnerà Chihiro lungo tutto il cammino, un cammino che sarà per la protagonista anche di profonda crescita e mutamento interiore. Ma egli stesso riceverà dalla ragazza un dono immenso: la riconquista della propria libertà e un profondo e sincero amore. Di fortissimo impatto emotivo è l’ultima scena. Chihiro imbocca il tunnel che all’andata l’aveva condotta alla Città Incantata, ma questa volta deve fare molta attenzione a non voltarsi mai indietro fino a quando non sarà sbucata dall’altra parte, altrimenti mai più avrebbe potuto fare ritorno al mondo dei vivi. Assai ardua è la prova: Haku, poco più indietro, la guarda allontanarsi per sempre dal mondo degli spiriti.

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Jude Law e Robert Downey Jr. nello Sherlock Holmes di Guy Ritchie

INGLORIOUS REVIEWERS

A STUDY IN SHERLOCK di Morgana Grancia Ormai un anno e mezzo fa, costretta a casa in convalescenza, ebbi l’occasione di iniziare la serie televisiva inglese “Sherlock”, prodotta dalla BBC. Già da mesi avevo potuto assimilare, dai social network e da varie conversazioni con chi se ne dichiarava entusiasta, una notevole quantità di informazioni sul cast e sulla trama degli episodi. All’epoca, era stata trasmessa solamente la prima stagione, di tre episodi di un’ora e mezza ciascuno (composizione a mio parere ottima, che avevo già apprezzato per “Wallander” nel 2008, una serie ancora in corso trasmessa sempre sul primo canale della BBC). Ciò che mi aveva fino a quel momento frenato dal guardare “Sherlock” era il fatto che la considerassi a priori un surrogato del film “Sherlock Holmes”, uscito il giorno di Natale del 2009, diretto da Guy Ritchie. Lo “Sherlock Holmes” del 2009, che richiese quasi dieci anni di preproduzione, con il suo sequel del 2011, è 12

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stato senza dubbio un azzardato tentativo, più o meno riuscito, di trasportare l’immortale personaggio, ideato dalla penna di Arthur Conan Doyle, in una versione moderna bohémienne. Lo scopo era chiaro: individuare, nella scienza della deduzione e nella logica tipica di Holmes, gli elementi che permettessero la realizzazione di un film d’azione che si incastrasse all’interno dei canoni hollywoodiani. Particolarmente interessante fu la scelta dei due attori protagonisti. Primo: Robert Downey Junior, un americano, per interpretare uno Sherlock Holmes fisicamente ben diverso da come Conan Doyle ce l’aveva descritto: non più particolarmente alto, non più con un profilo aguzzo e non più eccessivamente magro. Più fedele al canone, ma del tutto opposta all’immagine di John Watson che ci hanno lasciato produzioni televisive precedenti, fu la scelta di Jude Law per interpretare il fedele companion, non più un personaggio caricaturale e sovrappeso.

Prima di vedere la serie televisiva “Sherlock”, avevo visto entrambi i film di Guy Ritchie, che avevano riscosso molto successo di pubblico e di critica, e per i quali anche io avevo nutrito un certo entusiamo, anche se passeggero. Scoprii solo successivamente che gli sceneggiatori della serie in questione, Steven Moffat e Mark Gatiss (già autori della serie fantascientifica “Doctor Who”), avevano annunciato una produzione televisiva basata sui racconti e sui romanzi di Arthur Conan Doyle, con protagonista il personaggio Sherlock Holmes, già nel 2008, ben prima, dunque, dell’uscita del primo film. Iniziai allora il primo episodio, rimanendo comunque comprensibilmente scettica. In questo caso, le avventure del detective più famoso di tutti i tempi sfruttano un’ambientazione contemporanea (scelta adottata già in alcuni film degli anni ‘40, con Basil Rathbone). Come nel canone, Sherlock Holmes utilizza qualsiasi risorsa a lui disponibile, allo stesso modo lo Sherlock Holmes della


BBC, interpretato da Benedict Cumberbatch, si serve anche di sms, computer e cellulari per risolvere i propri casi, senza che venga sacrificata l’eccellente capacità di deduzione, l’arma più preziosa del personaggio. Ho guardato avidamente i tre episodi che compongono la prima serie in un paio di giorni, e quindi aspettato con impazienza circa tre mesi, perché la BBC mandasse in onda gli altri tre episodi della seconda serie. Tra la prima e la seconda stagione, erano ormai trascorsi quasi due anni, e così, ancora, i fan (che si auto definiscono come the fandom who waited) aspettano la terza serie per il 2014, a distanza di altri due anni. Da appassionata non solo di cinema, ma anche di serie televisive, specialmente inglesi, posso affermare che “Sherlock” è il miglior prodotto televisivo che io abbia mai avuto modo di vedere. Di Benedict Cumberbatch avevo un vago ricordo da “Starter for ten”, commedia inglese del 2006, e da film come “Espiazione” e “L’altra donna del re”, dove mi era stato difficile, se non impossibile, provare una qualunque sorta di simpatia nei suoi confronti, per i ruoli da lui interpretati più che per la sua recitazione: rimaneva, prima di “Sherlock”, un attore semi sconosciuto con un nome impronunciabile. Ma, contro qualunque aspettativa, mi ha regalato un ritratto di Sherlock Holmes ben diverso da quello da cui eravamo abituati, e tuttavia funzionale e, incomprensibilmente, non così lontano da come lo descrisse Arthur Conan Doyle. Moffat e Gatiss da una parte hanno cura di rispettare il canone, dall’altra si permettono di giocarci: per esempio, se nel racconto di Doyle, “Uno studio in rosso”, Sherlock intuisce che la chiave del caso sia la parola “Rache”, da interpretare come il tedesco di “vendetta”, e non come il tentativo della vittima di scrivere “Rachel”, nella serie, accade esattamente il contrario. Per il ruolo di John Watson fu scelto Martin Freeman (recentemente, Bilbo Baggins ne “Lo Hobbit”). Come nel caso di Benedict Cumberbatch, non è raro che, per le produzioni della

BBC si preferiscano attori con una solida preparazione e, possibilmente un’esperienza teatrale alle spalle. Non è però il caso di Martin Freeman che, nonostante abbia interpretato anche ruoli drammatici, come quello del pittore Rembrandt (nel film di Peter Greenaway, “Nightwatching”), era meglio conosciuto per la sit com “The Office” e per il ruolo di Arthur Dent in “Guida galattica per autostoppisti”. “Sherlock”: due stagioni, sei episodi in tutto, e quasi si fatica a chiamarla serie tv, specie se abituati ai lunghi ed infiniti serial americani. E proprio gli americani, a tal proposito, hanno allungato lo sguardo. Visto il successo della serie inglese, la CBS ha contattato Steven Moffat, chiedendogli di scrivere il pilot di una nuova serie, americana e ambientata in America, e di seguirne, poi, la realizzazione, sempre sul personaggio di Sherlock Holmes. Al rifiuto di Moffat, la CBS ha comunque deciso di realizzare la serie, dove Sherlock Holmes è interpretato, questa volta, dall’attore Jonny Lee Miller, mentre John Watson non c’è, o meglio, c’è una certa Joan Watson nel ruolo di Lucy Liu.

New York, mentre Joan Watson è un ex chirurgo, ora sober companion. Pochi elementi che bastano a far capire quanto poco ci sia del raffinato Sherlock della BBC (e di quello di Conan Doyle) nel remake americano. “Elementary”, questo il nome della serie, per essere obiettivi, non è un prodotto riuscito male, anzi, in tutti gli episodi - della lunghezza classica di quaranta minuti l’uno - la narrazione procede con ritmo e il personaggio di Holmes avrebbe potuto esercitare un discreto interesse, grazie anche al carisma di Miller. Se solo i nomi, in questo serial, fossero stati diversi, avremmo assistito all’ennesimo insignificante, ma non per questo inguardabile, poliziesco americano, non così diverso da “Castle” o da “The Mentalist”: quello che manca è la pretesa di essere un show originale.

Per spirito di polemica, e per sana curiosità riguardo ai due attori, che ritengo comunque validi, sto seguendo la programmazione della serie, senza negare un certo sforzo. Sherlock Holmes è un ex tossico in riabilitazione, un inglese a

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Cultura / letteratura La BibliobussolaI

Il Vangelo secondo Pilato

di Carlo Simone

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uemilatredici anni fa - o giù di lì - è nato un bambino, nella cittadina più sperduta di una terra brulla e desolata. Alla periferia del potente impero romano, in mezzo a un popolo strano, da sempre in attesa di vedere in faccia il suo Dio, è venuto al mondo. Suo padre era falegname, la madre invece era una ragazza bella e silenziosa, e quando osservava il piccolo che cresceva aveva nello sguardo quella luce comune ad ogni mamma: quella di chi ha davanti un miracolo. Diventato adulto, aveva ogni carta in regola per avere una vita normale, da bravo israeliano: assiduo frequentatore della sinagoga, il lavoro ereditato dal padre, un sacco di amici e, chissà, qualche timida spasimante in paese. Un giorno però è successo qualcosa di strano. Un uomo sporco e coperto di stracci - c’è chi dice che fosse un pazzo - lo fermò lungo la strada, lo immerse nel grande fiume Giordano, lo guardò e lo chiamò Signore. La gente indietreggiò. L’eremita aveva bestemmiato. Sicuramente quel falegname di Nazareth lo avrebbe smentito e se ne sarebbe andato via per la sua strada.

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Invece no. Si mise a viaggiare per tutta la sua terra, seguito da molta gente. Diceva di essere Dio. Le voci sul suo conto si moltiplicavano a dismisura: aveva guarito un cieco, aveva resuscitato un morto. C’era chi lo amava e chi lo voleva morto. Questi ultimi alla fine prevalsero. Lo uccisero e lo fecero sparire dal mondo, in una grotta scavata nella roccia. Ma tre giorni dopo scoprirono che il cadavere non c’era più. Da quel giorno non è mai stato ritrovato, anche se dei pescatori che lo avevano conosciuto in vita sostengono di averlo rivisto, sulle rive di un lago, e poi salire in cielo. Probabilmente era pazzo, o forse era un genio, e si è preso gioco di tutti noi. L’unica cosa di cui possiamo essere certi è che a duemila anni dall’accaduto la provocazione lanciata al mondo da quell’uomo ancora ci tormenta la coscienza: lui, Dio. Nessun altro prima e dopo di quel Gesù l’ha mai sparata così grossa. Nessuno se l’è mai sentita. Lui sì. E’ necessario capire perché, prima di potergli ridere in faccia. O di dirgli: io ti seguo. Eric Emmanuel Schmitt si immagina che il primo ad averlo dovuto fare sia stato quel Ponzio Pilato al quale fu affidato il destino di quel f a l e g n a m e , che i suoi compatrioti volevano morto. Attraverso un carteggio fra il prefetto romano e il suo amico Tito si snoda l’indagine

poliziesca ed esistenziale dell’uomo che vuole capire chi era veramente quel Gesù. Per poter essere certi che fosse un impostore serve cancellare ogni dubbio. Ma più il mistero della scomparsa del cadavere si infittisce più i dubbi nascono in seno al prefetto romano, vessato dai rimproveri che giungono dalla capitale e dalle sommosse dei giudei a Gerusalemme. Le ipotizza tutte, lo cerca dappertutto, ma più è convinto di avvicinarsi alla soluzione dell’enigma più il suo cuore e sua moglie Claudia premono con una domanda dolorosa: e se fosse davvero stato chi diceva di essere? Se veramente avessimo ucciso Dio? E se davvero, come dicono quei pescatori, sia tornato in vita? Per raggiungere la verità Pilato è costretto ad abbandonare strada facendo ogni pregiudizio, partendo dai più ipocriti per arrivare a quelli meramente razionali, finendo con l’essere disposto a tutto pur di far luce sulla vicenda: non più soltanto per salvare il proprio lavoro, ma per poter continuare a vivere con quella serenità ormai perduta. Pilato è solo il primo di una lunga serie che arriva fino ai giorni nostri. Ancora ci sono dei pescatori che vanno annunciando al mondo che quel Gesù è risorto, ancora c’è chi li ignora pensando che siano pazzi, ancora c’è chi vuole il loro male perchè non può accettare che alcun dubbio, nemmeno il più assurdo e inverosimile, si insinui dentro di lui; e ancora c’è chi li segue, cercando quell’uomo risorto. Non importa dove porterà la strada dell’uomo in ricerca, purchè lo faccia arrivare ad una soluzione sul “caso Jeshua”, quello che diceva di essere Dio. Magari la soluzione matematica e limpida non ci sarà mai. Ma come sopportare di non cercare? Dopotutto, come dice Claudia al suo amato: « Dubitare e credere sono la stessa cosa, Pilato. Solo l’indifferenza è atea. »


pride and prejudice and zombies di Federico Regonesi

P

ride and Prejudice. And Zombies. Lo ripeterò: Pride and Prejudice. And zombies. Aggiungerò: Fuck Yes. Questa è la definizione precisa di buona idea; sul dizionario, alla voce genialità, c’è la copertina di questo libro. Non ci vuole un premio nobel per la letteratura per capire di cosa parla questo libro: la trama è quella sputata di orgoglio e pregiudizio, il grande classico di Jane Austen. La giovane Elizabeth e le sue quattro sorelle avanzano nella ritualizzata e borghesissima società vittoriana, con i suoi dogmi e le sue contraddizioni, incontrando vari personaggi iconici dell’epoca e le loro anime gemelle. Tutto questo mentre è in corso un’apocalisse zombie.

teremmo forse addosso al primo essere di sesso opposto, desiderosi di un contatto con un’altra persona, prostrati dalla durezza della vita? Invece le sorelle no: loro rimangono vere Donne, nel senso più alto e puro del termine, anche in una situazione che avrebbe fatto venire i brividi a Bruce Lee. Oltre al lato etico e morale dell’opera vorrei anche sottolineare la capacità espressiva dell’autore tale Seth Grahame-Smith -, un vero maestro nell’arte della lotta agli zombie. Bisognerebbe citare ogni scena di combattimento - contro gli zombie o contro i ninja di lady Catherine -, tutte fini e ben costruite, ma ce n’è una che mi sento di ri-narrare.

Vediamo quindi la scala di valori di una società mutare per adeguarsi allo stato di pericolo. Viene finalmente persa l’ipocrisia per abbracciare la volontà di potenza. Ed ecco che non si vale se non si è un “Maestro nelle mortali Arti”, nella scherma, nel tiro con il moschetto o, ancora meglio, nelle arti dei “Maestri Orientali”, i monaci Shaolin presso i quali le sorelle si sono allenate nei duri anni della loro infanzia. Ma non si perde l’attenzione per i rituali e le formalità tipica dell’epoca, anzi. Le cinque sorelle sono spietate e molto selettive con i loro spasimanti, l’abilità retorica e la buona creanza Ci troviamo in un’ampia sala da ballo, sono virtù ugualla musica e mente necesla luce sono « It is a truth universally sarie per entrare smorzate acknowledged that a zombie nelle loro gradalla polvere in possession of brains must zie quanto lo è giallastra che la perizia nelle entra dalle be in want of more brains. » Arti Mortali. fessure nelle grandi fineQuesta è una provocazione che dob- stre alle pareti. Si sta tenendo il pribiamo saper cogliere: noi, in un mo grande ballo da mesi, e tutti gli mondo devastato dalle guerre con- invitati danzano felicemente al ritmo tro gli “immenzionabili”, dalla pe- di un allegro minuetto. stilenza, un mondo grigio e solitario, Quand’ecco che tutte le finestre si spietato e che non perdona, non sal- rompono, e una valanga di Zombie si

riversa nella sala, trucidando e dilaniando ospiti e servitù. Allora il padre delle giovani si eleva dalla massa urlante e grida: “ FIGLIE, PENTACOLO DELLA MORTE!” E le cinque sorelle si dispongono, con precisione mortale, in formazione a stella a cinque punte, tirano fuori i machete dalle loro giarrettiere e cominciano a girare vorticosamente, mutilando e riuccidendo ogni non morto sulla loro strada. Quanta bellezza. Devo riportare un’unica pecca in questo altrimenti meraviglioso romanzo: pochi zombie. Le scene con zombie sono meravigliose, ma troppo rare! Ci sono infinite sequenze di pagine e pagine dedicate all’amore e ad altre amenità decisamente troppo poco mortali per i miei gusti. Se fosse stato eseguito un lavoro di anlisi filologica migliore, più accurato sull’originale della Austen, e fosse stata sfruttata OGNI possibilità di avere zombie, allora ci troveremmo di fronte a un capolavoro eterno. Così purtroppo l’opera rimane confinata allo stato di “bella, ma dimenticabile”. In poche parole, leggete il libro solo se siete cultori del genere, l’amore per il trash non basta a salvare quest’ottima idea.

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Cultura / musica

AUDIO PHILEs di Edo Mazzi Francesco Bonzanino

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l White Album è sicuramente il capolavoro dei Beatles, nel periodo della loro piena attività musicale. Un doppio in cui i Fab Four hanno spaziato in stili e generi molto diversi tra loro, e soprattutto innovativi per l’epoca in cui sono stati pubblicati; il disco, inoltre ricco di forti tematiche, è il primo album in cui appaia netta la divisione e l’indipendenza dei quattro componenti del gruppo. Lato A: si apre con “Back in the U.S.S.R.”, canzone beffa e allo stesso tempo omaggio allo stile e alle tematiche dei brani dei Beach Boys; brano che con la sua frenesia ci porta alla malinconica “Dear Prudence”, aperta e chiusa da un indimenticabile arpeggio di chitarra. Le sue dolci parole sono rivolte da Lennon a Prudence, ragazza che li accompagnò nel loro viaggio spirituale in India, in modo tanto intenso da arrivare lei stessa a squilibri mentali. “Glass Onion” è un acuto attacco, sotto un’ipnotica base rock, alla speculazione artistica, in particolare in chiave ironica verso le critiche che erano state rivolte alle loro canzoni. Segue la celebre “Ob-la-di, Ob-lada”, apparente canzonetta per bambini, che rappresenta, però, un primo tentativo di reggae bianco. Dopo la strimpellata cantilena di “Wild Honey Pie”, prende parte “the Continuing Story of Bungalow Bill”, ispirata ad un episodio durante il soggiorno in India, 16

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The Beatles. White Album (Apple records, 1968) con momenti alterni che rendono la troppo ispirò negativamente le azioni canzone ancora più preziosa. “While di Charles Manson. Molto singolare è My Guitar Gently Weeps” è un vero “Rocky Racoon”, racconto western, classico e capolavoro di George Har- accompagnato dalla chitarra acustica rison, dove il testo e la musica, cul- e dall’armonica, chiaramente influenminante in un assolo di Eric Clapton, zata da Bob Dylan. Compare di seguito sono rivolti all’espressione di un sag- l’originale, quanto insolito, contributo gio struggimento. Chiude questa pri- di Ringo nella canzone d’amore “Don’t ma parte “Happiness is a Warm Gun”, Pass Me By”. Dopo l’esplicito blues di splendida canzone caratterizzata da “Why Don’t We Do it in the Road”, diverse anime musicali (malinconica; troviamo l’orecchiabile canzone amopsichedelica; tribale; innocente…) e rosa “I Will”, che, per avere una verfrasi dalla solenne ambiguità, come lo sione definitiva, necessitò di più di stesso titolo o il verso: «Mother supe- sessanta registrazioni.Chiude il primo rior jump the gun». Giriamo il disco disco “Julia”, la malinconica canzone sul lato B che è di Lennon dediaperto da “Martha “La cover è stata pensata come cata a Yoko Ono, My Dear”; canzone originale ma semplice alterna- dove la melodia, dall’andamento tiva alla variegata complessità caratterizzata dal calmo e rilasfingerpicking, e il del precedente Sgt. Pepper’s ritmo accompagsante, che proLonely Hearts Club Band” cede sorretta dal nano dolci pensieri. pianoforte e dalla Il rock ‘n’ roll di splendida voce di McCartney, il quale “Birthday” dà inizio al secondo disco l’ha dedicata al suo vecchio cane pas- e al lato C; brano composto interatore. “I’m so Tired” è un inno di Len- mente in studio da Paul, che è rimasto non rivolto alla stanchezza derivata sempre orgoglioso di questa canzone, dalle sue faticose, anche se interes- invece molto disprezzata dall’amico santi, esperienze meditative. Giun- Lennon. John si strugge nella frusgiamo poi a “Blackbird”, una forte trazione di “Yer Blues”, dovuta alla critica di McCartney al razzismo, necessità di dover scegliere tra Cynconsiderata da molti uno dei capola- thia e Yoko. Una lezione di Maharsihi vori del Quartetto; essa è inoltre una ha ispirato “Mother Nature’s Son”, variazione della Bourèe in mi minore canzone dall’andamento orecchiabile di Bach. Il clavicembalo regna nella e letnto; lo stesso episodio ispirò in satira sociale di “Piggies”, duro attac- seguito John Lennon solista nella comco alle convenzioni borghesi, che pur- posizione di “Jealous Guy”, contenuta


“It’s been a long long long time, / how could I ever have lost you / when I loved you” “Why don’t we do it in the road? / No one will be watching us / Why don’t we do it in the road?”

nell’album Immagine del 1971. In “Everybody’s Got Something to Hide Except Me and my Monkey” John e Yoko rivendicano di essere gli unici a non essere ossessionati da paranoie. La delusione nei confronti di alcuni atteggiamenti negativi e scorretti di Maharishi traspare dalla malinconica “Sexy Sadie”, tragicomica ballata al piano. In “Helter Skelter”, canzone molto voluta da Paul, emerge più che in ogni altra del repertorio Beatles lo stile heavy rock, che ispirò molte generazioni di musicisti. Ricompare da compositore protagonista Harrison nella soffusa “Long Long Long”, che chiude questo terza parte dell’album. Il lato D, utimo di questo disco, inzia con una diversa versione del singolo “Revolution 1”; canzone con cui John intende distaccarsi dalle richieste di attivisti rivoluzionari che lo volevano proprio portavoce attraverso la musica. Spiccano pianoforte e basso nello splendido sipario jazz di “Honey Pie”, che riporta Paul ad un’atmosfera paterna dell’infanzia. La vivace melodia di “Savoy Truffle”, in contrasto con l’apparente nonsense del testo, mette in luce la futilità dei discorsi e dei problemi che si affrontano nella vita; il testo è la descrizione di un certo tipo di cioccolatini. Stupenda è “Cry Baby Cry”, canzone molto coinvolgente in cui la melodica voce di McCartney è contornata dal pianoforte; termina con l’inserimento di un jingle. “Revolution 9” è un ardito esperimento di John, in cui sono incluse una serie di registrazioni combinate tra loro, tra cui la ripetizione della frase «number nine» da un test, sussurri, e schiamazzi di sé e Yoko, oltre che a diversi frammenti di “A Day in the Life” (Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967). Essa in realtà rappresenta una creazione psichedelica, che tentasse di esprimere le utopiche ambizioni sociali di John e il benessere derivante dall’amore con Yoko. Il White Album termina con “Good Night”, né più né meno che una sincera e dolce ninna-nanna, accompagnata da una melodia orchestrale, che John Lennon dedica al figlio Julian; una delle canzone preferite da Ringo. Un album che, oltre a costituire un pilastro della storia del rock, si lascia ascoltare tranquillamente, con passione e amore nelle sue trenta canzoni e mille sfaccettature.

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Cultura / musica

“Quale voce viene sul suono delle onde / che non e’ la voce del mare? E’ la voce di qualcuno che ci parla, / ma che, se ascoltiamo, tace, proprio per esserci messi ad ascoltare.” As ilhas afortunadas, Fernando Pessoa (Lisbona, 1888-1935)

di Eleonora Sacco

S

ulle orme di Guido Gozzano, poeta torinese del primissimo ‘900, Guccini rinchiude L’isola non Trovata (1970) nell’alone misterioso di un isolotto atlantico. Avvistata in lontananza da pescatori africani, la sua profumata foschia infiamma i loro desideri e spinge le loro menti affollate di sogni ad inseguirlo all’orizzonte. Il disco parla del tempo: perso, passato, senza misura, del sogno, del pensiero, del cercare senza sosta. Tempo da assaporare secondo per secondo intensamente, nel carpe diem, per giungere alla felicità. Il tempo della vita, speso nell’inseguire la speranza del migliore, ricerca un’evanescente impressione: la meta beata, l’isola fortunata e sfuggevole che possiamo percepire, come scrive Pessoa, solo quando non ci accorgiamo di starlo facendo. “La più bella”. Da Gozzano a Guccini Il giovane tubercolotico Gozzano, dopo il viaggio in India del 1912, fresco dei nuovi interessi esotici fantastica di geografia, evocando terre e mari 18

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da sempre guardati come il Limite dell’indefinito: dal mar dei Sargassi a Gorgo, Hera, Iunonia. Il vero Eden, la vera isola beata, e senza dubbio la più bella, è quella che esiste, - o forse no? - oltre i sensi dell’uomo, che “appare talora di lontano / tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero”. Nessuno ci è mai stato. Appare solo agli umili, ai pescatori, e non certo al potente Re di Spagna, che credeva di poter acquistare la felicità con il denaro. Né il cugino Re di Portogallo, né la bulla del Pontefice riusciranno ad ottenerla. L’isola di Guccini, fedele ripresa di quella di Gozzano (vedi i testi in ultima pagina), compare nella prima traccia, inafferrabile e sinuosa come il fumo, ma torna nell’ultima, a chiudere l’album, tinta d’azzurro “color di lontananza” (che rima molto bene con speranza): la domanda si fa sempre più insistente, necessaria; l’Isola non risponde, torna nel vago dell’orizzonte, lasciandoci con un dolcissimo dubbio dal gusto metafisico. “Sempre devi avere in mente Itaca raggiungerla sia il pensiero costante. / [...] Itaca ti ha dato il bel viaggio,

senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti? / E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso / già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.” (K. Kavafis, Itaca) Forse l’isola è peggio di quello che ci si aspetta. Forse nemmeno esiste: che importa? Ciò che conta è il viaggio della vita. L’isola degli antichi: ai confini del mondo “L’Oceano, che tutto abbraccia, ci attende; e in cerca andremo / di isole felici e di campi, campi beati, / dove il suolo dà i suoi frutti senza essere arato” (Orazio, Epodo XVI) Nessun luogo migliore per fuggire il dolore della vita – L’Ineluttabile Pesantezza del Vivere. Da Esiodo a Pindaro, da Omero a Plutarco, da Plinio il Vecchio a Orazio si è tentato di collocare su una mappa l’eterno mito dell’età dell’oro, rinchiudendolo in un’isoletta. Oltre i confini del mondo, nel Mare Tenebroso l’Oceano, distesa ignota traboccante


d’infinito - le isole Fortunate venivano spesso identificate con le Canarie: esotiche, lussureggianti, misteriose... L’isola dei moderni: un luogo interiore A volte ibridato con il mito di Atlantide, a volte con stregonerie di gusto ancora medievale, Ariosto, Tasso ma anche Shakespeare, More, Bacon, Russeau ci parlano, a loro modo, delle isole Felici. Il mito si è perpetuato fino al celeberrimo personaggio di Peter Pan, creato nel 1902 da Barrie, o nelle musiche di Debussy, poi ancora in Gozzano e Pessoa. Sede della città ideale, non-luogo, l’isola si è sempre più smaterializzata, fino a diventare una proiezione dei propri sogni di perfezione, collocabile solamente dentro se stessi. Non era nelle Americhe, non in Africa né in Australia... Legittima diventò allora la ricerca nella propria psiche, nelle proprie emozioni, nell’inesplorato dentro di noi, alienandosi.

Come una splendida utopia: l’Isola ferdinandea Luglio 1831. Morie di pesci, acqua che bolle, colonne di fumo, terremoti. Nel canale di Sicilia emerge un’isola, che solo nel 2006 verrà identificata come un cono accessorio dell’enorme vulcano sottomarino Empedocle. Inghilterra, Francia e i Borboni si contendono i 4 km² di isola piantando la propria bandiera e ribattezzandola nella propria lingua. Île Julia, Graham island, o isola Ferdinandea? L’isola-Non-Trovata! Il problema della proprietà si risolse con la sua improvvisa scomparsa: risucchiata dalle onde in meno di 6 mesi. Oggi, segnalata - non si sa mai - dai siciliani con una targa che ne rivendica la legittima proprietà, si trova sempre lì, ma 7 metri sotto il mare. Quasi fantascienza. Appare a volte, avvolta di foschia...

re: “nessuno sa se c’è davvero”, se sia realizzabile, ma siamo liberi di crederlo e di renderla la nostra Itaca. Probabilmente non la toccheremo mai, ma l’importante è quello che vivremo cercandola, il senso che daremo al nostro errare. La bella più di tutte non è solo il rifugio della mente dal male del mondo: è spesso un miraggio, un’impressione luccicante e misteriosa che, come una sirena, ci attira e spinge a seguirla. E noi, stregati, continuiamo ad innamorarci col pensiero, spieghiamo le vele al vento, aggrappati al sottile ma dolce filo della speranza. Non provate a raggiungerla, vi sfuggirà via. Sempre, però, desideratela in segreto, inseguitela col pensiero, coloratela, cantatela, sognatela! L’isola è dentro di voi. Testi delle poesie: vedi in ultima pagina!

Nel cuore delle proteste studentesche Francesco Guccini lancia un messaggio cifrato. La nostra isola può essere un’ideologia, un sogno, una speranza religiosa o semplicemente un miglio-

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Cultura / musica L’ultima thule attende al nord estremo di Claudia Sangalli

S

pengo il rumore, accendo la radio. La stanza si riempie di parole per 43 minuti, senza interruzioni. Parole malinconiche, parole che hanno un sapore dolciastro, quasi di morte. E’ la voce di Guccini, che guidandomi in questo suo ultimo viaggio musicale mi lascia incantata, sospesa su un filo tra le sue rime e la sua musica. Questo suo album, l’Ultima Thule, non è avvelenato, non aggredisce il mondo e la sua attuale - disastrata - situazione, ma mi accoglie a braccia aperte e con una carezza sulla punta delle dita; mi fa accomodare in un’atmosfera familiare, e mi rilassa. Tutto ha inizio di notte. Le voci insistenti di due genitori, desiderose di dormire, esortano il figlio a fare lo stesso. La luce viene spenta, ma invece del riposo, comincia un monologo con la notte stessa, che è per antonomasia portatrice di grandi, filosofici pensieri. Guccini celebra ciò che resta di antiche speranze. Sfoglia le emozioni, 20

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i sogni, le delusioni della sua infanzia e della sua adolescenza, tempi così lontani per un uomo di 72 anni, ma allo stesso tempo così vivi, così forti. Le canzoni si intrecciano tra loro e offrono immagini nitide del suo passato. I suoi ricordi diventano i nostri. Sono come segreti, piccole confessioni fatte sotto voce all’orecchio. Così, presi di sorpresa, senza accorgercene ci immedesimiamo e ci sentiamo protagonisti. Un solo sguardo dettagliato sulla sua esistenza sembra scovare quindi anche la nostra; forse per aiutarci a migliorare, a prendere la vita sul serio. Canzone indimenticabile è L’Ultima Volta. Guccini mi prende per mano e mi porta a spasso per i valichi dell’Appennino, tra il fiume Limentra e il mulino dei nonni, luogo dove è stata registrata la stessa canzone. Ciò che folgora è il significato, la vera essenza del testo: c’è sempre la volta che determina la fine di un qualcosa, ma in quel momento non ci accor-

giamo che è proprio l’ultima. Qui sale un sottile brivido, un’anticipazione di morte che però si prospetta serena, indolore, proprio perché non sapremo quale sarà il suo momento. Infatti questo è il tema che sembra ripresentarsi fiero ad ogni occasione, mascherato prima da partigiano ucciso su in collina, poi da pagliaccio, “intossicato da sogni vani di democrazia”. Un tabù che intimorisce tutti, me per prima. Non vi è risposta, ma forse, se ascoltiamo con attenzione, si può trovare un sollievo personale anche per un interrogativo così complesso. Però Guccini, con raffinatezza e discrezione, preferisce definire come filo conduttore la ‘scomparsa’. L’Ultima Thule infatti è l’ultima isola, dove tutto finisce e si perde; è la terra leggendaria del ghiaccio e del fuoco, raggiunta da un viaggiatore greco di Marsiglia intorno al 300 a.C. Si trovava oltre le colonne d’Ercole, ed era definita dal poeta Virgilio come estrema, come ultima terra conoscibile. Dunque dopo di lei tutto svanisce, diviene nebbia. È la metafora della vita stessa, che con tutte le sue passioni e i suoi tormenti troverà riposo alla fine del viaggio. Così è stato per Guccini. Dopo anni dedicati alla musica, ha deciso di chiudere la sua carriera in silenzio, senza concerti. Ci lascia con l’amaro in bocca e con in mano questo suo disco, in cui esorta ad essere fieri delle proprie battaglie quotidiane, vinte o perse, perché sono quelle che permettono di andare avanti. L’ultima Thule si spegne così, con uno sguardo rivolto all’orizzonte. Nella nebbia temporalesca sfuma l’immagine di un veliero che vuole navigare fino all’infinito; è agguerrito e determinato a raggiungere il suo scopo, anche se è consapevole che sarà il suo ultimo viaggio. Ormai non può più tornare indietro, può soltanto andare incontro al suo destino. “Si perderà in un’ultima canzone / di me e della mia nave anche il ricordo” No, caro il mio Francesco, questo non è ciò che ti aspetta. Spereremo tutti in un tuo ritorno, ma se non sarà così, non sarai dimenticato facilmente.


Cultura / racconti M.C. Escher: Eye (1946)

CRONACA DI UN’ILLUSIONE

di Godog

D

ue occhi rossi, brillanti di luce propria, sfocati in lontananza, immersi nel nero con la sola compagnia di qualche ombra più nera del nero. Due occhi che non avevano niente da dire, ma erano tutto per il giovane vagabondo, perso e sconsolato, coi brividi che non sapeva se attribuire al freddo pungente di una notte inoltrata, o a quella sorta di sapiente e centellinata mistura di speranza, paura ed eccitazione che lo permeava dal tramonto infuocato, vissuto qualche ora prima, e che lo aveva lasciato, a tratti, sul punto di soffocare. Egli sentiva che quell’ansia di vivere era il fine stesso della vita e si sentiva libero, come se nell’ascesa a cieli sempre più alti avesse urtato col piede Dio durante l’arrampicata, in modo tanto involontario quanto impertinente. Questa idea, anzi, questo stato psico-fisico si interrompeva proprio quando, constatò il giovane

uomo- ne diventava pienamente cosciente. Frustrante, certo, ma non per questo deludente. Non si riduceva semplicemente ad un cane che tenta di mordersi la coda. No, era –è-, più come un cane che azzanna la sua coda proprio perché è il suo fine più alto e più giusto poter decidere sulla sua auto-distruzione. Voleva essere il fautore della sua propria vita, come recitava quell’antico detto d’una lingua straniera; era stanco di insopportabili catene che lo tenessero avvinghiato a una terra che non sentiva sua e di asperrime medicine che alleviassero in modo finto e plastico e impuro questa sensazione e del peso sulla sua lingua e nel suo corpo e di quel rumore in testa che aveva reso l’emicrania un’abitudine familiare, senza per questo darle colore, lasciandola anzi di quel particolare sfondo asettico e mortale. Si muoveva verso le luci della notte, faro reale ideale di qualcosa che forse esisteva solo nella sua

mente stanca. Due occhi rossi, e non erano gli unici. Ce n’erano di gialli, di verdi, alcuni più luminosi, definiti, fluorescenti, altri più fiochi, più spenti, come brace morente. Alcuni erano immobili creando una sfida allo spettatore, impertinenti e testardi, volevano averla vinta, non si spegnevano mai, potevi voltarti un istante o più e ,quando tornavi ad essi, li ritrovavi come li avevi lasciati; altri si muovevano dando vita a scie confuse e infernali che sparivano dietro l’orizzonte, subito rimpiazzati da altri che ne seguivano il cammino come viaggiatori che inseguono una stella cometa e non capiscono che loro stessi sono stelle per altri. I due occhi rossi si chiusero, si aprirono due gemelli verdi; era tempo per il ragazzo di avanzare, di andare incontro a ciò che gli altri solevano chiamare destino e che per lui era solo l’inestimabile bellezza dell’ignoto. Mise il primo piede sulle strisce pedonali.

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Cultura / racconti

L’UOMO che guardava le stelle

di Martina Brandi

La bambina non era mai stata fuori dalla città, specialmente dopo il calar del sole. Ora lì, sull’uscio della casa del vecchio, la notte le sembrava nera e profonda; la stradina che si srotolava ai suoi piedi, illuminata dal riverbero che filtrava oltre la soglia, veniva inghiottita più avanti dalle tenebre. L’oscurità sembrava avvolgere ogni cosa, come fosse inchiostro diluito in un’ampolla d’acqua. Le notti, in città, erano molto diverse: la fiamma delle fiaccole illuminava la densa cappa di fumo che si accumulava stagnante sopra i tetti delle abitazioni e intorbidiva l’aria, e tutto pareva sempre rischiarata a giorno; alzando gli occhi al cielo si poteva intravedere solo un violaceo e nebbioso chiarore. Ma ora un’unica spirale di fumo si snodava placida dal comignolo della casa e la bambina non vedeva a più di tre passi davanti a lei, poi solo una buia e impenetrabile parete, infine solo la notte che tutto avvolge. Il vecchio le 22

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stava accanto, imponente e bonario. Si riempiva i polmoni della fresca aria notturna e di quella liquida oscurità, e scrutava il buio davanti alla casa; ma i suoi occhi, d’un tratto non più stanchi, sembravano fendere l’oscurità e vedere al di là della nera coltre. Un sorriso pareva appena accennato sotto la peluria del suo viso. Il vecchio guardò in giù, verso la bambina, e disse con voce profonda e un po’ burbera: “Andiamo”. Lei, alzando lo sguardo curioso verso il vecchio, gli porse la piccola mano e lui la strinse nella sua, ruvida e callosa. Aspettò che la bambina muovesse il primo passo, poi i due si addentrarono nella notte. Gli occhi della bambina non vedevano nulla in mezzo all’oscurità, ma i passi lenti e sicuri del vecchio la guidavano in quel mare di tenebra. Ad un tratto la strada sterrata svanì sotto i loro piedi per lasciare il posto ad un’erba tenera e fresca che lambiva le caviglie. La vista della bambina iniziava pian paino a distinguere i contorni

delle cose, abituandosi, dopo tanto tempo, a vedere nella notte. Salirono su quello che sembrava il dolce fianco di una collina fino a raggiungerne la cima. Lì, accolti da un caldo vento primaverile carico di profumi, si fermarono e la bambina alzò per la prima volta gli occhi al cielo. Sopra di lei si stagliava la volta celeste, costellata dal candido argento di migliaia di stelle luminose. La bambina spalancò la bocca, ma non ne uscì nulla, nemmeno un lieve sussurro; la voce le era morta in gola e il silenzio raccontava meglio di qualsiasi altro suono lo stupore per quel grandioso e magnifico spettacolo. Il vecchio si accovacciò al suolo supino, felice come fosse finalmente tornato a casa; il suo sguardo si spostava placido dalla bambina al cielo e i suoi occhi risplendevano del bagliore delle stelle. Ogni volta che si sdraiava lì, sotto quel cielo, i suoi occhi si riempivano di lacrime di gioia e mai egli si stancava di contemplare quel miracolo divino.


Francois Boucher - Il ratto di Europa (1734)

La bambina si distese nell’erba al suo fianco e il vecchio iniziò a parlare: “Qui, bambina mia, è scritta tutta la storia del mondo, qui fra le stelle, dove gli dei hanno reso eterni i ricordi. Le vedi quelle tre stelline lassù?” e indicò in alto con il dito. “Sì!”. “Quelle sono niente meno che le corna dell’ariete dal vello d’oro. Conosci la sua storia?”. La bambina scosse il capo dispiaciuta. Il vecchio sorrise e iniziò: “Tempo fa, nella vicina Beozia, viveva un re di nome Atamante. Sua sposa era Nefele, dea delle nuvole, dalla quale il sovrano aveva avuto due figli, Frisso ed Elle. Un giorno, però, il re ripudiò la moglie per sposare Ino, una donna mortale. Ma Ino detestava i figli nati dal primo matrimonio e persuase dunque il re a sacrificarli agli dei, come unica salvezza dalla carestia che allora incombeva micidiale sul paese. A malincuore allora, il re ordinò che i due giovani venissero immolati presso un altare. Ma quando per loro sembrava ormai persa ogni speranza, ecco scendere Ma poi i suoi occhi incrociarono una dal cielo un montone dal manto d’oro, stella particolare, diversa dalle altre, inviato da Zeus per salvarli: tanto lo una stella rossa. “E quello cos’è?”, aveva supplicato la disperata Nefele. domandò curiosa al vecchio.“Quello, Montati in groppa all’animale, i due bambina, è l’occhio infuocato del toro. giovani sorvolarono molte terre e mol- La sua storia risale a molto tempo fa, ti mari: la Colchide era la loro meta. quando a Tiro regnava Agenore, genE vi erano ormai giunti quando Elle, erato da Libia e Poseidone. Sua figlia, stanca del lungo volo, scivolò precipi- Europa, era una bellissima fanciulla, tosamente verso il basso e cadde nelle talmente bella che anche Zeus, il più acque del mare che oggi chiamiamo potente di tutti gli dei, si innamorò Ellesponto. Il fratello, invece, giunse di lei. Questi, dunque, per riuscire salvo nella ad avvicinarsi nuova terra, “Qui, bambina mia, è scritta tutta alla fancidove venne ulla, escogla storia del mondo, qui fra accolto dal le stelle, dove gli dei hanno reso itò un astuto re Eeta, ma travestimeneterni i ricordi.” questa è to: si traun’altra storia. Zeus, però, decise di mutò in un bellissimo e maestoso premiare il magnifico animale che ave- toro, dal candido pelo e dalle corna va salvato i due giovani da un inutile d’avorio, e sotto tali sembianze scese sacrificio e così lo mise in cielo, fra le sulla spiaggia dove la principessa gistelle, affinché tutti gli uomini, veden- ocava ignara con le sue ancelle. Non dolo, ricordassero la sua impresa.”. appena vide l’animale, tanto bello e mansueto, la giovane ne rimase afLa bambina ammirava incantata il fascinata e avvicinatasi iniziò ad acpossente ariete che regnava alto nel carezzarlo e ad adornarlo di fiori; il cielo e ne distingueva la figura così dio, astuto, si accovacciò per pernitidamente che al suono delle pa- metterle di salirgli in groppa, ma non role del vecchio le era quasi parso appena quella fu salita, l’animale di vederlo muoversi e cavalcare nel- la condusse in mare, sempre più la volta celeste, con in groppa due a largo. Quando Europa si accorse giovani diretti verso terre remote. dell’inganno era ormai troppo tardi,

e Zeus la portò via con sé; dalla loro unione nacque Minosse, re di Creta.”. La bambina vedeva, in alto, la bellissima Europa e nelle orecchie sentiva il rimbombo delle onde del mare; ma subito il vecchio ricominciò a parlare, mentre i suoi occhi seguivano i disegni delle stelle: “Ma Zeus s’innamorò di molte donne, dee e mortali, ed il cielo racchiude molte di queste storie. Guarda più in là, bambina, guarda i due gemelli, Castore e Polluce, nati da Leda, sposa di Tindaro, sovrano di Sparta. Anche di lei si innamorò il re degli dei e la sedusse questa volta sotto le sembianze di un magnifico cigno. Alla donna nacquero dunque quattro figli, racchiusi, cosa insolita, in due uova: da uno, figli del dio, vennero alla luce Polluce ed Elena, dall’altro, figli di Tindaro, Castore e Clitemnestra. Ma i due fratelli furono in vita legati da un affetto fraterno assai profondo e così, quando Castore morì nel tentativo di rapire le promesse spose dei cugini Ida e Linceo, gemelli anch’essi, Polluce volle seguire il destino del fratello. Zeus, allora, concesse loro di vivere in eterno in cielo, sotto forma di costellazione.”. “E laggiù? – indicò lei – quello è un

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Cultura / racconti Correggio - Leda e il cigno (1530)

leone!”. Il vecchi sorrise: la bambina aveva imparato a leggere il cielo. “Sì, – disse – quello è il leone. Ma prima guarda lì in mezzo, la piccola costellazione del granchio, che gli uomini sempre dimenticano.”. La bambina la vide, più piccola e meno luminosa delle altre figure, e in silenzio attese che il vecchio raccontasse la sua storia. E quello iniziò: “Ci sono stati giorni assai gloriosi, in cui Eracle, il più grande eroe di tutti i tempi, sostenne con le sue forze dodici immani fatiche. La storia del granchio risale ai giorni in cui il grande eroe, figlio anch’egli di Zeus e Alcmena, dovette affrontare la terribile Idra dalle molte teste: ad un certo punto, nel mezzo del combattimento, dalle acque del lago fuoriuscì il piccolo granchio, che vedendo l’eroe in difficoltà si avvicinò al mostro per pizzicarlo. Ma il colpo sbagliò bersaglio e ferì il piede di Eracle, che d’istinto schiacciò la bestiola.

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Era, tuttavia, avendo visto ogni cosa dall’alto, volle glorificare l’animale per aver ostacolato, anche se in minima parte, l’eroe da lei tanto odiato. Eracle, infatti, era nato da un amore illegittimo di Zeus, il quale, con l’inganno, aveva poi donato il piccolo alla dea perché lo svezzasse. Lei, accortasi dell’imbroglio, lo aveva strappato via dal petto, ma così facendo uno schizzo del suo latte aveva lasciato una macchia indelebile nel cielo. Ed è quella, bambina, la Via Lattea, una striscia bianca e luminosa che puoi vedere nelle notti serene. La dea dunque pose in cielo il piccolo animale e a lui dedicò la flebile costellazione del cancro. Quello che vedi poco più in là, invece, è il terribile leone di Nemea: la sua pelle era come una corazza, nessun’arma poteva trafiggerla. Ma Eracle riuscì a sconfiggere anche quella bestia e a privarla della folta

e lucente pelliccia, incidendola con gli artigli stessi dell’animale morto. Da allora il suo corpo fu sempre ricoperto da quel manto e così lo rappresentiamo ancora noi oggi.”. Alla bambina batteva forte il cuore: non aveva mai immaginato che in cielo fosse scritta la storia di dei, eroi, mostri e altre stranissime creature. Ma ormai la notte volgeva al termine e un lieve chiarore stava sorgendo dal giaciglio delle dolci colline a orientali. Come la notte, il vecchio sembrava sbiadire alla luce del sole e il suo volto tornava ad essere muto e illeggibile. Ma la bambina sapeva che quello era l’uomo delle stelle, di tutte le magnifiche stelle che aveva visto quella notte, di tutte le magnifiche stelle che ogni notte trapuntavano il cielo della Grecia.


Il gallo che salvò roma #3 di Pietro Klausner

I

nverno del 222 a.C: parte dell’esercito romano ritorna a Roma. Il ragazzo giaceva a terra, con una profonda ferita sul petto; il sangue scorreva copioso. Il padre, che lo teneva tra le braccia, vide nei suoi occhi la luce spegnersi. Poi, come una foglia al vento, la salma si sollevò da terra e dalla ferita uscì un piccolo essere, minuto e imbrattato di sangue. L’uomo fissò quella strana creatura dritto negli occhi: erano come quelli del morto, solo dotati di passione, ambizione e di una luce che continuava a crescere sino a diventare accecante… Infastidito dal sorgere dell’alba, il romano si destò dal sonno, turbato più che mai dal sogno che aveva appena fatto. Subito i ricordi degli ultimi mesi di guerra lo aggredirono: Roma aveva trionfato sui Galli cisalpini; Milano, la loro città più importante, era capitolata e ora parte dell’esercito stava tornando all’Urbe. Il bottino era immenso, certo… ma lui, Lucio Emilio Paolo, aveva subito la perdita più grave che un padre potesse sopportare: quella del figlio maggiore, del suo erede, perito durante una sortita. Non riuscì a trattenere le lacrime, che scesero silenziose; doveva però essere orgoglioso perché suo figlio era caduto salvandolo da un gruppo di barbari, abbattendoli uno dopo l’altro e morendo per una ferita in pieno petto. Aveva combattuto fino all’ultimo da vero eroe: ma era questa per lui una vera consolazione? L’uomo si alzò dal suo giaciglio e si asciugò le lacrime: non poteva mostrarsi debole di fronte ai soldati. Rifletté a fondo su come avrebbe potuto annunciare alla famiglia l’accaduto; con ogni probabilità sua moglie avrebbe capito subito non appena l’avesse visto tornare da solo. Ma i suoi figli? Come comunicare loro che il loro fratellone, la loro guida, era scomparsa per sempre? Riprese a piangere. In quel momento si ricordò del prigioniero gallico: quel giovane era

Evariste-Vital Luminais, Gaulois en vue de Rome, 1890

così simile al figlio defunto, soprattutto negli intensi occhi scuri, che non era riuscito a ucciderlo: un istinto primordiale lo aveva costretto a risparmiargli la vita e a portarlo con sé. Per quanto ne sapeva, poteva essere anche il ragazzo il più stupido della città o covare nel cuore intenti proditori; ma, inspiegabilmente, il suo viso gli ispirava fiducia e una serenità liberatoria. Mosso ancora dall’istinto, decise di andare a parlargli. Lo trovò nel retro della tenda che dormiva per terra, incatenato a un palo; gli si sedette di fianco e aspettò con pazienza che si svegliasse. Quando, poco dopo, il ragazzo si destò, si guardò attorno, smarrito, ma, non appena vide il romano, gli rivolse uno sguardo pieno d’astio. Per un tempo che sembrò interminabile, i due rimasero in silenzio osservandosi attentamente. Fu il romano a parlare per primo, in lingua gallica: “Ti ho salvato la vita. Dovresti perlomeno mostrarmi un minimo di riconoscenza. Avresti potuto incorrere in un destino assai più crudele.” Il ragazzo trasse un gran respiro, ponderando bene la risposta: “E dovrei esserti riconoscente? Senza il tuo aiuto sarei morto, adesso. Sarei libero da ogni sofferenza, sarei senza pensieri; invece finirò a essere lo schiavo di un romano. Non mi sembra una grande fortuna”. “Calmati! Ho dei piani per il tuo fu-

turo,” rispose Emilio, “sono un uomo potente e diverrai il mio segretario. Per questa ragione imparerai il latino quando verrai a Roma, e ti converrà, per il tuo bene”. Il ragazzo rimase impassibile: pur riluttante ad accettare questo suo fato, sapeva che cercare di opporvisi sarebbe stato distruttivo e, per il momento, decise lasciarsi trasportare dal flusso degli eventi. Così disse: “Non mi hai ancora detto, romano, cosa è accaduto al panettiere cui ho salvato la vita”. “Ho onorato il tuo valore e l’ho lasciato andare: cosa ne sia stato di lui lo ignoro.” “Morto dunque, o peggio, schiavo.” concluse cinico il ragazzo. In silenzio, il romano continuò a scrutare il ragazzo, poi, solenne, disse: “È ora che tu sappia chi sono. Mi chiamo Lucio Emilio Paolo e appartengo alla gens patrizia degli Emilii. Il tuo nome, invece, mi è ancora oscuro.” Il ragazzo, con fare quasi insofferente, rispose: “Pensavo di avertelo già detto. Io sono nessuno”. Il romano gli rivolse uno sguardo divertito. “Questa tua arroganza mi piace; bada bene, però, che da adesso non tollererò più tali comportamenti. Nessuno, eh? Vediamo un po’… d’ora in poi da oggi sarai chiamato col nome di Oligodisseo. Ma ora basta parole, dobbiamo prepararci per la marcia, un lungo cammino ci attende”.

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Cultura / racconti racconti bonsai

di Federico Regonesi

L

erendira

a guardavo: era la donna perfetta. Stava lì, davanti a me nella stanza tutta piena di porpora, sorrideva appena, come la prima fiammella che guizza da un falò: non è ancora calda e vivifica, ma è piena di promesse. Il rosa di un capezzolo spuntava a malapena, scherzosamente timido, dalle lenzuola color pesca. Ricordo distintamente la bellezza d’un dentino che le spuntava da dietro il labbro - così bianco, i margini si smorzavano in bell’azzurrino, trasparenti che si vedeva attraverso. Ero timido. Lo sguardo mi cadeva inevitabilmente verso il basso, la testa incassata nelle spalle. Cercavo di darmi un contegno- battute divertenti, occhiate d’intesa e conversazione brillante. Però non l’ho mai toccata. Come mi avvicinavo sentivo un tal timore, una paura dell’incognito che mi limitavo, mi bloccavo. Una carezza casuale, puro scherzo, una pacchetta in testa giusto per ridere - ma il vero sentimento, dietro al contatto, non ce lo mettevo mai. A un certo punto decido di avvicinarmi. Le sorrido, sincero. Non cambia nulla. Non mi risponde, non mi guarda con altri occhi. Ingoio un groppo di saliva, il gozzo sale e scende; una goccia di sudore si perde tra i peli della mia barba. La fisso negli occhi. Le dico:”Ti ho sempre amata.” Tendo una mano verso il suo volto. Sul polpasterello sento del sangue. Il suo volto, meraviglioso, si è aperto, come il fiore del baobab. Brandelli di pelle stanno tesi attorno al suo teschio sanguinante. Gli occhi senza palpebre mi fissano senza emozioni. Che belle pupille che avevi. Le sue ossa cominciano a ribollire e petali blu scuro cominciano a scavarsi una strada tra carne e sangue. Lei comincia a sfaldarsi in una nube, ormai informe, di petali blu, che svolazzano via e vanno a sbattere sulla parete subito dietro. Stanno lì, in un mucchio. In mano, appiccicato con un po’ di sangue, mi rimane un solo petalo blu. E così, di nuovo, sono solo.

C

il re

’era una volta un Re, solo nel castello. Era Re, ma non perché voleva lui. C’era nato, patatino, anni fa solo in un castello più grande di lui, senza mamma, nè papà- solo una brutta balia coi baffi e un gatto: Pollicino. Se non aveste capito: si sentiva solo. Mille scartoffie da compilare anche solo per dar da mangiare a UNO dei suoi sudditi! E non poteva certo lasciarli soli, poverini. E’ tipico dell’umanità il necessitare di un uomo che le imbocchi lo spirito. Ogni giorno otto ore nel suo ufficio, un cubicolino nel mezzo della sala del trono. Computer e caffè, uno smoking grigio. Affianco allo schermo, la foto della tata. Girata, perché è brutta. Poi si alzava, alle quattro del pomeriggio, e si toglieva lo smoking grigio. Si rimetteva il mantello d’ermellino e la corona col diamante, e si affacciava al grande balcone del castello. Una terra brulla e marroncina lo fissava. Alberi morti e corvi gli unici suoi sudditi. Lui sfoggiava un sorriso soddisfatto e gridava: TEMPI MIGLIORI ARRIVERANNO! ABBIATE FEDE! ABBIATE FEDE! e continuava a gridare ABBIATE FEDE! ABBIATE FEDE! finché non aveva più fiato per respirare e tossiva sangue. Allora si trascinava di nuovo dentro al castello, si toglieva il mantello e la corona col diamante e si metteva il piagiama. C’era disegnato un orsacchiotto che regala un fiore a un’orsacchiotta. Si acciambellava a letto come un bimbo, al fianco di Pollicino il Gatto. Qualche volte piangeva, più spesso si addormentava subito per la stanchezza. Allora Pollicino gli leccava un po’ la faccia finchè non vedeva che lui sorrideva, poi gli si metteva in braccio e si lasciava stringere, anche se gli dava fastidio. Un giorno il Re si sveglia stanco. La sua vita l’ha provato: è magro, quasi pelato. Gli rimane solo un dente e la pelle della schiena è piena di melanomi. Sorride amaro. Ciao pollicino. Meow. Purrr. Pollicino gli si struscia su un polpaccio flaccido. Il Re si mette il suo smoking grigio e si mette a lavorare. Arriva mezzodì, il Re è stanco. Si guarda riflesso nello schermo- spento. Si alza, la fronte corrugata. Non si cambia il vestito, anzi, si spoglia completamente. Esce fuori sul balcone deserto. Guarda il suo mondo morto. Si butta. Il suo ultimo pensiero? E la loro poesia? Chi gliela darà, adesso?

Gustav Klimt - Danae (1908) 26

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Cultura / milano Piccoli consigli per un ciclista urbano di Paolo Wetzl, LSS A. Volta Pubblichiamo volentieri l’articolo inviatoci da un nostro “collega” voltiano, consigliere alla Consulta e amico, che collabora con le ciclofficine, nuove iniziative universitarie di supporto gratuito nella riparazione di biciclette. La Redazione

M

ilan l’è proprio una giungla, sarebbe da dire per la quantità di difficoltà e ostacoli che incontra chi vuole beffare il traffico in sella

ad una bici. Poche piste ciclabili, pavè, buche, furti e l’arroganza dell’automobilista medio possono scoraggiare chi volesse tagliare la dipendenza dalla broda (o benzina n.d.r.) o dai sovraffollati mezzi pubblici. Ecco qualche indicazione per affrontare tali questioni, meditata a fronte di una lunga esperienza in giro per le strade di Milano. Programma il tuo percorso in città: scegli vie secondarie per stare alla larga dal traffico ed evita pavé e rotaie, acerrimi nemici delle gomme e della tua stabilità. Sei troppo pigro per farlo mentalmente? Bene, il sito bikedistrict.org può trovare il percorso più sicuro per farti muovere dal punto A al punto B. Semplice.

offerte” che sanno di ricettazione. San Donato, la fiera di Senigallia sono bei mercatini, ma non per le bici. Ci tieni così tanto a finanziare quelle stesse persone che ti hanno rubato l’ultima bici? Got no money, like a Missisipi bluesman? Riscopri il valore di fare le cose con le tue mani in una ciclofficina. In questi luoghi, improvvisati meccanici condivideranno i saperi del mestiere aiutandoti a compiere piccole o grandi riparazioni sulla tua bici. Hai una gomma bucata e poca voglia di farti spennare da un ciclista? Porta il tuo mezzo in ciclofficina e qui ti verranno offerti strumenti e consigli con i quali intervenire da solo sulla tua biga. Con molta pazienza e giusto il costo dei pezzi di ricambio, potrai acquisire conoscenze che ti renderanno sempre più indipendente e libero di muoverti in bici, con un mezzo sempre più tuo. Autàrcheia! Questi piccoli templi del ciclista urbano, dove puoi trovare vecchi sacerdoti

del tradizionale sapere meccanico, esaltati di ogni età, rigattieri mancati e semplici curiosi, rappresentano i maggiori centri di diffusione della cultura ciclistica in città. Negli ultimi anni luoghi e associazioni di questo tipo si stanno diffondendo a macchia d’olio, e nelle vicinanze del Carducci ne troviamo ben tre: la ciclofficina Pontegiallo all’anfiteatro della Martesana aperta la domenica pomeriggio (h14-18), alla Stecca degli Artigiani in zona Isola il mercoledì (h17-20) e il sabato (h11-20), la ciclofficina Ruotalibera alla facoltà di Agraria in Città Studi mercoledì e venerdì dalle 16 alle 19.30. Sono interamente gestite da volontari; basta davvero poco per sentirsi coinvolti in queste rilassate oasi nella frenesia urbana. Tutto questo è quanto di più immediato si possa suggerire a chi volesse prendersi una pausa dal caos cittadino e vivere con più serenità e indipendenza la propria mobilità. Murales di via Predil, sul muro della ferrovia di Lambrate

Lega la bici dove è visibile a te o a persone che in quel luogo rimangono a lungo, come davanti ad un bar o un negozio, in un luogo insomma dove dia nell’occhio l’azione di un ladro. Per rubare una bici gli ci vogliono pochi minuti, non lasciare che agisca nell’intimità e sicurezza di una strada poco frequentata. Non risparmiare in catene, non lasciarti scoraggiare da prezzi un po’ salati. Se possibile lega anche le ruote a telaio o pali. Vuoi mettere quaranta talleri in confronto al valore insostituibile dalla bici con cui hai scorrazzato per anni? Non comprare bici sospette, “super

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Ma ora me ne sbatto troppo di sti quattro quarti concludo dicendo che ho una proposta da farti siccome tu sei solo e la tua vita è incompiuta fai un favore al mondo: bevi sto Gin Tonic con cicuta!

Aristotele: Tu parli troppo e poi c’è qualcosa che non torna le idee sono un sinolo di materia e forma tu invece sei fissato con sta storia della mimesi ma sii un po’ più ottimista: sei passivo come la diatesi!

Platone: nel buio delle idee io sono l’unica lanterna, sei falso come le ombre nel mito della cavarna lo affermo da troppo tempo: tu sei solo un montato, io invece spicco il volo sopra al mio carro alato

non venire a farmi brutto perché c’hai larghe le spalle

Aristotele: Anche se sei di Atene tu sei solo un coatto io sono il miglior rapper sia in potenza che in atto ma tu sei troppo antico e la tua logica fa falle

Platone: Sei solo un ingrato e ciò che dici non è vero ti umilio come ho fatto col buon Lisia dentro al Fedro poi ho dato un valore alla tua schifosa vita io ti ho insegnato tutto, o’ bastardo Stagirita!

Aristotele: Tu sai che sono il migliore nella tua Accademia da mo’ ti ho surclassato quindi fuggi e chiedi venia sei stato un buon filosofo ma ora devi dirmi ma quanto ti ho smontato a suon di idee e di sillogismi!?

Platone: Bella a tutti i regaz, il mio nome è Platone e dal ’99 detto moda col Critone ritengo che la morte sia la mia liberazione la mia anima è immortale ma il mio corpo è una prigione

PLATONE VS ARISTOTELE

svago rappus graecus metropolitanus

di Lorenzo Giudici


rappus LATINUS metropolitanus Quarti di finale del 2thebeat

LUCIO ANNEO SENECA Un saluto al 2thebeat, sono Lucio Anneo Seneca E come Gesù Cristo sto per farvi questa predica Al potere c’è Nerone e per lui la situa è critica Io vengo da Cordova e c’ho l’etica che provoca All’inizio posso anche sembrare una persona mite Ma poi il mio rap ti uccide come la poliomelite Spiego la mia dottrina nel De brevitate vitae Ho il rap fantascientifico come un film di Steven Spielberg Io sono troppo avanti, tu stai perdendo tempo Spento, ascolti la lezione dietro al banco Ti incanto, con questo flow son troppo violento C’è solo un king a Roma e non è il colle der Fomento Fomento il pubblico presente dentro al foro Parlo da un piedistallo e ho una corona d’alloro Arrivo, mi alzo e poi do consigli a loro “Pensate a fare bene, non pensate solo all’oro” Come vi dicevo sono solo un precettore Ma ho perso le speranze per quel babbo di Nerone Speravo che potesse darmi una soddisfazione Ma è troppo negativo manco fosse un elettrone Sono un tipo stoico, retorico: filosofo socratico Drammatico e mi rivolgo a te attraverso il tu diatribico Alcuni dicono che sono un po’ dispotico Ti amo e poi ti uccido come Fedra con Ippolito Ma forse hai bisogno di una lezione Fai troppo lo sgargiante ma ti manca la ragione Prendi me ad esempio, non sono Anfitrione Ma ascenderò all’Olimpo tipo zucchificazione

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svago superfluo: supereroe inutile

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Nespole Catamarano Bulbo

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L’isola non trovata, Francesco Guccini Ma bella più di tutte l'isola non trovata, Quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino il Re del Portogallo, con firma sugellata e bulla del pontefice in gotico Latino. Il Re di Spagna fece vela cercando l'isola incantata, però quell'isola non c'era, e mai nessuno l'ha trovata. Svanì di prua dalla galea, come un'idea; come una splendida utopia è andata via e non tornerà mai più. Le antiche carte dei corsari portano un segno misterioso, ne parlan piano i marinai con un timor superstizioso. Nessuno sa se c'è davvero od è un pensiero; se a volte il vento ne ha il profumo è come il fumo che non prendi mai. Appare a volte, avvolta di foschia, magica e bella, ma se il pilota avanza su mari misteriosi è già volata via, tingendosi d'azzurro - color di lontananza.

I. Ma bella più di tutte l'Isola Non-Trovata: quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino il Re di Portogallo con firma sugellata e bulla del Pontefice in gotico latino. L'Infante fece vela pel regno favoloso, vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso quell'isola cercando... Ma l'isola non c'era. Invano le galee panciute a vele tonde, le caravelle invano armarono la prora: con pace del Pontefice l'isola si nasconde, e Portogallo e Spagna la cercano tuttora. II. L'isola esiste. Appare talora di lontano tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero: «...l'Isola Non-Trovata!» Il buon Canarïano dal Picco alto di Teyde l'addita al forestiero. La segnano le carte antiche dei corsari. ...Hifola da - trovarfi? ...Hifola pellegrina?... È l'isola fatata che scivola sui mari; talora i naviganti la vedono vicina... Radono con le prore quella beata riva: tra fiori mai veduti svettano palme somme, odora la divina foresta spessa e viva, lacrima il cardamomo, trasudano le gomme... S'annuncia col profumo, come una cortigiana, l'Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza, rapida si dilegua come parvenza vana, si tinge dell'azzurro color di lontananza...

As ilhas afortunadas, Fernando Pessoa Quale voce viene sul suono delle onde che non è la voce del mare? E' la voce di qualcuno che ci parla, ma che, se ascoltiamo, tace, proprio per esserci messi ad ascoltare. E solo se, mezzo addormentati, udiamo senza sapere che udiamo, essa ci parla della speranza verso la quale, come un bambino che dorme, dormendo sorridiamo. Sono isole fortunate, sono terre che non hanno luogo, dove il Re vive aspettando. Ma, se vi andiamo destando, tace la voce, e solo c'è il mare.

L’età dell’oro. Lucas Cranach the Elder, 1530

La piu’ bella, Guido Gozzano


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