Obsolete Capitalism Free Press Associazione culturale Rizosfera http://obsoletecapitalism.blogspot.it associazioneculturalerizosfera@gmail.com Questa opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale Immagini nel saggio ‘Moneta, rivoluzione ed accelerazione’: Jean Paul Margnac @ Flickr (pg. 21, 34, 41, 54-55, 61, 66). Le fotografie sono state scattate durante le esequie di Pierre Overney (militante dada-maoista) il 4 Marzo 1972. Immagine pg. 15. Michel Foucault @ Renault, 28 febbraio 1972. Manifestazione di protesta per l’assassinio di Overney. Pic @ INA France. Immagine pg. 12: autore sconosciuto. Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. (Obsolete Capitalism Free Press - OCFP 002) Antologia di testi a cura di Obsolete Capitalism. Autori: Algorithmic Committee, Sara Baranzoni, Paolo Vignola, Lapo Berti, Edmund Berger, Paolo Davoli, Network Ensemble, Obsolete Capitalism, Letizia Rustichelli, Francesco Tacchini. Traduttori: Letizia Rustichelli, Paolo Davoli, Ettore Lancellotti. Progetto grafico di Francesco Tacchini. Composto in ITC Cheltenham e Supria Sans. Prima edizione Maggio 2016. Finito di Stampare presso Tecnograf SLR nel mese di Giugno 2016. ISBN 000-0-00-000000-0 Il libro è dedicato a The Screamers.
EP 45rpm a - side Obsolete Capitalism Sound System ‘La machine informatique dub’ b - side
Network Ensemble ‘La machine informatique dub Urban Sonara Remix’ Etichetta discografica: Rizosfera - Nu KFM Numero Catalogo: NUR 001
Indice
Titolo Autori pag
i Introduzione: dal numerabile algoritmico all’innumerevole intensivo
Nietzsche, il cuore di tenebra dell’Accelerazionismo della Rizosfera
ii iii iv
I forti dell’avvenire. Il frammento accelerazionista di Friedrich Nietzsche nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari Moneta, rivoluzione e accelerazione nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari Accelerazionismo Grunge
Moneta e capitale nella sinistra marxista degli anni Settanta
v
Marx, moneta e capitale nel dibattito della sinistra marxista italiana e francese ai tempi dell’Anti-Edipo. Intervista a Lapo Berti, economista della rivista ‘Primo Maggio’
Biforcazioni
vi vii viii ix x
Biforcare alla radice. Su alcuni disagi dell’accelerazione Cyberforum ‘Biforcare alla radice’ Fantasie Accelerate. Un’uscita di sicurezza della sinistra? Cyberforum ‘Fantasie Accellerate’ Dromologia, bolidismo e accelerazionismo marxista. Frammenti di comunismo tra al-Khwarizmi e Mach
Testi accelerazionisti in appendice
xi xii xiii xiv
I forti dell’avvenire La macchina informatica Solo noi, arrotolati i vostri tre anni di guerra Biografie
Algorithmic Committee
1
Obsolete Capitalism
5
Obsolete Capitalism
13
Edmund Berger
73
Paolo Davoli Letizia Rustichelli Lapo Berti
83
Paolo Vignola, Sara Baranzoni Vari Autori Lapo Berti Vari Autori Obsolete Capitalism
97 113 129 143 161
Friedrich Nietzsche Félix Guattari Velimir Chlébnikov Vari Autori
177 178 179 181
algorithmic committee
i
Introduzione: dal numerabile algoritmico all’innumerevole intensivo
Noi siamo la massima forza e sempre potremo rispondere: a sommossa di stati sommossa di schiavi, – con una missiva bene assestata. —Velimir Chlebnikov, 21 Aprile 1917
Quando Obsolete Capitalism ha deciso di confrontarsi con il libro ‘Gli algoritmi del capitale’ (Ombre Corte, 2014) non aveva un’idea predeterminata di ciò che ne sarebbe risultato. Il libro “Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski” prende le mosse da un oscuro frammento di Nietzsche - I forti dell’avvenire incastonato nel celebre passaggio dell’“accelerare il processo” situato nel punto cruciale di una delle opere filosofiche più dirompenti del secolo scorso: L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Dopo sei mesi ecco arrivare l’esito del cimento. La ricerca nel cuore di tenebra dell’accelerazionismo seppur presenti un esito di certo parziale ed eterogeneo, mostra almeno un guadagno: l’emersione di itinerari differenti e inaspettati dalla scolastica accelerazionista presente nel dibattito culturale contemporaneo. Lo scostamento appare evidente in tutta la sua problematicità sia dall’ipotesi di un accelerazionismo 1
che spinga verso un’alleanza con una supposta tecnologia ombra, di ‘sinistra’, oggi latente ma in futuro organica alle organizzazioni neo-comuniste, sia dall’ipotesi di un accelerazionismo tecnocratico immerso in un futuro apocalittico creato da un capitalismo fuori controllo dominato dalla «singolarità tecnologica» post-umana. Nell’antologia assemblata da Obsolete Capitalism a partire da Nietzsche emerge ciò che si potrebbe definire “accelerazionismo pulsionale” oppure accelerazionismo quantico che si esprime tramite una nuova politica di corpi, onde e forze e il cui rapporto con la «tecnologia» è mediato dal bricolage o dal do-ityourself, dunque dalla «strada» e dalla «sperimentazione». Ciò che passa non è un progetto, ma un’intensità, un campo di forze trasmettibili grazie a un contagio intermittente di onde pulsionali in continua propagazione. Si tratta di un’informe e deviata koinè, politica e artistica allo stesso tempo, una sorta di lingua franca urbana senza codici che attraversa il tempo
ripetendosi nella variazione, grazie a comunità artistiche sediziose e irregolari il cui tratto distintivo è la differenziazione. Una koinè innumerevole, che porta ad un nuovo infinito, incommensurabile, ritmico. GIi autori della presente antologia possono essere accomunati da un certo rifiuto del numerabile come schema, dell’assiomatica come momento teorico, della centralizzazione come elemento portante di organizzazione, dello scontro frontale con il sistema e del conseguente rifiuto della militarizzazione del movimento. Come suggeriscono Paolo Vignola e Sara Baranzoni da micro variazioni impercettibili si possono generare nel sociale macro perturbazioni inimmaginabili, dunque innumerabili, de-computabili. Il caos, la biforcazione, il disequilibrio, la distruzione, l’incommensurabile possono essere considerati come risorse, estensività metamorfiche positive da perseguire. Per approfondire lo spirito del tempo dell’Anti-Edipo (1972)
Lapo Berti, tra i protagonisti della vicenda “moneta e capitale” degli anni Settanta, parla dell’esaurimento delle retoriche marxiste e della “volontà di sapere” che animavano il movimento rivoluzionario dell’epoca. Edmund Berger introduce il mondo urticante dell’underground USA che entrò in connessione con le riflessioni di Deleuze, Foucault, Guattari e Lyotard. In tema di occupazioni e attraversamenti, se altri hanno occupato Wall Street, qui più modestamente sono stati occupati alcuni frammenti della filosofia più fantascientifica che esista. Se questi frammenti sono stati riletti non è certo per rigirarli all’accademia ma per restituirli nel loro selvaggio sguardo ai quei “ragazzi-gatto con artigli curvi e cavi imbottiti di pasta di cianuro, ragazzi-serpenti, ragazzi che sputano e ringhiano, corrono come gattini feroci sferrando colpi con rasoi e schegge di vetro” (Burroughs, I ragazzi selvaggi, 1971). Questa sorta di gang ribelle burroughsiana, i Ragazzi Selvaggi, si costituisce, infatti, come una contaminazione oscena e una versione fantascientifica anni Settanta dei «forti dell’avvenire» nietzscheani: “Intendiamo schiacciare la macchina poliziesca ovunque. Intendiamo distruggere la macchina poliziesca e tutti i suoi registri. Intendiamo distruggere ogni sistema verbale dogmatico. Il nucleo familiare e tutte le sue appendici cancerogene sotto forma di tribù, paesi, nazioni, saranno eliminati alla radice. Non vogliamo più sentire alcun linguaggio familiare, linguaggio materno, linguaggio paterno, linguaggio da sbirro, linguaggio da prete, linguaggio di campagna e nemmeno linguaggio di partito. Per dirla alla buona di cagate ne abbiamo sentite 2
abbastanza” (Burroughs, I ragazzi selvaggi, 1971). Per concludere, le traiettorie misteriose del libro ‘Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire’ coinvolgono profili diversi e nervosi come Friedrich Nietzsche e James Chance, Velimir Chlebnikov e William Gibson, Bernard Stiegler e Pierre Klossowski, Ilya Prigogine ed Ernst Mach, Karl Marx e Williams Burroughs, Rosi Braidotti e Pussy Riot, Viveiros De Castro e Michel Foucault. Il grande ed enigmatico Trystero degli ultimi 150 anni. Si radunano entità irregolari al limite dell’innumerabile come Goldin e Senneby, pantere moderne e forti dell’avvenire, comunità di singolarità e associazione dei 317, no wave e cyberpunk, xenomonete e congiurati acefali, accelerazionisti medievali e strateghi militari cinesi, cypherpunks e autonomi, neo-proletarizzati e ragazzi selvaggi, media tattici come Radio Alice e Art Critical Ensemble, e infine riviste come Acéphale e Semiotext(e). Questa opera comprende autori provenienti da differenti galassie, da Lapo Berti a Paolo Vignola, da Sara Baranzoni a Edmund Berger, the Network Ensemble e Obsolete Capitalism Sound System, per concludere con il collettivo Obsolete Capitalism. La composizione degli autori e gli errori riscontrabili nel testo sono attribuibili solamente a Obsolete Capitalism. A tutti quanti vanno i nostri più sentiti ringraziamenti. Aprile 2016
obsolete capitalism
ii
I forti dell’avvenire
Il frammento accelerazionista di Friedrich Nietzsche nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari
Ci sono frammenti di pensiero che, ad onta del tempo trascorso dalla redazione dei manoscritti nei quali sono stati vergati, acquisiscono all’inizio della loro notorietà una vita propria, e balzano agli onori delle cronache culturali e filosofiche per motivi imperscrutabili, se non quelli di racchiudere in se stessi, la gemma della valutazione e l’enigma dell’interpretazione.1 Tra i casi più eclatanti, il coriaceo Frammento sulle macchine di Karl Marx, la cui notorietà e produttività non teme cedimenti nemmeno ai giorni nostri.2 Eppure, un altro «frammento» si sta conquistando, seppur più faticosamente, uno spazio singolare di rinomanza e di appassionata ricerca di senso da parte di intellettuali, commentatori, filosofi e militanti politici di tutto il mondo. Si tratta di un «frammento» nel «frammento», molto più oscuro rispetto a quello marxiano, ma altrettanto penetrante e proiettato nel futuro. Lo definiamo in questo brevissimo saggio come il «frammento accelerazionista» di Friedrich Nietzsche: esso si trova incastonato in una pagina cruciale dell’AntiEdipo di Deleuze e Guattari.3 Com'è noto, il riferimento a Nietzsche nel celebre passo 5
«accelerazionista» di Deleuze e Guattari presente nell'Anti-Edipo4 è decisivo nella chiosa finale del paragrafo La macchina capitalistica civilizzata.5 Fino ad oggi, i vari commentatori che si sono succeduti nel tempo sul passo in questione, hanno in parte tralasciato e oscurato il preciso riferimento al Große Prozeß di Friedrich Nietzsche; altri, invece, hanno accennato alla provenienza del cupo riferimento ad «accelerare il processo», da parte di Deleuze e Guattari, citando esplicitamente il libro di Nietzsche La volontà di potenza, non riferendosi però mai ad un preciso frammento, al contesto in cui è inserito e quali tematiche produttive sviluppa. Le citazioni del passo originario di Nietzsche provengono sempre dalla letteratura secondaria e non vengono mai citate le fonti originarie dell'opera nietzscheana (tranne una fuggevole nota in Wikipedia, in lingua inglese, nel lemma «accelerationism», proveniente però dalla letteratura secondaria)6, eccezion fatta per una breve menzione generica della sola edizione anglosassone dei Posthumous Fragments di Nietzsche, da parte di Matteo Pasquinelli, nel suo breve «post» intitolato Code Surplus Value and the Augmented Intellect.7 A nostro avviso, la chiosa finale di La macchina capitalistica civilizzata, essendo controversa, non può essere compresa nel suo senso più profondo se
non viene esplicitato il riferimento al processo accelerativo di Nietzsche. La precisa individuazione del frammento nietzscheano a cui fanno riferimento Deleuze e Guattari «apre» così alla definitiva decifrazione del passaggio finale de La macchina capitalistica civilizzata che un filosofo acuto, e fine commentatore deleuziano, come Christian Kerslake ritiene essere particolarmente ostico: “This [ passage ] has always been a difficult passage to comprehend”.8 Il celebre passo di Deleuze e Guattari, vero e proprio punto cruciale per i commentatori, soprattutto di area «accelerazionista», è il seguente: "Ma quale via rivoluzionaria, ce n'è forse una? Ritirarsi dal mercato mondiale, come consiglia Samir Amin ai paesi del Terzo Mondo, in un curioso rinnovamento della «soluzione economica» fascista? Oppure, andare in senso contrario? Cioè andare ancor più lontano nel movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione? Forse, infatti, i flussi non sono ancora abbastanza deterritorializzati, abbastanza decodificati, dal punto di vista di una teoria e di una pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico. Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, «accelerare il processo», come diceva Nietzsche: in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla."9
Le nostre ricerche hanno portato ad individuare con precisione il frammento di Nietzsche citato da Deleuze e Guattari nel passo sopra riportato. Si tratta di un frammento presente in due edizioni diverse delle opere postume di Friedrich Nietzsche. Il frammento si intitola I forti dell'avvenire ed è stato composto nell'autunno del 1887; nell'edizione del 1906 di La volontà di potenza, curata da Gast 10 e dalla sorella di Nietzsche11, viene attribuito al testo, in modo arbitrario, il numero 89812; tale numero si riferisce esclusivamente ad una numerazione progressiva interna al solo libro La volontà di potenza.13 Questa edizione del 1906 prevedeva 1.067 frammenti elencati senza un disegno globale coerente e critico. Gli equivoci originati dall’opera La volontà di potenza, sia in ambito filosofico che politico, hanno causato polemiche roventi a non finire e tutto ciò è storia ben nota fin dalla prima metà del Novecento.14 Il frammento, con l’identico titolo de I forti dell'avvenire, è presente nell'edizione delle Opere complete di Friedrich Nietzsche, a cura di Colli e Montinari.15 Il frammento è inserito nel Volume VIII, tomo II, intitolato Frammenti postumi 1887-1888, ove sono presentati in modo cronologico i 372 frammenti che, per i curatori, erano compresi nell'edizione abortita da Nietzsche stesso e da lui intitolata in modo provvisorio La volontà di potenza. Il frammento è numerato come (105) 9 [153].16 Nel testo originale del frammento, Die Starken der Zukunft, il verbo utilizzato da Nietzsche, tratto dal mondo della fisica, è «beschleunigen» il cui significato è letteralmente «rendere accelerato qualcosa procurandone un corso più veloce». Nella 6
traduzione in inglese del 1967 di Walter Kaufmann,17 la più classica nel mondo anglosassone, si è scelto di tradurre il verbo «beschleunigen» con il verbo inglese «hasten» anziché «accelerate», sebbene anche in questo idioma il termine «accelerate» si riferisca all'aumento intrinseco di velocità di un processo, mentre il significato di «hasten» prende in considerazione la necessità, non solo fisica, di aumentare la velocità. Anche nella lingua italiana è stato scelto il verbo «affrettare», anziché «accelerare», nelle due traduzioni classiche del frammento nietzscheano: la trasposizione di Angelo Treves del 1927 per La volontà di potenza e la resa di Sossio Giametta del 1971 per i Frammenti Postumi 1887-1888 per le edizioni critiche di Nietzsche curate da Colli e Montinari. Un discorso a parte merita la traduzione di Enzo Turolla che, come vedremo più avanti, nella sua traduzione del frammento I forti dell’avvenire, segue con maggiore rigore le «ragioni» di Klossowski, utilizzando il verbo «accelerare».18 A maggior ragione, notiamo la differenza tra i due vocaboli: laddove «accelerare» denota il velocizzare intrinseco e fisico di un evento o di un fatto, «affrettare» indica la prescrizione esterna di un aumento di velocità. In verità, l'unico commentatore che ci può essere utile nella comprensione sia del passo di Nietzsche sia della citazione nietzscheana di Deleuze e Guattari all’interno del passaggio finale di La macchina capitalistica civilizzata presente nell’Anti-Edipo è Pierre Klossowski,19 nella sua opera Nietzsche e il circolo vizioso, testo assai amato da Foucault e Deleuze, al quale in esergo è dedicato.20
L'utilità-fertilità di Klossowski è duplice, sia per la natura esegetica del testo Nietzsche e il circolo vizioso, sia per le fruttificazioni operate dalle traduzioni klossowskiane del testo nietzscheano. Quest'ultimo aspetto è affatto importante ai nostri fini. Cerchiamo di precisarlo: non solo Klossowski è stato un grande traduttore nell'ambito della cultura francese, un «classico» nell'editoria francofona del '900, in quanto ha tradotto, dal tedesco, opere di Walter Benjamin, Ludwig Wittgenstein, Martin Heidegger (in particolare, nel 1971, il suo Nietzsche); ma, soprattutto, Klossowski ha il merito di esser stato in Francia, come traduttore dal tedesco, il miglior interprete di Nietzsche già con la magistrale resa di 'La gaia scienza' nel 1954; poi, in particolare, ha tradotto per le edizioni Gallimard i Fragments posthumes - Autumn 1887- mars 1888 pubblicati nel 1976 a cura di Gilles Deleuze e Maurice de Gandillac.21 Nel frattempo, il frammento Les forts de l'avenir non ha dovuto attendere il 1976 per essere pubblicato nella traduzione di Klossowski, in quanto inserito nell'edizione originale di Nietzsche et le cercle vicieux del 1969. Ed è in questa opera che, finalmente, troviamo il verbo «beschleunigen» tradotto in «accélérer»22; dunque, all'origine dell'utilizzo del verbo «accelerare» di cui ci avvaliamo nell'esegesi del frammento nietzscheano, poi recuperata da Deleuze nell’Anti-Edipo, c'è il lavorio interpretativo di Klossowski.23 Nel finale di La macchina capitalistica civilizzata quando Deleuze e Guattari pongono le fatidiche domande su quale via rivoluzionaria intraprendere - e queste domande sono alla base della strategia di fondo dell'ac-
celerazionismo contemporaneo - essi si rifanno al lavoro teorico e traduttivo di Pierre Klossowski.24 Per quanto riguarda l'aspetto esegetico, Klossowski prende in esame nel testo Nietzsche e il circolo vizioso l'intero frammento I forti dell'avvenire, traendone le debite conseguenze; cioè che il pensiero nietzscheano del 1887 da «inattuale» è divenuto quasi cent'anni dopo di un'attualità sconcertante, e che in ultima istanza “il meccanismo dello sfruttamento (sviluppato dalla scienza e dall’economia) «scompone» la sua struttura istituzionale in una serie di mezzi ”.25 Ciò comporta due precisi risultati: da una parte la società non riesce più a modellare i propri membri come «strumenti» dei propri fini, divenendo essa stessa «strumento» di un meccanismo più grande; dall'altra parte si palesa un «surplus» di forze che, eliminate dal meccanismo, sono disponibili per la formazione di un «nuovo uomo», il forte dell'avvenire. Per ottenere questo nuovo tipo d'uomo, non bisogna allora contrastare questo Große Prozeß irreversibile, ma semplicemente bisogna favorire la sua accelerazione «processuale», oppure non resistere alla sua accelerazione espansiva, inarrestabile, che parrebbe essere, ma non è, contraria all’obiettivo primario del «forte dell’avvenire»: la differenziazione. Il livellamento, o detto altrimenti, l'omogeneizzazione sociale nella sua veste perpetrata dalla democratizzazione in fieri delle società industriali, è precisamente la «riduzione» dell'uomo, il suo «rimpicciolimento». E' contro, o a favore, di questa «legge inesorabile» che agiranno nel futuro i «forti» e i «livellati», in parti curiosamente e parados7
salmente rovesciate. Così come, è contro o a favore dell'«inesorabile legge» della caduta tendenziale della legge di profitto, che si combattono i capitalisti e gli operai, in una controversa metastabilizzazione del futuro del profitto, che è l'altro grande tema del paragrafo La macchina capitalistica civilizzata di Deleuze e Guattari.26 Siamo arrivati ora alla fine di questo breve testo il cui unico scopo era individuare con precisione a quale fonte nietzschiana si erano rivolti Deleuze e Guattari nel famoso passaggio del «patto rivoluzionario» presente nell’Anti-Edipo e fornire le giuste coordinate bibliografiche del frammento «accelerazionista» nel dedalo immane dell’opera completa di Nietzsche. Siamo però coscienti di essere solo all’inizio - al primo gradino - di un ben più impegnativo compito: la decifrazione completa del senso più profondo del capitolo La macchina capitalistica civilizzata e, in particolare, del passaggio «accelerazionista» riguardante la teoria e la pratica dei flussi decodificati e deterritorializzati.27
I forti dell'avvenire (Autunno 1887)
«Ciò che è stato individuato qua e là, in parte dalla necessità, in parte dal caso, e cioè le condizioni propizie al prodursi di una specie più forte: è quanto siamo ormai in grado di capire e di volere consapevolmente: noi possiamo produrre le condizioni che consentono tale innalzamento. «Fino ad oggi, l'educazione aveva come obiettivo esclusivo il bene della società: non già il maggior bene possibile per il futuro, bensì solo quello per la società esistente. Per essa si cercavano solo degli "strumenti". Ammesso che la ricchezza di forze sia maggiore, si potrebbe concepire una sottrazione di forze il cui scopo fosse il bene non più della società, ma del futuro, - questo sarebbe il compito da porsi, una volta capito in che senso la forma attuale della società si trovi impegnata in una poderosa trasformazione che la condurrà a non poter più esistere per se stessa, bensì soltanto quale mezzo in possesso di una razza più forte. «La mediocrità crescente dell'essere umano è appunto la forza che ci induce a pensare all'addestramento di una razza più forte, la quale troverebbe il suo eccedente proprio in ciò che rende più debole la specie già mediocre (volontà, responsabilità, sicurezza di sé, potersi fissare degli scopi). «I mezzi sarebbero quelli insegnati dalla storia: l'isolamento mediante interessi di conservazione, all'inverso di quelli che oggi formano la media: l'esercizio dei valori invertiti; la distanza in quanto pathos; la libera coscienza in tutto quanto è oggi meno stimato e più biasimevole. «L'ugualizzazione dell'uomo europeo è attualmente il grande 8
processo irreversibile, e si dovrebbe anche accelerarlo. «Da ciò, la necessità di scavare una fossa, di creare una distanza, una gerarchia, e non già la necessità di rallentare il processo. «Questa specie ugualizzata, una volta che si sia realizzata, esigerà una giustificazione: che è appunto quella di servire a una specie sovrana, la quale si fonda su quella che l'ha preceduta e solo perciò può innalzarsi al proprio compito. Non solo una razza di padroni che si limitino a governare, bensì una razza che abbia la propria sfera di vita, un eccedente di forza per la bellezza, il coraggio, la cultura, le maniere anche in quello che vi è di più spirituale; una razza affermativa che può concedersi qualunque lusso… abbastanza potente da non aver bisogno né della tirannia dell'imperativo di virtù, né della parsimonia, né della pedanteria, al di là del bene e del male: che formi una serra di piante rare e singolari».28, 29, 30 Pubblicato per gentile concessione dell’editore Adelphi.
1 Friedrich Nietzsche: Genealogia della morale, «Prefazione», p. 221 2 Karl Marx: Grundrisse, «Frammento sulle macchine», pubblicato in Italia, per la prima volta, su «Quaderni rossi», 4, 1964, pp. 289-300 a cura di Raniero Panzieri, traduzione del germanista Renato Solmi. 3 Gilles Deleuze - Félix Guattari: L’Anti-Edipo è il primo tomo di una diade formidabile che porta il titolo di «Capitalismo e schizofrenia». Il primo libro è L’Anti-Edipo uscito nel 1972; il secondo, uscito nel 1980, è Mille Piani. 4 Gilles Deleuze - Félix Guattari: L’Anti-Edipo - p. 272, edizione Einaudi paperbacks (Ed. originale fr. 1972; prima ed. italiana 1975; prima ed. inglese 1975) 5 Ibid: III Cap., 9 Paragrafo, pg. 251—272 6 Si tratta del seguente riferimento: “ Quoted in Strong, Tracy (1988). Friedrich Nietzsche and the Politics of Transfiguration. Berkeley: University of California Press. p. 211. Original in The Will to Power §898 “ (Ultimo accesso 18 Agosto 2015). 7 Matteo Pasquinelli: Code Surplus Value and the Augmented Intellect, post/late night notes del 10 marzo 2014 presente sul blog del filosofo al seguente indirizzo: http://matteopasquinelli.com/code-surplus-value/ (ultimo accesso il 23 agosto 2015). 8 Christian Kerslake - Marxism and Money in Deleuze and Guattari’s «Capitalism and Schizofrenia». http://www. parrhesiajournal.org/parrhesia22/parrhesia22_kerslake.pdf La nostra interpre-
tazione del famoso passaggio di Deleuze e Guattari è disponibile nel saggio Moneta, rivoluzione e accelerazione nell’Anti-Edipo costruito appunto sul dialogo sotterraneo tra Nietzsche, Klossowski, Deleuze-Guattari e Foucault. Il saggio è inserito nel libro Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire volume collettivo a cura di Obsolete Capitalism. 9 Gilles Deleuze - Félix Guattari: L’Anti-Edipo - p. 272, edizione Einaudi paperbacks 10 Heinrich Köselitz (1854–1918) musicista, scrittore e amico di Friedrich Nietzsche, il quale coniò per lui lo pseudonimo di «Peter Gast». 11 Elisabeth Förster-Nietzsche (1846 - 1935) sorella del filosofo, più volte criticata dal fratello, da Gast e altri adepti del «circolo» di Nietzsche. Anti-semita, pro-ariana e nazista, è la prima responsabile delle manipolazioni e della «nazificazione» delle opere di Nietzsche. Ai suoi funerali, nel 1935, partecipò Hitler e tutto lo stato maggiore del partito nazional-socialista tedesco.
9
12 Nietzsche non attribuì mai nessuna numerazione progressiva ai frammenti, nemmeno a quelli appartenenti ai manoscritti di La volontà di potenza. 13 Si tratta di Der Wille zur Macht, la seconda e più completa edizione del 1906 a cura di Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche. La prima edizione del 1901 conteneva soltanto 483 frammenti e fu curata da Gast/Köselitz, Ernst Horneffer e August Horneffer, sempre sotto l’egida della sorella di Nietzsche, Elisabeth. 14 Fin dagli anni Trenta del Novecento, in Francia, uno sparuto nucleo di intellettuali, riunito attorno alla rivista «Acéphale» iniziò a contrastare la «nazificazione» di Nietzsche e l’appropriazione dei temi filosofici da lui elaborati da parte delle fazioni politiche europee più nazionaliste e anti-semite. La rivista, uscita tra il 1936 e il 1939, fu fondata da Georges Bataille e annoverò tra i più stretti collaboratori Pierre Klossowski. 15 Friedrich Nietzsche - «Opere di Friedrich Nietzsche». Edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. In Italia le Opere di Nietzsche sono pubblicate da Adelphi, a partire dal 1964; in Francia da Gallimard, a partire dal 1967; in Germania da de Gruyter - Kritische Gesamtausgabe Werke (KGW) - sempre a partire dal 1967. L’edizione delle Opere Complete a cura di Colli e Montinari è ora disponibile in cinque lingue: italiano, francese, tedesco, inglese e giapponese. In Giappone il primo volume delle opere, a cura dell’editore Hakusuisha, esce nel 1972. Nel 1995 escono i primi volumi di The Complete Works of F. Nietzsche based on the edition by G. Colli and M. Montinari, presso la Stanford University Press, California, Usa. 16 La numerazione del frammento I forti dell’avvenire - 9 [ 153 ] (105) - nei volumi delle Opere di Nietzsche curati da Colli e Montinari - non cambia nelle diverse edizioni internazionali tedesca, francese, etc. 17 Walter Kaufmann (1921 - 1980 ) - filosofo americano, studioso di Nietzsche, traduttore di The Will to Power, Random House, New York, 1967 (con R.J. Hollingdale). 18 Vedi nota 21. Qui ci limitiamo a sottolineare il «cromatismo» dei traduttori francesi. Pierre Klossowski è solo uno tra i tanti traduttori dal tedesco di cui si avvale l’editore francese Gallimard per le Œuvres philosophiques complètes di Nietzsche. Allo stesso tempo Klossowski è un traduttore primus inter pares, autorevole sia per la sua biografia intellettuale di grande conoscitore dei testi nietzschiani che risale agli anni Trenta, sia per l’interpretazione originale, nello spirito del «Nietzsche francese» che si andava imponendo in quegli anni, che influenzerà
in modo sostanziale sia Deleuze che Foucault. Peccato che nell’edizione italiana di Nietzsche e il circolo vizioso i frammenti tradotti in origine da Klossowski, nel 1969, sono stati riportati, nell’edizione Adelphi del 2013, con le traduzioni di Giametta presenti nell’edizione critica di Colli e Montinari. Si è persa in questo modo la «fragranza» della traduzione «inedita» di Turolla, che si rifece direttamente al «gusto» klossowskiano, nell’edizione originale Adelphi del 1981. La traduzione corretta in «accelerare», pur presente nell’edizione del 1981, si perde dunque nell’edizione 2013, sostituita da «affrettare». 19 Pierre Klossowski (1905-2001) intellettuale francese poliedrico fortemente influenzato dalle opere di Nietzsche. Grande protagonista della cultura francese ed europea del ‘900 come traduttore, scrittore, filosofo, pittore e, più in generale, «padre intellettuale e spirituale» di Deleuze e Foucault, i suoi discepoli prediletti. 20 Nietzsche e il circolo vizioso (Adelphi, 1981); edizione originale francese Nietzsche et le cercle vicieux (Mercure de France, 1969); solo nel 1997 il libro verrà tradotto in inglese da Daniel W. Smith (Nietzsche and the Vicious Circle, The University of Chicago Press/The Athlone Press) 21 Klossowski tradusse in francese due volumi per le edizioni Gallimard delle Oeuvres philosophiques complètes di Friedrich Nietzsche: il primo volume in assoluto delle Opere, nel 1967, Le Gai Savoir: Fragments posthumes, été 1881 - été 1882, e il volume pubblicato nel 1976, Fragments posthumes - Autumn 1887- mars 1888. 22 Enzo Turolla, il traduttore italiano dell’opera di Klossowski Nietzsche e il circolo vizioso, ha operato in modo corretto mantenendo il senso della traduzione klossowskiana del frammento I forti dell’avvenire, evitando quindi di «recuperare» la traduzione già disponibile di Sossio Giametta, pubblicata nel 1971. Questa sua intuizione - che viene sviluppata in tutto lo sforzo di traduzione dell’opera e che in questo breve testo supportiamo - gli fa rendere in modo corretto l’espressione francese «accélérer» in «accelerare», anziché in «affrettare» come è capitato nelle traduzioni precedenti di Treves e Giametta. 23 Ai fini di una maggiore chiarezza, Klossowski non è stato l’unico traduttore di Nietzsche a rendere in «accelerare» il verbo tedesco «beschleunigen»: infatti, già il primo traduttore del testo di La volontà di potenza in inglese, Anthony Ludovici (1910), traduceva con «accelerate» l’espressione tedesca in questione. Ai fini del nostro studio: nell’Anti-Edipo Deleuze si rifà di certo alla traduzione in lingua francese di Klossowski del 1969, e non a quella in lingua inglese del 1910, per tanti versi lacunosa, di Ludovici.
24 E’ pur vero che Deleuze conosceva il frammento I forti dell’avvenire sin dagli anni Cinquanta del ‘900, quando inizia lo studio approfondito dei testi nietzscheani. In particolare, la sua prima opera dedicata a Nietzsche, Nietzsche e la filosofia del 1962, si basa, per i frammenti postumi, sull’edizione francese di La Volonté de Puissance, pubblicata in due volumi da Gallimard nel 1947-1948, dove era presente il frammento «accelerazionista». La Volonté de Puissance di Gallimard del 1947-1948, basandosi però sul volume curato da Friedrich Würzbach, ha una maggiore quantità di testi, rispetto alla seconda e più completa edizione del 1906 a cura di Gast e Förster-Nietzsche, e non segue dunque la stessa numerazione e ordine. E’ però l’interpretazione del frammento da parte di Klossowski, che interesserà Deleuze nell’Anti-Edipo. 25 Pierre Klossowski - Nietzsche e il circolo vizioso, p. 245, ed. originale Adelphi, 1981. 26 Il testo completo del frammento, grazie agli editori Adelphi e Bompiani, è presentato in appendice nelle tre traduzioni storiche pubblicate nel 1927, Angelo Treves, 1971, Sossio Giametta, e 1981, Enzo Turolla. 27 Il saggio di cui si fa menzione è Moneta, rivoluzione e accelerazione nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari (2016) inserito nel presente volume, a cura di Obsolete Capitalism, Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista di Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski (Obsolete Capitalism Free Press, 2016) 28 Pierre Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso (Adelphi, 1981) Edizione originale francese Mercure de France, 1969. Traduzione dal tedesco: Pierre Klossowski (1969). Traduzione dal francese: Enzo Turolla (1981). 29 Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, Volume VIII, tomo II delle «Opere di Friedrich Nietzsche», frammento 9 [153]. Edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. 30 La nota dell'editore (Adelphi), presente nell'edizione originale del 1981 di 'Nietzsche e il circolo vizioso' afferma quanto segue: "La traduzione klossowskiana dei testi di Nietzsche è legata in modo indissolubile all'interpretazione che di quei testi viene qui proposta. A tali traduzioni ci siamo perciò attenuti." Il frammento 'I forti dell'avvenire' è basato sul testo originale nietzscheano, tratto dai quaderni manoscritti di Nietzsche.
10
sigla
Bibliografia in sigle
Titolo
Autori Edizione anno
#a #Accelerate MacKay e Avanessian Urbanomic 2014 ac L’anticristo Nietzsche Adelphi 1977 ae L’Anti-Edipo Deleuze e Guattari Einaudi paperbacks 1975 ae [e] Anti-Oedipus Deleuze e Guattari University of 1983 Minnesota Press aep The Anti-Oedipus Papers Guattari Semiotext(e) 2006 c Chaosophy Guattari Semiotext(e) 2009 co Conversazioni Deleuze e Parnet Ombre Corte 1998 csv Code Surplus Value and Pasquinelli Blog personale 2014 The Augmented Intellect cv Circulus Vitiosus Klossowski Aut Aut #267—268 1995 drf Due regimi di folli e altri scritti Deleuze Einaudi 2010 dm Divenire molteplice Deleuze Ombre Corte 2002 fd Follia e discorso Foucault Feltrinelli 1996 gadc Gli algoritmi del capitale Pasquinelli Ombre Corte 2014 ic Il Capitale Marx Editori Riuniti 2006 id L’isola deserta e altri scritti Deleuze Einaudi 2007 ivnf Introduzione alla vita non-fascista Foucault Maldoror 2012 lat Lettres et autres textes Deleuze Editions de Minuit 2015 lvs Lezioni sulla volontà di sapere Foucault Feltrinelli 2015 md Macchine desideranti Deleuze e Guattari Ombre Corte 2012 mmdg Marxism and Money Kerslake Parrhesia 2015 in Deleuze and Guattari’s Capitalism and Schizofrenia mp Microfisica del potere Foucault Einaudi 1977 mv La moneta vivente Klossowski Mimesis 2008 n Nietzsche Deleuze SE 1997 nf Nietzsche e la filosofia Deleuze Einaudi 1992 ncv [i] Nietzsche e il circolo vizioso Klossowski Adelphi 1981 ncv [ii] Nietzsche e il circolo vizioso Klossowski Adelphi 2013 nlm Nietzsche in lingua minore Riccio e Vaccaro Mimesis 2000 o Opere complete di F. Nietzsche Colli e Montinari Adelphi 1964—2014 pm Il pensiero e il movimento Bergson Bompiani 2000 pp Pourparler Deleuze Quodlibet 2000 sf Simulacri e filosofia Deleuze e Klossowski Millepiani 1997 z Così parlò Zarathustra Nietzsche Adelphi 2007 11
obsolete capitalism
iii
Moneta, rivoluzione e accelerazione nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari
Per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? —Friedrich Nietzsche, Frammento 38 (12) 1
c a pi t ol o i
Il locus classicus della politica accelerazionista: l’Anti-Edipo
Proseguiamo con questo saggio la nostra ricerca su una delle fonti primarie dell’accelerazionismo: l’intera parte finale del paragrafo La macchina capitalistica civilizzata (AE, 271-72). Le letture simultanee del saggio di Christian Kerslake Marxism and Money in Deleuze and Guattari’s Capitalism and Schizofrenia2 (Parrhesia, n. 22, 2015) e delle note di Matteo Pasquinelli Code Surplus Value and the Augmented Intellect3 (M.P. blog, 2014) ci hanno segnalato la persistenza di un nucleo di problemi riguardanti l’interpretazione di uno dei passi più significativi e cruciali dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Il primo scopo del saggio sarà dunque la ricerca del significato più profondo dell’intero passo e il chiarimento della sua oscillazione tra le due polarità di moneta e rivoluzione. Il secondo scopo di questo saggio 13
è la segnalazione di una conventio ad excludendum nei confronti di Friedrich Nietzsche da parte dell’accelerazionismo contemporaneo. Nel testo antologico «fondativo» dell’accelerazionismo, #Accelerate curato da Robin Mackay e Armen Avanessian (Urbanomic, 2014), fin dalle prime pagine notiamo un vuoto assordante, un silenzio rumoroso, una sanzione felpata nei confronti di Nietzsche. Nella scelta dei testi anticipatori del contesto accelerazionista, molto accurata, troviamo Marx, Butler, Fedorov e Veblen (#A, 8-11), ma nemmeno un testo dal Nietzsche post-Zarathustra, né dai Frammenti Postumi, né dal «cannoneggiamento» gemello di Al di là del bene e del male e di Genealogia della morale. Nella cronologia (#A, 3) inserita come memento significativo della progressione del pensiero sul tema accelerazione e macchina, tra il 1858 del Marx del Frammento sulle macchine e il 1970 di Firestone difetta proprio il 1887 del frammento «accelerazionista» di Nietzsche, I forti dell'avvenire.
Uno degli obiettivi del presente testo è la giusta collocazione di Nietzsche e del suo pensiero all’interno dell’accelerazionismo e del pensiero di Deleuze e Guattari, in particolare nell’Anti-Edipo. Il filosofo di Röcken non ha forse parlato, in modo essenziale, di macchina totale, di solidarietà di tutte le ruote, di accelerare il processo? Si tratta, forse, di una peculiare difesa da parte degli estensori di #Accelerate, per non scorgere la tetraggine strisciante e la mostruosità sinistra che ci si para innanzi alla società moloch paventata da Nietzsche? Matteo Pasquinelli segnala in modo del tutto corretto l’epilogo di La macchina capitalistica civilizzata - noto come il passaggio della «via rivoluzionaria» oppure dell’«accelerare il processo» - come il locus classicus dell’accelerazionismo per lo spessore che gli interrogativi di Deleuze e Guattari pongono; ma le risposte a quelle domande non sono ancora state individuate, e dunque rimangono sospese. Esse riguardano la
strategia delle lotte rivoluzionarie, la vettorialità del capitalismo nichilista e le possibili vie d’uscita rispetto a una situazione politica, economica e sociale che segna la ruvida e deludente figura del cul de sac. Riportiamo ora il testo oggetto della presente indagine: L'integrazione del desiderio avviene infatti a livello dei flussi, e dei flussi monetari, non a livello dell'ideologia. Quale soluzione allora? Quale via rivoluzionaria? La psicanalisi è di scarso aiuto, nei suoi rapporti più intimi col danaro, essa che registra, guardandosi bene dal riconoscerlo, tutto un sistema di dipendenze economico-monetarie nel cuore del desiderio di ogni soggetto che tratta, e che costituisce per suo conto una gigantesca impresa di assorbimento di plusvalore. Ma quale via rivoluzionaria, ce n'é forse una? Ritirarsi dal mercato mondiale come consiglia Samir Amin ai paesi del Terzo Mondo, in un curioso rinnovamento della «soluzione economica» fascista? Oppure andare in senso contrario? Cioè andare ancora più lontano nel movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione? Forse, infatti, i flussi non sono ancora deterritorializzati, abbastanza decodificati, dal punto di vista di una teoria e di una pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico. Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, «accelerare il processo», come diceva Nietzsche: in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla. (AE, 271-72).
14
Il piano di consistenza e le incognite insoddisfatte
Le «incognite» pertinenti a La macchina capitalistica civilizzata a cui mancano le adeguate valorizzazioni si possono dividere in maggiori e minori. Si tratta, in ogni caso, di costruire un congruo «piano di consistenza», come afferma Félix Guattari, dove tutto si tiene, l’ordine molare e le macchine molecolari (AEP, 399). A seguito dell’esatto reperimento del testo in cui Nietzsche elabora la riflessione di «accelerare il processo anziché ritirarsi da esso», il frammento 9 [153] dell’autunno 1887 intitolato I forti dell’avvenire (O, volume VIII, tomo 2, pg. 78-79), possiamo analizzare ed elaborare sotto una nuova luce l’intero passo del paragrafo finale di La macchina capitalistica civilizzata. Prima di passare alla costellazione dei dilemmi, chiariamo il concetto di «problema» filosofico al quale ci riferiamo per determinare le risposte adeguate e che proponiamo direttamente dall’opera di Bergson (PM, 43): “Ma la verità è che si tratta, in filosofia e anche altrove, di trovare il problema e poi di porlo, più ancora di risolverlo. Un problema speculativo, infatti, è risolto nel momento in cui è ben posto. Con ciò intendo dire che la soluzione esiste, benché possa restare nascosta o, per così dire, coperta: non resta che scoprirla. Ma porre il problema non è semplicemente scoprire, è inventare. La scoperta si riferisce a ciò che già esiste, attualmente o virtualmente; è dunque certa di giungere, presto o tardi.” Vediamo ora quali sono i quesiti, grandi e piccoli, posti dai filosofi Matteo Pasquinelli e Christian Kerslake al testo di Deleuze e Guattari che sono rimasti sul tappeto.
Quesito molare: il senso del passaggio accelerazionista nel suo complesso è di difficile comprensione e i vari commentatori che si sono succeduti finora non hanno saputo dare risposte soddisfacenti (Kerslake). Quesiti molecolari: 1) Il problema delle note a margine nel testo di Deleuze e Guattari, in riferimento al frammento accelerazionista di Nietzsche presente in La macchina capitalistica civilizzata (AE, 272) e le buone ragioni per non citare il «sinistro» frammento (Pasquinelli). 2) L’«eventuale» citazione errata di Nietzsche da parte di Deleuze e Guattari all’interno del passaggio accelerazionista sulla «via rivoluzionaria da intraprendere» e sull’«accelerare il processo» (Pasquinelli). 3) Il senso sibillino dell’ultima frase del paragrafo La macchina capitalistica civilizzata: “In verità su questo capitolo non abbiamo ancora visto nulla”. Quest’ultima frase destabilizza tutto il senso logico del «passo» dal quale non deriva nessuna inferenza logica apprezzabile e contribuisce fortemente a costruire il blocco enigmatico che tutto il passo pone (Kerslake). 4) L’ambiguità nel vedere coniugati i flussi monetari del capitalismo, cioè l’accelerazione dei processi di decodificazione e deterritorializzazione macchinati dal capitale, con il futuro della rivoluzione. Quale rapporto, dunque, tra moneta e rivoluzione? (Pasquinelli e Kerslake). 5) Qual’è il problema filosofico e politico urgente che si cela dietro il senso nascosto del passaggio accelerazionista al quale Deleuze e Guattari tentano di rispondere in base alla «teoria e la prassi dei flussi decodificati e deterritorializzati».
Tutte queste incognite molecolari si condensano in una costellazione omogenea di quesiti ai quali vogliamo rispondere con cura, data l’importanza dei problemi sollevati per la ricerca contemporanea, sia nell’ambito politico-sociale che nell’ambito speculativo-filosofico. I quattro punti d’individuazione dell’Anti-Edipo
Come «leggere» L’Anti-Edipo? Abbiamo individuato quattro caratteristiche salienti dell’opera. La prima caratteristica sulla quale abbiamo lavorato all’interno della nostra ricerca è stata l’ipertestualità, cioè abbiamo considerato il testo di Deleuze e Guattari come un ipertesto ante-litteram, e, in particolare, ne abbiamo valutato l’architettura intrinseca come un ipertesto impersonale. Tutti e due i volumi di Capitalismo e schizofrenia - L’Anti-Edipo e Mille piani, in modi più lucidi e compiuti il secondo rispetto al primo - sono degli ipertesti che macchinano una complessità filosofica tutta da decifrare, in quanto i nodi che si presentano via via durante il testo, sono spesso enucleati come «semplici passaggi», dei veri e propri hyperlink, che riportano a ulteriori problemi, quesiti e narrazioni, a testi e teorie presenti in altri oggetti intellettuali che costituiscono in tal modo un vero e proprio network di senso. Deleuze stesso ha parlato dell’Anti-Edipo come di un «libro-flusso» (ID, 278). Deleuze e Guattari, infatti, non hanno mai “preteso di fare un libro del folle [ lo schizofrenico ] ma un libro in cui si rinunciava a sapere, o non c’era più bisogno di sapere, chi parlasse esattamente, un curante, un assistito, 15
un malato presente, passato o futuro” (ID, 278). Ma era altrettanto importante che queste soggettività cliniche, veri e propri tag concettuali, parlassero intercambiabilmente in qualità di «malati o medici della civiltà» (ID, 278). Altre tre caratteristiche sono determinanti per identificare, o per intersecare, questo libro-strano attrattore: la prima è politica, la seconda è nietzscheana - cioè valuta l’opera come un organon nietzscheano - la terza è stilistica, ovvero usufruisce di quello «stile del concetto» che altri hanno definito potenza attraverso lo stile. L’Anti-Edipo come libro dinamite di filosofia politica
“L’Anti-Edipo è stato, da cima a fondo, un libro di filosofia politica” (PP, 224). Così si esprime Deleuze in una delle più gratificanti interviste politiche di sempre, la conversazione con Antonio Negri in Futur antérieur (n.1, primavera 1990). L’Anti-Edipo è un libro dinamite, come pochi nella storia della filosofia. Baciato nel suo apparire tra fine febbraio e i primi giorni di marzo del 1972 da un successo eclatante: la prima edizione di 15.000 copie bruciata in tre giorni, una seconda edizione ristampata in fretta e furia, immediato riconoscimento nazionale degli autori, successiva fama internazionale come filosofi di riferimento della controcultura occidentale. A Parigi il clima politico è rovente: il 26 febbraio 1972 ai cancelli della Renault il militante della «Gauche Prolétarienne» Pierre Overney è ucciso a freddo dalla «milizia padronale». Alle esequie pubbliche del 4 marzo 1972, una folla enorme di circa 200.000 16
persone, percorre Parigi urlando il proprio disprezzo per la violenza diffusa contro le forze rivoluzionarie. Si tratta di una prova di forza del movimento di protesta che è scaturito dal Maggio 1968. L’Anti-Edipo fa la sua comparsa tracotante in questa atmosfera plumbea, elettrizzata, aggressiva. E’ di nuovo Deleuze ha spiegare le ragioni dell’impatto del libro: “Se questo libro ha avuto un’importanza dopo il ‘68 è in effetti perché rompeva con i tentativi freudo-marxisti: non cercavamo di distribuire né di conciliare i livelli, viceversa di mettere su uno stesso piano una produzione che fosse al tempo stesso sociale e desiderante, secondo una logica dei flussi. Il delirio operava nel reale, non conoscevamo altro elemento che il reale, l’immaginario e il simbolico ci sembravano categorie false. L’Anti-Edipo era l’univocità del reale, una sorta di spinozismo dell’inconscio“ (PP, 192). Scaturito da quel clima insurrezionale, L’Anti-Edipo è separato oggi dalla sua dimensione d’impatto sul Reale degli anni Settanta, eppure si conserva per ciò che essenzialmente è: un libro-dinamite, esattamente come lo sono l’Etica di Spinoza o Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Sono opere che spostano nel tempo la percezione dell’operabilità politica, cioè ne allargano i confini in una sorta di delirio del pensiero che produce effetti positivi per il singolo e per la collettività. Più profondamente l’Anti-Edipo è non solo il libro della «Smisurata Liberazione», della «Grande Salute», della «Linea di Fuga» del nomadismo, ma è nel nostro tempo, in modo più essenziale, IL libro dell’Avversario, IL libro del Tradimento, IL libro dell’antikeimenos: un libro all’altezza della sfida che lancia. L’Anti-Edipo è un’opera che aggre-
disce con vigore il presente che si getta sul futuro, indicando con sfrontatezza che «la sola possibilità degli uomini è nel divenire rivoluzionario» (PP, 225). Indica una via anomica, per sfuggire alla vergogna e all’intollerabile, che si tramuta in una gnosi laica e rivoluzionaria. Come vedremo più avanti, questo «neo-gnosticismo sedizioso» unisce nella loro differenza i progetti filosofici di Deleuze, Guattari, Foucault e Klossowski con un impareggiabile filo rosso, pur in presenza di un ventaglio di posizioni filosofiche e politiche del tutto personali e non riconducibili ad un unico e monolitico nietzscheanesimo. Il dualismo politico dell’Anti-Edipo
L’Anti-Edipo è un oggetto politico irregolare che agisce e funziona come memoria ritmata di un dualismo politico che ci pare opportuno definire. L’Anti-Edipo è il frutto maturo del quadriennio infuocato da che va dal 1968 al 1972, della crisi della «rivoluzione abortita» del Maggio ‘68 francese, del tradimento operato ai danni dei militanti e delle istanze rivoluzionarie da parte di agenzie di controllo quali istituzioni, partiti, sindacati. I due autori dell’Anti-Edipo giungono da mondi diversi: Guattari proveniva da alcune situazioni politiche e intellettuali molto definite: La voie communiste e il sottobosco dei gruppuscoli comunisti eterodossi che militavano politicamente alla sinistra del PCF, il lavoro alla clinica psichiatrica La Borde, i seminari con Lacan e, infine, la psicoterapia in proprio con pazienti schizofrenici; Deleuze, al contrario, era «leggero», non aveva nessuna collocazione politica (PP, 23-25) se non la parte-
cipazione diretta all’attività del GIP, il gruppo di pressione politica iniziato da Foucault e Defert nel febbraio del 1971. Vediamo a questo proposito cosa afferma Deleuze del GIP, in quanto semplice militante, al momento della pubblicazione dell’Anti-Edipo: “Dopo il ’68 c’erano molti gruppi, di natura alquanto diversa, ma tutti inevitabilmente ristretti. Era il dopo ’68. Sopravvivevano, avevano tutti una storia. Foucault insisteva sul fatto che il ’68 per lui non aveva avuto molta importanza. Aveva già un passato di grande filosofo, ma non si portava dietro un passato da sessantottino. Senza dubbio è questo che gli ha aperto la possibilità di fare un tipo di gruppo tanto nuovo. E questo gruppo gli ha fornito una specie di uguaglianza con gli altri gruppi. Non si sarebbe fatto catturare dagli altri, mentre il GIP gli ha permesso di conservare la propria indipendenza di fronte agli altri gruppi come la Sinistra proletaria. C’erano continue riunioni, scambi, ma lui ha assolutamente mantenuto l’indipendenza totale del GIP. A mio avviso, Foucault è stato il solo non a sopravvivere a un passato, ma a inventare qualcosa di nuovo, a tutti i livelli. Il GIP era molto preciso, proprio come Foucault. È un’immagine di Foucault, un’invenzione Foucault- Defert. È un caso in cui la loro collaborazione si è rivelata intima e fantastica. In Francia, era la prima volta che si creava un gruppo del genere, che non aveva assolutamente niente in comune con un partito (c’erano dei partiti terribili, come la Sinistra proletaria), né con un’iniziativa (per esempio, le iniziative per rinnovare la psichiatria). Si trattava di fare un “Gruppo informazione prigione”, che era evidentemente qualcosa di diverso dall’informazione. Era una specie di pen17
siero-sperimentazione. C’è tutto un aspetto per cui Foucault non ha smesso di considerare il processo del pensiero come una sperimentazione. È la sua discendenza da Nietzsche. Non si trattava affatto di sperimentare sulla prigione, ma di cogliere la prigione come luogo in cui i prigionieri vivevano una certa esperienza che doveva essere pensata anche dagli intellettuali, per come li concepiva Foucault. Il GIP è bello quasi quanto un libro di Foucault. L’ho seguito con tutto me stesso, perché ne ero affascinato” (DRF, 224-25). Se dunque l’opera anti-edipica è il frutto dell’elaborazione in «presa diretta» di due militanti inseriti completamente all’interno delle lotte anti-repressive degli anni ‘70, L’Anti-Edipo, allo stesso tempo, è figlio politico di «quarant’anni di sottosuolo», se possiamo parlare come Dostoevskij.4 Quarant’anni, circa, sono gli anni che separano L’Anti-Edipo dalla rivista Acéphale di Bataille e Klossowski, i cui cinque numeri sono usciti tra il 1936 e il 1939; ai nostri fini tale rivista ha un’importanza cruciale in quanto inaugura, per prima e nel più completo isolamento intellettuale, una lettura di Nietzsche anticonvenzionale, dissacrante, rivoluzionaria e con un compito politico ben definito, seppure ambizioso e tempestoso allo stesso tempo: sottrarre Nietzsche e la sua filosofia all’abbraccio mortale dei fascismi europei degli anni '20 e '30. In questi quarant’anni di sottosuolo la figura chiave che in Francia fungerà da tedoforo tra l’ultima leva di intellettuali nietzscheani, Foucault e Deleuze, e la prima leva di sediziosi radunati intorno alla rivista di Bataille, Acéphale, sarà Pierre Klossowski. Afferma Deleuze in Pensiero Nomade, il testo breve più de-
cisivo tra quelli vergati da Deleuze su Nietzsche, letto nel luglio 1972 in occasione del convegno su Nietzsche a Cerisy-la-Salle: "C'è stato un momento in cui si è sentito il bisogno di dimostrare che Nietzsche era stato sfruttato, deviato, completamente deformato dai fascisti. E' questo che venne fatto nella rivista Acéphale, con la partecipazione di Jean Wahl, Bataille, Klossowski. Ma oggi tutto ciò non costituisce più un problema. Non è sui testi che si deve lottare. Non perché non si possa lottare sui testi, ma perché questa lotta è ormai inutile. Si tratta piuttosto di trovare, di assegnare, di raggiungere le forze esterne che danno a questa o quella frase di Nietzsche un senso liberatorio, un senso di esteriorità. E' a proposito del metodo che si pone il problema del carattere rivoluzionario di Nietzsche" (PN-NF, 316). Ciò ci introduce al lato più sottovalutato e insondato del «metodo» Anti-Edipo come organon nietzscheano. L’Anti-Edipo come organon nietzscheano
“Avvertiamo chiaramente che non potremo più scrivere dei libri di filosofia alla vecchia maniera; non interessano più agli studenti e nemmeno a chi li fa. Mi sembra che tutti stiano cercando qualche rinnovamento. Nietzsche aveva trovato dei metodi straordinari, ma non possiamo riprenderli, bisognerebbe essere scellerati per scrivere «I nutrimenti terrestri» [ Gide, 1897 ] dopo «Zarathustra»” (ID, 174): così risponde Deleuze all’intervistatore di «Les lettres françaises», Jean-Noël Vuarnet, nel febbraio del 1968. Ci sono tre cose che stupiscono nel-
la dichiarazione di Deleuze: la prima, ovvia, è che il forte desiderio di rinnovamento della letteratura e, in particolare, della filosofia era già sentito come impellente prima dello scoppio del Maggio ‘68; la seconda è di accomunare in questa mancanza d’interesse verso la «vecchia maniera» sia i fruitori, sia gli estensori, marcando in modo netto l’evidenza che un determinato «formato» di libro stava tramontando; la terza è il riferimento a Nietzsche come indizio e paradigma dell’autore che già aveva rivoluzionato in proprio il libro filosofico all’epoca di Zarathustra. D’altra parte, se la pietra di paragone è lo Zarathustra e la sua straordinaria modalità espressiva, capiamo subito sia l’ambizione deleuziana, sia l’altezza della sfida che, dal ‘68 in poi, si parava dinnanzi ai giovani filosofi rizomatici e agli sperimentatori di ogni ordine e grado. La sfida che Deleuze intraprende dall’estate del 1969 in poi, grazie all’incontro con Guattari, è di elaborare una forma libro che leghi insieme «il problema del rinnovamento formale» e il «continuum concettuale» (ID, 175). In particolare, il continuum concettuale pare ritagliato ex ante sulla figura di Guattari; si veda come Deleuze sostanzi la propria ricerca nell’intervista prima richiamata (JeanNoël Vuarnet, febbraio 1968): “La cosa importante è: da dove vengono i concetti? Che cos’è una creazione di concetti? Un concetto non esiste meno dei personaggi. Credo che occorra un grande dispendio di concetti, un eccesso di concetti” (ID, 175). Rispetto al «paradigma Zarathustra» il Deleuze post-’69 gioca allora una diversa carta nietzscheana: la de-soggettivazione dell’autore, grazie a un intellettuale onnivoro suo co18
evo, Félix Guattari, che proviene da una «pragmatica complementare» agli interessi filosofici deleuziani, la psichiatria, e da una «prassi politica» opposta alla sua. Grazie al rialzo della posta autoriale per «un nuovo tipo di libro» (ID-PN, 323), Deleuze si spinge in un’area sperimentale che nemmeno Foucault seppe mai affrontare a tali livelli. Se l’intento di Deleuze era di insegnare «la filosofia contro la filosofia», facendo nostra una splendida definizione di Pierre Klossowski, quale scelta migliore di un partner autoriale, Guattari, che esprimeva tutte le caratteristiche salienti prima riassunte? Ma sentiamo come Klossowski spiega l’approccio di Deleuze nel suo saggio Digressione a partire da un ritratto apocrifo, comparso nel numero 49 di «L’Arc» (1972), un numero monografico dedicato alla filosofia di Deleuze e pubblicato immediatamente dopo l’uscita in libreria dell’Anti-Edipo: “Ciò che Gilles Deleuze apporta e compie si poteva realizzare nel contesto delle ultime generazioni soltanto con una ostinazione istintiva: introdurre nell’insegnamento l’ininsegnabile. (…) Senza dubbio Deleuze fu favorito anche dalle sue affinità con un altro spirito esemplare, le cui esplorazioni liberarono delle zone comuni con le sue: Michel Foucault. Ad entrambi è in comune, sotto ogni aspetto: la liquidazione del principio d’identità. (…) Per ciò che risulta da questa liquidazione del principio di identità a tutti i livelli della conoscenza, su tutti i piani dell’esistenza stessa che la filosofia fino ad allora circoscriveva - e infine nell’insegnamento filosofico fondato tradizionalmente su questo principio, Deleuze intraprende l’avventura di insegnare anche questo ininsegnabile. Al punto di chiedersi: come si può
insegnare la filosofia contro la filosofia? Non è per questo Nietzsche diventato folle? “ (SF, 43). Il concetto: la ripetizione come potenza e lo stile come movimento
Valutiamo ora, nell’Anti-Edipo, il metodo compositivo che permette al concetto deleuziano di essere localizzabile in una mappa «politica» del pensiero e di vedersi attribuire un movimento e un tratto dalle qualità cinematografiche: un raccordo pieno in cui all’immagine si sostituisce l’«immagine del pensiero» e al montaggio in studio subentra il montaggio filosofico. In un’intervista del settembre 1988, Deleuze afferma che concepisce “la filosofia come una logica delle molteplicità (…). Creare concetti significa costruire una regione del piano, aggiungere una regione alle precedenti, esplorare una nuova regione, colmare la mancanza. Il concetto è un composto, un consolidamento di linee, di curve. Se i concetti devono costantemente rinnovarsi, è appunto perché il piano di immanenza si costruisce per regioni, ha una costruzione locale, poco alla volta. Per questa ragione i concetti agiscono a raffiche: in Mille piani, ogni piano dovrebbe essere una di queste raffiche. Ma ciò non vuol dire che non siano oggetto di riprese e di sistematicità. Viceversa, c’è una ripetizione come potenza del concetto: è il raccordo tra una regione e l’altra. E tale raccordo è una operazione indispensabile, perpetua, il mondo come patchwork. La vostra doppia impressione [degli intervistatori: Raymond Bellour e François Ewald] è quindi esatta, c’è infatti un solo piano di im-
manenza ma concetti sempre locali. E’ il costruttivismo che per me sostituisce la riflessione” (PP, 195-96). Come è noto, Deleuze non ha mai cessato per tutta la vita di affermare l’instancabile «dovere» della filosofia: inventare concetti. “La filosofia consiste sempre nell’inventare i concetti” (PP,181). Non solo, ma se la filosofia possiede un’attualità, uno «spazio» dal quale può far udire la propria voce, ebbene quel luogo privilegiato del pensiero è la creazione del concetto, il «taglio» effettuato per scolpire il concetto nel paradosso. “La filosofia è per sua natura creatrice o anche rivoluzionaria, in quanto non smette di creare nuovi concetti. La sola condizione è che essi abbiano una necessità, come pure un’estraneità, cosa che hanno nella misura in cui rispondono a problemi reali. Il concetto è ciò che impedisce al pensiero di essere una semplice opinione, un parere, una discussione, una chiacchiera. Ogni concetto è un paradosso, necessariamente” (PP, 181). Invenzione, ripetizione, potenza, costruzione, esplorazione, consolidamento, creazione, taglio: questi sono i fondamenti imprescindibili per plasmare il concetto come fosse un’opera d’arte. In breve: il movimento plastico della produzione del concetto è lo «stile» del pensiero. Potenza ed eleganza sono due elementi che mai sono mancati nel concetto scolpito dalla filosofia di Deleuze. Questa dimensione a un tempo «eroica» e «artigianale» della riflessione deleuziana, senza cedere su nulla, lo accomuna agli altri due grandi pensatori materialisti, Spinoza e Nietzsche. Sempre dall’intervista del settembre 1988 per «Magazine littéraire», Deleuze afferma: “I grandi filosofi sono 19
anche dei grandi stilisti. Lo stile in filosofia è il movimento del concetto. Certo questo non esiste al di là delle frasi, ma le frasi non hanno altro scopo che di dargli vita, una vita indipendente. Lo stile è una messa in variazione della lingua, una modulazione, una tensione di tutto il linguaggio verso un fuori. In filosofia è come in un romanzo; ci si deve chiedere «che cosa sta per accadere?», «che cos’è successo?». Solo che i personaggi sono dei concetti, e le ambientazioni, i paesaggi sono degli spazi-tempo. Si scrive sempre per dare la vita, per liberare la vita là dove è imprigionata, per tracciare delle linee di fuga. Per questo occorre che il linguaggio non sia un sistema omogeneo, ma uno squilibrio, sempre eterogeneo: lo stile vi scava delle differenze di potenziali tra cui può passare qualcosa, accadere qualcosa, può balenare un lampo che scaturisce dal linguaggio stesso, e farci vedere e pensare quello che restava nell’ombra attorno alle parole, delle entità di cui si sospettava appena l’esistenza” (PP, 187). Questo frammento è illuminante; spiega perché certi passaggi come quello che ci apprestiamo a commentare, sembrano particolarmente ostici e volutamente obliqui. Eppure Deleuze pone la necessità prioritaria dello stile, anche aggressivo, anche squilibrato, purché «passi qualcosa», una scossa d’energia, un fiotto di pensiero, un balenio di lampo. Un esempio «lampante» di questo costruttivismo lo abbiamo nel celebre paragrafo della Macchina capitalistica civilizzata, grazie ad un riuscito montaggio cinematografico à la David Lynch: un mostruoso strisciante. Il testo del paragrafo parte con una celebrazione delle assiomatiche marxiane, poi s’incrina sottilmente pagina dopo pagina,
e contraddice in maniera sempre più stridente i dogmi marxisti riguardanti l’analisi del capitalismo «civilizzato», per terminare con il celebre passaggio accelerazionista dove si spalanca l’abisso cospirazionista nietzscheano che inghiotte l’illusione di una via d’uscita marxista al «livellamento» della società contemporanea. Un coup de théâtre espressionista, dalle tinte fosche: enigmatico, illusorio e agghiacciante allo stesso tempo. I forti dell’avvenire possono attendere, come tutti gli eterni. Guattari come carta selvaggia
“Prima di tutto, non sono un nietzscheano” (C, 290). Questa è la risposta contrariata di Guattari all’ultima domanda che proviene dal pubblico nel leggendario seminario The Schizo-Culture Conferenze tenutosi nel novembre del 1975 alla Columbia University di New York, presenti Foucault, Deleuze, Lyotard e tutto il gotha della contro-cultura newyorchese.5 Di certo, tra tutti i filosofi analizzati in questo saggio, Guattari è il meno attratto dalla figura di Nietzsche e dalla costellazione di pensiero a lui riferibile. Guattari, infatti, appartiene a una «scuola» di pensiero politico che affonda le proprie profonde radici nel comunismo libertario, refrattario alla centralizzazione «bolscevica» e all’ortodossia marxista. Deleuze, ne parla in questi termini: “L’esperienza di Guattari passa attraverso il trotzkismo, l’entrismo, l’opposizione di sinistra (la Voie communiste), il movimento del 22 marzo” (ID, 251). Il movimentismo politico di Guattari lo porta, nel corso degli anni ‘70, a essere uno dei teorici di riferimento
dell’ala più creativa e radicale di quella vasta zona di militanza politica italiana che va sotto il nome di Autonomia e, nel corso degli anni ‘80, di sperimentare una forma di ecologismo radicale e libertario che rompe, a sinistra, gli schemi esausti e prevedibili dell’impegno politico rivoluzionario. Guattari gioca un ruolo decisivo, all’interno del punto di vista nietzscheano che andiamo delineando, perché comporta la rottura più radicale, nel piano compositivo dell’Anti-Edipo, rispetto alla tradizione filosofica e politica fino ad allora consacrata. Abbiamo infatti visto, in precedenza, che le caratteristiche salienti nietzscheane dell’Anti-Edipo provengono tutte dall’impianto teorico cesellato con maestria da Deleuze nell’arco temporale che precede il 1972. Ora, grazie a Guattari, abbiamo l’irruzione di un punto di vista apertamente comunista-libertario in un «paesaggio filosofico» d’impianto spinoziano-nietzscheano. Per certi versi, questo punto di vista guattariano è egemonico rispetto alla «leggerezza», prima richiamata, del punto di vista politico di Deleuze. Il punto di vista e la pragmatica politico rivoluzionaria, grezza, sferzante e diretta, tipica dell’Anti-Edipo, uscirà dalla miscela esplosiva dell’eterodossia di Guattari e dell’impegno politico de-centralizzato di Deleuze nel GIP di Foucault: il punto d’incontro sarà la teorizzazione di un processo rivoluzionario acefalo eterarchico. Tutto ciò è possibile grazie a una caratteristica peculiare di Nietzsche, forse la qualità migliore della sua riflessione: il costituirsi, in quanto metodo di opera e pensiero, come «grande società anonima» da cui generare azioni e discorsi, per parlare come Derrida, o come «campo di esteriorità» 20
occupabile, per dirla con Deleuze. In Pensiero Nomade Deleuze afferma che “è il metodo nietzscheano a rendere il testo di Nietzsche, non più qualcosa su cui domandarsi «è fascista, è borghese, è rivoluzionario in sé?», ma un campo di esteriorità in cui si fronteggiano forze fasciste, forze borghesi e forze rivoluzionarie. E se il problema viene posto così, la risposta conforme al metodo sarà necessariamente: scovate in Nietzsche la forza rivoluzionaria (chi è il superuomo?). Si tratta sempre di un richiamo a forze nuove, che vengono dall’esterno, attraversando e ritagliando il testo nietzscheano nel quadro dell’aforisma. E’ questo il controsenso legittimo: trattare l’aforisma come un fenomeno in attesa di forze nuove, che vengano a «soggiogarlo», o a farlo funzionare, o a mandarlo in frantumi. (…) Su questo punto, hanno già detto tutto Klossowski e Lyotard” (PN-NF, 316-17). Prolunghiamo allora l’analisi illuminante di Deleuze mantenendo il triplice punto di vista offerto dal celebre passaggio sulla «via rivoluzionaria» e sull’«accelerare il processo», con il pensiero di Guattari, e con la riflessione espressa dall’asse Deleuze-Klossowski-Nietzsche. Per indicare l’itinerario dell’analisi guattariana, sempre intrecciata tra il Reale, la pragmatica rivoluzionaria e i rizosferici nietzscheani, portiamo un esempio da un «plesso» cardinale, pregnante, del passaggio accelerazionista che stiamo valutando: se per Nietzsche l’«accelerazione del processo» è ascrivibile alla cospirazione dei forti dell’avvenire, intesi come un’avanguardia creativa e anti-produttiva, per Deleuze e Klossowski i forti dell’avvenire sono traducibili in una «comunità di singolarità» che si sottrae individuo per individuo al vaglio regolatore, per
Guattari, più cauto e a fatica, si tratta di immaginare “una piccola comunità liberata che si mantenesse tale attraverso i flussi della società repressiva, come la somma degli individui di volta in volta affrancati”. Guattari, insomma, riesce sempre a torcere il pensiero rizosferico verso il Reale e, per usare la sua terminologia, a piegarlo o deviarlo verso un nuovo innesto della macchina analitica e della macchina desiderante sulla macchina rivoluzionaria. Ed è sempre dalle coordinate intrecciate di psicanalista e militante comunista libertario che Guattari «indaga» e, dunque, analizza la libido come essenza di sessualità e desiderio che “investe e disinveste i flussi di ogni natura che scorrono nel campo sociale, che opera delle rotture di questi flussi, dei blocchi, delle fughe, delle ritenzioni. Senza dubbio essa non opera in maniera manifesta, alla maniera degli interessi obbiettivi della coscienza e delle concatenazioni della causalità storica; ma dispiega un desiderio latente coestensivo al campo sociale, che comporta delle rotture di causalità, delle emergenze di singolarità, dei punti di arresto come di fuga” (ID, 245). E’ questo preciso punto di vista che sarà all’opera nel passaggio finale del paragrafo La macchina capitalistica civilizzata che stiamo analizzando ed è esattamente da questo «punto nevralgico» che partiamo per la nostra analisi del passaggio accelerazionista di Deleuze e Guattari.
21
c a pi t ol o i i
Accelerazione del mattino: la rivoluzione acefala. Soluzione del problema molecolare 1, 2 e 3
Ripensandoci oggi, mi sembra un’evidenza che in anni recenti, con accentuazione brusca negli anni Settanta, i nomadi sono stati innanzitutto immagine dei Buoni. Nomade era ciò che sgusciava tra le maglie di un maligno controllo. Nomade era ciò che sfuggiva alla persecuzione dell’Uomo Nuovo, che poi era - nel caso migliore - un secondino. Nel caso più frequente: un delatore. —Roberto Calasso, L’occhio assoluto (1993) A Lenin, che affermava che il socialismo era il potere dei Soviet più l’elettrificazione, Kronstadt rispondeva: è il potere del Partito più le esecuzioni. —Jean-Francois Lyotard, Capitalismo energumeno (1972)
Sulle note mancanti
Nell’unico testo scritto insieme nel corso della loro vita, Introduzione generale alle Opere filosofiche complete di F. Nietzsche del 1967, Deleuze e Foucault espongono in modo magistrale i motivi per cui l’edizione critica di Colli e Montinari delle Opere Complete di Nietzsche è decisiva. Il breve saggio di Deleuze e Foucault è un fuori testo introduttivo alla prima opera con cui l’editore Gallimard inaugura nel 1967 l’edizione critica stabilita da Colli e Montinari: si tratta della celebre traduzione di Pierre Klossowski della Gaia Scienza corroborata dai Fram22
menti postumi (1881-1882). Siamo nel pieno del «ritorno a Nietzsche» degli anni ‘60 ma, nonostante il rinnovato interesse, il problema di fondo degli studi su Nietzsche rimane il Nachlass “da tempo identificato”, secondo Deleuze e Foucault, “con il progetto di un libro che si sarebbe chiamato La volontà di potenza. Fino al momento in cui non è stato possibile, da parte dei ricercatori più seri, accedere all’insieme dei manoscritti di Nietzsche, sapevamo solo vagamente che La volontà di potenza non esisteva in quanto tale, che non era un libro di Nietzsche, ma che era frutto di un taglio arbitrario operato nel lascito postumo in cui si mischiavano annotazioni di tempi e origini disparate” (NLM, 27-8). Se il libro «fittizio» si presentava come il problema più ingombrante da risolvere, rimaneva comunque da stabilire un criterio rigoroso e scientifico che permettesse di stabilire una volta per tutte come ordinare l’enorme mole degli scritti postumi, dato che “l’insieme dei quaderni manoscritti rappresenta almeno il triplo dell’opera pubblicata da Nietzsche in vita. I frammenti postumi già editi sono molto meno numerosi di quelli che attendono ancora la stampa” (NLM, 28). L’équipe di ricercatori capitanata da Montinari che aveva il compito di «setacciare» gli archivi di Weimar stabilì con Colli e l’editore italiano Adelphi di «pubblicare l’insieme dei quaderni in base all’ordine cronologico» con cui furono redatti da Nietzsche, e «in base ai periodi corrispondenti ai libri pubblicati da Nietzsche». Cosa comportava ciò agli occhi di Deleuze e Foucault fu subito chiaro: “Su tre punti essenziali la nostra lettura di Nietzsche ne è stata profondamente modificata. E’ possibile cogliere le deformazioni dovute a Elisabeth
Nietzsche ed a Peter Gast, è possibile rilevare gli errori di data, gli sbagli di lettura del testo, le numerose omissioni che concernevano sino ad oggi le edizioni del Nachlass. Infine, e soprattutto, è possibile venire a conoscenza della massa degli inediti” (NLM, 30). L’attesa era dunque palpabile in quel periodo degli anni ‘60: era finalmente possibile acquisire un’idea più completa di come Nietzsche elaborasse nella propria «officina mentale» i concetti, trasformandoli, arricchendoli e deformandoli più volte. Ancora più preziosa, però, era la suggestione di poter scoprire i «molteplici significati» celati all’interno della massa degli inediti. Questa premessa riguardante la pubblicazione delle Opere complete di Nietzsche, con la «convocazione» dei curatori dell’edizione francese, Deleuze e Foucault, è necessaria per spiegare l’arcano minore riguardante la mancanza delle note a piè di pagine nel passaggio della Macchina capitalistica civilizzata che stiamo esaminando. Non si tratta assolutamente di una mancanza di attenzione da parte di Deleuze e Guattari, né di una negligenza dell’editore, né di una volontà di mantenere enigmatico tutto il senso del paragrafo, né di una questione di pudore citazionista in merito ad un autore «maledetto» e poco raccomandabile in quanto «reazionario». Come descritto nel nostro saggio precedente, I forti dell’avvenire. Il frammento accelerazionista di Friedrich Nietzsche nell’Anti-Edipo di Guattari e Deleuze, il frammento citato nel passaggio finale de La macchina capitalistica civilizzata - il locus classicus dell’accelerazionismo - è numerato 9 [153] nell’edizione critica stabilita da Colli e Montinari. Da questo preciso punto parte si espande la nostra ricerca.
Il crepuscolo del Nietzsche impolitico
Com’è noto, Deleuze ha pubblicato due monografie su Nietzsche: la prima, nel 1962, intitolata Nietzsche e la filosofia, la seconda, nel 1965, dal semplice titolo Nietzsche. La prima opera su Nietzsche (1962) inaugura il decennio d’oro del «ritorno a Nietzsche», culminato appunto con l’Anti-Edipo (1972) e il convegno di Cerisy-la-Salle del luglio 1972 «Nietzsche aujourd’hui?». In Nietzsche e la filosofia, l’opera più sistematica messa in cantiere da Deleuze riguardante la filosofia di Nietzsche, il filosofo parigino adotta la prospettiva dell’ultima fase del pensiero di Nietzsche, dalla rivelazione dell’«eterno ritorno» fino all’abisso della follia; ma già nel 1962 diviene decisiva nel «corpo centrale» del libro l’analisi del testo «incriminato», La volontà di potenza, e dei testi suoi coevi, Al di là del bene e del male e Genealogia della morale: si tratta dei capitoli II, III e IV intitolati rispettivamente Attivo e reattivo, La critica e Dal risentimento alla cattiva coscienza. Nel libro del 1962 non appare però nessun riferimento al celebre frammento accelerazionista di Nietzsche, nonostante la ricchezza d’analisi incentrata su La volontà di potenza, testo nel quale appare con il n. 898, numerazione attribuita proditoriamente dalla sorella di Nietzsche e Peter Gast. Deleuze utilizza per la propria monografia del 1962 l’edizione di La Volonté de Puissance edita nel 1947-1948 da Gallimard in quattro volumi e curata da Geneviève Bianquis. Dalle note del curatore dell’edizione italiana (NF, IX-X), Fabio Polidori, si evince che “si tratta di un’opera in cui i testi postumi di Nietzsche sono stati raccol23
ti tematicamente e ordinati in quattro libri sulla base del volume curato da Friedrich Würzbach, Das Vermächtnis Friedrich Nietzsches (Salzburg-Leipzig, 1940). La Volonté de Puissance citata da Deleuze ripropone quindi un ordine completamente diverso, oltre che una maggiore quantità di testi, rispetto alla seconda e più completa edizione del famoso Der Wille zur Macht apparso nel 1906 a cura della sorella di Nietzsche, Elisabeth” (NF, IX-X). Nel testo del 1965, Nietzsche, nonostante la pletora di testi provenienti dal periodo post-Zarathustra, Deleuze non tematizza di nuovo né «accelerazioni», né forze del futuro, nonostante il frammento accelerazionista del 1887, «I forti dell’avvenire», fosse già presente nell’antologia di Würzbach. Il «tema accelerazionista» presente nell’Anti-Edipo rimane dunque assente, come fosse un corpo non rintracciabile dalle onde radar dei testi deleuziani ante 1972; tale irrintracciabilità permane anche nei testi, o parti d’opera, che riguardano l’asse Deleuze-Klossowski-Nietzsche, in particolare Differenza e ripetizione del 1968 e Logica del senso del 1969. Il frammento accelerazionista diventa però centrale nell’analisi di Pierre Klossowski del 1969, nel suo Nietzsche e il circolo vizioso, testo fondamentale della «Nietzsche Renaissance», dedicato in esergo a Gilles Deleuze e che fonda un risolutivo asse Deleuze-Klossowski sull’occupazione sediziosa del campo d’esteriorità Nietzsche. Dobbiamo soffermarci sul testo klossowskiano perché è qui che nasce il motivo della mancata citazione del frammento nelle note dell’Anti-Edipo. Gilles Deleuze, nell’intervista concessa a Jean-Noël Vuarnet nel febbraio del 1968,6 afferma che il
proprio ruolo nell’edizione francese delle Opere complete di Nietzsche è “molto piccolo”. Prosegue dichiarando che “l’interesse di questa edizione consiste nel pubblicare in ordine cronologico la massa dei frammenti postumi, molti dei quali sono inediti, suddividendoli secondo i libri che Nietzsche stesso ha pubblicato. Così La gaia scienza, tradotta da Klossowski, comprende i frammenti postumi del 1881-1882. Gli autori di questa edizione sono, da una parte Colli e Montinari, che hanno stabilito i testi, e dall’altra i traduttori (lo stile e le tecniche di Nietzsche pongono infatti grossi problemi di traduzione). Il nostro ruolo [riferendosi al secondo «responsabile» dell’edizione, Foucault] è stato solo di mettere insieme queste due parti” (ID, 167). Il primo volume delle Opere di Nietzsche, pubblicato nel 1967, è dunque tradotto da Pierre Klossowski. Deleuze e Foucault assegnano a Klossowski «traduttore» un altro volume delle Opere complete di Nietzsche, i Fragments posthumes - Autumn 1887 - mars 1888. Tale volume uscirà solo nel 1976, quattro anni più tardi rispetto all’Anti-Edipo.7 Eppure il frammento «accelerazionista» I forti dell’avvenire è presente già nel testo del 1969, Nietzsche e il circolo vizioso, cosi come nel testo del 1976, i Fragments posthumes. La soluzione è molto semplice: dato che Klossowski era il traduttore francese del testo comparso nell’edizione italiana del 1971, Frammenti postumi 1887-1888, Colli e Montinari fornirono a Klossowski i materiali grezzi, ancor prima della progressiva numerazione che contraddistinse le edizioni da loro curate; per cui Klossowski già dal 1967/1968 era in possesso del materiale
postumo di Nietzsche a lui assegnato. Da questo materiale grezzo ricavò i testi che compongono il suo Nietzsche e il circolo vizioso, rifiutandosi in tal modo di utilizzare i materiali postumi nietzscheani appartenenti a edizioni precedenti, con numerazioni fuorvianti e indicazioni superate dagli eventi. Troviamo traccia di quanto affermiamo nella nuova edizione Adelphi (2013) dell’opera di Klossowski: “Nietzsche et le cercle vicieux, apparso nel 1969, non forniva indicazioni sulla datazione e sulla collocazione delle citazioni nietzscheane (per lo più dai frammenti postumi). Klossowski, in qualità di collaboratore dell’edizione francese delle Œuvres philosophiques complètes di Nietzsche (Gallimard, Paris, 1967-) aveva potuto disporre, in parte, del testo dei frammenti stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari” (NCV [ II ], 353). Come abbiamo dimostrato nel saggio precedente,8 Deleuze e Guattari hanno utilizzato la frase «accelerare il processo», e tratto il senso del passo finale che qui indaghiamo, dal frammento 9 [153] di Nietzsche, desumendolo correttamente dal libro di Klossowski. Trattandosi di una citazione da un testo nietzscheano privo di indicazioni sulla datazione e sulla collocazione, i due autori hanno preferito lasciare senza indicazioni il passo, non potendo sapere quale numerazione il frammento avrebbe avuto e in quale preciso volume delle edizioni Gallimard sarebbe apparso. Teniamo presente il fatto che Deleuze stesso era coinvolto in prima persona, in quanto collaboratore iniziale dell’edizione francese di Gallimard delle Opere complete di Nietzsche e, nello specifico, responsabile con Maurice de Gandillac del volume dei frammenti postumi 1887-1888 (Gallimard, 24
1976); sarebbe stato controprodu- po. E’ del tutto plausibile che gli studiocente per lui indicare edizioni e numer- si si domandino se non sono proprio gli azioni arbitrarie. stessi autori a citare in modo erroneo Nietzsche, frutto forse di una lettura poco accorta del testo nietzscheano o Il sistema di dipendenza di una parafrasi mal riuscita. Vediamo dell’economia dal desiderio ora di capire perché invece è proprio Nietzsche il convitato di pietra del Entriamo ora nel cuore del celebre passaggio accelerazionista e, non a passaggio del paragrafo La macchitorto, di tutto l’Anti-Edipo. Infatti, alle na capitalistica civilizzata. Christian spalle della citazione di Nietzsche, c’è Kerslake nel suo intervento Marxism tutto un mondo pronto a emergere. and Money in Deleuze and Guattari’s Per meglio comprendere il ruolo di Capitalism and Schizophrenia (2015) Nietzsche in questo passaggio crudefinisce il passaggio «acceleraziciale, procediamo con una lettura del onista» dell’Anti-Edipo come «diffitesto dettagliata, suddividendolo in cile da comprendere». Il passaggio parti. è certamente ostico, ma con una lettura ipertestuale il senso del tesL'integrazione del desiderio avto è destinato a risolversi. Tutto ciò viene infatti a livello dei flussi, e che abbiamo attribuito in precedendei flussi monetari, non a livello za come qualità dell’Anti-Edipo - il dell'ideologia. Quale soluzione almetodo nietzscheano, l’ipertestuallora? Quale via rivoluzionaria? La ità ante-litteram, il dualismo politipsicanalisi è di scarso aiuto, nei co, la ripetizione come potenza e lo suoi rapporti più intimi col danstile come movimento del concetaro, essa che registra, guardanto, il punto di vista privilegiato di un dosi bene dal riconoscerlo, tutto comunismo libertario e anti-totalun sistema di dipendenze ecoizzante - raggiunge il climax pernomico-monetarie nel cuore del fetto in questo denso passaggio, desiderio di ogni soggetto che non solo «cartografia classica» del tratta, e che costituisce per suo movimento accelerazionista, ma conto una gigantesca impresa di nodo cruciale di tutta l’opera anassorbimento di plusvalore. Ma ti-edipica. Iniziamo ora a prendere quale via rivoluzionaria, ce n'è in esame le inferenze derivanti forse una? (AE, 272). dal testo deleuziano-guattariSe il capitale attraverso le proano. Come tutti hanno notato, prie assiomatiche è immanente tra testo, senso del passaggio e alla società, si chiedono i due auposizione politica degli autori non tori, e il desiderio fluisce in tutti i c’è coerenza logica. Il riferimento pori del sociale, quale via rivoluza Nietzsche, complica ulteriorionaria è percorribile se i due mente il quadro. Qualcosa sfugflussi sono così integrati? Per ge, ma non si comprende bene Deleuze e Guattari infatti “l’ide«cosa» sfugga. Manca la corretologia non ha alcuna importanza: ta inferenza, in punta di principio, ciò che conta non è l’ideologia (…) poiché ogni studioso e commenma l’organizzazione del potere” tatore conosce in modo chiaro le poiché, come vedremo più avanposizioni politiche rivoluzionarie ti, l’ideologia marxista assegna dei due estensori dell’Anti-Edial desiderio un posto gregario
all’interno della sovrastruttura, la quale è determinata a sua volta dalla struttura economica primaria; per gli autori dell’Anti-Edipo, al contrario, il desiderio è già integrato nei flussi decodificati del capitalismo, soprattutto nei flussi monetari: “il desiderio è già dentro l’economico, è il modo in cui la libido investe l’economico, ossessiona l’economico e alimenta le forme politiche di repressione” (ID, 334). Se il desiderio è primario ed è integrato nell’organizzazione del potere, quale soluzione insurrezionale si para innanzi a noi? Lo scenario claustrofobico che si presenta è dunque comprensibile: insiste già come «fondamento», fin dalla prima soglia, la possibilità che non esista neppure una via rivoluzionaria - «ce n’è forse una?». Dalla frase antecedente sappiamo che la psicanalisi non può essere d’aiuto poiché già «recuperata» dal sistema in quanto porzione dell’antiproduzione che «assorbe e realizza» la redditività nomade prodotta a vari livelli nel sistema e scivolante nei gangli distribuiti nel corpo sociale. In più, la psicanalisi si è «messa in proprio», cioè ha creato un proprio circuito di assorbimento di plusvalore costruendo un mercato dal nulla grazie al sapere prodotto dall’industria culturale e al desiderio da essa indotto. Poi, in maniera più profonda, la psicanalisi non è nemmeno in grado di riconoscere il sistema di dipendenza dell’economico dal cuore del desiderio di ogni soggetto che tratta: come ci si potrà fidare di una tal scienza? Depennata la psicanalisi di Freud, chi può raccogliere il vessillo rivoluzionario?
25
Il ritiro del nazionalismo di sinistra dal mercato mondiale
Ritirarsi dal mercato mondiale come consiglia Samir Amin ai paesi del Terzo Mondo, in un curioso rinnovamento della «soluzione economica» fascista? Oppure andare in senso contrario? Cioè andare ancora più lontano nel movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione? Forse, infatti, i flussi non sono ancora deterritorializzati, abbastanza decodificati, dal punto di vista di una teoria e di una pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico. (AE, 272) Può raccogliere il vessillo rivoluzionario la Sinistra rappresentata da Samir Amin, cioè una sinistra «terzomondista», non allineata, anti-capitalista, dominata dal paradigma economico dell’autosufficienza? Questa posizione dell’isolamento «nazionalista» dell’economista marxista franco-egiziano Samir Amin, caratterizzata dal «ritiro dal mercato mondiale», ricorda a Deleuze e Guattari un altro «nazionalismo economico», quello fascista degli anni ‘20 e ‘30 del Novecento. Un’altra opzione rivoluzionaria è dunque scartata, anche se, val la pena sottolineare, questa scelta del «nazionalismo di sinistra» è stata una soluzione economica che ha conosciuto un rapido successo internazionale nel secondo ’900 sull’onda di una veloce de-colonizzazione del cosiddetto Terzo Mondo. A questo punto, dopo aver scartato le ipotesi precedenti, Deleuze e Guattari pongono una domanda paradossale: e se si prendesse in esame di “andare in senso contrario?” Questa domanda causa un doppio effetto. Il pri-
mo effetto è di «tagliare fuori» alcune delle ipotesi classiche dell’«umanesimo rivoluzionario» europeo. L’ipotesi marxista classica, ad esempio, si trova subito ad essere eliminata: i partiti tradizionali della sinistra europea, comunisti, socialisti, socialdemocratici, non sono presi in considerazione come legittima «opzione» rivoluzionaria. Per non parlare del sindacalismo rivoluzionario, del riformismo radicale e dello spontaneismo anarchico. Pure le nuove formazioni politiche post-68 non vengono prese in esame, le cosiddette «piccole chiese». Neppure la lotta armata, dura e pura, insomma neppure l’ipotesi dello scontro frontale «nichilista» con il sistema è perorato. La domanda “Oppure andare in senso contrario?” brucia tutto l’Olimpo della sinistra europea, vecchia e nuova. Ma allora qual’è il campo che si apre andando «in senso contrario» all’opzione rivoluzionaria della soluzione economica marxista-nazionalista? Verrebbe spontaneo pensare, per coerenza logica, all’esatto opposto del «nazionalismo marxista». Ovvero l’opzione rivoluzionaria planetaria, se si accettasse lo stesso «piano d’immanenza» - lo stesso campo da gioco - del capitalismo globalizzato, o per usare i termini di Deleuze e Guattari, del capitalismo decodificato e deterritorializzato dei flussi monetari. Domanda: esiste già una teoria marxista o rivoluzionaria che si apre a una dimensione planetaria antagonista al capitalismo? L’unica possibile, e storicamente riconosciuta, è quella dell’internazionalismo proletario di Lev Trockij. Guattari ha avuto simpatie trotzkiste negli anni ‘50; Deleuze non ne ha mai subito il fascino. L’opzione di «rivoluzione permanente» o della Quarta Internazionale è sem-
pre rimasta marginale nello scenario comunista continentale, e gli stessi Deleuze e Guattari sono refrattari a qualsiasi nostalgia «sovietica», seppur riveduta e corretta. Vediamo cosa afferma Guattari in proposito: “Ma nessuna tendenza rivoluzionaria ha saputo o voluto farsi carico del bisogno di un’organizzazione sovietica che avrebbe potuto permettere alle masse di assumere realmente la responsabilità dei loro interessi e del loro desiderio. Sono state messe in circolazione delle macchine, chiamate organizzazioni politiche, che funzionano sul modello elaborato da Dimitrov al VII congresso dell’Internazionale - alternanza di fronti popolari e di ritirate settarie - e che arrivano sempre allo stesso risultato repressivo. (…) Per la loro stessa assiomatica, queste macchine di massa si rifiutano di liberare l’energia rivoluzionaria. E’ una politica subdola paragonabile a quella del Presidente della Repubblica o dei preti, ma con la bandiera rossa in mano” (ID, 341-42). Quali chance può mai avere un turbo-trotzkismo nei confronti della «macchina capitalistica civilizzata»? Poi, sul versante politico rivoluzionario, Bronstejn non si è macchiato della repressione sanguinosa di Kronstadt e di altre efferatezze? Se azzeriamo il dato politico e prendiamo in esame il lato economico espresso dall’andare in senso contrario, può esistere una forza o una teoria economica alternativa al capitalismo che abbia la stessa «tensione» planetaria e la stessa volontà di potenza? Né la teoria neo-marxista di Suzanne de Brunhoff, né la teoria quantistica dei flussi di Bernard Schmitt - cioè le due riflessioni economiche analizzate nel paragrafo della Macchina capitalistica civilizzata - hanno 26
questa forza e questa sistematicità; né la possiedono altre teorie come, ad esempio, quella riformista keynesiana. Dall’indagine esperita sulle ipotetiche opzioni rivoluzionarie ricaviamo dall’Anti-Edipo che nessuna risposta convincente è all’orizzonte della macchina analitica. Se dunque togliamo dal novero delle possibilità rivoluzionarie queste opzioni «storiche» quale rimane il «senso contrario» alla soluzione economica nazionalista marxista? Qui si apre il fondo speculativo del senso più profondo del passaggio «accelerazionista», ovvero il secondo effetto della domanda dell’andare in «senso contrario». Parrebbe a questo punto che, a costo di essere fraintesi, Deleuze e Guattari facciano balenare l’idea di «affiancare», da parte delle forze rivoluzionarie, l’economia di mercato nel movimento della «decodificazione» e della «deterritorializzazione». A quale scopo, si sono chiesti tutti gli studiosi e, in particolare, gli accelerazionisti? Che cosa possono condividere le forze della rivoluzione, antagoniste all’economia di mercato, con le forze del capitale? Quale strana alleanza si profilerebbe se si passasse in modo perentorio dal «ritiro dal mercato mondiale» alla coalizione pro-liberismo scatenato? Poi, che cosa sarebbe questa strana «teoria e pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico» che dovrebbe liberare ulteriormente le flussioni del mercato? E quali flussi liberare in particolare? Deleuze e Guattari, intendevano veramente questo esito «compromissorio» al proprio interrogarsi sulla rivoluzione del futuro?
Acceleriamo il processo: dromocrazie a confronto
Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, «accelerare il processo», come diceva Nietzsche: in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla. (AE, 272) La conclusione del passaggio sopra riportata è, dunque, quanto di più enigmatico espresso nelle opere di Deleuze e Guattari: contribuisce a rendere ancora più misterioso il senso completo del passaggio e dunque dell’intero paragrafo, se non dell’opera intera. Da questo passaggio finale decisivo proponiamo alcune considerazioni. Prima considerazione: se assumiamo come base di partenza logica ciò che abbiamo scritto nel paragrafo precedente, dobbiamo ritenere che Deleuze e Guattari stiano proponendo una scelta di campo che, a prima vista, può sembrare platealmente pro-mercato. Allo stesso tempo questa opzione risulta essere del tutto contraddittoria, in quanto sembra superare l’opzione precedente, relativa a una dimensione rivoluzionaria planetaria anti-capitale, che si proietta oltre il localismo, cioè oltre quella dimensione che Srnicek e Williams chiamano folk politics. Non solo si dovrebbe «andare in senso contrario» rispetto all’economia marxista-nazionalista e rispetto alle idealità rivoluzionarie che anelano il rovesciamento dei poteri costituiti, ma, non ritirandosi dal processo mercantile, ci si dovrebbe addirittura unire a queste forze anomiche turbo-capitaliste nell’esasperare e «accelerare» tutte quelle tendenze pericolose che muovono la decodificazione e la deterritorializzazione nella
società. A quale scopo? Se si suppone che Deleuze e Guattari non siano agenti subdoli e infiltrati dal nemico, sorge il dubbio che questa unità d’intenti con le forze più estreme dell’economia di mercato sia in vista di un’utilità futura. Quale sarebbe questa utilità? Come si realizzerebbe? Con quali mezzi? Attraverso quali scelte? E, posto che la battaglia volga a favore delle forze decodificanti e deterritorializzanti ribelli, chi ci garantisce che, una volta spazzati via i nemici di ieri, gli alleati di oggi non si rivolgano in futuro contro di noi, e annichiliscano le forze rivoluzionarie decodificanti, così come successe, ad esempio, nella rivoluzione bolscevica del 1917? Vi sono stati esempi di forze insurrezionali e di intellettuali rivoluzionari che hanno agito in passato a favore della repressione, o di una decodificazione favorevole alle forze di mercato: era una tattica precisa facente parte di una strategia superiore il cui scopo era ottenere un beneficio futuro contro una gregarietà maggiore immediata e un arretramento istantaneo. In questi casi il determinismo ideologico prevedeva che attraverso fasi sempre più critiche e surdeterminate il capitalismo sarebbe crollato grazie alle contraddizioni insanabili che portava in grembo.9 Potremmo citare i celebri esempi di Bertold Brecht e Karl Marx, rispettivamente in Linea di condotta e Discorso sul libero scambio.10 In questo senso di sostituzione strumentale tra male immediato e bene futuro, la frase “non abbiamo ancora visto nulla”, suona alquanto sinistra in quanto lascerebbe presupporre che più sarà bestiale e violenta la repressione e la gregarizzazione sociale, più veloce sarà la presa di coscienza della propria schiavitù da parte dei singoli e 27
della collettività, avvicinando a tappe forzate il momento dell’esplosione del bene, ovvero il momento fondativo della rivoluzione. Seconda considerazione: ma che tipo di forza è la forza accelerata rivoluzionaria? Questa domanda appare legittima se assumiamo che l’«andare in senso opposto» al protezionismo rossobruno crea una «prospettiva comune» tra forze che si richiamano a una potenza attiva dell’agire distruttivo dei codici e degli Stati. Dato che la caratteristica saliente di queste forze attive deregolatrici è la velocità, anche nel suo processo cinetico di accelerazione, possiamo chiamare queste forze, dromocratiche. Lo scenario che si apre è allora composto da potenze che «stanno», dunque proteggono, e che si dispongono contro forze che «accelerano», dunque decodificano, e divengono altro dal loro stato iniziale. Se la società dell’economia di mercato tradizionale, trincerata dietro ai propri codici - e che dunque «sta» - dovesse soccombere alla dromocrazia insita nel capitale e nello sviluppo tecnologico, allora la società stessa sarebbe destinata a diventare una società dominata dal turbocapitalismo monoscopico: un’infinita accumulazione all’interno di uno scenario di singolarismo tecnologico. Allo stesso modo, se le forze rivoluzionarie tradizionali che «stanno», e che operano a favore di un contenimento sia delle forze dromocratiche del mercato, sia della tradizionale società codificata, dovessero venire sovraperformate dalle forze dromocratiche che si «nascondono» al proprio interno, cosa potrebbe mai diventare la rivoluzione? Una potenza desiderante giunta a una tale accelerazione che fa esplodere la società (ID, 337)
come afferma Guattari? Possiamo anche solo concepire o pensare una rivoluzione dromocratica macchinica? Terza considerazione: Le forze livellatrici dell’«homo democraticus» paiono essere giunte al termine di quel percorso illuminista che ha reso i “buoni occidentali”, prima progressivi accelerazionisti, poi scialbi catecontici. Che il formarsi, ancora confuso, di una «comunità» dromocratica sia il precoce annuncio di un ritorno della Grande Politica annunciata da Nietzsche? Liberazione di tutte le maschere. Nietzsche galore!
Per sciogliere gli enigmi molecolari n. 2 (errata citazione di Nietzsche) e n. 3 (il senso del ‘non aver ancora visto nulla’) manca ancora la nozione di «flusso» e il chiarimento del rapporto tra desiderio, libido e inconscio. Per «flusso» Deleuze e Guattari intendono «processo»: “Il processo è ciò che noi chiamiamo flusso. Ancora una volta il flusso è una nozione di cui abbiamo bisogno in quanto nozione qualunque, non qualificata. Potrebbe essere un flusso di parole, di idee, di merda, di denaro, potrebbe essere un meccanismo finanziario o una macchina schizofrenica: supera qualsiasi dualità” (ID, 278); per quanto concerne il rapporto tra l’inconscio, la libido e il desiderio, Deleuze così ne descrive la genesi: “Guattari ebbe assai presto l’idea che l’inconscio si rapporta direttamente a tutto un campo sociale, economico e politico, piuttosto che alle coordinate mitiche e familiari invocate tradizionalmente dalla psicoanalisi. Si tratta della libido in quanto tale, come essenza di desiderio e di
sessualità: la libido investe e disinveste i flussi di ogni natura che scorrono nel campo sociale, che opera delle rotture di questi flussi, dei blocchi, delle fughe, delle ritenzioni. Senza dubbio essa non opera in maniera manifesta, alla maniera degli interessi obbiettivi della coscienza e delle concatenazioni della causalità storica; ma dispiega un desiderio latente coestensivo al campo sociale, che comporta delle rotture di causalità, delle emergenze di singolarità, dei punti di arresto come di fuga” (ID, 245). Vediamo ora di analizzare l’uso necessario di Nietzsche adversus il Marxismo e il Freudismo nel cuore del passaggio accelerazionista. Deleuze gioca consapevolmente Nietzsche contro Marx e Freud. Si tratta di una chiara scelta politica: non si tratta di un errore, ma di una scelta consapevole. Vediamo di spiegarne i motivi. Per Deleuze «il capitalismo si basa su una decodificazione generalizzata dei flussi», ma ciò che più importa è «l’organizzazione del potere»: ma che cos’è per Deleuze «l’organizzazione del potere»? “E’ l’unità del desiderio e dell’in-
28
frastruttura economica” (ID, 335); qui si esplicita la critica fondamentale al marxismo ortodosso, alle sue pretese ideologiche di mettere i fenomeni di desiderio nella sovrastruttura. Non solo, ma la critica di Deleuze e Guattari coinvolge anche il maggiore strumento che il movimento comunista si è storicamente dato per raggiungere i propri scopi, il partito. Per i due filosofi parigini il Partito Comunista non è che un’organizzazione di potere, anzi, la considerano la nuova organizzazione del potere repressivo (ID, 335): per questo motivo ne rifiutano il ruolo d’avanguardia di sintesi esterna che il Partito si è ritagliato fin dai tempi di Lenin (ID, 339 e 342). Siamo quindi in presenza di un doppio rifiuto da parte di Deleuze e Guattari: il primo è il rifiuto della classica bipartizione di Marx di struttura e sovrastruttura, vale a dire il rifiuto del materialismo storico in cui è primaria la struttura economica, espressione dei rapporti di produzione; il secondo è il rifiuto della teoria leninista del Partito come guida del proletariato e «coscienza politica di
classe» cioè il rifiuto di una macchina analitica esterna alla classe operaia e al processo rivoluzionario. E’ a questo punto che nel passaggio accelerazionista si fa avanti Nietzsche, la persona concettuale di Nietzsche. Perché è convocato in un paragrafo che, a ragion di logica, non lo dovrebbe riguardare, se non marginalmente? Perché Nietzsche è il maestro riconosciuto della disgregazione generalizzata dei codici e per Deleuze e Guattari la «teoria generalizzata dei flussi schizofrenici» deve sostituirsi alla vetusta teoria marxista-leninista quale teoria necessaria per analizzare il capitalismo, soggetto reale che si basa sulla «decodificazione generalizzata di tutti i flussi». Per Deleuze e Guattari, ammesso e concesso che Marx, Freud e Nietzsche siano i padri - la trinità ringhia Deleuze - del pensiero occidentale contemporaneo, la chiusura verso i primi due padri è netta: “Da parte nostra, non desideriamo partecipare a nessun tentativo che s’inscriva in una prospettiva freudo-marxista. Per due ragioni. La prima è che, in definitiva, un tentativo freu-
do-marxista procede generalmente da un ritorno alle origini, cioè ai testi sacri, testi sacri di Freud, testi sacri di Marx. Il nostro punto di partenza deve essere del tutto diverso: non rivolgersi a testi sacri più o meno da interpretare, ma rivolgersi alla situazione qual è, situazione dell’apparato burocratico nel marxismo, e dell’apparato burocratico nella psicoanalisi, tentativo di sovvertire tali apparati. (…) La seconda ragione che ci distingue da ogni tentativo freudo-marxista è che simili tentativi si propongono soprattutto di riconciliare due economie: economia politica ed economia libidinale o desiderante. (…) Il nostro punto di vista è che non c’è che una sola economia, e che il problema di una vera analisi anti-psicoanalitica [ un termine sostitutivo di schizoanalisi che Deleuze e Guattari adottano dopo l’Anti-Edipo ] è di mostrare come il desiderio inconscio investa le forme di questa economia. E’ la stessa economia che è economia politica ed economia desiderante” (ID, 351). Nel convegno di Cerisy-la-Salle del luglio 1972, «Nietzsche aujourd’hui?», successivo di qualche mese all’uscita nelle librerie dell’Anti-Edipo, Deleuze esprime nel suo intervento, intitolato Pensiero Nomade, un concetto fondamentale ai fini della nostra ricerca. Si tratta di un testo magnifico, giustamente celebre, seppur breve: in questo saggio Deleuze afferma che “di fronte al modo in cui le nostre società si decodificano, i cui codici fuggono da tutte le parti, Nietzsche è colui il quale non cerca di operare una ricodificazione” (ID, 321). Sempre nel testo di Pensiero nomade, Deleuze offre la spiegazione cruciale della propria scelta di campo nietzscheana: “Ora, se si considera non la lettera di Marx e Freud, ma il 29
divenire del marxismo o il divenire del freudismo, si può vedere come si siano lanciati paradossalmente in una specie di tentativo di ricodificazione: ricodificazione mediante lo stato nel caso del marxismo («siete malati a causa dello stato, e guarirete grazie allo stato», non sarà lo stesso stato) - ricodificazione mediante la famiglia (essere malati di famiglia e guarire grazie alla famiglia, non la stessa famiglia). E questo fa sì che, all’orizzonte della nostra cultura, il marxismo e la psicoanalisi siano davvero le due burocrazie fondamentali, l’una pubblica e l’altra privata, il cui fine è di operare alla meno peggio una ricodificazione di ciò che all’orizzonte non cessa di decodificarsi. Per quanto riguarda Nietzsche, al contrario, le cose non stanno affatto così. Il suo problema è altrove. Attraverso tutti i codici, del presente, del passato e del futuro, si tratta nel suo caso di far passare qualcosa che non si lascia e non si lascerà codificare (ID, 320). Questo «qualcosa» che deve passare ma che non si lascia codificare sono le intensità dell’inconscio prodotte dalle pulsioni primarie dei singoli individui. E’ questo il Nietzsche che si presenta al rendez-vous con il passaggio riguardante quale «via rivoluzionaria decodificata» intraprendere. All’appuntamento con «l’accelerazione del processo», sotto i baffi, il suo sorriso inizia a brillare. Codebreakers
I tre padri convocati al cospetto dell’istanza rivoluzionaria - Marx, Freud e Nietzsche - hanno rivelato i rispettivi approcci riguardo ai codici. Ricordiamo che per Deleuze i principali codici sono le leggi, i contratti,
le istituzioni (NF-PN, 313). I tre «padri convocati» hanno dunque espresso le loro posizioni, i loro ritornelli: Freud e Marx, a causa delle loro «scuole», rimangono incatenati dentro ai codici, anche se rinnovati - nuovo Stato, nuova famiglia e nuovi rapporti di produzione. Nietzsche è rimasto fuori dai codici, anzi è l’unico «codebreaker» della filosofia, in quanto anti-filosofo che ripudia leggi, contratti, istituzioni. Nietzsche, per Deleuze, ha reso il pensiero una «macchina da guerra», una «potenza nomade» (NF-PN, 322). Questa lettura deleuziana degli effetti della filosofia nietzscheana, ne disegnano la rottura totale nei confronti di tutto il pensiero politico e filosofico e, allo stesso tempo, trasportano tale rottura dentro allo scenario rivoluzionario decodificante: una zattera della Medusa? Grazie a questo «posizionamento» nietzscheano, nel paesaggio della Macchina capitalistica civilizzata si vengono a precisare tre differenti opzioni di azioni decodificatrici. La prima, definibile come schizofrenia del Capitale, è analizzata nei minimi dettagli nell’Anti-Edipo ed è proposta dalle frange più selvagge e vibranti del turbo-capitalismo, alla quale Deleuze e Guattari si oppongono. La seconda, ricordata in precedenza, è la posizione codebreaker di Nietzsche, inutilizzabile in campo insurrezionale in quanto non fornisce strumenti né indicazioni per alcuna pragmatica ed epistemologia rivoluzionaria. Nietzsche infatti non vuole creare movimenti, partiti o stati nuovi, in quanto è al tempo stesso agente e oggetto della decodificazione (NF-PN, 317). Tramite lui passano solo delle intensità, ma nessuna «costruzione». Proprio per questo motivo, però, Nietzsche è un potente allea-
to della terza posizione della decodificazione, quella espressa da Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo e da quel segmento di movimento rivoluzionario nato sulle barricate del Maggio 1968, che rifiuta tutti i vecchi modi di agire e pensare, e sta cercando percorsi teorici innovativi e pratiche efficaci di sovversione. Deleuze e Guattari hanno altri due potenti alleati nella filosofia francese: Klossowski e Foucault. Sarà questa comunità ristretta a formulare la risposta a quale «via rivoluzionaria» e a quale «accelerazione di processo» si fa riferimento nel passaggio finale della Macchina capitalistica civilizzata. Andare più lontano nel movimento della decodificazione e della deterritorializzazione
Una locuzione sulla quale soffermarsi è «andare ancora più lontano». L’«andare in senso contrario» rispetto al nazionalismo di sinistra proposto da Samir Amin equivale per Deleuze e Guattari all’«andare ancora più lontano» nel movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione. «IL» movimento della decodificazione e della deterritorializzazione si può identificare con il movimento del mercato, ma non appartiene unicamente al mercato. E’ un suo tratto distintivo, ma allo stesso tempo è distintivo e immanente sia al movimento nietzscheano che al movimento della circoscritta comunità rivoluzionaria in cui si riconoscono Deleuze e Guattari. Non necessariamente tre realtà sovrapponibili, sebbene gli autori pongano adiacenti i percorsi della produzione sociale e della produzione desiderante, almeno all’inizio del pro30
cesso: “La schizofrenia è la produzione desiderante come limite della produzione sociale. La produzione desiderante, e la sua differenza di regime con la produzione sociale, vengono dunque alla fine, non all’inizio” (AE, 38). Chiariamo il punto: in merito ai tre approcci rivolti al rovesciamento di codici e territori prima richiamati, vi sono solo due movimenti che potrebbero essere alleati, nietzscheani e rivoluzionari rizomatici. All’opposto, il movimento del mercato è illogico rispetto alle altre due posizioni politico-filosofiche, dato il suo ricorrere all’assiomatica di recupero per estrarre surplus dai flussi e all’assiomatica dell’annichilimento di tutto ciò che è inscambiabile e destrutturante. Si tratta dunque di trovare un punto minimo di contatto tra Nietzsche e l’energheia esercitata dalle forze rivoluzionarie post-68. In questo contesto di intensità vissute, l’espressione «andare più lontano» può significare anche altro da «prolungare» e «continuare il lavoro» del capitale, irrobustendone la sua prestanza mercantile, come può apparire a una prima lettura più lineare ed «economizzante» del passo accelerazionista; il significato più corretto, e più profondo, di «andare più lontano» è portare alle estreme conseguenze rovesciando il significato iniziale. Troviamo la locuzione «andare più lontano» con questo stesso significato in un denso passaggio di Nietzsche, tratto dall’Anticristo, scelto come testo in appendice [ Dio e il nichilismo ] da Deleuze nel suo Nietzsche del 1965: “Si è osato chiamare la compassione virtù (- in ogni morale aristocratica essa è considerata una debolezza -); si è andati ancor più lontano, si è fatto di essa la virtù, e il terreno e l’origine di tutte le
virtù - ma soltanto, si deve sempre tenere presente questo fatto, dal punto di vista di una filosofia che era nichilista, che portava scritta sulla sua insegna la negazione della vita. Schopenauer era nel suo diritto quando diceva che con la compassione viene negata la vita, viene resa più degna di negazione - la compassione è la praxis del nichilismo” (AC, 172-73; N, 89). Dato che la locuzione «andare [ancora] più lontano» appare due volte nel passaggio accelerazionista della Macchina capitalistica civilizzata, proviamo ad inserire il significato esattamente come Nietzsche lo utilizza. Vediamo che calza a pennello: se si è fatta dell’azione di sradicamento nomadico - la deterritorializzazione - e di distruzione anomica - la decodificazione - il perno del proprio agire da parte dei rivoluzionari - il terreno e l’origine di tutte le virtù, cioè la virtù per eccellenza - allora il «processo» da accelerare sarà oggettivamente all’opposto di quello del mercato. Infatti, nel pensiero nietzscheano, il movimento del mercato è un moto che implica la «praxis del nichilismo», cioè un doppio movimento negativo, il «no» alla vita, direbbe Nietzsche. Il primo movimento: la gestione planetaria che persegue il mercato, nei fatti, reprime ogni pulsione e distrugge ogni differenza, ogni ecosistema, ogni circuito auto-organizzato, con l’unico scopo di far fluire senza fine le merci per creare e distribuire ricchezza attraverso la remunerazione del capitale. Il secondo movimento, immanente al primo, produce processi di livellamento e selezioni di conformità quale condizione necessaria per il mantenimento dell’umanità a questo livello di artificialità, a cui corrisponde però l’incessante trasformazione della
società. Questi sono gli stessi processi descritti nel frammento accelerazionista di Nietzsche I forti dell’avvenire e che costituiscono il fondamento del passo accelerazionista dell’Anti-Edipo. Non ci si dovrà, allora, ritirare dal processo di decodificazione e di deterritorializzazione ma si dovrà accelerare il processo di liberazione e di differenziazione - doppio movimento positivo che significa sì alla vita per Nietzsche, e per usare la terminologia di Deleuze e Guattari, accelerare il processo di produzione desiderante - il flusso di «schizofrenia e attività rivoluzionaria» - da parte delle singolarità nomadi: “Liberare i flussi, spingersi sempre più lontano nell’artificio: lo schizo è un fuori codice, un deterritorializzato” (PP, 36) affermano Deleuze e Guattari. Questo è tanto più vero se valutiamo questo processo dal punto di vista di «una teoria e di una pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico». Dicono infatti Deleuze e Guattari: “Noi distinguiamo la schizofrenia come processo e la produzione dello schizo come entità clinica da ospedalizzare: le due cose stanno piuttosto in ragione inversa. Lo schizo da ospedale è una persona che ha tentato qualcosa e ha fallito, è crollato. Non diciamo che il rivoluzionario è schizo. Diciamo che c’è un processo schizo, di decodificazione e di deterritorializzazione, e che solo l’attività rivoluzionaria impedisce di volgere in produzione di schizofrenia” (PP, 36). Finora, dicono i due filosofi, si è fatto poco: c’è tutto un lavoro di scrostamento e di raschiatura da effettuare. Le cesure, i break sono ancora limitati, ci sono ancora paranoie, segregazioni, conformità, diluizioni, annebbiamenti, a trattenere, frenare le cariche rivoluzionarie inattese. Non è la teoria dei flus31
si che, come un sismografo, deve rilevare lo sprigionarsi dei «flussi che sovvertono la società»? Che cos’è infatti la schizoanalisi, se non “un’analisi militante, libidinal-economica, libidinal-politica”? (PP, 30). Se l’inconscio produce desiderio attraverso un «processo schizofrenico», quale fine possiamo attribuire alla schizoanalisi? Deleuze ne offre una splendida definizione: “La schizoanalisi non ha che un fine: che la macchina rivoluzionaria, la macchina artistica, la macchina analitica divengano pezzi e ingranaggi gli uni degli altri. Se si considera il delirio, ancora una volta ci sembra che esso abbia due poli, un polo paranoico fascista e un polo schizo-rivoluzionario. Non smette di oscillare tra questi due poli. Proprio questo ci interessa: la schizo-rivoluzione in opposizione al significante dispotico” (PP, 36-37). Rimane ora da valutare se i nerboruti del futuro, questa genia di bohémien parassiti e anticapitalisti paventati da Nietzsche nel frammento accelerazionista incastonato in questo passaggio dell’Anti-Edipo, possano corrispondere in qualche misura alle macchine desideranti anedipiche e alle singolarità nomadi afasciste progettate da Deleuze e Guattari. Manca ancora, infatti, il senso più profondo dell’ingaggio nietzscheano. Il diamante grezzo e il cuore del complotto
Ciò che manca ancora alla comprensione definitiva del ruolo del filosofo di Röcken all’interno del passaggio accelerazionista è la citazione di Nietzsche nell’espressione «accelerare il processo». Questa citazione nietzscheana è del tutto pertinente, non solo come questione
di «stile» e di «taglio» del concetto filosofico minore di «processo accelerato di produzione desiderante», ma ci è utile per definire in modo concreto il concetto maggiore di «rivoluzione acefala» che Deleuze, Guattari, e la «comunità nietzscheana rivoluzionaria» stanno elaborando proprio in questo lasso temporale, dal 1968 al 1975. “«Accelerare il processo», come diceva Nietzsche” potrebbe infatti rivelarsi un’arma a doppio taglio in quanto ciò che scrive Nietzsche nel frammento I forti dell’avvenire, se letto à la lettre, non è esattamente ciò che intendono Deleuze e Guattari, almeno a una prima lettura superficiale. Per dirimere il passo e la citazione, dobbiamo infatti attivare un tipo di lettura ipertestuale a cui abbiamo fatto riferimento all’inizio del saggio perché, come ha scritto Deleuze, il “testo è soltanto un piccolo ingranaggio in una pratica extratestuale” che si tratta di prolungare e poi rendere fecondo (ID, 330). D’altra parte, Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo parlano esplicitamente di “uso produttivo della macchina letteraria” e di liberare nel testo «la sua potenza rivoluzionaria». Ai fini della corretta esegesi del testo di Deleuze e Guattari costituiamo un’alleanza con l’esegesi klossowskiana del frammento nietzscheano 9 [ 153 ] I forti dell’avvenire, e più in generale con il magistrale testo di Pierre Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, con cui l’Anti-Edipo dialoga a distanza sul nodo cruciale della «cospirazione» nietzscheana. La cospirazione che si attiva contro la realtà gregaria, dunque contro l’economia di mercato, è presentata per la prima volta in modo essenziale da Nietzsche nel frammento dell’autunno 1887: Klossowski definisce infatti I forti dell’avvenire come il
«cuore» di tale complotto (CV, [aut aut n.267-268] pg. 61). Deleuze e Guattari, comprendendone la portata esplosiva, ne trasferiscono l’intensità di cospirazione anti-capitalista proprio nel «cuore» del passaggio accelerazionista della Macchina capitalistica civilizzata, a sua volta nucleo essenziale dell’intera opera Anti-Edipo, radicalizzandone il senso e proiettandolo nella realtà del conflitto rivoluzionario in essere. Il testo di Deleuze e Guattari è infatti una risposta indiretta e attualizzata alla teoria della «casta sovrana anti-gregaria» di Nietzsche, e una risposta diretta e affermativa al quesito rivoluzionario della cospirazione anti-istituzione e anti-mercato prospettata da Klossowski. Come vedremo la posizione dei tre filosofi sarà condivisa in tutta la sua portata dirompente da Foucault stesso: ne rimane traccia nella sua Introduzione all’edizione americana dell’Anti-Edipo quando individua nell’opera l’incorporazione di nuove zone di critica, la localizzazione di nuove lotte e l’incitamento ad accelerare: “L’Anti-Edipo mostra, anzitutto, l’estensione della superficie coperta. Ma fa molto di più. Non si perde nel denigrare i vecchi idoli, pur giocando molto con Freud. E, soprattutto, ci incita ad andare più lontano” (IVNF, 5). Poi, alla stessa stregua, Foucault ritiene il testo klossowskiano del Nietzsche e il circolo vizioso come “il più grande libro di filosofia che abbia mai letto, alla pari dell’opera stessa di Nietzsche”.11 Ma perché Deleuze e Foucault reputano il testo di Klossowski su Nietzsche così prezioso e allo stesso tempo così eversivo? Cosa nasconde questo libro al suo interno, come si trattasse di un enigmatico diamante grezzo, che altri non sono riusciti a «tracciare»? Ci 32
riferiamo, in particolare, a studiosi acuti di Nietzsche come Vattimo e Calasso, i quali hanno apprezzato il testo klossowskiano dal punto di vista estetico ed esegetico ma non dal punto di vista politico. Cosa hanno avvertito Deleuze e Foucault in Nietzsche e il circolo vizioso di Klossowski che è sfuggito, o che hanno trovato risibile, minimizzabile, Calasso e Vattimo? Stiamo parlando di intellettuali presenti nei momenti salienti della Nietzsche renaissance francese: Vattimo partecipò al seminario del ‘64 a Royaumont - Nietzsche et la philosophie comme exercice ontologique fu il suo intervento; Calasso intervenne al seminario del ‘72 a Cerisy-la-Salle con il testo Parodie de parodie, una dissertazione che seguì di poco il celebre Pensée nomade di Gilles Deleuze. Il complotto e la comunità inafferrabile degli uomini del superfluo
E’ probabile che Klossowski abbia atteso almeno trent’anni il momento in cui poter leggere e confrontare in modo esaustivo tutti i testi del periodo postumo, il Nachlass, e trovare finalmente conferma di quanto paventato da lui e Bataille fin dalla seconda metà degli ‘30 del Novecento; cioè che il Nietzsche post-Zarathustra stesse iniziando ad elaborare una propria teoria «cospirativa», in qualche misura insurrezionale rispetto al governo economico della società, e che tale «complotto» fosse collegabile, sempre oscuramente, al circolo vizioso dell’eterno ritorno (SF, 26). E’ noto che i concetti dell’ultimo Nietzsche non hanno avuto un’elaborazione definiti-
va, né sistematica, e questo vale per l’eterno ritorno, la volontà di potenza, il complotto dei forti dell’avvenire e l’oltreuomo. Proprio per questo motivo l’edizione critica di Colli e Montinari ha permesso a Klossowski di coronare un sogno: poter finalmente studiare in profondità i frammenti del periodo 1887-1888, cioè i testi che ruotano intorno al circulus vitiosus deus, da Al di là del bene e del male fino ai «biglietti della follia». La duplice alleanza di Klossowski, da una parte gli italiani Colli e Montinari, dall’altra i francesi Deleuze e Foucault, cementata già a partire dal convegno di Royaumont del luglio ‘64, gli permette di portare a maturazione una serie di analisi sui temi forti nietzscheani iniziate già nel 1936-37 e approdate poi agli anni ‘60. Il punto d’arrivo definitivo del suo impegno di studi sarà Nietzsche e il circolo vizioso, pubblicato nel 1969, con l’importante reprise dell’intervento al convegno di Cerisy-la-Salle del luglio 1972 intitolato Circulus vitiosus, che può essere considerato il punto più alto del suo commento riguardo la «comunità occulta e inafferrabile dei creatori». Circulus Vitiosus è il momento ideale e simbolico di «passaggio del testimone» dalla generazione di filosofi nietzscheani degli anni ‘30, ai nuovi anti-filosofi formatisi negli anni ‘50 e ‘60, in «libera uscita» dalle schematicità marxiste e strutturaliste: sarà la generazione di Foucault, Deleuze, Lyotard, Derrida. Il commento di Klossowski sul Nietzsche del 1887 è tanto più «inequivocabile» quanto più analizza i frammenti «equivocati» dai nazisti negli anni ‘30, ovvero il grappolo dei tre testi postumi, tra cui I forti dell’avvenire, che formano il nucleo possente dell’esegesi presentata in Nietzsche e il circolo
vizioso (NCV [ II ], 217-21).13 Infatti, se non leggiamo il testo nietzscheano con l’ottica parodiante che gli è propria e che informa tutti i testi nietzscheani riferenti alla «grande politica», il frammento letto à la lettre risulta quantomeno sinistro e si presta a grandi equivoci; o come afferma Klossowski, si tratta di “superare la strana sensazione che suscitano inizialmente alcune affermazioni di Nietzsche” (CV, aut-aut n. 267-268, 59). Nel frammento dell’autunno del 1887, I forti dell’avvenire, Nietzsche afferma che il processo di livellamento dell’uomo europeo, un po’ per caso, un po’ per «necessità» - da questa pseudo-necessità del tutto illogica Klossowski ne deduce il carattere parodistico del frammento - produrrà un nuovo tipo di «uomini superflui», i forti dell’avvenire, grazie a una sorta di selezione, sperimentabile da una «ricchezza di forze», il cui scopo non sarà il bene della società, bensì il bene del futuro. Klossowski chiarisce che il pensiero e “il metodo adatto alla creazione di «piante rare e singolari» (una «razza» con «una sfera di vita a sé», svincolata da qualsiasi imperativo di virtù) consista nel mettere a parte, nell’isolare un gruppo umano: questo carattere sperimentale del progetto - irrealizzabile - se non si identificasse con l’intenzione stessa di un complotto - dato che nessuna «pianificazione» potrebbe mai prevedere «serre» di tale genere - in qualche modo dovrebbe iscriversi e lasciarsi guidare dal processo stesso dell’economia” (NCV [II], 225). Ma l’economia di ogni società, qualora un qualsiasi gruppo di «sperimentatori» riuscisse a conquistare il potere, avrebbe come suo primo compito la distruzione di ogni «serra» contenente i germogli di piante rare 33
e singolari, dato che il costo dell’eliminazione sarebbe sicuramente inferiore alla loro coltivazione, considerando in questa prospettiva anche i costi futuri di ogni sradicamento sistematico di eventuali comunità non assimilate ai valori di una «economia» di scala che si ripresentassero cadenzate di generazione in generazione, e il cui obiettivo politico diverrebbe, di volta in volta, il rovesciamento degli sperimentatori a capo della società. Ecco che, tramite il frammento 9 [153], si presenta per Klossowski - e per Deleuze e Foucault che convergono su questa lettura - una grande opportunità etica: “la sfida anticipata a qualunque morale industriale le cui leggi di produzione danno una cattiva coscienza a chiunque viva nel non-scambiabile”, mentre queste stesse leggi industriali “non tollerano a loro volta nessuna cultura, nessuna sfera di vita che non sia integrata o aggiogata in qualche modo alla produzione generale” (NCV, 226). Ed ecco il cuore del «complotto anti-sistema» che Klossowski attribuisce al Nietzsche «accelerazionista» dei forti dell’avvenire: “A tale impresa di intimidazione degli affetti, che Nietzsche misura in tutta la sua vastità, egli contrappone come una minaccia i propri progetti di selezione, i quali devono assicurare il momento propizio per coltivare clandestinamente le piante rare, singolari, e sicuramente velenose, che stanno per sbocciare dagli affetti come una insurrezione contro qualsiasi imperativo di virtù” (NVC, 226). Si delineano così i fronti etici e morali delle forze che si contrappongono: da un lato i gregari assimilati e produttivi a cui l’«economia gestita a livello planetario» assegna il compito giornaliero di realizzare quel segmento di sovranità
proprio, minuto, indispensabile all’aggregato totale della laboriosità sociale e che risiede, in modo più profondo, non solo nella quantitas e nella efficientiam, ma nella «regolarizzazione» di ogni tipo umano; dall’altro lato gli inassimilabili, i «liberi come il vento», che Klossowski dipinge come “una comunità segreta, inafferrabile, la cui azione può imperversare in qualsiasi regime. Soltanto una simile comunità sarebbe in grado di distruggere la propria azione nel momento in cui la progetta, mentre si distruggerebbe fatalmente a sua volta qualora la realtà gregaria s’impadronisse del suo segreto a titolo istituzionale” (CV [aut-aut n.267-268], 59). La forza imprevedibile delle generazioni: il codebreaking inizia nelle culle
A questo punto potrebbe sorgere di nuovo il dubbio: ma è proprio questa «specie improduttiva e creativa» sull’asse Nietzsche-Klossowski che Deleuze e Guattari stanno proponendo come forza insurrezionale nel processo accelerato della produzione desiderante che tutto decodifica e nomadizza? La nostra risposta è sì, attualizzando però gli inassimilabili allo scenario occidentale del tardo ‘900: lo possiamo accertare, con estrema esattezza, in un altro punto essenziale del pensiero di Deleuze, e precisamente in Pensiero Nomade che, ricordiamolo, è stato scritto solo dopo 4 mesi dall’uscita in libreria dell’Anti-Edipo (marzo e luglio 1972), per cui gli è immediatamente successivo: “Dinanzi a società come le nostre, che si decodificano e i cui codici fanno acqua da tutte le parti, Nietzsche non tenta di
34
ricodificare. Dice invece: tutto ciò non è abbastanza, siete ancora dei bambini (il «livellamento» dell’uomo europeo è il grande processo che non si deve ostacolare: bisognerebbe accelerarlo ancora di più14»). Scrivendo e pensando a modo suo, Nietzsche svolge un’opera di decodificazione: non di decodificazione relativa, volta a decifrare tutti i codici antichi, presenti e futuri, ma di decodificazione assoluta - vuole far passare qualcosa che non sia codificabile, vuole guastare tutti i codici. Non è facile guastare tutti i codici, anche sul piano della semplice scrittura e del linguaggio» (NF-PN, 312). A parte la santificazione del codebreaking, possiamo rilevare nel testo deleuziano tre fatti: 1) la citazione dal frammento accelerazionista di Nietzsche è più sostanziosa rispetto all’Anti-Edipo in quanto ne riprende in modo esaustivo e corretto la frase centrale così come tradotta da Klossowski il «livellamento» dell’uomo europeo è il grande processo che non si deve ostacolare: bisognerebbe accelerarlo [il traduttore italiano Giametta usa il verbo affrettare] ancora di più» -; nel passaggio accelerazionista dell’Anti-Edipo il fraseggio era intercalato da un’altra citazione da Nietzsche, come abbiamo appurato nel D.13.1., ed è così posta: “Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, «accelerare il processo», come diceva Nietzsche” (AE, 272); 2) in Pensiero Nomade si rende evidente la discrepanza tra il significato dell’«accelerare il processo» tra Nietzsche e Deleuze e Guattari e questo va spiegato; 3) la frase che Deleuze utilizza per introdurre il testo nietzscheano: “[Nietzsche] Dice invece: tutto ciò non è abbastanza, siete ancora dei bambini” rende ancora più enigmatico il senso del passaggio accelerazi35
onista dell’Anti-Edipo. Se l’utilizzo consapevole del frammento accelerazionista di Nietzsche è a questo punto acclarato da questa seconda citazione più estesa da parte di Deleuze, nondimeno il significato del passaggio di “quale via rivoluzionaria intraprendere” non ha guadagni particolari. Dei tre fatti elencati che discendono da Pensiero Nomade, il primo è del tutto evidente mentre gli ultimi due vanno spiegati. Affrontiamo la discrepanza tra accelerare il processo nella versione di Nietzsche e in quella forgiata da Deleuze e Guattari. Il Nietzsche «politico» pensa - secondo la lettura di Klossowski - che un’eventuale “società segreta, [sarà] composta da sperimentatori, sapienti e artisti (…) cioè da creatori che sapranno agire in nome della dottrina del circolo vizioso e che ne faranno la condizione sine qua non dell’esistenza universale” (CV [aut aut n. 267-268], 59). Alle spalle di questa comunità di singolarità marchiata dalla non-scambiabilità c’è però un’inarrestabile legge economica che conduce alla «gestione totale della Terra» e alla «pianificazione planetaria dell’esistenza». Nulla di tutto questo è all’orizzonte del pensiero espresso dall’Anti-Edipo: si tratta viceversa di un messaggio di «speranza attraverso il conflitto». Il secolo delle rivoluzioni si è realizzato, forse oltre ogni previsione di Nietzsche; e nonostante tutti i tradimenti che le rivoluzioni hanno subito, ritracciandole in modo fulmineo nell’alveo del livellamento economico generalizzato, nondimeno esse hanno dimostrato che proprio da lì, da quel carico enorme di accumulazione di energia/desiderio si formano quegli eventi di rottura che, soli, producono quella differenziazione che Nietzsche
attribuisce alle “serre” del Circolo Vizioso, e Deleuze e Guattari all’evento rivoluzionario. Il delirio affermativo dei codebreakers nomadi che accelerano il processo di destituzione dei codici e dei territori tramite la produzione schizo-desiderante, sostituisce nell’anti-filosofia di Deleuze e Guattari la figura del cospiratore forte dell’avvenire, figlio di quel «surplus» economico-sociale che Nietzsche individua nella sua parodia della dominazione livellante della logica industriale. Riguardo l’ultimo mistero da chiarire - “tutto ciò non è abbastanza, siete ancora dei bambini” - osserviamo l’accenno marcato di Deleuze a una paternale parodistica verso l’«incanto fanciullesco velenoso» nel processo di accelerazione dei «comportamenti deliranti» dei sediziosi a venire. Dobbiamo ricorrere all’esegesi testuale di Klossowski per rendere intellegibile il senso della frase - tanto per rimarcare il potente contagio e lo stretto intreccio tra il pensiero anti-edipico e la riflessione complottista della comunità segreta degli sperimentatori. Klossowski, commentando il frammento 9 [153] I forti dell’avvenire, ritiene che un «carattere particolare» dei sediziosi improduttivi dipenda esclusivamente dalla «forza imprevedibile» delle generazioni: “la potenza di propagazione della specie già si rivolge contro lo strumento che l’ha moltiplicata: lo spirito industriale, il quale elevando la gregarietà al rango di unico supporto dell’esistenza, avrebbe dunque generato da sé i propri distruttori. Nonostante le apparenze, la nuova specie, «abbastanza forte per non aver bisogno della tirannia dell’imperativo della virtù», non regna ancora; e, a meno che non stia già preparandosi a ciò
sui banchi di scuola, forse le cose più temibili che essa porterà sonnecchiano ancora nelle culle” (NCV [II], 226-27). Quale terrore e quale minaccia maggiore per i gregari di qualsiasi epoca, il pensare di allevare una «generazione-serpe» e di venir abbattuti dai propri figli per motivi a loro crudelmente oscuri! Ecco il senso del riso nietzscheano, il “riso dionisiaco”: “Capita spesso a Nietzsche di trovarsi di fronte a una cosa che ritiene disgustosa, ignobile, vomitevole. Ebbene, questo lo fa ridere, e se fosse possibile la renderebbe ancora più tale. Ancora uno sforzo, dice, non è ancora abbastanza disgustosa”. Il riso dionisiaco si accoppia qui con l’astoricità della previsione minacciosa. Ecco il senso della frase deleuziana, che muove dall’impersonale nietzscheano, la sua «controfilosofia» che enuncia le enigmatiche macchine da guerra periferiche (NF-PN, 321): “le bestie bionde che sopraggiungono come un destino, senza un motivo, una ragione” si accoppiano con “la nuova specie di distruttori che sonnecchia nelle culle”. Qui Deleuze ha buon gioco nell’affermare: “In tal senso, forse, Nietzsche proclama di dare avvio a una politica nuova che Klossowski interpreta come un complotto ai danni della sua stessa classe -” (NF-PN, 321). In verità vi dico: non abbiamo ancora visto nulla
Passiamo ora all’ultima frase del passaggio «accelerazionista» della Macchina capitalistica civilizzata - “in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla”; qui dobbiamo effettuare un salto all’indietro nel tempo, e valutare di nuovo come nell’intreccio della «comunità nietzs36
cheana rivoluzionaria» ci siano sempre dei concatenamenti e dei rimandi continui, come un dialogo interno con temi e nodi, ora lasciati in sospeso, ora in auge e poi sviluppati. Ci dobbiamo installare, come punto privilegiato d’analisi, nell’intervento che Michel Foucault effettua nel luglio del 1964 a Royaumont, nel primo dei seminari su Nietzsche organizzato da Deleuze: si tratta del celebre Nietzsche, Freud, Marx (FD, 137-146).15 E’ un intervento che riguarda le tecniche di interpretazione in Marx, Nietzsche e Freud ma, a causa di una indubbia convergenza temporale, contribuisce a creare con Paul Ricoeur, pur nella loro radicale differenza16 - quella definizione divenuta celebre di «maestri del sospetto» che sarebbe rimasta appiccicata ai tre autori fino ai giorni nostri. Sostanzialmente Foucault argomenta che Marx, Freud e Nietzsche “hanno fondato da zero la possibilità di una ermeneutica” (FD, 139). Le opere dei tre autori hanno inferto una profonda ferita al pensiero occidentale in quanto lo hanno posto di fronte a nuove tecniche interpretative; ciò “ha messo [noi occidentali] in una posizione scomoda, perché queste tecniche di interpretazione riguardano noi stessi, visto che noi, gli interpreti, abbiamo cominciato a interpretarci con queste stesse tecniche” (FD, 139). D’altra parte, se queste tecniche sono necessarie, lo sono perché il linguaggio è sospetto. «Sospettare il linguaggio» significa che il linguaggio “vuole dire altro [da] ciò che esprime” e “che ci sia linguaggio altrove che nel linguaggio” (FD, 138). Per Foucault ci sono quattro caratteristiche della nuova ermeneutica che sono alla base del sistema di interpretazione al quale, ancora oggi, apparteniamo: profondità
intesa come esteriorità, incompiutezza, preminenza in rapporto ai segni, infinita auto-interpretazione. Nell’intervento di Foucault, c’è però un’istanza più profonda che Deleuze coglie e fa sua nelle Conclusioni del convegno di Royaumont: “la ragione più generale per la quale ci sono tante cose nascoste, in Nietzsche e nella sua opera, è di ordine metodologico. Una cosa non ha mai un unico senso. Ogni cosa ha più sensi che esprimono le forze e il divenire delle forze che si agitano in essa. Anzi, non c’è la «cosa», bensì soltanto delle interpretazioni e la pluralità dei significati. Interpretazioni che si nascondono in altre, come maschere incastrate, linguaggi inclusi gli uni negli altri. Foucault ce l’ha mostrato: Nietzsche inventa un concetto nuovo e dei nuovi metodi di interpretazione. (…) Alla logica si sostituisce una topologia e una tipologia: ci sono interpretazioni che presuppongono una maniera bassa o vile di pensare, di sentire e perfino di vivere, altre che testimoniano di una nobiltà, generosità, creatività…, così che le interpretazioni denunciano innanzitutto il «tipo» di colui che interpreta e rinunciano di fronte alla questione «che cosa?» per promuovere quella del «chi?»” (DM, 14-15). Contro gli intellettuali del suo tempo che accomunano i tre supposti maestri del pensiero occidentale in una riflessione irenizzata, insorge Deleuze in Pensiero nomade, stigmatizzando di abominevole sintesi tale postura intellettuale: “Si ritiene che all’alba della nostra cultura contemporanea stia la trinità Nietzsche, Freud, Marx. Poco importa che siano stati anzitempo disinnescati” (ID, 320). Chi ha portato avanti questa operazione e con quali fini? L’operazione di disin-
nesco, per Deleuze, è stata resa possibile dalla filosofia contemporanea - nello stesso momento in cui ha assunto i contorni di uno spiritualismo rinascente - e dall’ermeneutica, soprattutto quando insieme effettuano una deformazione tale delle nozioni di «senso» e «valore» che resuscitano l’Essenza, ritrovando in questo modo tutti i valori religiosi e sacri (ID, 169). Per Deleuze permangono delle ambiguità nell’utilizzo della Trinità: “Che la filosofia contemporanea abbia trovato la fonte del suo rinnovamento nella trinità Nietzsche-Marx-Freud è già di per sé molto ambiguo, molto equivoco. Deve infatti essere interpretato sia negativamente che positivamente. Dopo la guerra, per esempio, sono fiorite varie filosofie dei valori. Si parlava molto di valori, si voleva sostituire l’«assiologia» all’ontologia e alla teoria della conoscenza… Non però in maniera nietzscheana o marxista. Al contrario, di Nietzsche o Marx non si parlava affatto, non erano conosciuti, non li si voleva conoscere. Si considerava il «valore» come luogo di una resurrezione per lo spiritualismo più astratto, più tradizionale: ci si richiamava ai valori per indurre a un nuovo conformismo, ritenuto più adatto al mondo odierno, come ad esempio, il rispetto dei valori, eccetera. Per Nietzsche, e anche per Marx, la nozione di valore è strettamente inseparabile: 1) da una critica radicale e completa del mondo e della società, basti vedere il tema del «feticcio» in Marx o quello degli «idoli» in Nietzsche; 2) da una non meno radicale creazione, la trasvalutazione di Nietzsche, l’azione rivoluzionaria di Marx. Era necessario, in questo dopo guerra, servirsi del concetto di valore: ma lo si è neutralizzato completamente, privandolo di ogni 37
senso critico o creativo, riducendolo a strumento dei valori stabiliti. Ecco allora l’Anti-Nietzsche allo stato puro, anzi, peggio che l’Anti-Nietzsche, il Nietzsche deviato, annichilito, soppresso, canonizzato” (NF-PN, 298-99). C’è però un’ulteriore precisazione, ai nostri fini decisiva, che Deleuze esplica con un’insolita durezza in Pensiero Nomade: “Ma anche concesso che Marx e Freud siano l’alba della nostra cultura, Nietzsche è comunque tutt’altra cosa, è l’alba di una controcultura” (NF-PN, 310). Come abbiamo già rilevato nel precedente paragrafo Liberazione di tutte le maschere, i divenire marxisti e freudiani e le loro burocrazie producono instancabilmente delle ricodificazioni istituzionali e familiari. Su Nietzsche, invece, non è possibile ricodificare alcunché, anzi il suo pensiero è inutilizzabile a questi fini (ID, 320). Ecco dunque un primo motivo per cui “non si è ancora visto nulla”: se in Occidente si è ancora - 1972 al primo stadio di una «controcultura», libera dalle burocrazie che invece hanno sterilizzato la radicalità di Marx e Freud, ciò significa che essa muove ancora i primi passi e non ha ancora dispiegato i propri effetti. Il secondo motivo per cui “su questo capitolo, non si è ancora visto nulla” è strettamente legato al precedente, se assumiamo che la locuzione “su questo capitolo” sia da intendersi sul «capitolo» dell’accelerazione del processo, del “guastare” i codici e del “seguire i flussi che costituiscono altrettante linee di fuga nella società capitalista”: non si è ancora visto nulla poiché si è all’inizio di una consapevolezza rivoluzionaria figlia del nuovo modo di leggere Nietzsche, del pensiero della «comunità rivoluzionaria nietzscheana» francese, e del percorso delle forze sovversive
uscite dal Maggio 1968. Crono-itinerari brevi, divorati con grande celerità, ma nel 1972, ancora «novissimi». Dopo tutto, non si tratta di una generazione che, ignara, si prepara alla sedizione già nelle culle o sui banchi di scuola? Attenti alle culle, affermano dunque Deleuze e Guattari tra una risata delirante e il fosco augurio di un futuro minaccioso, la rivoluzione è in itinere, siamo all’inizio di una controcultura combattiva e consapevole. Come ogni lettore del presente saggio sa, quest’augurio destabilizzante non si è realizzato - nel breve periodo; ma chi può mai dire, come scrive Klossowski e come pensano Deleuze, Guattari e Foucault, che i forti dell’avvenire così come la comunità ombra di singolarità inassimilabili, non siano confusi tra la folla e che, dunque, l’uomo al silicio e il cospiratore nomade attendano nel non tracciabile e nell’impercettibile?
c a pi t ol o i i i
Per un’erotica della rivoluzione Soluzione del problema molecolare 4 e 5
Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine dell’errore più lungo; —Nietzsche, Crepuscolo degli idoli Il reale non è impossibile, è sempre più artificiale. —Deleuze e Guattari, L’Anti-Edipo
Il vagone freudiano e il treno marxista-leninista
Guattari con una fulminea battuta - “non potevamo accontentarci di agganciare un vagone freudiano al treno del marxismo-leninismo” (ID, 276) - posiziona, dislocando, gli autori dell’Anti-Edipo rispetto alla teoria del desiderio freudiano e alla teoria politica marxista. Il desiderio, per Deleuze e Guattari, non può essere la semplice somma di Marx e Freud, del marxismo e del freudismo: “I rapporti di produzione e i rapporti di riproduzione partecipano alla stessa coppia di forze produttive e di strutture anti-produttive. Si tratta di far passare il desiderio dalla parte dell’infrastruttura, dalla parte della produzione, e allo stesso tempo di far passare la famiglia, l’io e la persona dalla parte dell’anti-produzione. Questo è il solo mezzo per evitare che il sessuale resti definitivamente tagliato fuori dall’economico” (ID, 276). In risposta al quesito molecolare n.4, cioè al «come» una riflessione politico-filosofica aderente al reale riesca a coniugare la dimensione economica e il «piano» rivoluzionario in un disegno co38
erente, vanno individuati nell’opera di Deleuze e Guattari alcuni concetti che stanno alla base della configurazione del passaggio «accelerazionista» di La macchina capitalistica civilizzata. Bisogna quindi chiedersi cosa intendono Deleuze e Guattari per «economia», «valore», «moneta» e «soggetto rivoluzionario», dato che tutto lo svolgimento di La macchina capitalistica civilizzata oscilla tra queste quattro cardinalità; ma soprattutto come queste vengano lette alla luce dell’asse Nietzsche-Klossowski del frammento «accelerazionista» I forti dell’avvenire. Se nel frammento 10 [17] - (O, VIII/2, 113-14 - NCV, [II], 218-19) - un testo che Klossowski enuclea tra i frammenti «accelerazionisti» del Grande Processo Nietzsche presenta l’avvilimento dell’essere umano nel processo di livellamento in corso nella società industriale del XIX secolo, e ne mette in mostra i caratteri di «deficit», «spesa», «sfruttamento», «senso», «gestione», «ristagno», «lusso» e «consumo», utilizzando categorie strettamente economiche, vuol dire che ha chiaro in mente un concetto di «oikonomia» che travalica sia il concetto di economia liberale, il pensiero classico di Smith, Ricardo e, soprattutto, Mill, che la critica di economia politica che va costruendo il socialismo e, in particolare, il marxismo. Per Nietzsche la «macchina al servizio di questa economia», l’«enorme ingranaggio di ruote sempre più fini, sempre più sottilmente adattate» (O, VIII/2, fr. 10 [17]) produce un surplus e un movimento inverso all’esistente, il divenire-superfluo, che comporteranno - movimento e produzione - una comunità di uomini inassimilabili che sarà la futura forma superiore d’essere. La
prima considerazione di Klossowski, nell’intervento Circulus vitiosus, è relativa alla visione del «sovrappiù» di Nietzsche - il surplus, l’eccedente che altri, in differenti ambiti, chiamano plusvalore: “Il sovrappiù appartiene alla visione di Nietzsche ed è colto da lui come una caratteristica della nostra attualità: gli uomini del superfluo, coloro che creano fin d’ora e da sempre il senso dei valori dell’esistenza (considerazione assai paradossale da parte di Nietzsche), formano una gerarchia per così dire occulta, per la quale lavora la pretesa gerarchia degli attuali dirigenti. Sono costoro i veri schiavi, che svolgono il lavoro più penoso” (CV - aut-aut n. 267-268 - p. 62). C’è però un’altra conseguenza, ancora più clamorosa, che deriva dal confronto tra gregarietà e singolarità nel movimento economico della «errata selezione darwiniana», e dunque del libero gioco di specie e memoria, che Klossowski argomenta in tal modo in commento al frammento 10 [145] (O, VIII/2, p.180), sempre dell’autunno 1887: “Il caso singolo rappresenta sotto questo riguardo l’oblio delle esperienze anteriori, che sono state ormai assimilate dalle pulsioni gregarie al punto di diventare inconsce - e dunque di essere represse dalla censura imperante - o respinte invece come inassimilabili sia dalle condizioni d’esistenza della specie, sia dall’individuo all’interno della specie. Per Nietzsche, il caso singolo riscopre così, in modo «anacronistico», un’antica condizione di esistenza che si risveglia in lui solo perché la condizione attuale non corrisponde allo stato pulsionale che in qualche modo si è affermato
attraverso lui. Questo stato singolare, anacronistico solo rispetto al livello istituzionale della gregarietà, può dar luogo, a seconda della sua forza d’intensità, a una disattualizzazione dell’istituzione che viene denunciata anch’essa come anacronistica. Che ogni realtà in quanto tale si disattualizzi in rapporto al caso singolo, provocando un’emozione che condiziona il comportamento del soggetto fino a costringerlo all’azione, è un fatto capace di modificare il corso degli avvenimenti, secondo un circuito di possibilità che saranno assunte da Nietzsche come dimensione del suo pensiero; via via che ne coglie la periodicità nella storia, si disegna a chiare linee il progetto di un complotto sotto il segno del Circolo Vizioso” (NCV [II], 115-16). Chiese, eserciti, stati, quale di questi cani vuol morire?
Il commento di Klossowski al frammento di Nietzsche è pura dinamite. Presuppone che esista, tramite il gioco anarchico delle pulsioni, una frattura insanabile tra singolarità e gregarietà, anche a livello di istituzioni. I gruppi e le comunità inassimilabili procederanno, secondo il testo klossowskiano, a distruggere le istituzioni e formeranno delle nuove istituzioni che potranno essere qualificate come anti-gregarie, il che presuppone che potranno abiurare sia la copia riformata che il modello delle istituzioni stesse: l’istituzione-a-venire potrà essere una non-istituzione, oppure una post-istituzione, piuttosto che un’istituzione migliore, cioè riformata. L’essere anacronistici gli uni rispetto agli altri presuppone una differenza di «natura», una biforcazione tra 39
insiemi umani: qui a essere presa in esame è la specie, non la classe, non il triangolo famigliare inteso unità minima sociale. L’opposizione tra comunità abissalmente differenziate si basa sul processo evolutivo, e non su gerarchie di classi economiche, di valori morali o di fantasmi individuali o di gruppo secondo una triangolazione edipica: Nietzsche presuppone che oscure forze agiscano sulla natura umana attraverso una dottrina selettiva, l’Eterno Ritorno per Nietzsche, il Circolo Vizioso per Klossowski, grazie al criterio della volontà di potenza. La dottrina selettiva diventa, secondo questo schema, lo strumento per un complotto (CV, aut-aut n.267268, p.63): qui è del tutto evidente la centralità dell’anti-darwinismo di Nietzsche, in quanto le implicazioni selettive di dottrine, criteri e istanze pulsionali sono antitetiche alla teoria evolutiva del biologo inglese. Più che il dato biologico/ evoluzionista, a Deleuze e Guattari interessano le implicazioni che derivano dall’asse post-istituzione gregaria di Nietzsche-Klossowski: i gruppi-soggetto, utilizzando un termine caro a Guattari, o le comunità occulte di singolarità, per utilizzarne uno più vicino al sentire deleuziano, possono utilizzare le pulsioni affermative per rendere mortale ciò che alle formazioni gregarie può apparire immortale: la società gregaria e le sue istituzioni. Nell’Anti-Edipo, infatti, Deleuze e Guattari affermano: “Il polo rivoluzionario del fantasma di gruppo appare al contrario nella capacità di vivere le istituzioni stesse come mortali, di distruggerle o di cambiarle secondo le articolazioni del desiderio e del campo sociale, facendo della pulsione di morte una vera e propria creatività istituzionale.
E proprio qui infatti risiede il criterio almeno formale di distinzione tra l’istituzione rivoluzionaria e l’enorme inerzia che la legge comunica alle istituzioni in un ordine stabilito. Come dice Nietzsche, chiese, eserciti, stati, quale di questi cani vuol morire?” (AE, 67-68). La manifestazione di un delirio universale
Il discorso dell’adeguatezza delle lotte rivoluzionarie riappare là dove non dovrebbe, teoricamente, riapparire: all’interno del convegno su Nietzsche di Cerisy-la-Salle del luglio 1972. La diatriba coinvolge Klossowski, Deleuze, Lyotard e Derrida: siamo nel cuore del complotto sedizioso da parte della comunità rizosferica nietzscheana. Derrida ha posizioni politiche e filosofiche completamente differenti rispetto all’asse Nietzsche-Klossowski che comprende Deleuze, Foucault, Lyotard. Deleuze funge da intermediario tra il proprio gruppo e Derrida. Foucault e Derrida sono su posizioni conflittuali da tempo; Foucault non è però presente al convegno nietzscheano. Deleuze, al termine del proprio intervento «Pensiero nomade» a Cerisy-La-Salle, ha parole di elogio indirette per la decostruzione di matrice heideggeriana, e per il lavoro di Derrida, ma è altrettanto fermo nel dichiarare la propria alterità al progetto decostruttivista: “Quanto al metodo di decostruzione dei testi, so bene di che si tratta, lo ammiro, ma non ha niente a che fare con me. Non mi presento affatto come un commentatore di testi. Per quel che mi riguarda, un testo è solo un piccolo ingranaggio in una pratica extra-testuale” (ID, 330). Il confronto più diretto, a tratti aspro, avviene però dopo l’in-
tervento di Klossowski, Circulus vitiosus. Klossowski si era già soffermato in passato sul concetto di «parodia» nella filosofia di Nietzsche - Nietzsche, il politeismo, la parodia (1957) - ma nel dibattito che segue l’intervento klossowskiano la polemica tra filosofi divampa sul nodo Nietzsche - Marx e sull’interpretazione «politica» della filosofia nietzscheana rispetto alle «inquietudine attuali», cioè coeve al convegno e, dunque, riferibili all’anno caldo 1972. Il fatto di utilizzare Nietzsche ai fini della comprensione del presente, articola gli interventi filosofici nei riguardi dell’«autonomia» del pensiero nietzscheano rispetto alla politica contemporanea e alle eventuali coincidenze/divergenze tra «esigenze nietzscheane» e «prassi marxiste». Klossowski termina il proprio intervento riallacciandosi alla sedizione adombrata dall’accelerazione dei forti dell’avvenire nel celebre frammento ( fr. 9 [153] ): “Sotto il segno del circolo vizioso, il complotto contro Darwin indica «l’autonomizzarsi delle produzioni innanzi tutto patologiche», come condizione dello sconvolgimento di ogni rapporto tra le forze sociali contrapposte” (CV, aut-aut n. 267268, pg. 65). Per Klossowski, la sedizione proposta da Nietzsche è doppiamente delirante: primo, perché se il pensiero dell’eterno ritorno è la parodia di una dottrina, anche il suo risultato, la rivolta dei forti dell’avvenire, sarà una parodia e quindi la manifestazione di un delirio collettivo ancor prima che individuale; secondo, in una situazione di nichilismo realizzatosi cent’anni dopo la formulazione del «complotto» da parte di Nietzsche, il comportamento delirante può avere una sua efficacia nei confronti dell’attualità, quindi, nei confronti delle 40
forze che impongono il dominio della struttura selettiva dei regolarizzati; o, addirittura, il comportamento delirante degli irregolari è possibile che «costituisca, ormai, una resistenza efficace nei confronti di una determinata forza avversa». (CV, aut-aut n. 267-268, pg. 63). La sedizione dei deliranti può costituire un comportamento «universale» oppure è solo un fattore «contingente» del capitale? Qui la domanda klossowskiana è rivolta al Deleuze fresco dell’Anti-Edipo: è solo la schizofrenia del capitale a produrre il proprio agente sovversivo e caotico nel rivoluzionario delirante, oppure il delirio - cioè quella condizione umana che impone a ogni vissuto la demistificazione del proprio stile di vita e l’uscita dai limiti fissati dalla morale sociale - è un’invariante storica, una pratica produttiva universale di resistenza che trascende ogni epoca storica? La valorizzazione del delirio è generata esclusivamente dai progetti e dai processi di sovversione che si riproducono? La risposta affermativa ai quesiti di Klossowski equivale a riconoscere che tale valorizzazione delinea un soggetto vuoto che si ribella essenzialmente uscendo dal proprio sé identitario e stagnante, tramite un travaso perpetuo di vuoto/pieno, cioè di una metamorfosi continua della singolarità che ci indirizza verso l’accettazione della dottrina dell’Eterno Ritorno. La parodia come critica corrosiva e la «parodia della parodia»
Klossowski, oltre a proporre approfondimenti alla schiera di rizosferici nietzscheani capitanati da Deleuze sulla patologia del rivoluzionario delirante,
offre al convegno di Cerisy-la-Salle un altro importante argomento di discussione: le strategie e i nuovi modi di combattere che si possono desumere dai frammenti accelerazionisti di Nietzsche. Per Klossowski, Nietzsche “concepisce una nuova strategia e un altro modo di combattere. Mi sembra che andiamo sempre più - e qui mi richiamo a Deleuze - verso un’insurrezione anti-psichiatrica (…) cioè verso una specie di piacere nel diventare «oggetto d’indagine» degli psichiatri o dei medici; il caso patologico quindi si sentirà sempre più a suo agio nella misura in cui vivrà, s’imporrà, sconcertando l’indagine istituzionale in rapporto alla quale si produce” (CV, 68). E’ a questo punto che Derrida chiede a Klossowski spiegazioni in merito al passo appena citato: “Porrei però la stessa questione [la richiesta di precisare meglio] sui termini «sconcertare» e «parodiare». Lei ha suggerito che la parodia potesse diventare politica ed essere in fin dai conti sconcertante…” (CV, 69). Il confronto tra i due si fa ora più serrato, e val la pena seguirlo nella sua interezza: KL Nella misura in cui «politica» significa «strategia», «comportamento». DE Ma si può parodiare in qualunque modo? Non bisogna distinguere tra due parodie: da un lato una parodia che, col pretesto di sconcertarlo, fa il gioco dell’ordine politico vigente (il quale ama molto un certo tipo di parodia e vi trova la propria conferma); dall’altro una parodia che può effettivamente decostruire l’ordine politico vigente? C’è una parodia che segna effettivamente il corpo politico, in contrasto con una parodia che è invece una parodia della parodia, che si svolge alla superficie dell’ordine politico,
41
importunandolo al posto di distruggerlo?. KL Credo che «a lungo andare» niente possa resistere a questa parodia. DE Se si vuole «effettivamente» trasformare un ordine politico si può avere fiducia «nel lungo andare»? KL Il tempo necessario dipende dalla pressione esercitata e la pressione dipende di conseguenza da un contagio. Si aggiunge alla discussione Lyotard, finora rimasto in ombra: LY Per Nietzsche la parodia che Derrida chiama «parodia della parodia» consiste in una specie di risentimento verso il potere; essa non va oltre, è una condizione di mediocrità o debolezza nelle intensità. Per distinguerla dall’altra, credo che il criterio fondamentale sia legato alle intensità; ma non si può determinare in anticipo quale sarà l’effettività della parodia; per questo Nietzsche dice che ci vogliono sperimentatori e artisti, non persone che hanno un progetto e cercano di realizzarlo, questa è la vecchia politica, ma persone che fanno delle cose e vedono se c’è un’intensità che produce degli effetti.17 (CV, 69) Come si nota chiaramente, la rizosfera nietzscheana si schiera: Klossowski, Deleuze e Lyotard da una parte, a favore del delirio, della sovversione parodistica, delle pulsioni e delle sperimentazioni, siano esse sociali, politiche, artistiche, senza uno scopo prestabilito; dall’altra parte un Derrida quanto mai concreto, lucido, meno incline ai temi speculativi dei propri avversari-alleati concettuali, ma pur sempre ostile all’«ordine politico vigente». Si tratta di due posizioni rivoluzionarie, seppur distanti: quella più classica e incline al socialismo per Derrida; quella più eterodossa e movimentista favorevole al nuovo, all’insurrezione senza 42
vertici e mondata da ideologie usurate - in una frase, più incline alla rivoluzione acefala che si esprime tramite emissioni d’energia senza scopo né senso. Il problema dei problemi, per i teorici rizosferici, sarà come “ricondurre l’intenzione all’intensità” (NCV [II], 155). Nelle pagine dell’Anti-Edipo si trova una conferma molto netta dell’esautorazione del «progetto» e della conseguente «fase di realizzazione» da parte di Deleuze e Guattari: “Poi, soprattutto, non cerchiamo scappatoie dicendo che la schizoanalisi in quanto tale non ha rigorosamente alcun programma politico da proporre. Se ne avesse uno, sarebbe nello stesso tempo grottesco ed inquietante. Essa non si prende per un partito, e neppure per un gruppo, e non pretende di parlare in nome delle masse. Non riteniamo che un programma politico debba essere elaborato nell’ambito della schizoanalisi» (AE, 437). Come per i frammenti accelerazionisti di Nietzsche, il tema e lo sforzo dei rivoluzionari futuri saranno quelli del «come occupare» il testo dell’Anti-Edipo, di «come liberare il testo» affinché la sua meccanica e la sua energetica possano tornare utili alle lotte future: Chlebnikov docet. Il simulacro che rovescia contemporaneamente sia la copia che il modello
E’ a questo punto della discussione che interviene Deleuze, a chiudere e delimitare il campo analitico e speculativo legandolo alla più bruciante attualità: la giustizia popolare. Come è noto, il tema scottante dei «tribunali del popolo» era dibattuto all’interno del movimento rivoluzionario sin dal disastro minerario di Lens
del 4 febbraio 197018: le posizioni erano quanto mai marcate. Sartre e i maoisti della Gauche Prolétarienne erano favorevoli ai tribunali rivoluzionari, il GIP di Foucault e Deleuze e tutta l’area della rizosfera nietzscheana auto-organizzata erano contrari a qualsiasi contro-potere che ricalcasse gli stilemi sovietici e cinesi. Deleuze riassume a Cerisy-la-Salle le posizioni in essere, ricollegandosi al concetto espresso da Derrida riguardo la «doppia parodia»: “Alcuni hanno detto a grandi linee: la giustizia popolare consiste nel fare bene ciò che la giustizia borghese fa male; si istituisce dunque un tribunale parallelo, si giudica la stessa faccenda; è un tipo di parodia che può essere definita come la copia di un’istituzione esistente, con giurati, accusatori, avvocati, testimoni, ma che pretende di essere migliore e più giusta, più rigorosa del modello. Altri invece hanno posto il problema in modo completamente diverso, dicendo che la giustizia popolare, posto che esista, non procederà certamente attraverso il tribunale, poiché non sarà una copia che pretende di essere migliore del modello; essa sarà una parodia differente, che pretenderà di rovesciare, allo stesso tempo, sia la copia sia il modello, dunque una giustizia che non ha più a che fare con il tribunale. La parodia efficace, in senso nietzscheano o nel senso di Klossowski, non pretende di essere la copia di un modello, ma nel suo atto parodistico rovescia allo stesso tempo sia il modello che la copia. (…) E’ questo, mi pare, il criterio della parodia efficace in senso nietzscheano” (CV, 70). Questo esempio di pragmatismo a fronte di un problema contingente è paradigmatico della
«prospettiva» nietzscheana espressa nel frammento I forti dell’avvenire, delle potenzialità rivoluzionarie ivi insite (una quarta via rivoluzionaria, di cui il GIP di Foucault è certamente il progetto antesignano, rispetto al socialismo ufficiale, al comunismo maoista extra parlamentare, all’anarchismo) e dell’innovazione offerta dalle posizioni politiche espresse dalla linea Deleuze, Foucault, Klossowski, Nietzsche. Come si vede, la contrapposizione tra le due posizioni rivoluzionarie francesi non è contraddistinta, da parte della rizosfera nietzscheana, da modalità ideologiche, settarie, antagoniste; viceversa, è il dialogo a venire offerto a più riprese, pur nella comune contrapposizione frontale all’ordine politico vigente. La decisione della rizosfera è di stare «dentro» al movimento rivoluzionario in modo «aperto», anche se si criticano le principali organizzazioni e le principali teorie totalizzanti. Uno degli obiettivi della rizosfera è quello di evitare la deriva violenta, militare, autoritaria del movimento che sfocerà a breve, e solo in parte, nella lotta armata.19 Vogliamo qui ricordare che la posizione politica della rizosfera è condivisa anche da Guattari, su posizioni più vicine a un comunismo libertario anziché nietzscheano, nonché acerrimo antagonista di Serge e della GP, come si evincerà dalle pagine postume di Anti-Oedipus Papers; la crisi della GP e del maoismo francese diventerà nell’anno successivo, il 1973, irreversibile e porterà allo scioglimento del partito maoista francese e allo sbandamento definitivo dell’opzione comunista pro-cinese, nata in terra francese in funzione anti-sovietica. E’ probabile che i nodi legati allo scioglimento della GP siano tutti interni 43
all’organizzazione maoista, ma a noi piace pensare che un ruolo positivo, anti-ideologizzante, oppositore della violenza terrorista, sia stato effettivamente svolto dalla ristretta comunità filosofica militante guidata da Deleuze e Foucault: che questo ruolo benefico, pur nella sua «rara violenza» anti-sistema, sia stato marcato, innanzitutto, dall’Anti-Edipo e, in particolare, dal cuore rivoluzionario accelerazionista presente nel cruciale passaggio de La macchina capitalistica civilizzata. Pulsioni e affetti a favore di un’erotica insurrezionale
Proseguiamo ora verso il superamento, da parte degli estensori dell’Anti-Edipo, del conformismo marxista e freudiano imperante verso la fine degli anni ‘60 in Francia, e della loro proposizione di una deflagrante opzione erotica insurrezionale. Dal commento di Klossowski a Nietzsche del frammento 10 [145], Deleuze e Guattari traggono interessanti riflessioni, cioè che le pulsioni gregarie sono talmente introiettate a causa delle diverse ondate di regolarizzazione, da essere diventate inconsce, represse dal conformismo imperante, annichilendo in questo modo qualsiasi traccia preesistente di resistenza e diversità. Se si dovessero palesare tali pulsioni anti-gregarie, esse verrebbero respinte dalla società - il gruppo umano, la specie, nel suo complesso - e dall’individuo, inteso come esemplare all’interno della specie. Queste pulsioni antagoniste, qualora si affermassero nonostante la repressione subita dal sociale, significherebbero un nuovo «sì alla vita»; la poderosa azione di risveglio im-
plica un’uscita immediata dalla catatonia indotta dalla legge economica di omogeneizzazione. E’ dunque lo stato pulsionale a determinare nel singolo, per Nietzsche riletto da Klossowski, la riscoperta anacronistica di una condizione esistenziale primordiale. Questa rottura tra realtà differenziate, lo stato pulsionale come eccezione del singolo e la dimensione gregaria della forma sociale della civiltà europea delle economie di mercato, si riverbera a livello istituzionale, cioè sull’organizzazione relazionale che funge da snodo e interfaccia tra potere e singolarità. E’ l’emozione che risulta dal cozzare tra questi due disallineamenti di realtà discordanti, la realtà disattualizzata del singolo rispetto alla realtà gregaria, che influenza la condotta, costringe all’azione e provoca gli avvenimenti e il loro corso deviato. Ed è questo il punto in cui Klossowski e Nietzsche s’intersecano nuovamente con Deleuze e Guattari, alla ricerca di un grimaldello per rompere il concetto di «fantasma edipico di gruppo» elaborato dallo psicanalista viennese per riverberare sull’intero corpo sociale il «fantasma edipico famigliare», altrimenti detto «individuale». Scrivono infatti i due autori: “Klossowski ha ben mostrato a questo proposito il rapporto inverso che rompe il fantasma in due direzioni, a seconda che la legge economica stabilisca la perversione negli «scambi psichici» - le pulsioni di Nietzsche e Klossowski - o che gli scambi psichici al contrario promuovano una sovversione della legge: «Anacronistico, in relazione al livello istituzionale della gregarietà, lo stato singolare può secondo la sua intensità più o meno forte effettuare una disattualizzazione dell’istituzione stessa e de-
nunciarla a sua volta come anacronistica»” (AE, 68). Come si vede, Deleuze e Guattari citano direttamente il passo di Klossowski dal suo libro del 1969, Nietzsche e il circolo vizioso, definendo il senso della cardinalità tra istanze rivoluzionarie, istituzioni, società gregaria, legge economica e pulsioni erotiche delle singolarità: o le pulsioni-intensità provocano la sovversione della legge economica, o all’inverso è la legge economica che perverte le pulsioni e le intensità. Facciamo tesoro di questa divaricazione e impieghiamo il dualismo contrastato nel passaggio accelerazionista dell’Anti-Edipo: o il capitalismo dei flussi perverte il singolo salariato e cattura il capitalista - “gli economisti capitalistici non hanno torto nel presentare l’economia come se dovesse perennemente venir «monetizzata», come se bisognasse insufflarvi sempre dall’esterno della moneta secondo un’offerta e una domanda. Proprio così il sistema regge e funziona, e attua perpetuamente la propria immanenza. Proprio così è l’oggetto globale d’un investimento di desiderio. Desiderio del salariato, desiderio del capitalista, tutto pulsa dello stesso desiderio” (AE, 271) - e ciò avviene attraverso lo strumento della moneta come fiotto di liquidità-desiderio a getto continuo, rendendo entrambi gregari, il capitalista e il salariato, dalla connessione alla produzione, e alla sua rappresentazione affettiva, promossa dalla società di mercato - “ormai il profitto scorrerà a fianco del salario, tutti e due fianco a fianco” (AE, 271); oppure lo stato pulsionale prodotto dai soggetti rivoluzionari - la comunità di molteplicità non regolarizzate - sovvertirà i codici della società dominata dall’istanza operosa della moneta livella44
trice inserita nel cuore dell’economia le macchine politiche. O troveranno un universale governata dal desiderio. punto di congiungimento, come hanno già fatto finora in un certo sistema di adattamento ai regimi capitalistici, L’unità nomadica che rifiuta o troveranno una unità fracassante il dispotismo interno in un uso rivoluzionario. Non bisogna porre il problema in termini di primato Risolti i primi quattro enigmi ma in termini di uso, di utilizzazione “. molecolari, rivolgiamo la nostra anaLo stesso tema viene argomentato da lisi al quinto e ultimo quesito. ForGuattari nell’intervista a Michel-Anmuliamolo in modo diretto: qual’è, in toine Burnier per «Actuel», pubblicaultima istanza, il problema filosofita nel 1973 (ID, 339): “Ciò che conta co e politico urgente che si cela dinon è l’unificazione autoritaria, ma etro al passaggio «accelerazionista» piuttosto una sorta di dispersione dell’Anti-Edipo? La prima risposta, la all’infinito: i desideri nelle scuole, nelpiù lineare e pertinente al clima pole fabbriche, nei quartieri, nelle sculitico dei primi anni ‘70, la troviamo ole materne, nelle prigioni, ecc. Non esposta a più riprese nelle opere e si tratta di conglobare, di totalizzare, negli interventi di Deleuze e Guattama di innestare su uno stesso piano ri del biennio 1972-1973. Citiamo, in basculante. Fino a quando restiamo ordine di importanza e per i risvolti nell’alternativa tra lo spontaneismo interni alla «comunità nietzscheaimpotente dell’anarchia e la codina rivoluzionaria», dall’intervento ficazione burocratica e gerarchica di Deleuze a Cerisy-la-Salle, Pendi un’organizzazione di partito, non siero nomade, nel luglio 1972 (PNc’è liberazione del desiderio”. SemNF, 322): “Il problema rivoluzionarpre nella stessa intervista, Guatio è attualmente quello di trovare tari, esplicita il tema reale dei conun’unità tra le diverse lotte locali trasti riguardanti l’organizzazione senza ricadere nell’organizzazione rivoluzionaria: “Troviamo ovunque dispotica e burocratica del partito lo stesso trucco: grande dibattio dell’apparato di Stato: è il probto ideologico in assemblea generlema di una macchina da guerra ale, mentre le questioni di organche non faccia più riferimento a izzazione vengono riservate alle un apparato di Stato, o di un’unità commissioni specializzate. Queste nomadica in relazione col fuori che sembrano secondarie, determinon si possa ricondurre all’unità nate dalle scelte politiche. Mentre dispotica interna“. Oppure, nell’ininvece i problemi reali sono quelli tervista concessa da Deleuze e dell’organizzazione, mai esplicitati Guattari a Vittorio Marchetti per né razionalizzati, ma che vengono «Tempi moderni» (ID, 300), intipoi proiettati in termini ideologici. tolata Capitalismo e schizofrenia E’ qui che sorgono le vere scissio(1972) in cui Deleuze articola il ni: il modo di trattare il desiderproblema nel modo seguente: “Il io e il potere, gli investimenti, gli problema è di sapere in che modo Edipo di gruppo, i fenomeni di si raggrupperà un certo numeperversione… Poi emergono le ro di «macchine» dotate di una opposizioni politiche: l’individuo possibilità rivoluzionaria. Per fa una scelta contro un’altra, esempio, la macchina letterarperché sul piano dell’organizia, la macchina psicoanalitica, zazione e del potere ha già deciso
l’avversario che odia” (ID, 335). Miserie della politica e non del Politico, si dirà. Non così Deleuze e Guattari, convinti fino in fondo che solo un nuovo tipo di organizzazione può dar vita a un nuovo tipo di politica: “L’organizzazione rivoluzionaria dev’essere quella di una macchina da guerra e non quella di un apparato di stato, quella di un analizzatore di desiderio e non di una sintesi esterna” (ID, 342). Fin qui siamo alle dichiarazioni d'intenti; ma nel caso in cui il lodevole tentativo non riuscisse, oppure la costituzione della macchina da guerra e dell'analizzatore di desiderio assorbisse troppo tempo ed energia, quali sarebbero gli scenari che si proporrebbero? Guattari non ha esitazione: "Da qui un dilemma molto semplice: o si arriva a un nuovo tipo di strutture che conducono finalmente alla fusione tra il desiderio collettivo e l'organizzazione rivoluzionaria; o si continua sulla strada attuale e, di repressione in repressione, si andrà verso un fascismo in confronto al quale Hitler e Mussolini sembreranno dei buffoni" (ID, 342). Di qui l’elezione del fascismo a nemico primo, l’«avversario strategico», dell’opzione etico-politica deleuziano-guattariana, così com’è evidenziato anche da Foucault nella celebre introduzione all’edizione americana dell’Anti-Edipo (1977): “Rendendo un modesto omaggio a San Francesco di Sales, si potrebbe dire che «L’Anti-Edipo» è un’ Introduzione alla vita non-fascista” (IVNF, 9). Per il filosofo di Poitiers, l’opera anedipica di Deleuze e Guattari ha il pregio di “dare la caccia a tutte le forme di fascismo, da quelle colossali, che ci circondano e ci schiacciano, fino alle minute forme che fanno l’amara tirannia delle nostre vite quotidiane”. Le parole di Foucault 45
sono il prodromo dell’analisi delle formazioni nero-brune in versione di fascismo molare e fascismo molecolare che comparirà nel secondo volume di Capitalismo e schizofrenia, Mille piani, nel piano intitolato 1933 Micropolitica e segmentarietà. Ritratto d’autore del rivoluzionario: lo schizofrenico guattariano
Lo scenario rivoluzionario tratteggiato da Deleuze e Guattari esclude qualsiasi classe di riferimento, qualsiasi organizzazione già sul terreno di lotta, qualsiasi macchina da guerra già esistente. Chi è allora il rivoluzionario dell’Anti-Edipo? A chi è rivolta l’opera? Le fisionomie dell’agente sovversivo sono tracciate a più riprese, sia da Guattari che da Deleuze, ma appartengono a due piani differenti, forse inconciliabili; e comunque l’intera opera anedipica è un sostanziale laboratorio sperimentale nel quale gli autori cercano di accordare le due tipologie di sediziosi che appartengono in realtà alle due dimensioni differenti dei loro universi concettuali. Nell’intervista rilasciata dal solo Guattari a Arno Munster per la «Neue Zeitung» nel 1972 - Colloquio a proposito di «L’Anti-Edipo» - sul tema dell’«identificazione tra analista, malato e militante», lo psicanalista parigino risponde: “Prima di tutto non si è mai detto: identificazione dell’analista con lo schizofrenico. Si dice che l’analista, come il militante e lo scrittore, come chiunque, sono più o meno impegnati in un processo schizo e si distingue sempre il processo schizo dalla schizofrenico da manicomio, il cui processo schizo, appunto, è bloccato o gira a vuoto. Noi non
diciamo che il rivoluzionario deve identificarsi con i pazzi che girano a vuoto, ma che essi devono far andare avanti le proprie azioni nel modo del processo schizo” (MD, 59). Secondo Guattari i «processi schizo» investono più figure già determinate e formalizzate prima del processo che le vedono coinvolte: il rivoluzionario, il capitalista, il militante, il borghese, lo scrittore, l’analista, lo schizofrenico internato etc. La preminenza è dunque data alla gradualità e alla progressione della costruzione del piano che tutto ammanta e travolge: per Guattari è il «piano dell’organizzazione». Un piano che “concerne contemporaneamente lo sviluppo delle forme e la formazione dei soggetti. Esso è quindi, quanto si vuole, strutturale e genetico” (C, 93-94). Seguiamo dunque il piano genetico-strutturale di Guattari, privilegiando sempre il punto di vista dei «processi da accelerare» e delle «vie rivoluzionarie» da intraprendere: “Lo schizofrenico è un tipo che per una ragione o per l’altra è entrato in connessione con un flusso del desiderio che minaccia l’ordine sociale. Subito questo interviene per far finire tutto ciò. Si tratta dell’energia libidinale, nel suo processo di deterritorializzazione, non dell’arresto di questo processo” (MD, 60). Lo schizofrenico guattariano è dunque un soggetto lontano dalla dimensione sociale del malato e del pazzo; esso si forma solamente al momento di una «connessione», cioè di un contatto, un urto, una collisione-investimento con un «processo desiderante», individuale o collettivo, nel cui centro propulsore insiste una «energia libidinale»; il soggetto schizofrenico nel suo sganciarsi dai territori di sicurezza e fondazione nel quale è ancorato come
soggetto formato, si trasforma e intraprende un percorso di metamorfosi, di de-soggettivazione e allo stesso tempo di neo-soggettivazione, che lo porta ad essere un «tipo» particolare di soggetto: un soggetto open code, nel quale sussistono brandelli precedenti di soggettività - il medico, il borghese, il proletario, il maschio, l’eterosessuale, il bianco, il sano, l’umano - a cui si vanno ad aggiungere - come arricchimento - nuovi estratti di soggettività - l’omosessuale, il femminile, il trans-genere, il malato, il pazzo, l’analista, il sedizioso. Un Oberdada ermafrodito con una coscienza politica. E’ questo soggetto «open code» che deve accelerare il processo di decodificazione della propria forma, della propria comunità e, per finire, della società a cui appartiene come vivente per aprire una nuova via rivoluzionaria che non potrà essere una copia delle rivoluzione del passato, già fallite. Seguiamo ancora Guattari in ciò che afferma nella stessa intervista: “L’analista, come il militante, deve muoversi con il processo e non mettersi al servizio della repressione sociale edipicizzante, dicendo per esempio: «Tutto ciò avviene perché hai una tendenza omosessuale anormale» (così si pretende d’interpretare il delirio del Presidente Schreber). O: «E’ perché in te la pulsione di morte non è fusa con l’Eros». La schizo-analisi si congiunge alla lotta rivoluzionaria in quanto si sforza al contrario di liberare i flussi, di far saltare i catenacci, le assiomatiche del capitalismo, le sovracodificazioni del Super-io, le territorialità primitive ricostruite artificialmente, ecc. Il lavoro dell’analista, del rivoluzionario, dell’artista, si uniscono per il fatto che hanno sempre da far saltare i sistemi che rei46
ficano il desiderio, che alienano il soggetto nella gerarchia famigliare e sociale ( sono un uomo, sono una donna, sono figlio, sono fratello ecc.)… Appena si dice «sono qualcosa» il desiderio è già strangolato” (MD, 60). Ecco chi è, secondo Guattari, il soggetto desiderante, lo schizofrenico inteso come agente sovversivo: un’entità accelerata allineata ai processi rivoluzionari ai quali aderisce nello stato metastabile di «deformazione permanente». Non esiste quindi un rivoluzionario ideal-tipico, lo «schizo», ma sempre e solo connessioni individuali e di gruppo in processi schizorivoluzionari. Servono processi rivoluzionari sperimentali, non soggetti rivoluzionari confezionati dall’ideologia. Coerentemente a queste assunzioni, Guattari, si esprime a favore di un “riformismo permanente dell’organizzazione rivoluzionaria. Servono più dei fallimenti ripetuti o dei risultati insignificanti che una passività ebete davanti ai meccanismi di recupero” (MD, 61). La sedizione delirante della «grande politica»
Per articolare al meglio la figura del rivoluzionario chez Deleuze dobbiamo effettuare un salto all’indietro nel tempo, rispetto al periodo delle lotte degli anni ‘60 e ‘70. Nel maggio del 1957 Deleuze assiste al Collège de Philosophie di Parigi a una conferenza di Pierre Klossowski intitolata Nietzsche, le Polythéisme et la Parodie. Klossowski è reduce da un intenso periodo di studi nietzscheani, culminati nella pubblicazione di Le Gai Savoir (1954): la sua traduzione è ritenuta dall’intera comunità nietzscheana francese «magistrale».
All’interno del celebre testo del 1957 c’è un passaggio che ci preme evidenziare perché Klossowski contrappone, attraverso la figura dell’«attore interprete di una rivelazione divina», istituzioni catecontiche e creazione artistica antinomica, inondante e perciò accelerata. Val la pena leggere tutto il passaggio klossowskiano nella sua completezza: “L’arte ha un senso assai vasto e, in Nietzsche, questa categoria comprende tanto le istituzioni quanto le opere di creazione disinteressata. Per esempio - e qui vediamo subito di che cosa si tratta - come ha considerato Nietzsche la Chiesa? La Chiesa è per lui costituita, più o meno, da una casta di impostori profondi, i preti. E’ un capolavoro di dominazione spirituale e c’è voluto un plebeo come quel monaco impossibile che è Lutero per pensare di abbattere questo capolavoro, l’ultimo edificio della civiltà romana che ci resti. Tutta l’ammirazione che Nietzsche ha sempre tributato alla Chiesa, al papato, poggia proprio su quella concezione per cui la verità è un errore e l’arte, errore voluto, è superiore alla verità: perciò Zarathustra confessa la sua affinità con il prete e, nella quarta parte, al momento dello straordinario raduno dei diversi tipi di uomini superiori nella caverna di Zarathustra, il Papa, l’ultimo dei Papi, è fra gli ospiti d’onore del profeta. E in questo senso, penso, ancora una volta si tradisce in Nietzsche la tentazione di prevedere una classe dirigente di grandi meta-psicologi destinati a prendere nelle loro mani i destini dell’umanità futura in quanto perfettamente esperti delle diverse aspirazioni dell’umanità e delle risorse per soddisfarle” (SF, 26). Come si può notare, già in questo testo l’autore fa balenare ciò che
diventerà poi evidente nella sua opera del 1969, Nietzsche e il circolo vizioso, e nella traduzione dei Frammenti postumi 1887-1888 di Nietzsche (1976), ovvero che negli anni ‘80 dell’Ottocento Nietzsche stava iniziando a sistematizzare una concezione di «grande politica» che avesse per tema il circuito artistico, le istituzioni, le caste dominatrici, le masse gregarie e quell’oikonomia che si poteva concedere il lusso di un «surplus» di risorse per finanziare questa peculiare volontà di potenza. Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, è solo attraverso l’edizione critica di Colli e Montinari che Klossowski appaga la propria implacabile sete di conoscenza in merito all’enigmatico «complotto politico, economico, istituzionale» dei forti dell’avvenire. Deleuze, nella sua lettera del 19/12/1969 a Klossowski, già immerso nel cantiere dell’Anti-Edipo, afferma “Penso spesso a Voi, poiché ho appena riletto il Vostro «Nietzsche». La mia ammirazione è totale, immensa. L’ho riletto perché avevo bisogno di parlarne in un libro che sto attualmente componendo. (Ho la sensazione che le pagine in cui parlo di Voi, siano le migliori)” (LAT, pos. 1069-70). Deleuze, infatti, recupera proprio dal Nietzsche di Klossowski il concetto di accelerazione dei processi di una comunità di irregolari che guastano i codici. In tal modo rafforza e prolunga l’ipotesi cospirativa di Klossowski-Nietzsche, incistandola in profondità nelle lotte reali degli anni ‘70. Per meglio valutare questa nuova alleanza, è di assoluto valore lo scambio di riflessioni e di prospettive che i due filosofi effettuano nel dialogo aperto che segue la conferenza Circulus Vitiosus di Klossowski a Ceri47
sy-la-Salle nel luglio del 1972. Klossowski nel corso della conferenza riprende esclusivamente i due frammenti che già ha commentato nel libro del 1969, Nietzsche e il circolo vizioso, e che costituiscono il nucleo portante della sua opera: il 10 [17] e il 9 [153] - I forti dell’avvenire; è proprio leggendo I forti dell’avvenire, il 9 [153] che Klossowski afferma la centralità essenziale di tale testo definendolo come «il cuore del complotto» di Nietzsche (CV, 61). Penetrazione in profondità di un doppio cuore attraverso una doppia lettura: Klossowski rilegge il Nietzsche complottista alla luce del complotto schizo-nomade che Deleuze orchestra nel cuore accelerazionista dell’Anti-Edipo, cioè il passaggio finale di La macchina capitalistica civilizzata. Dopo la lettura del frammento 9 [153] Klossowski si domanda: “Che cosa diventa il comportamento nietzscheano, considerato nel contesto delle nostre inquietudini attuali, non più dal punto di vista della nozione di potenza ma dal punto di vista del circolo vizioso, inteso come figura di un giudizio nichilista formulato su qualsiasi azione?” (CV, 62). Le «inquietudini attuali», cioè il disagio giovanile, le lotte rivoluzionarie e la contrapposizione tra forze avverse, diventano la dimora per una riflessione sul «comportamento nietzscheano» rilevato però dal punto di vista del concetto dell’Eterno Ritorno - il circolo vizioso e non più dalla prospettiva del desiderio/volontà di potenza; tra le versioni dell’Eterno Ritorno a disposizione, Klossowski privilegia la «figura di un giudizio nichilista formulato su qualsiasi azione» - ovvero il peculiare atteggiamento parodistico che Nietzsche mantiene su tutto lo scenario della gestione econom-
ica planetaria e che acquista un suo particolare vigore e un’aggressiva baldanza nel periodo post-Zarathustra. “Ricorderò ancora una volta - afferma Klossowski ad un’attenta platea che comprendeva, oltre allo stesso Deleuze, Lyotard, Derrida, Calasso, Nancy, tra gli altri - l’evoluzione del pensiero dell’eterno ritorno. Questo pensiero, oggetto di contemplazione, diventa lo strumento di un complotto. E’ a partire da questo stadio che il dio circolo vizioso può essere concepito come la manifestazione di un delirio. Mi chiedo ora se questo comportamento possa diventare efficace in quanto figura delirante di un comportamento rivolto all’attualità, oppure se, in generale, ogni comportamento delirante costituisca ormai una resistenza efficace nei confronti di una determinata forza avversa” (CV, 63). Nietzsche, secondo Klossowski, passa da un puro atteggiamento contemplativo da osservatore biologico grazie alla scoperta della legge dell’Eterno Ritorno a un duro atteggiamento politico, cioè costruisce - utilizzando la terminologia deleuziana-guattariana - una propria macchina da guerra per trasformare la legge dell’Eterno Ritorno in un complotto che rovesci la dominazione attuale realizzatasi attraverso l’accentuato livellamento dell’uomo industrializzato. Ma perché il complotto è delirante? Per due motivi: il primo perché solo la doppia parodia del modello sociale vigente e del suo simulacro è sovvertitrice realmente di tutti i codici - la parodia e il delirio sono le critiche più potenti al potere, e paradossalmente anche le più politiche - in quanto deriva dal giudizio nichilista su qualsiasi azione politica, giudizio reso come riflessione ponderata e già acquisita; il sec-
ondo è legato alla concezione di «delirio» secondo l’aspetto rilevato da Deleuze e Guattari nella lotta rivoluzionaria post-68 - “Il delirio è la matrice in generale di ogni investimento sociale inconscio. Ogni investimento sociale mobilita un gioco delirante di disinvestimenti, di controinvestimenti, di surinvestimenti” (AE, 315) - il che vuol dire che il «delirio» klossowskiano - il radicale uscire dai solchi di ciò che è «stabilito» - coincide con le polarità deliranti presenti nell’Anti-Edipo, intese come incubatrici delle origini sociali della «schizofrenia» deleuziano-guattariana; se è delirante ogni investimento sociale inconscio, lo sarà a maggior ragione una cospirazione ordita da una banda di dissidenti urbani inoperosi il cui scopo si realizza attraverso i mezzi del proprio manifestarsi. Si chiede Klossowski: può l’atteggiamento schizo-delirante raggiungere una propria efficacia nella situazione rivoluzionaria degli anni ‘70 e, allo stesso tempo, può avere un’efficacia di massima in ogni situazione che si verrà a determinare, così come sembra suggerire la legge «terroristica» del circolo vizioso? Il comportamento schizo-delirante che si presenta come forza affermativa, “resistente nei confronti di una determinata forza avversa” è contingente o universale? Si vede bene dove Klossowski vuol portare il punto della discussione: il processo schizo-rivoluzionario è solo la versione politica attualizzata del Circolo Vizioso, oppure esiste un’identità generale coerente, perentoria, tra Processo, Circolo e Ritorno? O, per parlare come Guattari, L’Anti-Edipo è una sorta di Eterno Ritorno Macchinico? Teniamo in sospeso queste domande e ritorniamo ora a Ceri48
sy-la-Salle, seguendo il confronto tra i filosofi rizosferici. Klossowski prosegue affermando che “il pensiero dell’eterno ritorno, che abolisce le identità e priva gli atti del loro contenuto, si combina dunque con la preparazione di un complotto che prevede praticamente alcune sperimentazioni. Secondo Nietzsche, chi vuole il fine vuole anche i mezzi. Ora, la sperimentazione è essenzialmente l’atto, il genere di atti, che si riserva il privilegio di fallire. Il fallimento di un esperimento rivela più del suo successo. A livello di pathos [cioè di intensità] fallimento e successo si confondono nel gioco permanente degli impulsi. La sperimentazione principale tende al successo pratico di un complotto che non si conclude col conseguimento di uno scopo, ma col manifestarsi di una condizione segretamente dominante da sempre, che è ricercata e perseguita come un preteso scopo” (CV, 64). Quante assonanze - e alcune divergenze - con il Guattari di Colloquio a proposito di «L’Anti-Edipo»: sperimentazione e desiderio, fallimento e intensità, scopi pretesi e condizioni di dominio. La liberazione del desiderio, l’accumulazione e poi il rilascio accelerato di energia rivoluzionaria, la rivolta contro la sovracodificazione dell’individuo, secondo Klossowski è un’attività sperimentale che non ha nessuno scopo, nemmeno il comunismo o l’anarchia; tale sperimentazione è solamente la manifestazione di un dominio segreto, il divenire senza scopo,20 frutto di un’intensità anti-gregaria, inassimilabile, libera da ogni codificazione futura e quindi senza istituzioni a venire. Qui c’è una marcata differenza dell’asse Klossowski-Nietzsche con Guattari: e con Deleuze? Per Klossowski, Nietzsche “dicendo «Chi 49
vuole il fine, vuole anche i mezzi», parla contemporaneamente su due registri: quello della gregarietà, quello del caso singolare; quello degli individui identici a se stessi e quello del caso fortuito; quello del senso comune e quello del delirio. Ma quanto s’intende a livello del linguaggio istituzionale è immediatamente smentito a livello del pathos. Il fine, cioè il delirio, è inscritto nei mezzi” (CV, 64). Per ottenere il delirio, inteso come divenire rivoluzionario, bisogna delirare, ma non sarà un delirio artefatto, pianificato, strutturato. Sarà solo l’intensità del delirio a ottenere un delirio abdicante il proprio scopo, da ciò lo status di “grottesco e inquietante” registrato dal pseudo-programma anti-edipico, qualora venisse realizzato (AE, 437). Ecco di nuovo presentarsi i due piani che non s’intersecano: il «piano di organizzazione», genetico-strutturale, a cui appartiene certamente Guattari, e il «piano di consistenza» - dove si compongono “rapporti di movimento e di riposo, di velocità e di lentezza, fra elementi non formati, relativamente non formati, molecole o particelle trasportate da flussi” (CO, 96) - al quale Nietzsche e Klossowski sicuramente sono affiliati. Di nuovo: e Deleuze? Secondo ritratto d’autore del rivoluzionario: il nomade rizomatico deleuziano
Seguendo l’Anti-Edipo abbiamo una visione del rivoluzionario schizo-delirante del tutto canonica, tipica di una certa controcultura degli anni ‘60-’70: “un tipo schizo-rivoluzionario, che segue le linee di fuga del desiderio, attraversa il muro e fa passare i flussi, monta le sue macchine e i suoi
gruppi in fusione nelle enclavi o alla periferia, procedendo al contrario del precedente [il paranoico-fascisteggiante]: non sono dei vostri, sono eternamente della razza inferiore, sono una bestia, un negro” (AE, 315). In realtà, altri passaggi attribuibili al solo Deleuze sono molto meno rassicuranti, anche per la controcultura del secondo Novecento: “I militanti rivoluzionari non possono non essere strettamente implicati dalla delinquenza, dalla deviazione e dalla follia, non come degli educatori o dei riformatori, ma come coloro che possono leggere soltanto in quegli specchi il volto della loro propria differenza” (ID, 254). Il sovversivo è dunque un simulacro prismatico che deve far propri i punti di vista anche del delinquente, del deviato e del folle, rilevando e problematizzando una doppia differenza: tra sé e la marginalità in cui si specchia, e tra i marginali fantasmati, di cui fa parte, e il resto del corpo sociale. E’ dall’elaborazione di queste differenze relative e assolute che la fisionomia del militante rivoluzionario acquisisce una propria singolarità deforme, in misura maggiore rispetto a una presunta vocazione antagonista che si auto-afferma in negativo rispetto alla «gente per bene» e che si costruisce come falsa contro-identità. Deleuze, però, ha una visione diversa sia dal piano trascendente guattariano, sia dalla controcultura dominante nel secondo Novecento: con Klossowski, egli pensa che Nietzsche “concepisca una nuova strategia e un altro modo di combattere” (CV, 68). Ma a differenza di Nietzsche, il rizomatico non è nichilista, crede nella rivoluzione come evento accelerato di trasvalutazione di valori; per questo se accetta il registro della parodia corrosiva, lo vira in positivo, cercando “nuove armi”. Questa nuova politica determina
un nuovo modo di lottare che non «rima» nel modo più assoluto con lo storico del movimento socialista del XIX e XX secolo. Per valutare le differenze tra le due proposte, vediamo di approfondire la nozione di complotto così come è rielaborata da Deleuze sull’asse Klossowski-Nietzsche. “C’è un tema - afferma Deleuze - che Klossowski ha sviluppato, mi sembra, contemporaneamente a quello della perdita d’identità: è il tema della singolarità, poiché le singolarità sono alla lettera delle non-identità. Stando a quanto afferma Klossowski, un complotto è una comunità di singolarità. Il problema diventa politico (in un senso nuovo o vecchio del termine, ha poca importanza) con la seguente domanda: come concepire una comunità di singolarità?” (CV, 73). Abbiamo qui, per la prima volta nella storia, l’individuazione di un nuovo modo di essere rivoluzionari, e un’ambiziosa proto-architettura della Connessione tra Ritmi di monadi eretiche, o frequenze intensive a-quantitative: una strategia, dei modi, delle non-identità, del tutto difformi a quanto sino ad ora espresso dalla Modernità, un rovesciamento della stessa natura dell’organizzazione sociale e, dunque, del concetto stesso di rivoluzione, a favore di un’euristica insurrezionale. Un tipo di rivoluzione che non riconosce come modelli utilizzabili le rivoluzioni precedenti, di cui interrompe la serie, e che non ha come scopo ultimo la conquista del potere. E, infine, un tipo di rivoluzione che è più vicina a un’«arte di vivere impersonale» piuttosto che a un’«arte della politica pura», come ha finemente scritto Foucault (Introduzione all’Anti-Edipo, 1977). “La cosiddetta società è una comunità di regolarità”, continua Deleuze a Cerisy-la-Salle “o, a rigore, un certo processo selettivo che accoglie delle singolarità 50
adeguatamente scelte e le regolarizza. Generalmente essa sceglie, per esprimersi in termini psichiatrici, delle singolarità paranoiche, poiché ciò si addice al funzionamento di una società. Ma un complotto è una comunità di singolarità di tipo differente, che non si lasciano regolarizzare, che partecipano a nuove connessioni, e che sono in questo senso rivoluzionarie” (CV, 73). Siamo qui nel vero e proprio cuore sia del frammento I forti dell’avvenire di Nietzsche sia del Pensiero nomade di Deleuze. E se il senso della frase di Deleuze “Ecco forse la massima profondità di Nietzsche (…) aver trasformato il pensiero in una macchina da guerra” (ID-PN, 329), acquista una sua pregnanza solo alla luce del frammenti accelerazionisti del 1887, la filosofia anedipica è la continuazione della stessa macchina da guerra con altri mezzi, adeguati alla propria epoca. Così, con gli occhiali dell’Anti-Edipo, il grande processo di regolarizzazione è il grande processo dell’oikonomia occidentale in quanto permette il funzionamento razionale di una comunità numericamente elevata di individualità assoggettate al mercato mondiale, unica modalità possibile, storicamente realizzata, che abbia permesso alla “specie umana di mantenersi a livello dell’uomo (…) mediante la produzione e (…) attraverso l’assurdità di un lavoro che riduce totalmente le sue risorse morali” (CV, 62). Ciò che risulta indecidibile e dunque non economizzabile è il legame che si può fondare tra singolarità irregolari: non già «istituzioni» ma bensì «connessioni». Il criterio selettivo dell’Eterno Ritorno - se la prospettiva impiegata è la biforcazione estrema di produzioni discrete di non-identità da macro-ripetizioni di identità omogenee - è plausibile solo in funzione di una doppia selezione di tipologie umane: l’es-
senziale come valore-massa, cioè una ratio funzionale alla forma assunta dalla società mercantile, e il surplus come valore-scarto, eccedenza, un plusvalore-singolarizzato, impersonale, disindividualizzato e perciò favorevole alla «formazione di società, di gruppi» (CV, 74). Per il filosofo parigino gli «uomini del surplus» “non si spostano e si mettono a vivere da nomadi per restare allo stesso posto sfuggendo ai codici” (ID-PN, 329). Il nomade, per Deleuze, é un centro mobile di forza, un incantato viandante con orizzonti inauditi, un viaggiatore immobile sui corpi collettivi. Rimane però un grande enigma. Sia i gregari che gli inassimilabili vivono e lottano all’interno di un macro-scenario di una iniquità deprimente e assurda. Come sciogliere questo nodo per i nuovi sediziosi? Come tessere la rete di punti d’individuazione o di nodi leggeri auto-organizzati all’interno della megastruttura sociale unificante, e come determinare che tale rete sia capace di reggere nel tempo le connessioni tra diversità?
c a pi t ol o i v
La moneta infinita: desiderio, valore e simulacro
Le verità sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. —Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale Per poter calcolare, abbiamo bisogno di unità, ma non per questo è da accettare che tali unità esistano. —Friedrich Nietzsche, Frammento 14 (79), Primavera (1888)
Sovvertire l’effetto frenante della totalità
Se esaminiamo le opere principali di Deleuze, Foucault e Klossowski tra il 1968 e il 1972 vediamo che le traiettorie di questi testi hanno oggettivamente le caratteristiche enigmatiche e comuni per essere qualificate come «ricerche frammentarie»; si tratta di indagini che a fatica si riescono a comporre e immaginare se le valutiamo da una prospettiva «rivoluzionaria» per cercare di comprendere su quale terreno comune di lotta e di programma agiscono i tre intellettuali. Si passa con un certo aplomb da saggi dal sapore accademico, lungimiranti e ricchi, quali Differenza e ripetizione o L’archeologia del sapere, alle opere ermeneutiche riguardanti Nietzsche - sia che si tratti di antologie di frammenti quali Nietzsche e il circolo vizioso, che delle prime edizioni delle sue Opere complete presso Gallimard - proseguendo per testi di critica letteraria o di 51
letteratura tout court quali Logica del senso o Le dame romane, per terminare con criptici saggi economici, La moneta vivente o pamphlet aggressivamente politici, L’Anti-Edipo; non parliamo poi dei corsi universitari, dove si spazia da Freud a Marx, da Aristotele a Nietzsche, dalla moneta greca all’Inquisizione nel Medioevo o alla storia della sessualità, senza soluzione di continuità. Con una certa ironia, Foucault stesso, nella prima lezione del 7 gennaio 1976 nel corso intitolato Bisogna difendere la società (MP, 163), vuole porre termine ad una serie di ricerche che egli stesso definisce come incoerenti e discontinue. Foucault sente la necessità di concludere e sistematizzare, in un qualche modo, gli innumerevoli percorsi di ricerche, intuizioni e approfondimenti che ha svolto fin dall’inizio delle lezioni al Collége de France (1970). Da un certo punto di vista, Foucault non parla solo delle sue ricerche ma allude anche a un percorso comune della rizosfera francese rivoluzionaria quando, tra le cose importanti o, almeno interessanti, degli ultimi quindici-vent’anni, elenca «l’efficacia di un libro come L’Anti-Edipo, che non si riferiva praticamente a nient’altro che alla sua stessa prodigiosa inventività teorica: libro, o piuttosto cosa, avvenimento che è riuscito a rendere rauco, sin nella sua pratica più quotidiana, il mormorio pure così a lungo ininterrotto che è passato dal divano alla poltrona” (MP, 165). Si tratta di una segnalazione importante ai propri studenti dato che l’opera filosofica di Deleuze è sempre stata un riferimento fondamentale per Foucault, in quanto si è costituita come apertamente «alleata» del suo pensiero fin dai primi anni ‘60, perlomeno dall’inizio della
«Nietzsche Renaissance» e, dunque, a partire dall’opera Nietzsche e la filosofia (1962) e il convegno di Royaumont (1964). Ciò che stupisce è l’importanza tributata da Foucault al testo anti-edipico poiché la sua analisi prende in esame i «dieci, quindici, al massimo venti ultimi anni», dunque il lasso di tempo che, grosso modo, va dal 1956 al 1976: non solo L’Anti-Edipo è l’unico libro citato, ma è il suo posizionamento all’interno del ragionamento svolto da Foucault stesso a stupire. Il libro viene infatti inserito nel merito della “stupefacente efficacia delle critiche discontinue, particolari e locali” e la sua efficacia viene paragonata a quella di interi movimenti quali l’anti-psichiatria, l’analisi esistenziale e gli attacchi contro l’apparato giudiziario e penale. Conclude Foucault: “Quel che emerge è la proliferante criticabilità delle cose, delle istituzioni, delle pratiche, dei discorsi: una specie di friabilità generale dei suoli, anche e forse soprattutto i più familiari, i più solidi ed i più vicini a noi, al nostro corpo, ai nostri gesti di tutti i giorni. Ma insieme a questa friabilità ed a questa stupefacente efficacia delle critiche discontinue, particolari e locali, si scopre in realtà qualcosa che forse non era previsto all’inizio, quel che si potrebbe chiamare l’effetto inibitore proprio delle teorie totalitarie, globali. Non credo che queste teorie globali non abbiano fornito e non forniscano ancora in modo abbastanza costante degli strumenti utilizzabili localmente: il marxismo e la psicanalisi stanno lì a provarlo. (…) In ogni caso, ogni ripresa nei termini della totalità, ha condotto nei fatti a un effetto frenante” (MP, 165-166). Seguendo lo schema di Foucault, e schematizzando a nostra volta, vengono messi in ev-
idenza due schieramenti contrapposti: da un lato, il fronte «accelerazionista», discontinuo, particolare, locale, dall’altro un fronte «inibitore», «frenante», continuo, globale, totale, se non apertamente totalitario. Il marxismo, la psicanalisi possono essere ancora degli strumenti che, a livello locale, possono essere utili, ma nei fatti, per Foucault, essi hanno svolto un ruolo «frenante» e, dunque, negativo per il fronte insurrezionale. L’Anti-Edipo, secondo Foucault, rientra a pieno titolo nell’insieme delle entità critiche che smottano i «suoli» con efficacia e che possiedono alcune caratteristiche che possono essere riassunte in tal modo: 1) produzione teorica autonoma, non centralizzata 2) ritorni di sapere che discendono dall’insurrezione dei saperi assoggettati. L’insurrezione dei saperi assoggettati
L’attenzione di Foucault viene diretta, nella lezione del 7 gennaio 1976, verso i ritorni di sapere che derivano da ciò che egli chiama «insurrezione dei saperi assoggettati». Per saperi assoggettati Foucault intende due cose ben precise: 1) i saperi che derivano da contenuti storici che egli ritiene sepolti e quindi passibili di una riscoperta riconducibile ad una ricerca «sontuosa» e, in un qualche modo, legata a una «caratteristica società segreta dell’Occidente» dai tempi dell’Antichità e cresciuta ai tempi del primo cristianesimo: la “grande, tenera e calorosa massoneria dell’erudizione inutile” con il suo tipico humour sottile Foucault introduce qui il proprio lavoro e quello dei complici rizosferici alla stregua di una variante contemporanea di lotta e 52
insurrezione della gnosi di derivazione alessandrina legata alla salvezza attraverso la conoscenza. La rizosfera francese sarebbe, seguendo questa maliziosa interpretazione anticristica-nietzscheana-accelerazionista foucaultiana, una sorte di neo-gnosi laica e rivoluzionaria che trasmette il proprio sapere e le proprie ricerche di generazione in generazione, nel nobile solco della tradizione ellenica-alessandrina. 2) i saperi che si suppone essere all’opposto dell’erudizione «polverosa e inutile» cioè i saperi squalificati, «bassi» - anche qui, presentati in modo sorprendente. In questa categoria di «saperi ingenui, gerarchicamente inferiori» perché senza i necessari requisiti scientifici e accademici, Foucault inserisce il sapere della gente comune, di strada - da non confondersi con il «senso comune» - quali il criminale, il folle, il malato, lo psichiatrizzato, il detenuto. Il sapere diretto dei marginali intrecciato con i saperi specifici dei lavoratori, degli operatori di settore, quali infermieri, medici, soldati, sarà un sapere senza «senso comune», un “sapere differenziale che non deve la sua forza che alla durezza che l’oppone a tutto ciò che lo circonda” (MP, 167). A Foucault non sfugge il paradosso di declinare nello stesso schema rizomatico dei saperi assoggettati, «la biblioteca e la strada»: eppure egli trova in questa differenza ben tracciata la forza essenziale della critica operata dai discorsi discontinui. Per Foucault si tratta del «sapere storico delle lotte»: “Nei settori specializzati dell’erudizione come nel sapere squalificato della gente giaceva la memoria degli scontri, quella appunto che fino ad allora era stata tenuta al
margine. E si è così delineato quel che si potrebbe chiamare una genealogia, o piuttosto delle ricerche genealogiche molteplici, insieme riscoperta meticolosa delle lotte e memoria bruta degli scontri. E queste genealogie, come accoppiamento di sapere erudito e del sapere della gente, non sono state possibili, e non si è nemmeno potuto tentarle che ad una condizione: che fosse cioè eliminata la tirannia dei discorsi globalizzati colla loro gerarchia e tutti i privilegi dell’avanguardia teorica» (MP, 168). Qui Foucault tenta una prima restituzione del suo progetto d’insieme in cui, generosamente, ingloba e allinea i componenti francesi della rizosfera e, in primis, proprio gli estensori dell’Anti-Edipo, nonostante la descrizione minuziosa dei «ritorni di sapere» si adatti perfettamente al proprio stile di ricerca, intrapreso fin dall’inizio dei corsi del Collége de France (1970) e portato avanti sino al termine del corso 1975-1976, prima dell’anno fatidico, il 1977, anno in cui un Foucault in crisi sospende il proprio corso. Si tratta dell’annus horribilis di Foucault, attaccato da più parti, tra cui ricordiamo il Dimenticare Foucault di Baudrillard, e l’inizio di una profonda riarticolazione di pensiero, analisi e prassi politica che porterà al successivo gelo con Deleuze e in pratica alla liquefazione della complicità sotterranea della comunità rivoluzionaria nietzscheana francese. Ciò che però appare prodigioso è il modo in cui Foucault lega il proprio lavoro di ricerca all’azione di lotta e critica dei compagni rizosferici accreditando la forza essenziale della critica e del «successo» di quegli anni proprio alla discontinuità e alla de-centralizzazione delle pratiche e dei discorsi che Klossowski, Deleuze e Guattari,
Blanchot e Lyotard, tra gli altri, ma in prima linea, hanno portato avanti. Per Foucault è possibile, nel 1976, definire questa critica: “Chiamiamo genealogia l’accoppiamento delle conoscenze erudite e delle memorie locali, che permette la costituzione d’un sapere storico delle lotte e l’utilizzazione di questo sapere nelle tattiche attuali” (MP, 168). Durante la stessa lezione, Foucault lega la genealogia alla lotta contro la presunta «scientificità» delle nuove scienze, il marxismo e la psicanalisi, ree di essere portatrici di «ambizioni di potere» nemmeno tanto celate e dunque alla ricerca degli «effetti di potere» che solitamente vengono assegnati dalle istituzioni alle scienze intronizzate. A questo proposito, per Foucault, “la genealogia sarebbe dunque, rispetto e contro i progetti d’una iscrizione dei saperi nella gerarchia dei poteri propri della scienza, una specie di tentativo per liberare dall’assoggettamento i saperi storici, renderli cioè capaci d’opposizione e di lotta contro la coercizione d’un discorso teorico, unitario, formale e scientifico. La riattivazione dei saperi locali - minori, direbbe forse Deleuze - contro la gerarchizzazione scientifica della conoscenza ed i suoi effetti intrinseci di potere: ecco il progetto di queste genealogie in disordine e frammentarie. Per dirla in due parole, l’archeologia sarebbe il metodo proprio dell’analisi delle discorsività locali, e la genealogia la tattica che, a partire dalle discorsività locali così descritte, fa giocare i saperi, liberati dall’assoggettamento, che ne emergono” (MP, 170). Un percorso a parte nel lavoro di Foucault, all’interno dei rapporti genealogia/archivio prima delineati, viene riservato alla moneta fin dalle prime 53
lezioni del corso inaugurale del 19701971, all’indomani del riemergere in Klossowski e Deleuze dei temi nietzscheani di volontà di potenza, formazioni di sovranità, pulsione e valore. Infatti, un primo assaggio della possente e innovativa capacità critica su questa prospettiva che ingloba desiderio/volontà di potenza/economia «rizomatica» universale/inconscio fisico e noologico arriva dal debutto autoriale di Deleuze e Guattari sotto il segno di Klossowski. La synthèse disjonctive è il titolo del primo articolo a firma congiunta: pubblicato nel terzo trimestre del 1970 sul numero monografico, il 43, della rivista L’Arc dedicato a Klossowski, il testo compare già come «estratto di un libro intitolato Capitalismo e schizofrenia». Lo stile di scrittura è già quello fantasioso, trasversale, aggressivo, umoristico e “genealogico” dell’Anti-Edipo. La synthèse disjonctive è un efficace preludio a una deflagrazione annunciata: Foucault ne intuisce immediatamente gli effetti collaterali sullo stile e sui contenuti della propria ricerca. Lo xeno-dollaro e la moneta come strumento del potere egemone
Agli inizi degli anni Settanta del ’900 il tema della moneta diviene primario all’interno della rizosfera. Grazie al differenziale-moneta, inteso come strumento principale a cui il sistema democratico liberale si rivolge per aggredire, ricomporre e poi regolarizzare le crisi economiche nazionali e internazionali, la comunità rivoluzionaria nietzscheana francese vuole costituire una nuova griglia analitica che riesca a superare la palude ideologica che an-
cora avvinghia una parte significativa della sinistra tradizionale e della nuova sinistra antagonista. Klossowski consegna alle stampe, come suo addio alle pubblicazioni e alla scrittura, un breve testo, denso ed enigmatico, La moneta vivente (1970), che presenta ai contemporanei più di un interrogativo critico al mondo industriale mercantile e allo strumento moneta, inteso come simulacro del vivente e agente lenitivo degli impulsi umani. Foucault saluta, in una lettera manoscritta all’autore dell’autunno 1970, il libro di Klossowski come «il più grande libro dei nostri tempi». E’ lo stesso periodo in cui, inizio 1971, Deleuze e Guattari freschi della stesura in itinere dell’Anti-Edipo frequentano le lezioni di Foucault al Collège. Il ruolo della moneta «imperiale» - il dollaro statunitense come valuta egemone - all’interno del sistema economico del mondo occidentale è all’apice della tensione e della polemica politica internazionale, così come il regime di cambi fissi di Bretton Woods. Nel dicembre 1969 l’inflazione negli Usa raggiunge il 6%. Nixon, non appena eletto presidente, è investito dalla predizione del proprio staff economico che la moneta americana ha solo due anni di tempo per salvarsi. Il mondo è pieno di xeno-dollari e le casse Usa non riescono a reggere l’aumento della massa monetaria denominata in dollari con il necessario ammontare d’oro teoricamente richiedibile, poiché il dollaro Usa è legato al cambio fisso con l’oro. Il picco della guerra con il Vietnam è raggiunto di lì a pochi mesi, nel 1971, così come le spese militari e il correlato deficit di bilancio. Gli Stati Uniti sono in recessione dal 1970, con la disoccupazione in crescita al 6%. Il problema posto dalla situazione econom-
ica interna è senza precedenti: l’inflazione è alta in una fase economica recessiva, anziché disegnare la classica doppia figura di recessione e deflazione, come nel corso della Grande Depressione del 1929. La situazione è pronta a sfuggire di mano. A fronte di una situazione economica imprevedibile, non corrisponde alcuna teoria accademica avente efficacia pragmaticamente accertata; si naviga a vista. Qualsiasi decisione tecnica può determinare parimenti la salvezza o il collasso della leadership commerciale mondiale, proprio nel momento della sfida più alta portata dal movimento comunista internazionale al capitalismo industriale di matrice anglosassone. Con il tramonto precipitoso del sistema monetario di Bretton Woods potrebbe crollare repentinamente la stessa potenza egemonica statunitense uscita vincitrice dalla seconda guerra mondiale. La potenza può cambiare di segno. Lo staff di Nixon si divide tra monetaristi, l’astro nascente Friedman e la Scuola di Chicago, e regolazionisti ortodossi, Burns e la Fed. Vince Friedman e la fazione favorevole alla libera fluttuazione della moneta statunitense sganciata dal gold standard. Il timing ora è della massima importanza. Nel maggio 1971 la Germania Occiden-
54
tale lascia il sistema di Bretton Woods, istituito nel 1944 sulle ceneri delle «Potenze dell’Asse», lasciando fluttuare in modo incondizionato il marco tedesco. La situazione precipita e lo staff economico di Nixon si deve affrettare: per la potenza statunitense è giunto il momento di scegliere, poiché l’effetto sorpresa, e la velocità della decisione, rivestono la massima importanza. Nell’agosto 1971 Nixon annuncia improvvisamente alla nazione e al mondo intero che il dollaro statunitense non è più convertibile in oro, lasciando la moneta Usa libera di «ondeggiare» nel mercato dei cambi. Dopo circa 3.000 anni dal suo apparire, la moneta in Occidente perde il proprio ancoraggio ad un valore materiale oggettivo. E’ la prima volta nell’arco della civiltà occidentale, a parte i brevi momenti di sospensione causati dalle guerre e le brevi sperimentazioni, sempre rientrate a causa di fallimenti, avute nel corso della storia europea: la moneta compie così la metamorfosi definitiva, a cui probabilmente è destinata fin dalla sua nascita, diventando in tutta la sua filiera, dal globetto di metallo più o meno pregiato alle banconote, un puro simulacro del valore. Le domande che si pongono gli economisti sono numerose: La moneta
orfana saprà reggersi, basandosi unicamente sul proprio essere simulacro? La moneta egemone, il dollaro, potrà camminare sul «vuoto»? La moneta è cresciuta a sufficienza per esprimere una propria maturità? La de-aurificazione monetaria è la situazione transitoria nella quale ci troviamo ancora oggi: un mix di monete sovrane, xeno, headless, post-sovrane che fluttuano in un mondo valutario senza cambi fissi, preda delle speculazioni e degli squilibri dei mercati. Le coordinate monetarie sulle quali muove l’analisi di Foucault non sono però legate alla stretta contingenza, ma sono intrecciate allo studio delle forze e degli effetti di queste forze nella storia delle formazioni di sovranità. La moneta presa in considerazione da Foucault nelle lezioni che partono dal 10 febbraio 1971 al 10 marzo 1971 è, in modo sorprendente per molti ma non per i rizomatici, la moneta greca del VII e VI secolo a.c.;21 si tratta di quel periodo storico, sociale, economico e istituzionale in cui la moneta, intesa come misura greca, si trova ad essere il «cuore» di una «gigantesca pratica sociale e poliforme di stima, di quantificazione, di istituzione di equivalenze, di ricerca delle proporzioni e delle distribuzioni adeguate» (LVS, 148). Per Foucault, l’ind-
agine riguarda l’ipotesi che la moneta costituisca uno strumento politico d’ordine atto a creare e garantire nuovi equilibri nel corso di profonde trasformazioni sociali: la moneta, dunque, non garantisce rapporti di sovranità, ma di dominazione. Affascinante il modo in cui Foucault introduce la moneta, al termine della lezione del 17 febbraio 1971, come ridistribuzione dei rapporti tra il discorso di giustizia e il discorso di sapere, e dei rapporti tra il giusto, la misura, l’ordine e il vero: “L’istituzione della moneta non è semplicemente una misura dello scambio, ma è stata istituita essenzialmente come strumento di distribuzione, di ripartizione, di correzione sociale” (LVS, 144). Nascita della moneta simulacro
L’approccio di Lezioni sulla volontà di sapere del 1971 si allontana molto dall’interpretazione tradizionale della moneta dettata dall’economia classica, alla quale non è sfuggito né il Marx del Capitale né lo stesso Foucault di Le parole e le cose (1966). Se per gli economisti classici del XIX secolo l’utilizzo maturo e «scambista» della moneta avviene con la nascita e lo sviluppo dell’economia di mercato, per il Foucault di Le
55
parole e le cose l’analisi delle ricchezze e la teoria della moneta non sono possibili che a partire dall’età classica, in quel lasso di tempo che l’autore individua tra il Don Chisciotte di Cervantes e la Justine di de Sade. Il Foucault del 1971 tratteggia altrimenti la moneta vista dalla prospettiva ottocentesca dell’economia politica tradizionale: “Origine mercantile, commerciale, internazionale della moneta. Interpretazione mercantilistica della moneta che la delimita dall’origine entro funzioni di rappresentazione e la espone a quel «feticismo» che consiste nel prendere il segno per la cosa stessa, attraverso una sorta di errore filosofico primario e radicale. In effetti questa interpretazione può rendere conto di alcuni usi precoci della moneta, sia in Lidia sia in Fenicia. Ma non è affatto sulla base di questo modello che la moneta è stata adottata e utilizzata in Grecia” (LVS, 149). A suffragio della propria ipotesi, Foucault prende in esame due casi antitetici di utilizzo della moneta nella Grecia del VII secolo a.c.: Corinto e Atene. Ciò che ai nostri effetti qui interessa sono le modalità con le quali le due città e i due protagonisti politici, rispettivamente Cìpselo e Solone, legano le rispettive politiche all’introduzione della moneta. In ambedue i casi,
le due differenti opzioni concorreranno a provocare, anticipandole, rilevanti incidenze storiche nelle peripezie governamentali dell’Occidente. Per Corinto, e il tiranno Cìpselo, si è trattato di un’operazione politica nella quale “i ricchi sono stati costretti a un sacrificio economico [ e ] la moneta permette in primo luogo il mantenimento del potere mediante la mediazione del tiranno” (LVS, 175); per Atene, e il legislatore Solone, la scelta politica avviene con segno inverso rispetto a Corinto dato che “i ricchi sono stati costretti a un sacrificio politico, [e] l’eumonia permette loro di conservare i privilegi economici” (LVS, 175). Come già si può capire, Foucault indica nella modalità soloniana di gestione del nomos l’indirizzo futuro della democrazie occidentali del XIX secolo e della prima metà del XX secolo: a fronte di richieste sociali sempre più avanzate le classi più abbienti preferiscono concedere sostanziose distribuzioni di potere purché non vengano toccati i privilegi economici. Le raffinate scelte economiche corinzie, a cui corrisponde una brutale scelta tirannica, mostrano un eccellente esempio di decisioni monetarie - la gestione sistemica del nomisma - che verranno adottate per lo più
nel corso del secondo ‘900 e in questo scorcio di XXI secolo. La moneta contemporanea, infatti, interviene al cuore di un’operazione istituzionale nella quale si redistribuisce ricchezza ad una minoranza abbiente senza redistribuire il potere alla maggioranza del corpo sociale, dato che la socializzazione dello stesso ha già raggiunto il confine - il limite massimo di agibilità per le oligarchie economiche - entro il quale le classi meno abbienti partecipano alle democrazie liberali. Foucault sembra suggerirci che non v’è momento storico nell’Occidente, a partire dal VII secolo greco, che non veda le nostre società dibattersi tra i due poli di distribuzione, economica e politica, con la moneta che funge da membrana funzionale e manovrabile tra le due polarità. Ma ritorniamo alle città stato greche: qui la moneta diventa moneta simulacro e, allo stesso tempo, moneta-metron, cioè moneta misura. Con essa, i corinzi inventano la moneta come “strumento di un potere che si sta trasferendo (conservandosi) e che assicura, attraverso un gioco di regolazioni nuove, il mantenimento di un dominio di classe. In questo momento la moneta non è più un simbolo che produce effetti ma non è ancora un segno rappresentativo. Bisogna comprenderla come una serie irrigidita di sostituzioni sovrapposte” (LVS, 155). Foucault, infatti vede la moneta corinzia come una serie di sostituzioni: religiose, economiche, politiche, sociali. Il gioco delle sostituzioni e delle sovrapposizioni tra moneta e realtà effettuale crea la fissazione e non la rappresentazione: “mentre il segno rappresenta, il simulacro sostituisce una sostituzione con un’altra. E’ la sua realtà di simulacro che ha permesso alla 56
moneta di restare a lungo non solo uno strumento economico, ma qualcosa che viene dal potere e vi ritorna, attraverso una sorta di carica e di forza interna; un oggetto religiosamente protetto che sarebbe empio e sacrilego adulterare” (LVS, 156). Ma, ancora più profondamente, Foucault asserisce che la moneta “è come simulacro che essa è segno: il suo funzionamento come segno in un’economia di mercato è un episodio nella sua storia reale di simulacro” (LVS, 156). Per la moneta è primario, dunque, il suo essere simulacro regolatore prima di inscriversi nella storia come segno e poi come feticcio. Anzi il segno è solo un momento all’interno della durata della moneta-simulacro: è su questo sottile crinale di strategia, potere e sostituzione che interviene la «moneta vivente» di Klossowski, descrizione enigmatica di quel triangolo che ci domina da millenni: desiderio, valore e simulacro (Foucault, lettera personale inviata a Klossowski, autunno 1970).22 I modi d’espressione delle forze impulsionali
Non sono che poche pagine, ma dense ed enigmatiche come quasi nessun libro pubblicato: La moneta vivente è il testo d’addio di Klossowski alla scrittura - d’ora in poi, 1970, s’occuperà d’altro, traduzioni di testi, esposizioni d’arte: pittura, cinema - e allo stesso tempo è un’introduzione potente all’Anti-Edipo, un incipit anedipico con un differente autore. La moneta vivente crea uno spazio filosofico tutto da decifrare, grazie alla costruzione di un ponte sotterraneo tra le diverse opere e le stazioni di pensiero che costituiscono la Rizosfera
rivoluzionaria francese: i frammenti postumi 1887-1888 di Nietzsche (1976), Nietzsche e il circolo vizioso (1969), L’Anti-Edipo (1972), Pensiero Nomade (1972), Circulus Vitiosus (1972), Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), Lezioni sulla volontà di sapere (1970-1971), Economia libidinale (1974). Il testo klossowskiano rompe, sbreccia, dilaga, distribuisce con poche feconde frasi, ampi squarci di pensiero e possibili direzioni d’indagine che Deleuze, Guattari, Foucault, Lyotard percorreranno poi in modo selvaggio, rapido e produttivo, come «giovani lupi delle rivoluzioni future». Il contesto in cui il paradosso della moneta vivente si articola è quello in cui la «civilizzazione industriale» termine klossowskiano che ci pare più corretto rispetto al ben più utilizzato «capitalismo» - ha propagato i suoi dannosi effetti a tutta la società contagiandola tramite gli istituti di rettitudine e conformità, il che presuppone di attribuire ai mezzi di produzione una potente capacità d’infezione e quindi d’incisione affettiva nei singoli e nella collettività. Si tratta della stessa società omogenea, livellata, economizzata, scambista e nichilista descritta da Nietzsche nel frammento I forti dell’avvenire. L’asse Nietzsche Klossowski, dunque, attribuisce alla civiltà industriale livellata una pericolosa capacità produttiva affettiva-infettiva. Foucault, sulla stessa lunghezza d’onda, spiegherà la positività del potere con questa forza argomentativa: “Quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti, ebbene, è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi; bisogna
considerarlo come una rete produttiva, che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto più che come un’istanza negativa che avrebbe per funzione solo reprimere” (MP, 13). Deleuze e Guattari sono sulle stesse posizioni e innalzano il livello d’analisi mentre oltrepassano i «tagli» ideologici e psicanalitici: “La distinzione non è qui [tra soggettivo e oggettivo]: la distinzione da fare passa tra l’infrastruttura economica stessa e i suoi investimenti. L’economia libidinale non è meno oggettiva dell’economia politica; e quest’ultima non è meno soggettiva di quella libidinale, benché entrambe corrispondano a due modi di investimento diverso della stessa realtà come realtà sociale“ (AE, 395-396). Se per Marx la struttura è lo scheletro economico della società e la sovrastruttura tutto ciò che ne deriva, Klossowski ne rovescia lo schema e pone, come «infrastruttura ultima», il “comportamento degli affetti e delle pulsioni” (MV, 53). Ne discende, conseguentemente, che “le norme economiche non formano che una substruttura degli affetti e non la finale infrastruttura” e che, ancora più profondamente, “le norme economiche sono, allo stesso titolo delle arti e delle istituzioni morali o religiose, allo stesso titolo delle forme di conoscenza, un modo d’espressione e di rappresentazione delle forze impulsionali” (MV, 53). Come già intuito da Foucault, nella lettera a Klossowski, il triangolo desiderio, valore, simulacro che ci domina, e che ci costituisce da millenni, è già attivo fin dalla nascita della moneta nell’Asia Minore anatolica dell’VIII secolo a.c.; il triangolo è quindi da pensare come forgiatosi nell’abisso dei millenni, poiché il tempo storico in cui la realtà diviene monetata è 57
sicuramente il frutto di un lento processo di trasformazione avvenuto nei secoli, prima di trovare una propria forma nel «globetto di metallo» che si è tramandato sino ad oggi. Nella Frigia, luogo dove la mitologia greca pone il fondamentale passaggio da premoneta a moneta vera e propria, il conio della nomisma ha l’effigie della Dea Moneta, la moglie di Re Mida, Demodice o Ermodice; per Eraclide Lembo, nelle monete cumee emesse dalla regina Ermodice, è il Genio della Moneta a tenere bilancia e cornucopia in mano. Fin dall’inizio, ci suggerisce la mitologia greca, la moneta della giustizia popolare è una concatenazione di sovranità, sacralità, fertilità, equità; e già nell’Antichità c’era chi si levava contro l’«uso indebito» della circolazione dei «globetti di metallo»: Polluce, all’«apogeo dell’ellenismo sotto l’impero romano», critica gli obolastates, i prestatori o pesatori di oboli, e la obolastatein, la pratica di prestare oboli.23 L’intrecciatura perversa di simulacro, valore e desiderio indicata da Foucault quale geometria esplicativa dell’economia universale è quindi del tutto pertinente all’analisi rizosferica della moneta. Il Klossowski di La moneta vivente suggerisce che economia monetaria e teologia non sono che «travestimenti vicendevoli»24: la moneta, fin dall’inizio della civiltà occidentale, è pensata come uno strumento universale rappresentativo di un’economia generalizzata che ha già dentro di sé la «stoffa» astratta del sacro e del sovrano, e quindi del desiderio-volontà di potenza al suo più alto grado. La moneta per Klossowski è il simulacro universale; nella civiltà industriale il mondo della moneta, dopo secoli di giustapposizione, ha sostituito interamente il
mondo reale e ne rappresenta in modo distorto il fantasma dominato. Klossowski era già arrivato al concetto di economia universale tramite il Nietzsche scrutatore del Caos dei «passi sull’energia in rapporto alla struttura del mondo»: “In un determinato momento della forza accumulata dalle emozioni si crea anche la condizione assoluta di una nuova distribuzione: dunque una rottura d’equilibrio. Nietzsche concepisce una economia universale che agisce anche nei suoi umori” (NCV [II], 152). Il tratto che unisce Nietzsche e il circolo vizioso (1969) e La moneta vivente (1970) è dunque l’indagine sui simulacri pulsionali che agiscono nell’economia «generalizzata» e universale. Siamo già dentro all’Anti-Edipo, dentro al Nietzsche degli anni ‘80 del XIX secolo, dentro al Foucault degli anni ‘70. Questo è il cuore del nietzscheanesimo rivoluzionario che ha impattato «la strada e la lotta» del ‘68 e del post-1968, energia pura e pronta dinamite per le lotte future: Klossowski sviluppa con grande lucidità il nucleo tematico composto da pulsione, corpo, simulacro, valore, produzione, consumo affermando che “La maniera in cui esse [le forze impulsionali] si esprimono nell’economia e, in ultimo, nel nostro mondo industriale, risponde al modo in cui sono state trattate dall’economia delle istituzioni dominanti. Che questa infrastruttura primaria si trovi continuamente determinata dalle sue reazioni alle substrutture anteriormente esistenti, ciò è innegabile; le forze in presenza sono quelle che alimentano la stessa lotta tra infrastrutture e substrutture. Dunque, se queste forze si esprimono specificatamente dapprincipio, secondo le norme economiche, generano
esse stesse la loro repressione; ma anche, nel contempo, i mezzi per spezzare la repressione che esse subiscono a differenti livelli. Tutto questo avviene fino a quando dura la lotta delle pulsioni che, in un organismo dato, combattono pro e contro la formazione del «supporto», pro e contro la sua unità psichica e corporale. Qui iniziano a formarsi i primi schemi della «produzione» e del «consumo», i primi segni dell’acquistare e del mercanteggiare” (MV, 53-54). Questo è il passaggio chiave dell’intero universo rizomatico: Klossowski mostra in questo nucleo tematico il ruolo «celato» del mondo pulsionale. Data la sua «invisibilità», o la sua interiorità «occultata» in quanto senza sbocchi esterni riconoscibili, il mondo pulsionale si «economizza» all’interno del mondo industriale. Ciò che il mondo industriale consuma è la pulsione alla procreazione, che è una produzione della voluttà del corpo istintuale, etichettandola come merce ma, allo stesso tempo, e in senso contrario, il corpo produce emozioni occulte eccedenti, materia astratta per un «fantasma» - l’entità spettrale che ricorre ossessiva nel pensiero di Klossowski - sul quale agiscono di nuovo come retro-azione le pulsioni. “Non esiste nulla all’infuori degli impulsi essenzialmente generatori di fantasmi. Il simulacro [ il Trugbild nietzscheano ] non è il prodotto del fantasma, bensì la sua ingegnosa riproduzione, ed è in esso che l’uomo trova la capacità di prodursi da sé, nelle forze dell’impulso esorcizzate e dominate” (NCV, 181). E’ a questo livello che, creato il «fantasma», gli istinti e le passioni non sono più disponibili a consumare e cedere il fantasma stesso - vale a dire il produttore di desiderio che si riproduce - ed è attorno a ques58
to punto cruciale che si forma il valore emotivo o altrimenti detto valore libidinale - come afferma Nietzsche, “in luogo dei valori morali solo valori naturalistici” (O, fr. 9 [8] vol. VIII, tomo 2, pg. 6). La traduzione delle forze impulsionali, gli istinti, in “rappresentazioni economiche” del valore emotivo - “l’unico essere che conosciamo è l’essere che ha rappresentazioni” Nietzsche (O, fr.11 [330] vol. V, tomo 2, pg. 454-455) - sarà dunque un simulacro: e quale migliore simulacro l’intreccio di moneta, simulacro essa stessa del valore oggettivo, e di un corpo vivente, simulacro che incarna il fantasma riproduttore? La sintesi del doppio simulacro nell’economia della civiltà industriale è la moneta vivente, un simulacro potenziato dall’emozione che suscita. La «moneta vivente» è dunque l’espressione del valore libidinale iscritto nei corpi. Ciò che la civiltà industriale consuma serializzando - i vari simulacri del «fantasma»: prostituzione, schiavismo sessuale, erotismo, industrie assortite del godimento - dal corpo viene prodotto economizzando. Merce consumata contro valore libidinale. Vale a dire che il corpo si «esterna» valorizzando gli istinti ma, a difesa del suo «fantasma impulsionale» che è il desiderio, si oppone alla meccanizzazione simulacrale dell’economia industriale. Il corpo è il luogo di uno scontro durissimo di forze opposte: produzione sociale contro produzione desiderante. Si possono ottenere due risultati contrapposti da tale scontro: il primo - e purtroppo preponderante sia nella civiltà industrializzata che nella nascente società digitale - è la super-gregarietà dell’individuo, ridotto a mero «supporto» di passioni domate e desideri catturati dalla serializzazione sociale il cui obi-
ettivo è l’unità replicabile nella catena di serie; il secondo, se gli istinti e gli affetti hanno la meglio sulla repressione delle pulsioni, il «supporto» si sovranizza degregarizzandosi. In una fase successiva alla ritrovata sovranità, attraverso la palese auto-organizzazione dei comportamenti, la stessa singolarità si de-soggettivizza rovesciando la propria costituzione di soggetto stabile, aprendosi alla metamorfosi operosa dei desideri e quindi al cambiamento perpetuo. Supporti conformi e formazioni di sovranità
La composizione e l’alleanza delle forze degli istinti in tumulto incessante per contrapporsi al corpo sociale ed economico assediante fornisce la griglia della battaglia all’interno e all’esterno dei corpi. Le «cupe organizzazioni» delle sintesi sociali che accerchiano i corpi e le forze impulsionali sono le Herrschaftsgebilde di Nietzsche, le «formazioni di sovranità» che troviamo nei frammenti postumi di Nietzsche degli anni 1887 e 1888.25 Dentro e fuori dal corpo, la battaglia delle forze impulsionali infuria. La sensualità, e il suo stadio successivo, la sessualità, impediscono ogni prospettiva, anche quella economica, per cui vanno represse. La prima ondata di repressione impulsionale serve alle formazioni di sovranità nello strutturare un tutto conforme, o per parlare come Klossowski, «un’unità organica e psichica». Nonostante il suo formarsi dentro all’involucro della totalità come «essenza compiuta», il supporto conforme è sempre e comunque oggetto della lot-
ta delle pulsioni e degli istinti nel tentativo di liberarsi dalle formazioni di sovranità e dalle potenze che le costituiscono. I modi d’espressione di lotte e contro-lotte, attacchi e resistenze, si manifestano “attraverso una gerarchia di valori tradotti in una gerarchia di bisogni” (MV, 54). Per Klossowski “la gerarchia di bisogni è la forma economica di repressione che le istituzioni esistenti esercitano, per mezzo e attraverso la coscienza del «supporto», sulle forze imponderabili della sua vita psichica» (MV, 54). La denuncia di Klossowski contro le tradizioni - e le sue «traduzioni» gregarie - che dominano la società è quanto mai efficace. Egli ha di fronte a sé tre interpretazioni contemporanee che combattono gli obiettivi di liberazione della Rizosfera e attaccano l’economia generalizzata a cui partecipano i valori libidinali attraverso la nuova gerarchia pulsionale che filosofi come Deleuze vogliono attivare: il liberismo che attraverso la gerarchia dei bisogni impone una differente gerarchia dei valori grazie all’esclusione del bisogno sessuale dai bisogni primari, annullandone il valore emozionale; il marxismo che troneggia l’economia industriale e i valori mercificati come struttura primaria, relegando la sfera sessuale alla sovrastruttura; la psicanalisi che accetta di confinare l’economia libidinale al triangolo famigliare, separando il sociale dal proprio oggetto di studio, e subendo la divisione operata dal marxismo - della società se ne occuperà il socialismo scientifico, mentre dell’inconscio e dell’atomo sociale famigliare se ne occuperà la psicanalisi. In Klossowski, gli autori che compongono la triade del dominio e dell’assoggettamento rispondono ai nomi di Raymond Aron, 59
Karl Marx e Sigmund Freud. Lo scopo della Rizosfera sarà di liberare il potenziale rivoluzionario individuale e di gruppo rovesciando e superando - su questo punto - il Nietzsche de I forti dell’avvenire che auspicava, al contrario, una comunità discreta di sediziosi irregolari e inscambiabili. E’ sul tema dell’opposizione alla legge economica imperante attraverso la produzione pulsionale occulta che intervengono Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo, allacciandosi proprio a questo passaggio cruciale della «moneta vivente» di Klossowski. “I due tipi di fantasma, o meglio i due regimi” - affermano i due filosofi parigini - “si distinguono dunque a seconda che la produzione sociale dei «beni» imponga la sua regola al desiderio tramite un io la cui unità fittizia è garantita dai beni stessi, o a seconda che la produzione desiderante degli affetti imponga la sua regola a istituzioni i cui elementi non sono più che pulsioni” (AE, 68). Avremo, nel primo regime, i soggiogati, i supporti-gregari e la scambiabilità, mentre nel secondo regime le «macchine desideranti», i nomadi e gli schizo dell’avvenire che anelano l’inconvertibilità mercantile. Nella storia del socialismo utopistico un filosofo francese, tra i più inattuali, aveva lavorato su tematiche quali comunità, affetti, economia e armonia sociale: Charles Fourier. Sia Klossowski in La moneta vivente - sia Deleuze e Guattari - nell’Anti-Edipo - lo ricordano: “Se si deve parlare ancora di utopia in quest’ultimo senso, alla Fourier, non è certo come modello ideale, ma come azione e passione rivoluzionarie. E, nelle sue opere recenti, Klossowski ci indica il solo mezzo per superare il parallelismo sterile in cui ci dibattiamo tra Freud e Marx:
scoprendo il modo in cui la produzione sociale e i rapporti di produzione sono un’istituzione del desiderio, e come affetti e pulsioni fanno parte dell’infrastruttura stessa. Poiché ne fanno parte, vi sono presenti in tutti i modi creando nelle forme economiche tanto la loro repressione quanto i mezzi per rompere tale repressione” (AE, 6869). La forza pulsionale e la volontà di potenza
Se per Deleuze e Guattari “è vero che lo schizo fa dell’economia politica, e che tutta la sessualità è una faccenda d’economia” (AE, 13) possiamo iniziare, allora, la sintesi finale del saggio presentando la schizofrenia delle società di mercato perché se da un lato “la civiltà si definisce per la decodificazione e la deterritorializzazione dei flussi nella produzione capitalistica”, dall’altro “le nostre società manifestano un gusto pronunciato per i codici, i codici stranieri o esotici, ma si tratta di un gusto distruttivo e mortuario” (AE, 278). Le distruzioni dei codici sarebbero dunque i risultati condivisi di ambedue le entità, del capitalismo e della rivoluzione - dato che lo spirito puro dell’insurrezione è favorevole alla distruzione del «gusto pronunciato per i codici». Meglio precisare le differenze di regime tra le due entità accelerazioniste, vista l’identità di natura, pena grandi fraintendimenti. Convochiamo, a questo proposito, il Nietzsche «guastatore» dell’autunno 1888: “Che la volontà di potenza è la forma affettiva primitiva, che tutti gli altri affetti sono soltanto sue configurazioni. Che si chiariscono molte cose se, al posto della «felicità»
individuale, alla quale ogni vivente aspirerebbe, si mette la potenza: «esso aspira alla potenza, a un di più nella potenza» - il piacere è solo un sintomo del sentimento della potenza conseguita, la coscienza di una differenza -” (O, fr. 14, [121], volume VIII, tomo 3, pg. 90-91). E ancora: “Non c’è né «spirito», né ragione, né pensiero, né coscienza, né anima, né volontà, né verità: tutte finzioni che sono inservibili. Non si tratta di «soggetto e oggetto», ma di una determinata specie animale, che prospera solo con una certa relativa giustezza e soprattutto regolarità delle sue percezioni (in modo da poter capitalizzare esperienza)…” (O, fr. 14 [122], volume VIII, tomo 3, pg. 92). E, per terminare: “Non ci sono leggi: ogni potenza trae in ogni momento le sue ultime conseguenze. La calcolabilità si basa proprio sul fatto che non c’è un mezzo termine. Un quanto di potenza è definito dall’effetto che esplica e a cui resiste” (O, fr. 14 [79], vol. VIII, tomo 3, pg. 47-49). Klossowski così commenta i tre frammenti: “La volontà di potenza - bisogna tenerlo presente - come impulso primordiale è il termine che deve esprimere la forza stessa, la quale, pur essendosi perduta nella specie umana e nel fenomeno dell’animalità, cioè del «vivente», che è soltanto un caso «particolare», e quindi un «accidente» della sua essenza, non tollera di conservarsi nella specie o nell’individuo che essa agita, bensì esige, per la sua natura, che venga meno la conservazione di un livello raggiunto, perciò eccede sempre tale livello aumentando necessariamente. Così la volontà di potenza appare essenzialmente come un principio di squilibrio in rapporto a tutto ciò che, una volta raggiunto un certo grado, vorrebbe invece essere dura60
turo, società o individuo che sia” (NCV, [II], pg. 145). Deleuze e Guattari utilizzano nel loro Anti-Edipo il termine «desiderio» per il nietzscheano «volontà di potenza» (CO, 95) e, dunque, per «forza affettiva primaria». Lo stesso Nietzsche si era domandato: “Equivale essa [ la volontà di potenza ] a un desiderare?”(O, fr. 14 [121], Vol. VIII, tomo 3, pg. 9091). Il desiderio, così concepito, è l’arma che squassa, - come forza impulsionante irresistibile - sia l’individuo, sia la società, rendendo ogni individuo, attraverso un processo di trasformazione e di instabilità, un potenziale anti-conforme e ogni società un potenziale campo d’intensità rivoluzionaria selvaggia ed energetica. E’ necessario, però, dividere i due poli di «natura» entro cui oscilla il campo d’intensità proattivo, o affermativo per comprendere i pericoli insiti nel desiderio destrutturante: nel caso della società, da un lato, avremo il capitalismo decodificatore e distruttore e dall’altro lato la rivoluzione «desiderante e acefala» come momento accelerato di scarico di potenza accumulata, distruttrice e liberatoria; nel caso dell’individuo, da un lato avremo il polo paranoico e reazionario, dall’altro quello schizofrenico e rivoluzionario. Sarebbe però un grave errore confondere o identificare in toto i processi di distruzione e affrancamento del capitalismo e del paranoico, con quelli della rivoluzione e dello schizofrenico. Scrivono, infatti, Deleuze e Guattari: “Decodificare vuol dire certamente capire un codice o tradurlo, ma ancora di più distruggerlo in quanto codice, assegnargli una funzione arcaica, folkloristica o residuale (…). Sarebbe tuttavia un grave errore identificare i flussi capitalistici e i flussi
schizofrenici, sotto la rubrica generale di una decodificazione dei flussi di desiderio. Certo, la loro affinità è grande: il capitalismo fa passare ovunque flussi-schize che animano le «nostre» arti e le «nostre» scienze, così come si irrigidiscono nella produzione dei «nostri» malati specifici, gli schizofrenici” (AE, 278). Come già hanno ricordato sia Srnicek e Williams, sia Pasquinelli, il capitalismo “ciò che decodifica con una mano, assiomatizzata con l’altra” (AE, 279; GADC, 20, punto 3). Se la funzione di assiomatizzazione alle frontiere del caos ha il segno del recupero e del controllo, nonché dello sfruttamento per massimizzare il guadagno e incassare nuovo valore dalle «nuove terre», la funzione della schizo-rivoluzione ha il segno del demolire e del superare per sganciarsi dagli spazi di contenimento dove la forza primordiale pulsionale stazionerebbe, neutralizzandosi. Per conquistare le nuove frontiere e avvistare le «nuove terre» l’energetica del desiderio non accetta la capitalizzazione, la regolarizzazione e, dunque, l’equilibrio che, solo, fonda. Per il capitale contemporaneo, l’agente anticaotico fissante e le Squadre di Recupero sono rispettivamente la moneta — le quantità astratte illimitate, mobili del denaro-rischio accumulato, la liquidità assoluta — e la ripetizione infinita del credito e del debito. Moto incessante e rottura d’equilibrio
Qui entra in gioco l’Eterno Ritorno nietzscheano. Per Klossowski il segno distintivo del Circolo Vizioso - così definisce l’Eterno Ritorno di Nietzsche - è il moto incessante, cioè “quella potenza [che] insegnò altresì
61
all’individuo a volere il proprio annientamento come individuo, quando gli insegnò a trascendersi (superarsi, a oltrepassarsi) fino a rivolersi, a rivolersi solo in nome di quella insaziabile potenza. (…) Ora, l’Eterno Ritorno (come espressione del divenire senza scopo né senso) rende «impossibile» la conoscenza dei fini, mantenendola sempre a livello dei mezzi, i mezzi per conservarsi. Da ciò è determinato il principio di realtà, che per questo è sempre variabile. Ma non solo l’Eterno Ritorno non determina la realtà, bensì ne sospende il principio lasciandolo in qualche modo alla discrezione del grado più o meno sentito dalla potenza - o meglio della sua intensità” (NCV, [II], 146). L’essenza del Ritorno, o del Fantasma, è dunque la ripetizione del medesimo Ineguale, ovvero la reiterazione della differenza casuale, l’energetica del fortuito. Non ritornano che simulacri, la cui irrevocabilità determina la serie delle disindividuazioni. La potenza trasformativa e incessante della singolarità schizo-nomade che accetta la dottrina dell’Eterno Ritorno è certamente antitetica alla gregarietà derivante dal Ritorno Assiomatizzato del Capitale e dal Ritorno all’Identico dell’individuo assoggettato; infatti la dottrina del Circolo Vizioso dell’asse Nietzsche-Klossowski prevede il «ritorno della potenza» che altro non è che il «susseguirsi di rotture di equilibri» e quindi, in ultima analisi, la destituzione del soggetto identitario. Deleuze e Guattari, infatti, colgono pienamente questa differenza tra i limiti relativi, sempre ricostituiti, del processo capitalista e i limiti assoluti del processo schizofrenico rivoluzionario. Il processo schizo-rivoluzionario dialoga con il Caos, cerca la di62
mensione creativa per interagire con le forze caotiche, modificando l’esistente; il processo capitalista si arresta alla linea del Caos, non rimuove la linea, il muro che lo separa dall’esteriorità caosmotica, ma - razionalmente - capitalizza i propri passi, ritorna agli spazi vergini di recente acquisiti e li dissoda per valorizzarli con nuove assiomatiche. I limiti che si auto-assegna il capitale sono determinati dalla rete di centri d’equilibrio e di trasvalutazione monetaria che architetta e costruisce ai confini del proprio delirio. Se “la schizofrenia impregna insomma tutto il campo capitalistico da un capo all’altro” per il Capitalismo “si tratta (…) di legarne le cariche e le energie in una assiomatica mondiale che oppone sempre nuovi limiti interni alla potenza rivoluzionaria dei flussi decodificati” (AE, 279-280). Da queste parole traspare che l’argine eretto - la linea che separa dal margine caotico - è la linea del monetizzabile. L’area della creazione, della sperimentazione, del fallimento implicito nell’indagine e della ricerca fine a se stessa, non rientra per il capitalismo negli spazi irrorabili dal flusso monetario: circolano ancora troppe pulsioni energetiche che non hanno né senso né scopo: manca, infatti lo scopo principale del capitale, la redditività derivante dall’«estrazione di valore». Sia il senso che lo scopo sono determinazioni del principio di realtà a cui si rifanno sempre, in ultima istanza, le società di mercato. Scrivono infatti Deleuze e Guattari: “I flussi monetari sono realtà perfettamente schizofreniche, ma che esistono e funzionano solo nell’assiomatica mondiale immanente che scongiura e respinge questa realtà” (AE, 280). L’assiomatica livellante recupera il decodifi-
cato e reprime indirettamente la carica sovversiva sprigionata dalla forza affermativa primitiva, rinchiudendo nello spazio monetazzabile del circuito mondiale ciò che era stato appena dispensato dal codice. Il denaro controlla, attraverso i bagliori della fiamma o i fumi del bruciato, e distribuisce a un livello superiore, mondiale. Per questo motivo il denaro non diviene, ma rimane nel circuito, in cui si dispone alle velocità indigene. Qui, nella circolazione evoluta, il denaro si ripete e, come ha scritto Marx, “il valore continua a farsi valere: il movimento del capitale non ha limiti” (IC, vol. I, tomo 2, cap. IV). Proprio qui, però, si consuma la rottura, e il superamento, tra la lezione marxiana della moneta, moneta-valore, moneta-merce, moneta-feticcio, e la nuova funzione attribuita alla moneta dalla filosofia politica di Deleuze e Guattari e dal complesso della Rizosfera rivoluzionaria francese.26 La moneta nella sua quantità astratta illimitata è indifferente alla «natura qualificata dei flussi»; ciò vale a dire che la moneta è transqualitativa, cosí come il suo processo di distribuzione e circolazione; essa si è autonomizzata e auto-organizzata sia dai cicli brevi di scambio (denaro-merce-denaro; D-M-D) sia dalla sua natura circolante spaziale (territorio-scambio-territorio; T-S-T), ovvero la sovranità. E se “la potenza del capitalismo risiede proprio in questo: la sua assiomatica non è mai saturata, ed è sempre in grado di aggiungere un nuovo assioma agli assiomi precedenti” ciò vuole significare che è la “monetizzazione [che] colma il gorgo dell’immanenza capitalistica, introducendovi, come dice Schmitt, «una deformazione, una convulsione, un’esplosione, insomma un movimento
di un’estrema violenza” (AE, 284-285). Controllo, potenza, desiderio, autonomia, auto-organizzazione, indifferenza, violenza, transqualità: ecco le nuove caratteristiche della moneta al tempo dell’Anti-Edipo, cioè dell’economia monetaria infinita e astratta, che si vanno ad aggiungere alle determinazioni classiche già messe in luce dai critici dell’economia politica. Oggi la moneta-liquidità accumulata, astratta, e digitale - ovvero la moneta dematerializzata e finanziarizzata che mantiene accumulandole le specificità degli anni ‘70 - è lo strumento principale dell’accelerazionismo capitalista. Esso si sviluppa tramite il nomadismo instancabile dei capitali alla ricerca del profitto puntuale e planetario unito all’infinito monetario quale strumento efficace anti-crisi, generato dall’aumento della massa monetaria e dalla creazione di liquidità perpetua grazie al sapiente dosaggio di transazioni verticali e orizzontali dei settori pubblici e privati da parte delle Banche Centrali mondiali, coordinate fra di loro. E’ il sistema delle Banche Centrali autonome rispetto al potere politico che determina in ultima istanza la liquidità del sistema e l’immissione di moneta nel sistema bancario tradizionale e nella circuitazione a rete dei mercati di capitali. La cruciale innovazione dei ruoli di circuiti, piattaforme, mercati, monete e Banche Centrali già in fase di espansione e consolidamento negli anni dell’analisi rizosferica, è stata attivamente registrata nel passaggio accelerazionista di La macchina capitalistica civilizzata sotto la voce «Assiomatica d’Immanenza del capitale» (AE, 269-271).
63
La macchina moderna immanente
“La macchina moderna immanente, che decodifica i flussi sul corpo pieno del capitale-denaro (…) ha realizzato l’immanenza, ha reso concreto l’astratto come tale, naturalizzato l’artificiale, sostituendo ai codici territoriali e alla surcodificazione dispotica un’assiomatica dei flussi decodificati e una regolazione di questi flussi; essa opera il (…) grande movimento di deterritorializzazione, ma questa volta non lasciando sussistere nulla dei codici e dei surcodici” (AE, 298). Se, ai tempi dell’Anti-Edipo, i due movimenti di Fuga dal territorio e Ritorno al territorio potevano esprimere potenze conformi o al massimo dotate di un equilibrio precario, il lasso di tempo che ci divide dagli anni ‘70 ha visto la l’ultraperformatività del denaro e della sua Fuga dal territorio, creando un forte squilibrio nei confronti del Ritorno alla terraferma, che si è espresso in un progressivo, e ormai avanzato, indebolimento delle nazioni, delle identità popolari, delle istituzioni locali, del campo sociale che s’innerva sul corpo della Terra. L’astrazione monetaria, in simbiosi con matematica, cibernetica, informatica e logistica, si è talmente avvalorata nel suo approssimarsi a estensioni illimitate e velocità cronoscopiche elastiche che il dominio rapido raggiunto in questi anni di addomesticamento non ha eguali nella storia, accelerando quel nichilismo radicale che Nietzsche ha paventato nel corso del secondo Ottocento. I confini dell’astrazione monetaria sono ancora tutti da pensare, soprattutto in questi tempi di circolazione forzata determinata dagli interessi negativi, in-
dice di un approssimarsi del nummus al grado zero dell’infinita circuitazione monetica. E’ probabile che le formazioni di sovranità siano entrate in una fase di costrizione metamatica dello strumento monetario per saggiare la conservazione della forza di squilibrio dell’intero sistema. La crisi del capitalismo industriale e la nascita di un capitalismo post-industriale istigato dal credito e dal monetarismo ha il suo momento di emersione e rottura - come prima abbiamo ricordato - nel celebre «Nixon shock» dell’agosto 1971, quando il dollaro statunitense viene sganciato dal cambio fisso con l’oro, rovesciando il principio di sovranità bimillenario insito nella moneta «aurea» - nomisma Caesaris in auro est. Questo passaggio epocale dalla moneta «geologica» sovrana - il dollaro Usa - alla moneta «headless» astratta e illimitata perché sganciata da qualsiasi indice o valore tangibile, è certamente frutto di dinamiche congiunturali e processi parossistici risalenti già a Bretton Woods e alla competizione tra nazioni e opposte forze geopolitiche, ma segna anche il momento di autenticità dell’affermazione dell’economista de Brunhoff quando scrive che non c’è contemporaneità tra capitale e credito: “Nel capitalismo, anche il credito, costituito come sistema, riunisce elementi compositi, pre-capitalistici (la moneta, il commercio di denaro), e post-capitalistici (il circuito del credito essendo una circolazione superiore …). Adattato ai bisogni del capitalismo, il credito non è mai veramente contemporaneo al capitale. Il sistema di finanziamento nato dal modo di produzione capitalistico rimane bastardo” (AE, 296-297, rif. de Brunhoff, La moneta in Marx,
pg. 101, Editori Riuniti, 1973). E’ del tutto certo che il sistema di finanziamento creditizio sopravviva all’agonia dell’industria e alla sparizione del lavoro, dato che storicamente preesisteva al capitalismo, e già ne anticipava, in alcune componenti, il futuro superamento. L’auto-organizzazione in piattaforme planetarie e l’autonomia raggiunta dall’ordine politico istituzionale, ha reso il credito - moneta accumulata, distribuita, rapida, liquida e astratta - e la finanza - moneta flussione, cibernetica, reticolare, dromologica, metamatica - circolazioni a sé stanti, in massima parte aliene rispetto alla circolazione dei capitali dell’economia reale. Nella sua lezione del 19.12.1971 a Vincennes, Deleuze va ancora oltre l’elaborazione che presenterà di lì a poco nell’Anti-Edipo (febbraio 1972) introducendo una definizione della moneta - riproduzione infinita di un processo di quantità astratte - quanto mai pertinente, oggi ancor più d’allora: “Con il denaro che non può essere codificato in un quadro preciso, si comincia con il denaro e si finisce con il denaro. D-M-D [Denaro Merce - Denaro]: non c’è più mezzo di codificare questa roba perché i flussi qualitativi sono rimpiazzati da un flusso di quantità astratta, la cui proprietà è la riproduzione infinita, il cui tipo è D-M-D. Non c’è codice che possa sopportare la riproduzione infinita. Ciò che è formidabile nelle società cosiddette primitive, è che il debito esiste, ma esiste sotto forma di blocco: il debito è finito” (Webdeleuze, acc. nov. 2015, lezione del 19.12.1971).
64
Riproduzione infinita della moneta e del credito
Se la moneta è riproduzione infinita di un processo di quantità astratte, possiamo allora pensarla come il software di un hardware, la crematistica digitale, che ha già introiettato nella nostra epoca la sua natura metamatica, e viaggia spedita all’interno di reti digitali, in una circuitazione superiore artificiale e oltreumana. La moneta, già nell’Anti-Edipo ma ancor di più oggi, è un’astrazione decodificata che somma valore, ordine, numero, calcolo, distribuzione e velocità. Per una sinistra, e un movimento rivoluzionario che, ancora nel 1972, in modi convulsi e confusi, fanno riferimento all’area dell’«umanesimo marxista», lo spostamento dell’asse della teoria critica dal mondo della produzione e dell’industria al mondo del processo e della moneta-credito è stato a lungo contrastato, se non apertamente rifiutato. Il cambio di paradigma, però, ha già sprigionato effetti e raggiunto una sua massa critica non più interrompibile. La riproduzione infinita di moneta liquida nel circuito mondiale è pervenuta al suo attuale picco accelerato grazie al ruolo di immissione costante e insufflamento coordinato e puntuale da parte della rete mondiale delle Banche Centrali. La moneta infinita, dunque, ha i suoi circuiti di riproducibilità perpetua mercantile, che chiameremo «relativi», e i suoi circuiti di riproducibilità perpetua finanziaria, che chiameremo «assoluti», gestiti da reti istituzionali globali sovra-nazionali. Sarà necessario ripartire da qui, da questo asse Nietzsche-Klossowski-Deleuze e, in generale, dalla rizosfera rivoluzionaria francese, per affinare strumenti e analisi capaci
di incidere nel reale delle formazioni di sovranità gregarie. Certamente il lavoro aggressivo e polemico di Deleuze e Guattari nel periodo dell’Anti-Edipo ha avuto il grande merito di individuare sul nascere la faglia sistemica in fase di slittamento, incrinamento, e poi di rottura - la grande asimmetria storica tra moneta-infinito, credito-mobile e capitale-fisso - che ha portato le economie di mercato, non senza grandi e brusche crisi di transizione, dal mondo industriale quantitativo pianificato al mondo ciberneticocreditizio-finanziario post-produttivo. Non solo, ma uno dei meriti maggiori dell’Anti-Edipo è di aver teorizzato, a partire dalle prospettive di Nietzsche e Foucault, l’infinito monetario e creditizio. Se il «creditore infinito» è da ricondurre alla «nuova memoria collettiva» formulata da Nietzsche nella Genealogia della morale, e riguardante il “debito (…) questo straordinario composto della voce parlante, del corpo marcato e dell’occhio che gode”, la «moneta infinita» è da mettere in relazione alle Lezioni sulla volontà di sapere di Foucault del febbraio 1971. Il «creditore infinito» è certamente, per Nietzsche, il Dio dei cristiani e il debito, nelle società arcaiche come nelle mercantili, svolge la funzione di “drizzare l’uomo, (…) formarlo nella relazione creditore-debitore che, da ambo le parti, viene ad essere un affare di memoria (una memoria tesa verso il futuro)” (AE, 214). La «moneta infinita», per il Foucault del 1971, nasce invece dalla crematistica artificiale, innaturale “che mira solamente all’acquisizione di moneta per se stessa, e di conseguenza in quantità infinite. Essa si poggia sullo scambio” (LVS, 160). Deleuze e Guattari riprendono il tema dell’infinito nell’Anti-Edipo,
facendo proprie le tesi del filosofo di Poitiers: “L’abolizione dei debiti, quando ha luogo - si riferiscono a Solone, legislatore di Atene (LVS, 143) - è un mezzo per mantenere la ripartizione delle terre, e per impedire l’entrata in scena d’una nuova macchina territoriale, eventualmente rivoluzionaria e in grado di porre in tutta la sua ampiezza il problema agrario” (AE, 221). Subito dopo, il riferimento va a Cìpselo, tiranno di Corinto: “In altri casi ove avviene una ridistribuzione nella nuova forma instaurata dallo Stato, la moneta, il ciclo dei crediti viene mantenuto” (AE, 221). Ma, in modo più profondo, Deleuze e Guattari, rifacendosi agli studi foucaultiani sulle tirannidi greche, possono affermare che “il danaro, la circolazione del danaro, è il modo per rendere il debito infinito. (…) Il creditore infinito, il credito infinito ha sostituito i blocchi di debito mobili e finiti. C’è sempre un monoteismo all’orizzonte del dispotismo: il debito diventa debito d’esistenza, debito dell’esistenza dei soggetti stessi” (AE, 222). La moneta nell’Anti-Edipo diviene così IL «dispositivo sistemico» del potere per mantenere interminabile il ciclo del credito, così come ci ha tramandato la tirannide corinzia; ma, in modo ancora più pertinente, la moneta contemporanea creata ex nihilo dall’azione congiunta di banche centrali e commerciali, e perciò infinita, è il pre-requisito e la struttura portante di altri infiniti soggettivanti che, sotto l’ombrello double-face del credito/debito, risultano essere il rimborso/esistenza, il dovere/colpa, la crisi/ risorsa, la catastrofe/biforcazione. E’ dunque la moneta a essere il fulcro e il perno sul quale il sistema di potere contemporaneo fa aggio per tutte le sue politiche: la moneta ne è l’arma 65
principale, dato il suo rapporto sintetico con il credito-debito che ne diventa la “cinghia di trasmissione” nel mondo creditizio commerciale e istituzionale. Questo paradigma monetario del potere che Foucault fa risalire già al VII secolo a.c. greco, è sfuggito purtroppo ai marxisti, ma non ai rizosferici. A tutt’oggi il lavoro demistificatorio ed esplosivo degli autori anedipici e rizomatici non ha raggiunto quella dimensione di classicità nella nostra cultura occidentale che meriterebbe, essendo ancora operose quelle forze oscure, gregarie - i poteri frenanti - che vogliono mantenere il campo sociale sotto la pressione livellante e omogenea della schiavitù perenne, gregarietà che Nietzsche aveva descritto in modo così appropriato nel frammento accelerazionista dei forti dell’avvenire. L’Anti-Edipo, lungi dall’essersi appoggiato a innocui irenismi, continua a generare processi ibridi di energia affermativa e trasformatrice grazie proprio alla sua profonda capacità analitica. Tutto è palese nell’opera a due: “Qui non abbiamo più segreti, non abbiamo più niente da nascondere. Siamo noi ad essere diventati un segreto, siamo noi che siamo nascosti, anche se tutto quel che facciamo avviene in pieno giorno e sotto una cruda luce” (CO, 51). Come sfuggire all’assiomatica e far impazzire la macchina moderna immanente?
Ecco, dunque, ritornare, sotto il segno del contrasto a Edipo, l’intreccio di moneta e rivoluzione. Se, nell’empirico odierno, le nostre società sono dominate dall’ottimismo economico figlio del positivismo ottocentesco così riccamente analizzato a
livello sociologico produttivo da Marx e a livello pulsionale energetico da Nietzsche, e dall’evoluzione processuale cibernetica dei circuiti monetari e creditizi descritta in modo lungimirante da Deleuze e Guattari, quali strategie adottare per sfuggire all’assiomatica mercantile e far impazzire la macchina moderna immanente? Quale rapporto tra moneta e rivoluzione? Passare ancora dal piano organizzativo minuzioso e burocratico figlio della teoria totalizzante “chiavi in mano” che tutto spiega e prevede, secondo rapporti fissi con le forme della Terra e dell’insiemistica umana, oppure scegliere il piano di consistenza pulsionale corrispondente all’energetica oscillante del desiderio, sempre produttiva del reale e dello squilibrio? Tra organizzazione-amministrazione, e caos-creazione, quali livelli di sintesi e innovazione per «cercare e distruggere» e poi ricostruire? Costruire soggetti e identità rivoluzionarie nelle determinazioni di classe o economiche, oppure de-costruire la forma, trovando «vuoto» il soggetto e aumentando la velocità di attivazione del «processo» rivoluzionario dell’irregolare inoperoso, del gruppo non scambiabile e della comunità di singolarità? Eppure, in tutt’altra guisa, come è sembrato paventare Ewald, se un «fatto» ci è stato consegnato dallo sviluppo storico degli anni ‘70 del Novecento in tutta la sua tragica evidenza, questo è stato la «sparizione» della rivoluzione dall’orizzonte sociale, cioè l’inabissarsi dell’insurrezione quale magnete dell’agire politico dall’Illuminismo in poi. Siamo alla Morte della Rivoluzione come evento palingenetico e qualificata rottura creatrice, madre della modernità politica - come sembra paventare il Foucault post-1978 e post
66
rizosferico, o siamo al divenire rivoluzionario perpetuo come condizione umana ai tempi della post-rivoluzione e delle neo-società di controllo post-capitaliste - come pensano Deleuze e Guattari nel deserto multistrato di Mille Piani? Qualcosa dopo il 1978 è cambiato, i rivoluzionari spettralizzano come beautiful losers, come se la sedizione e il rovescio del desiderio sul tappeto del Reale fossero speculari al declino dell’industria e alla corrosione del capitale storicamente fissato. La prassi produttiva dell’industria e il concetto di rivoluzione-catarsi decadono insieme nell’Occidente, in un mesto e lento crepuscolo. A noi estensori del saggio, l’intreccio «moneta e rivoluzione» posto da Klossowski e Deleuze e da tutta la rizomatica anedipica appare ancora d’estrema attualità, non più nella vulgata ponentina, ma viceversa su scala globale, l’unica oggi possibile. Nella più feroce contemporaneità non si smette di generare moneta e liquidità quanto non si desiste dal divenire rivoluzionari e patologicamente sediziosi, in ogni singolo scenario planetario. Gli avvenimenti quotidiani non mostrano altro. Come ha lucidamente scritto Foucault, il triangolo di «desiderio, valore, simulacro» ci domina ancora, e non riusciamo a scalfirlo né a comprenderlo nella sua terribile efficacia geometrica. Come sfuggire all’assiomatica e far impazzire la macchina moderna immanente: la domanda dell’Anti-Edipo è ancora nostra contemporanea, oggi come ieri. Un parte della risposta, nel quadro dell’evoluzione del rapporto tra tecnologia e liberazione, può certamente nascere e crescere dal confluire di tre specifiche aree della nostra contemporaneità: il cypherpunk, la tecnologia blockchain e la sua versione decentralizzata 67
Ethereum, e il movimento eterarchico P2P. La nuova alleanza del peer to peer, una evoluzione digitale della logica reticolare anarchica e auto-organizzata della filosofia autonomista della disintermediazione esistenzialista punk, il rizoma di strada DIY, il do-it-yourself già post-capitalista nella sua quintessenza. Il quarto pilastro che dovrà accompagnare le tre aree precedentemente indicate, potrà essere la filosofia della rizosfera, o dell’avvenire. La «filosofia dell’avvenire», per ritornare gioiosa e pericolosa, deve abbandonare il ruolo di complicità che si è ritagliata nell’industria del sapere e dell’episteme, e ritornare ad essere viandante, peripatetica, informale - una «gypsy scholarship». Deve sperimentare, fallire, creare: studiare, smontare e rimontare con estrema lucidità, anche se stessa. La gypsy scholarship intesa come pedagogia della libertà e della rivolta, non può però diventare scienza, ingoiata dalle istituzioni: è come la raffica di vento dell’Uomo di Kiev, oppure il bagliore di un momento lungo quasi cent’anni. La sovranità rovesciata
Come in molti, forse, hanno notato, il celebre passaggio dell’accelerazione del processo e della via rivoluzionaria oltre ad essere incastonato nell’ultima parte del paragrafo La macchina capitalistica civilizzata (AE, 271-272), ritorna con forza nelle pagine dell’Introduzione alla schizoanalisi, capitolo conclusivo dell’Anti-Edipo, per ingemmare la pagina finale dell’opera stessa. Il focus è sempre sul rapporto conflittuale tra desiderio, formazioni di sovranità e sulla possibilità di un rovesciamento di sovranità da parte della poten-
za della singolarità. Scrivono Deleuze e Guattari: “Solo il desiderio infatti vive perché non ha scopo. La produzione desiderante molecolare ritrova la sua libertà d’asservire a sua volta l’insieme molare in una firma di potenza o di sovranità rovesciata. Ecco perché Klossowski, che ha portato più lontano di tutti la teoria dei due poli d’investimento, ma sempre nella categoria di un’utopia attiva, può scrivere: “Ogni formazione sovrana dovrebbe così prevedere il momento voluto della sua disintegrazione… Nessuna formazione di sovranità, per quanto si cristallizzi, sopporterà mai questa presa di coscienza: poiché, non appena diventa conscia negli individui che la compongono, questi la decompongono” (AE, 422-423; LCV, [II], 162). Che cosa significa «il desiderio vive perché non ha scopo»? Vuol dire che il desiderio è privo di scopo e di senso proprio perché è una potenza naturale sempre risorgente, un’energetica indomita mai acquietata dal raggiungimento di un obiettivo e dunque mai assoggettata dal fine e dal pervenire a uno stato di equilibrio infinito. In precedenza abbiamo ricordato come la pulsione primordiale dell’individuo è, per Deleuze e Guattari, il «desiderio» e, per Nietzsche, la «volontà di potenza» (CO, 95). Per il pensatore tedesco “appena agiamo praticamente, siamo costretti ad agire contro ciò che sappiamo e a metterci al servizio dei giudizi della sensazione” (O, fr. 11 [123], vol. V, tomo 2, pg. 452). Klossowski, sulla stessa linea, rincara: “la natura non ha nessuno scopo e realizza qualcosa. Noi abbiamo uno «scopo» e otteniamo qualcosa di diverso da questo scopo” (LCV, [II] 169). Se, grazie la sua beffarda lucidità, Nietzsche può affermare che “se tutta la storia delle vicende
umane non ha nessun fine, bisogna che ve ne inseriamo uno noi” (O, fr. 6 [9], vol. VIII, tomo 1, pg. 224), Klossowski allora può chiosare “Ciò vuol dire: noi conosciamo il nostro meccanismo; bisogna smontarlo; poiché questo vuol dire poter disporre delle sue parti per ricostruirlo; quindi guidare la «natura» verso il nostro «scopo». Ma ogni volta che si ragiona così, si maschera di nuovo l’impulso che ci guida: certo, si ottiene qualcosa che si interpreterà come voluto, ma sarà stata la «natura», senza volere nulla, a realizzarsi per altri «fini» (LCV, [II], 169). Sarà quindi l’azione mascherata degli individui a decomporre le istituzioni delle formazioni di sovranità non appena la coscienza dell’assurdità della mancanza di ogni fine e di ogni senso della società in cui vivono balzerà ai loro occhi. Ma non sarà che la potenza caotica della Natura ad agire tramite loro. Emerge prepotente, in questa “stazione del pensiero” lo spinozismo radicale della Rizosfera, o come spiega Deleuze, uno «spinozismo dell’inconscio». Verso la nuova terra: smontare e rimontare il meccanismo
Conseguentemente, il più grande errore per un rivoluzionario è pensare che la rivoluzione coincida con il proprio Io, con la propria persona, con il proprio nome nella Storia. Infatti coloro che «fanno fallire» la rivoluzione sono coloro che le attribuiscono scopi, che effettuano tagli d’arresto o che le permettono di continuare nel vuoto - “i tradimenti non attendono, ma sono là fin dall’inizio” (AE, 436). Viceversa, i lucidi rivoluzionari che si accorgono che vi sono gruppi i quali s’aggiudicano gli scopi prescelti dal 68
proprio insieme chiuso, a quel punto di consapevolezza o sono costretti a intraprendere «vie di sganciamento» dalla rivoluzione stessa sviandola come processo e articolando in orizzontale la sua acefalìa; oppure sono costretti ad impedire il formarsi di sovranità «cupe» - creando una sorta di nuova antropologia rivoluzionaria - sottraendo ai nuclei sovrani in via di costituzione la stabilità e il punto di equilibrio attraverso la creazione di comunità insorgenti obliquamente a-centrate. Ecco dunque il senso della «sovranità rovesciata» di Deleuze e Guattari prima richiamato. Slittamento/biforcazione o sottrazione/squilibrio, questi sono i due compiti «insurrezionali» che si devono approntare rispetto alla rivoluzione stessa, piuttosto che contrastare resistendo al punto d’equilibrio della sedizione, cioè a un’idea di ritorno cieco. D’altra parte se pensiamo al «sedizioso» come a un individuo al di fuori del proprio Io, lo dobbiamo pensare come un soggetto «vuoto», il cui unico compito è connettersi a processi «rivoluzionari» preesistenti al proprio impegno e al proprio pensiero. Al pari di altri comportamenti coevi, questa connessione potrebbe funzionare come una catalizzazione positiva, accelerante e non inibente. Questa reazione con successiva fusione non porta però il singolo a rimanere inalterato nella sua stabilità, ma viceversa il processo catalitico accelerante lo trasforma radicalmente. Il fattore accelerante della reazione catalitica, quindi, riguarda ambedue gli ambiti: processo collettivo rivoluzionario e processo de-soggettivante individuale - Foucault chiosa - a questo proposito - che bisogna “sbarazzarsi del soggetto costituente, sbarazzarsi del soggetto stesso” (MP, 11). Se il desiderio vive per-
ché non ha scopo, ritornando a Deleuze e Guattari, esso genera altresì effetti di accelerazione del processo rivoluzionario in senso materialista, non ideologico, intendendo qui per ideologia il processo politico guidato da funzionari di partito professionisti della rivoluzione. Non può esserci «creazione» se si ripetono i medesimi riti ideologici delle rivoluzioni precedenti, di cui rimane la stanca forma senza il dinamismo propulsivo. Bisogna impedire la serializzazione dell’insurrezione e la sua forma “mono e macro”. Infatti, come scrive Klossowski, “il senso di ogni grande creazione è di porre fine alle abitudini gregarie che guidano sempre le esistenze verso dei fini esclusivamente utili all’oppressivo regime della mediocrità; (…) la creazione cessa di essere un gioco al margine della realtà, il creatore ormai non ri-produce, bensì produce lui stesso il reale” (LCV, [II], 177). Si pongono sulla stessa linea Deleuze e Guattari - “reclamiamo i famosi diritti alla pigrizia, all’improduttività, o alla produzione di sogno e di fantasma, una volta di più siamo ben contenti, dato che non abbiamo cessato di dire il contrario, che cioè la produzione desiderante produce del reale” (AE, 438). Ogni produzione di Reale è in realtà una spaccatura, una breccia sul corpo della società, ma questa rottura avviene solo “per un desiderio senza scopo e senza causa che la tracciava e la faceva propria. Impossibile senza l’ordine delle cause, essa non diventa reale se non grazie a qualcosa d’altro ordine: il Desiderio, il desiderio-deserto, l’investimento di desiderio rivoluzionario. Ed è proprio questo a minare il capitalismo” (AE, 435). Non solo questa produzione di Reale nel deserto della subrealtà della circuitazione monetaria mina il capital-
ismo, ma fa saltare, e non certo come obiettivo secondario, la teoria della stato o qualsiasi teoria delle istituzioni derivante dalle lotte rivoluzionarie, in quanto la schizoanalisi, così come il pensiero di Nietzsche, Klossowski o Foucault, non propone rigorosamente «nessun programma politico», né per un gruppo, né per un partito, né per le masse, perché tutto ciò sarebbe iniquo e delirante (AE,437). Gli artefici dell’Anti-Edipo, così come gli artificieri della Rizosfera Klossowski, Foucault, Blanchot, Lyotard, sono consapevoli del compito negativo, violento, brutale della schizoanalisi - così come della genealogia, dell’archeologia, della filosofia dell’avvenire, della dottrina del Circolo Vizioso: “defamiliarizzare, disedipizzare, decastrare, dafallicizzare, disfare teatro, sogno e fantasma, decodificare, deterritorializzare - un orrendo raschiamento, un’attività malevola” (AE, 439). Tutto questo Destroy, Destroy, significa innanzitutto ed essenzialmente liberare da ogni ostacolo il «processo», accelerare il processo, accelerare e distruggere, dato che il processo da accelerare è, come abbiamo visto, “la produzione desiderante secondo le sue linee di fuga molecolari” (AE, 439). E pazienza se qualcuno, negli anni trascorsi, o più recentemente, ha confuso la «fuga molecolare» con la «resa al molare», o se ha interpretato l’andare «ancora più lontano nel movimento del mercato» con il seguire mansueti e allineati la strategia mercantile di disarticolazione dell’esistente dato che il processo in natura è unico, o se ha pensato che si debba accelerare la corsa del turbocapitalismo affinché si schianti alla prima biforcazione, o - peggio ancora - si scambi il desiderio del consumo di merci e dell’auto-repressione, 69
con il desiderio pulsionale di produzione del Reale, volto a modificare l’esistente e a liberare differenza. Lo si dica qui, una volta per tutte: il processo di decodificazione capitalista produce quantità astratte infinite - la moneta e la sua coppia di sintesi ripetitive e spettrali, il credito e il debito, guidate e sorvegliate dall’Assiomatica d’immanenza di sistema; il processo di decodificazione schizofrenico produce invece corpuscoli di potenza non manifesti, irradianti, incommensurabili - il desiderio, «lavorato» dalle pulsioni stesse, cioè dalle macchine desideranti. Si tratta di differenze di regime, non di natura: infatti i due aspetti del processo si toccano, ma non si confondono. Lo schizonomade rimane pur sempre al limite del capitalismo: ne è la tendenza sviluppata, così come ne è l’angelo sterminatore (AE, 36-38). Ma la produzione desiderante - pulsionale e celata - e la produzione sociale monetata e astratta, sono le due differenze oggetto d’indagine della psichiatria materialista di Deleuze e Guattari. Non si tratta che di «modi di vita» e del Reale che vogliamo: il Reale Possibile contro il Reale Artificiale. Contro la Morte Nera: grande salute e nuova speranza
Tutto ciò che abbiamo scritto è il risultato di una ricerca intorno a «tre intensi cuori», eterogenei eppure vincolati e uniti da un pensiero di sovversione. Il primo cuore è rappresentato dai frammenti postumi riguardanti la volontà di potenza, tra i quali svetta il nucleo più profondo, I forti dell’avvenire - il Nietzsche del 1887-1888 delle Opere (VIII/2); il secondo cuore è disegnato dal saggio sulla cospirazione e la comunità delle sin-
golarità generata dall’Eterno Ritorno il Klossowski del 1969 di Nietzsche e il Circolo Vizioso; il terzo cuore è impresso nel passaggio accelerazionista presente ne La macchina capitalistica civilizzata in cui compaiono le molteplicità nomadi - i Deleuze e Guattari del 1972 e dell’Anti-Edipo. Tre cuori per tre libri dell’Avversario - un Avversario anomico, anarchico e anticristico - il cui unico compito è “condurre a termine il processo, non arrestarlo, non farlo girare a vuoto, non attribuirgli uno scopo” (AE, 439). Se, per il capitale industriale, o per il post-capitalismo digitale, «non abbiamo ancora visto nulla» perché con le sue deterritorializzazioni ci può sempre «spedire sulla luna» (AE, 37) e conquistare sempre nuovi pianeti o galassie con le sue Morti Nere, per Deleuze e Guattari il nomade non-identitario “non (…) andrà mai abbastanza lontano nella deterritorializzazione, nella decodificazione dei flussi” (AE, 439). Zarathustra, in uno dei suoi più visionari discorsi poetici, Della virtù che dona, esclama: “In verità, la terra diventerà un giorno luogo di guarigione! E già intorno a essa alita un profumo nuovo, che reca salute, - e una nuova speranza!” (Z, 86). Così il capolavoro di Deleuze e Guattari - che, come abbiamo potuto mostrare, non è solo opera autoriale ma anche gemmazione rizomatica - termina con l’elevarsi di un canto mattutino per accelerare il movimento dell’Eterno Ritorno: “La nuova terra, infatti, non è nelle riterritorializzazioni nevrotiche o perverse che arrestano il processo o gli fissano degli scopi, non è indietro né avanti, ma coincide con il compimento del processo della produzione desiderante, il processo che si trova sempre già compiuto in quanto precede e in quanto procede” (AE, 439).
Cambiano le fisionomie dei passanti per la «via rivoluzionaria», siano essi i forti dell’avvenire, o le singolarità non omogenee, o le molteplicità nomadi, ma l’imperativo del microcomunismo degli ineguali rimane sempre quello: Accelera e Distruggi. Il Regno inumano è già tra noi.
70
1 Si veda 'Testi in appendice' (xi, p. 177) 2 Christian Kerslake: Marxism and Money in Deleuze and Guattari’s Capitalism and Schizophrenia: On The Conflict Between The Theories Of Suzanne de Brunhoff and Bernard Schmitt. Il testo è disponibile free download al sito della rivista Parrhesia: http://www.parrhesiajournal.org/parrhesia22/parrhesia22_kerslake.pdf 3 Matteo Pasquinelli: Code Surplus Value and the Augmented Intellect (10 marzo 2014) Testo di una conferenza di Pasquinelli @ Incredible Machines (Vancouver, 2014) http://matteopasquinelli. com/code-surplus-value/ disponibile free download all’URL del blog personale del filosofo. 4 F. Dostoevskij - Memorie dal sottosuolo: “Signori, scusatemi se mi sono lasciato prendere dalla filosofia: qui ci sono quarant’anni di sottosuolo”. 5 L’intero intervento di Guattari intitolato Desire is Power, Power is Desire è reperibile in Chaosophy, Semiotext(e), 2009. 6 Entretien avec Gilles Deleuze (Intervista di Jean-Noël Vuarnet), in «Les Lettres Françaises», 28 febbraio - 5 marzo 1968, n. 1223, pp. 5, 7, 9. 7 L’edizione francese dei frammenti postumi 1887-1888 è pubblicata sotto la diretta responsabilità di Gilles Deleuze e Maurice de Gandillac (pg. 7) - Gallimard (1976). 8 Obsolete Capitalism: I forti dell’avvenire. Il frammento accelerazionista di Nietzsche nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Saggio inserito nel presente volume Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. La politica accelerazionista di Nietzsche in Deleuze, Foucault, Guattari e Klossowski (Obsolete Capitalism Free Press, 2016). 9 Friedrich Engels (Prefazione a Miseria della filosofia, 1885): “La citata applicazione della teoria di Ricardo, secondo la quale, essendo i lavoratori i soli produttori reali, l'intera produzione sociale, cioè il loro prodotto, appartiene a loro, conduce direttamente al comunismo. Ma essa è come Marx accenna nel passo sopracitato - formalmente falsa dal punto di vista economico, poiché è una semplice applicazione della morale all'economia. Secondo le leggi dell'economia borghese, la maggior parte del prodotto non appartiene ai lavoratori che lo hanno creato. Se ora diciamo: è ingiusto, ciò non deve essere, questo non ha nulla a che vedere, in via immediata, con l'economia. Noi ci limitiamo ad affermare che quel fatto economico contraddice il nostro senso morale. Per questo Marx non ha mai fondato su questa base le sue rivendicazioni comuniste, bensì sul necessario crollo, che si verifica ogni giorno di più sotto i nostri occhi, del modo di produzione capitalistico” (Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1949).
71
10 Karl Marx (Discorso sul libero scambio, Bruxelles, 1847): “Ma in generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all'estremo l'antagonismo fra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio” (Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1949 - testo presente nell’edizione del 1885 curata da Engels). 11 Lettera di Michel Foucault a Pierre Klossowski in occasione della pubblicazione di Nietzsche e il circolo vizioso, 3 luglio 1969, in Cahiers pour un temps (Paris: Centre Georges Pompidou, 1985) 12 I tre frammenti postumi sono: il fr. 10 [17], non titolato, p. 219; il fr. 10 [8], non titolato, p. 220; il fr. 9 [153], I forti dell’avvenire, p. 221; pubblicati in Pierre Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, 2013, Adelphi. 13 Qui abbiamo usato il verbo corretto di Klossowski/tradotto da Turolla, piuttosto che la traduzione di Sossio Giametta. 14 Nietzsche, Freud,Marx, in “Cahiers de Royaumont”, t.VI, Paris, 1967, in Nietzsche, pp.183-200 (atti del convegno di Royaumont, luglio 1964) 15 Ricordiamo che l’opera di P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Paris, è del 1965, l’intervento di Foucault Nietzsche, Freud, Marx è del luglio 1964 (poi pubblicato nel 1967) ed è all’interno della seconda parte del convegno intitolata Confrontations che vede tra gli intervenuti Giorgio Colli e Mazzino Montinari. 16 Non sfuggirà a nessuno, perlomeno in Italia, che il discorso parodistico qui riportato - se lo limitiamo al teatro - si attaglia molto bene alla situazione della comicità politica italiana nel 2015: figure come Crozza, o Guzzanti, rientrerebbero nella categoria «parodia di una parodia», mentre Grillo sarebbe a pieno titolo «parodia» che decostruisce l’ordine politico vigente, com’è sembrata effettivamente la sua azione tra il 2012 e il 2014. Chissà cosa ne penserebbe Grillo di questo «pedigree» nietzscheano morale che calza così bene alla sua figura di politico delirante. 17 Si veda a questo proposito l’intervista a Foucault e Victor, leader di GP, realizzata il 5 febbraio 1972, e poi pubblicata nel n.310/bis di Les temps modernes intitolato «Nouveau fascisme, nouvelle démocratie» (giugno 1972); tale intervista è reperibile in Microfisica del potere (Einaudi, 1977). Un’importante eco del dibattito sulla «giustizia popolare» lo troviamo nel dialogo a due tra Foucault e Deleuze, Gli intellettuali e il potere, realizzata il 4 marzo 1972 e pubblicato nel numero 49 della rivista «L’Arc» (ID, 261-271).
18 Ricordiamo a questo proposito che il «gendarme aziendale» della Renault Jean-Antoine Tramoni - responsabile nel febbraio 1972 dell’uccisione del militante maoista Pierre Overney fu condannato dal tribunale istituzionale a soli 4 anni di prigione. Nell’ottobre 1974 fu rilasciato in libertà condizionata. Tre anni più tardi, nel marzo 1977, Tramoni fu assassinato dal gruppo armato maoista NAPAP. 19 Il divenire senza scopo come progetto politico ha un brillante futuro davanti a sé; tra le esperienze passate degne di nota annoveriamo senz’altro il Programma Politico di Jello Biafra dei Dead Kennedys per l’elezione a sindaco di S. Francisco (1978) e il poema scritto nel 1916 dal nomade cubo-futurista Chlebnikov, l’Associazione dei 317, ovvero i Presidenti del Globo Terrestre, «un’accolita di artisti, poeti, eruditi, aviatori e politici dei vari paesi (…), alcuni ignoti americani e cinesi e, per la firma pittoresca, l’abissino Ali Serar» (Poesie, Velemir Chlebnikov, Einaudi, 1968). Forse, l’Associazione dei 317 è il «progetto» politico parodistico più vicino al complotto dei forti dell’avvenire di Nietzsche, in sintonia con i merzbau dada, i Sex Pistols e le Pussy Riot, naturalmente. 20 Si tratta di un Foucault molto diverso dall’estensore, solo qualche anno prima (1966), del VI capitolo, Scambiare, del libro Le parole e le cose. In soli 5 anni, sia il Maggio 1968 che la maturità delle posizioni della Rizosfera nietzscheana rivoluzionaria, hanno cambiato l’approccio verso la moneta di Foucault, sottraendolo al riconoscimento della stessa in versione esclusivamente ‘scambista’. Foucault, in questa nuova veste pedagogica del 1971, progredisce nella propria analisi e supera con decisione la versione troppo classica e franco-centrica della teoria della moneta che dispiega in Le parole e le cose. 21 Pierre Klossowski, Cahiers pour un temps, Centre George Pompidou, 1985, pg. 85-90 22 Polluce e le origini della moneta, Nicola Parise; saggio presente in L’Onomasticon di Giulio Polluce, a cura di Cinzia Bearzot, Franca Landucci, Giuseppe Zecchini; Editore Vita e Pensiero (2007). 23 Frammenti di una conversazione interrotta, Enrico Filippini (a cura di Alessandro Bosco), Castelvecchi, 2014: Intervista a Klossowski “E se parlassimo del peccato?”. 24 Sono i seguenti frammenti tratti sempre dalle Opere di Nietzsche nell’edizione critica stabilita da Colli e Montinari: fr. 9 [7]; fr. 9 [8]; fr. 10 [38]; fr. 14 [79]. In Klossowski, NCV [II] pg. 149-152.
25 Si vedano a questo proposito le opere di Maurizio Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato (Derive e Approdi, 2012) e Il governo dell’uomo indebitato (Derive e Approdi, 2013). Lazzarato, il più acuto e il più attento al tema moneta/credito/debito tra i filosofi post-operaisti, non porta fino in fondo la sua critica al concetto di moneta e di debito, in quanto rimane troppo ancorato a una prospettiva debitrice del «taglio marxista». Se la moneta è nata nell’ VIII secolo a.c. con il mito della Dea Moneta, Ermodice o Demodice di Frigia, se il debito è nato, secondo Graeber, oltre 5.000 anni or sono, se le banche moderne sono nate in Italia nel XIII-XIV secolo, è possibile risalire al solo Marx, cioè a 150 anni fa, per istituire la teoria della moneta e la nascita del capitalismo? A Nietzsche è bastato «solo» un po’ di diritto indù o di diritto germanico antico, se seguiamo Deleuze (AE, 213), per eliminare ogni concezione di scambio e scoprire nell’economia primitiva il concetto di debito originario infinito. Il Genio della Moneta non è né Nietzsche né Marx, ma il Dio della natività monetaria sulle monete di Primnesso di Frigia che tiene in una mano la bilancia, simbolo di equità, e nell’altra la cornucopia, simbolo di fertilità e abbondanza.
iv
edmund berger
Accelerazionismo Grunge
In un punto cruciale del romanzo Neuromante di William Gibson, incontriamo i Panther Moderns – una sottocultura guerrigliera, parte di un mondo in cui le sottoculture si susseguono come fotogrammi sconnessi di un film in montaggio. I Panther Moderns sono specializzati in simulazioni allucinatorie – costruiscono allucinazioni in un mondo immerso nelle “allucinazioni consensuali” del cyberspazio, sovvertendo una realtà già soggiogata da una costante riconfigurazione causata da digitalizzazione, modificazione genetica del corpo e sostanze psicotrope. Se, come dice Lewis Call, il cyberpunk entra in gioco quando termina l’isteria delirante di Baudrillard sul divenire simulacro e sul divenire simulazione della realtà, figure come i Panther Moderns ci indicano allora la via di fuga. Essi incarnano il vecchio slogan mao-dadaista degli autonomi di Radio Alice: “informazioni false producono eventi veri”. Le ricadute politiche dei Panther Moderns, che vanno oltre la rappresentazione letteraria proprio del nostro mondo, non sono passate inosservate. Un gruppo di teorici coinvolti nell’ACT-UP un gruppo di pressione politica e intervento diretto consacrato a mantenere viva la consapevolezza sull’AIDS - ha letto Neuromante e si è ispirata ai Panther Moderns. Si sono battezzati Critical Art Ensemble, e si sono fatti strada grazie alla 73
loro pratica dei “media tattici” tanto che la loro provocatoria posizione afferma che “per il potere, le strade non sono altro che capitale esausto!” 1 È meglio sfidare il potere direttamente al cuore della sua nuova ambiguità – i flussi elettronici hanno rimpiazzato quelle che un tempo erano le masse sedentarie. Inserito nella strana ed affascinante storia dei media tattici, William Gibson si è trovato immerso in uno sprawl rizomatico che risale ai dadaisti e ancor prima, fino ad arrivare a Occupy Wall Street e oltre – passando per avanguardie, episodi stravaganti, hackers della Realtà, e anonimi rivoluzionari. I Panther Moderns, nel mondo di Gibson, sono una sorta d’avanguardia. Con una serie di pratiche e/o tattiche che oscillano nebulosamente tra azione politica, espressione artistica, e attività sovversiva; i loro influssi nichilistici trovano corrispondenza nel mondo reale della Parigi industrializzata che ispirò i decadenti e più tardi i surrealisti, la scena di Boulevard Saint-Germain da cui scaturirono non solo gli esistenzialisti ma anche i situazionisti, così come dalle reti dell’avanguardia politica sono nati il Krautrock in campo artistico e in ambito sociale i commandos di guerriglia urbana di tutto il mondo. Ma cosa possiamo dire di quella linea sottile che lega arte, politica radicale e criminalità? Cosa fa volare insieme questi uccelli che sembrano provenire
da specie differenti? E cosa possiamo dire dell’atmosfera generale di trasformazione urbana radicale, imperversante povertà e decadenza industriale che li determina? Per il momento lascerei dirimere tali questioni ad altri, e vorrei invece concentrarmi sull’accelerazionismo, quel termine tanto discusso, celebrato ed ugualmente oltraggiato. A due anni da quando Srnicek e Williams hanno equiparato l’accelerazionismo allo sviluppo tecnologico di sinistra, trascinando fuori dall’ombra Nick Land ed il CCRU, quell’ombra dove speravano di relegarli, quasi tutti gli episodi di politica militante sono stati radunati sotto il marchio dell’accelerazionismo – a tal punto che oramai il termine non ha più alcun significato. Marx incoraggiava l’abilità della tecnologia di aumentare il tempo libero? Accelerazionista. I Soviet si erano interessati di automazione informatica come mezzo per eliminare ogni traccia di rapporti di lavoro di stampo capitalista? Accelerazionisti. I situazionisti volevano consegnare la cibernetica ai consigli dei lavoratori? Accelerazionisti. Le ambiguità della teoria di comunizzazione? Accelerazioniste. Deleuze, Guattari, Lyotard, Baudrillard, Hardt, Negri – Accelerazionismo fino in fondo. Dunque, alla fine, il mio obiettivo non è assecondare questa tendenza ed aggiungere un altro nome a questa lista in con-
tinua espansione. Detto ciò, questo è precisamente quello che farò – anche se con una piega leggermente diversa. Nel blog Obsolete Capitalism troviamo delle nuove informazioni sulla celebre citazione dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, nella quale gli autori si chiedono se Nietzsche sia nel giusto e se i flussi della decodificazione (il processo capitalista di deterritorializzazione) vadano veramente accelerati – piuttosto che ritirarsi nel nazionalismo di sinistra. Molto è stato detto sul rifiuto di un’importante strategia di sinistra messa in campo contro il capitalismo delle multinazionali, e sul modo in cui l’espansione di un capitalismo accelerato appare a prima vista una strana virata verso una specie di libertarianesimo post-marxista (utilizzando il termine nel gergo attuale). Molto meno è stato scritto sul ruolo di Nietzsche in tutto questo – cioè, dove ha detto esattamente che dobbiamo accelerare la decodifica, e cosa intendeva con ciò? Obsolete Capitalism ci indirizza verso un frammento di Nietzsche dal titolo “I forti dell’avvenire” che fu commentato in maniera estensiva da Pierre Klossowski nel suo Nietzsche e il circolo vizioso– un testo che avrebbe avuto una grande influenza su Deleuze, Guattari, Foucault e gli altri teorici post-strutturalisti. Infatti, come osserva Obsolete Capitalism, fu una decisione di Klossowski di tradurre ‘accelerare’ il termine utilizzato da Nietzsche, dando origine così all’interpretazione di Deleuze e Guattari. Per Nietzsche, il livellamento della società tramite forze modernizzatrici produrrà una sorta di strano effetto collaterale o mutazione che affermerà la dissoluzione dei loro legami e limiti tradizionali conducendo 74
al tempo stesso al superamento del sistema che le aveva istituite. L’accelerazionismo, nella prospettiva nietzscheana, non implica tanto lo spingere pratiche economiche liberiste verso un overdrive di dimensioni apocalittiche, e nemmeno lo scioglimento delle catene che trattengono la tecnologia. Implica piuttosto il fomentare soggettività controcorrente – e in questo senso ha molto a che fare con le avanguardie. I modernisti folli che vagano per le rovine, la psichedelia di sinistra di Vaneigem, le infinite notti jazz a Saint-Germain, gli autonomi che celebrano l’artificialità della simulazione. Hardt e Negri, i quali usano la citazione dall’Anti-Edipo a scopi personali (per richiamare i popoli ad incalzare l’Impero verso il trapasso, in una chiara anticipazione di Srnicek e Williams), ricorrono anch’essi a Nietzsche come figura da tenere in considerazione per il futuro. Citando il libro di Nietzsche Volontà di potenza (in cui è inserito il frammento “I forti dell’avvenire”), colgono i tratti del barbaro che “giungerà e si consoliderà solo dopo tremende crisi sociali.”2 Hardt e Negri evidenziano che il barbaro, “mentre fugge dai limiti locali e particolari della sua condizione umana, deve provare continuamente a costruire un nuovo corpo e una nuova vita.” In una postilla a questa sezione di Impero, ci spiegano che il barbaro trova nella narrativa cyberpunk indizi per il suo futuro oltre le macerie. Una Panther Modern è in agguato da quella parte. Introduciamo Semiotext(e), seminatore di quello che vorrei chiamare “accelerazionismo grunge”. È un nome sciocco, certo, ma vorrei chiarire cosa significa. ‘Accelerazionismo’ qui viene utilizzato nel senso tratteggiato sopra, come una sorta
di soggettività mutante che comincia (e finisce) tra le macerie dei processi modernizzatori deterritorializzanti del capitalismo. Questo tipo di accelerazionismo ci fornisce una cornice temporale che segna in profondità il periodo che precede l’inevitabilità delle tendenze riterritorializzanti del capitalismo nelle quali tutti gli elementi che erano stati scardinati vengono rimessi insieme. ‘Grunge’, d’altro canto, è una parola che richiama immagini degli anni novanta, camice di flanella, giovanotti depressi, e in generale l’attitudine da ‘scansafatiche’ che prevaleva nell’ombra dell’economia dell’era Clinton. Tuttavia, ciò che più importa è quello che si nasconde dietro queste immagini standardizzate: una sorta di nichilismo di strada dove il mantra punk del “nessun futuro” diventa uno stile di vita, e dove le condizioni per nuove coordinate vitali e lo spirito del fai-date si nutrono e mettono radici – il tutto riconoscendo le stronzate essenziali dello Spettacolo. Un’ulteriore puntualizzazione: questo non è un tentativo di periodizzare, né di teorizzare, né è una scusa per canonizzare qualcosa in una nuova ortodossia. Più che altro, questa è una scusa per precisare alcuni – e forse inutili – elementi a margine. L’origine di Semiotext(e) si data tra inizio e metà anni settanta, quando Sylvere Lotringer – immigrato francese e caro amico delle celebrità del post-strutturalismo – si riunì con alcuni studenti alla Columbia University, dove egli insegnava corsi di semiotica, per pubblicare una sorta di fanzine underground che doveva colmare lo spazio tra la teoria francese e la cultura artistica “downtown” che si era fatta strada a New York a partire dagli anni cinquanta. La cul-
tura downtown [insita nel cuore urbano della città] era vasta ed eterogenea: fonda le sue origini nei circoli degli espressionisti astratti (Jackson Pollock, Theodore Roszak, William de Koonig, ecc.) e gli artisti del Fluxus (John Cage, Yoko Ono, George Maciunas, ecc.); continuò poi fino ai minimalisti (La Monte Young, Terry Riley, Philip Glass, ecc.), e all’Exploding Plastic Inevitable di Andy Warhol e ai Velvet Underground. Familiarizzò attraverso l’area del punk rock (Richard Hell e i Voidoids, Television, Ramones, ecc.) e più tardi diede origine alla no wave (Mars, DNA, Teenage Jesus e i Jerks, ecc.). Tra i suoi ranghi annoverava numerosi poeti, artisti, pittori, artisti da performance – e un numero ancora maggiore di individui inclassificabili che rifuggivano l’arte in favore di una vita nel baratro. Erano tutti abitudinari di club e spazi nascosti come Kitchen, Colab e il Mudd Club; oggi ha dato vita ad un’intera industria della retrospezione. A metà degli anni settanta la scuola francese era tutto fuorché sconosciuta – ma i suoi argomenti principali (la soggettività, il potere, i rizomi, il nomadismo, la simulazione, l’economia libidinale) sembravano parlare, secondo Lotringer, non tanto della possibilità di una futura rivoluzione in Europa, ma delle pratiche concrete attuate negli Stati Uniti. Questo viene normalmente riconosciuto come il fondamento di Semiotext(e); il racconto che Lotringer fa dell’origine della rivista pende verso quello che oggi è conosciuto nei circoli critici come accelerazionismo. L’Anti-Edipo ne fu il fulcro, integrando le richieste provenienti dalla rivoluzione desiderante del maggio 1968 con una nuova interpretazione dei meccanismi del capitalismo. 75
Deleuze e Guattari, spiega Lotringer, stavano “alzando la posta in gioco su Marx osservando che il capitale, lungi dall’essere un sistema puramente repressivo e spietato interamente volto ad estrarre plusvalore, stava creando in continuazione nuovi valori e nuove possibilità. E siccome il capitalismo pervadeva ogni aspetto della società, il trucco era di contrastarlo dall’interno, reindirizzandone i flussi, e cambiando incessantemente campo.” 3 Poiché la Francia era dominata da una pesante burocrazia diretta da socialisti pro-mercato con attitudini cibernetiche, questa posizione era semplicemente fantascienza, mentre in America – in particolare a New York – fu immediatamente evidente. Nel numero di Semiotext(e) dedicato interamente all’Anti-Edipo, pubblicato nel 1977, queste idee vengono ulteriormente consolidate. Nella sezione di un saggio, intitolata “Piani per una Rivoluzione a New York”, Lotringer scrive che “la scommessa dell’Anti-Edipo è di riformulare prospettive rivoluzionarie a partire dai punti di forza, e dalle connessioni più deboli, del capitalismo.” 4 Un altro saggio all’interno di questo numero, scritto da Lyotard ed intitolato “Il Capitalismo Energumeno”, definisce il soggetto rivoluzionario dell’Anti-Edipo come l’artista che combatte “per farsi inumano”, ed evidenzia la sua relazione con i flussi del capitalismo libidinale che eccedono sempre i propri limiti. Nel 2014 “Il Capitalismo Energumeno” avrebbe trovato la sua ristampa – questa volta nell’#Accelerationist Reader. “Il Ritorno di Nietzsche” un numero di Semiotext(e) dello stesso anno, contiene il saggio di Deleuze “Pensiero Nomade”, nel quale cita nuovamente “I forti dell’av-
venire” e aggiunge: “Dinnanzi a società come le nostre, che si decodificano e i cui codici fanno acqua da tutte le parti, Nietzsche non tente di ricodificare. Dice invece: tutto ciò non è abbastanza, siete ancora dei bambini (…) Scrivendo e pensando a modo suo, Nietzsche svolge un’opera di decodificazione: non di decodificazione relativa, volta a decifrare i codici antichi, presenti e futuri, ma di decodificazione assoluta - vuole guastare tutti i codici.” 5 Una manciata di pagine dopo, troviamo ancora Lyotard, questa volta nell’atto di celebrare la decomposizione delle coordinate progettata da Nietzsche, e di allineare questa celebrazione da un lato alla propensione del capitalismo verso la dissoluzione e dall’altro alla musica di John Cage. Durante gli anni settanta, in molte zone di New York City il capitale si autocombustionò e lasciò dietro di sé il mastodontico scheletro di quella che un tempo era una metropoli. Decenni prima, Robert Moses, il cosiddetto “Capomastro” (Master Builder), si era messo a riorganizzare lo spazio urbano della città – intrecciandolo con autostrade e distruggendone i quartieri in un grandioso progetto d’insieme che ambiva a misurarsi alla pari con la ricostruzione di Parigi condotta da Hausmann sotto l’occhio vigile di Napoleone. Tuttavia la città del futuro non si sarebbe mai concretizzata: i quartieri trasformati da cima a fondo dal progetto di Moses non si ripresero mai, e grazie al sistema di superstrade appena costruito furono recisi dall’organicità del tessuto urbano. Esposta alla corruzione e ad una cattiva gestione dei fondi pubblici, entro il 1975 la città era sull’orlo della bancarotta. A quel punto, molte zone del Lower East Side erano vuote, e le
76
strade offrivano un desolante panorama di negozi e immobili vuoti. Lydia Lunch raccontò che “isolato dopo isolato, c’erano soltanto edifici abbandonati, dati alle fiamme ogni notte da persone che lì dormivano alla luce di piccole candele” mentre il regista Scott B aggiunse “Potevi andare in un edificio ed impadronirtene – rubare l’elettricità da un lampione e viverci per anni.”6 Agli occhi di Lotringer e di Semiotext(e) questo stava diventando il palcoscenico per lo sviluppo della “schizo-cultura”, prendendo spunto dalla raffigurazione della schizofrenia da parte di Deleuze e Guattari come di un processo di decodificazione e deterritorializzazione – non dissimile dal capitalismo ma capace di rotture rivoluzionarie rispetto al potere che esercita. Nel 1975 Semiotext(e) organizzò la Conferenza sulla Schizo-cultura alla Columbia University, riunendo Deleuze, Guattari, Foucault e Lyotard con Cage, Burroughs ed altri membri della scena downtown di NY – ma anziché essere un successo accademico, servì solo ad allontanare Semiotext(e) dall’università ed a spingerlo a diretto contatto con la cultura di strada che aveva cercato di analizzare. Quando il numero sulla “Schizo-cultura” venne pubblicato nel 1978, l’estetica della rivista era più simile a una fanzine punk, anche se il primo articolo è un’intervista a Foucault. Il concetto di “schizo-cultura” è precisamente quello che chiamerei accelerazionismo grunge – entrambi si muovono nella scia dei flussi del capitalismo e trovano il loro significato di autonomia nelle macerie. Un tipico esempio è il movimento artistico no wave, che si sviluppò nei distretti abbandonati del Lower 77
East Side di NY e la cui cacofonia fece sembrare la scena punk conservatrice. Gruppi come Teenage Jesus e i Jerks, Mars, DNA, James Chance e i Contortions, le Theoretical Girls e i Gynecologists usarono il nichilismo di strada come la loro rampa di lancio, e di norma delimitavano un territorio ben al di là dell’inoffensiva cultura di produzione di massa degli anni settanta. Durante la sua breve esistenza, la scena no wave vide il collasso dei confini tra discipline artistiche – ciascuno era contemporaneamente un musicista, uno scultore, un pittore, uno scrittore ed un regista. Lo svuotamento di New York City permise loro di perseguire tutto ciò senza dover ricorrere ad un lavoro salariato. In retrospettiva, Lydia Lunch ha rievocato: “Lavoro? Siete matti? Per favore. 75 dollari al mese – questo era il mio affitto quando presi un appartamento sulla Dodicesima.” Come capitò alle avanguardie storiche, la linea tra arte e criminalità era confusa; molti ricorrevano a mezzi illegali per ottenere denaro quando era necessario. Nell’accelerazionismo grunge, la vita non è facile o piacevole, ma, citando Scott B, “non puoi immaginare la libertà che avevamo. La classe media aveva abbandonato quei luoghi, e noi semplicemente ci siamo entrati e ce ne siamo appropriati.” Semiotext(e) costruì la sua dimora all’interno del panorama no wave, e numerosi artisti contribuirono a redigere le pubblicazioni. Prendiamo per esempio Diego Cortez, direttore del Mudd Club (l’epicentro della musica no wave) e organizzatore di un concerto che riunì la scena musicale metropolitana con gli artisti concettuali di Soho, egli prese il comando nel progettare l’impaginazione di molti numeri; il
suo impatto venne percepito nel primo approfondimento sulla schizo-cultura, “Autonomia: Post-Political Politics”. L’obiettivo del numero era quello di congiungere le lotte di Autonomia Operaia in Italia e il movimento no wave, essendo entrambi emersi nello stesso momento (anche se in due continenti diversi). Al pari della loro controparte in New York, gli autonomi avevano assunto una dura posizione contro il lavoro, esaltando il sabotaggio del lavoro e la glorificazione della pigrizia. Antonio Negri, nel suo classico Il Dominio e il Sabotaggio (un cui passo si trova anche nel numero di Semiotext(e)), indirizzò l’energia punk dicendo: “Abbiamo un metodo di distruzione del lavoro. Siamo alla ricerca di una misura positiva del non lavoro, una misura della nostra liberazione da quella schifosa schiavitù da cui i padroni traggono profitto, e che il movimento ufficiale del socialismo ci ha sempre imposto come araldo di nobiltà. No, non possiamo davvero dirci ‘socialisti’, non possiamo più accettare la vostra infamia.” 7 L’Autonomia ebbe anche un certo debito con i teorici francesi, ed in particolare Deleuze, Guattari e Baudrillard. Le varie tattiche da loro adottate – stazioni radio pirata come Radio Alice, il rifiuto del lavoro, il ripudio della politica parlamentare, l’utilizzo di occupazioni, e l’introduzione di stravaganze nella vita quotidiana (come il caso degli indiani metropolitani, che con le facce dipinte si aggiravano per le strade di Roma inscenando performance urbane spontanee come concerti improvvisati) – incarnavano le idee di una rivoluzione schizoide. Guattari era completamente d’accordo, in un suo testo intitolato “La proliferazione dei margini” scrisse che nel caso di Autonomia Operaia “le
linee di fuga si uniscono alle linee oggettive di deterritorializzazione.”8 Ancora una volta, ritroviamo il tema di una rivoluzione che emerge sulla scia dei flussi del capitalismo, una insurrezione molecolare tra le macerie. Guattari meditò se questa rivoluzione molecolare potesse o no “farsi carico non solo dei problemi locali, ma anche delle più vaste conformazioni economico-amministrative”. Al contrario, si verificò l’inevitabile riterritorializzazione dei flussi capitalistici. Nel caso dell’Italia, Autonomia Operaia fu smantellata grazie alle leggi d’emergenza promulgate dallo stato. A New York, gli amministratori emanarono una serie di riforme economiche in seguito al rischio di bancarotta del 1975; negli anni ottanta con l’incombenza dell’era Reagan, finanza e capitale immobiliare invasero la città, innalzando i valori immobiliari su tutta la linea e espugnando gli artisti dai loro lofts. Committenti d’arte, ricchi collezionisti e proprietari di gallerie, tutti pieni di soldi, spostarono la loro attenzione verso gli artisti concettuali, i pittori e gli scultori. Da un giorno all’altro la spontanea immediatezza della cultura metropolitana si trasformò in un ricco mercato d’arte. Semiotext(e) cavalcò l’onda, spostandosi da pubblicazioni in stile fanzine alla loro serie “Foreign Agents” – frammenti teorici tascabili con copertine nere minimaliste. L’obiettivo era quello di praticare il gesto situazionista di creare una “esplosione nel cuore del prodotto”, una sorta di antidoto omeopatico alla mercificazione di tutte le cose radicali e militanti. Uno si chiede, tuttavia, fino a che punto “Foreign Agents” si distinse dalla spettacolare ondata di capitalismo finanziario: con la loro lucentez78
za estetica e la loro natura portatile, i libri divennero simili ad accessori di moda, qualcosa da mostrare mentre si legge sulla metro o da ostentare a una festa tra amici. L’esempio perfetto è la pubblicazione di Simulation di Baudrillard. Anziché lanciare una sfida, le idee di iper-realtà e simulacro furono private dei loro potenziali anarchici e cyberpunk postmoderni. Diventò la lingua franca dello stesso mercato d’arte, il nuovo territorio della mercificazione proliferante. Ora spostiamo la nostra attenzione su Autonomedia, un editore anarchico radicale che divenne il principale distributore di Semiotext(e) nei primi anni ottanta. Noto per aver pubblicato opere come T.A.Z. di Hakim Bey e gli scritti militanti di Ron Sakolsky, Autonomedia può essere immediatamente contestualizzata in quello che viene oggi definito “post-anarchismo di sinistra”. Allo stesso tempo, credo che loro – e i testi che stampano – incarnino ciò che sto definendo come accelerazionismo grunge. Anzichè optare per un confronto diretto con i poteri del capitalismo, della borghesia e dello stato (come potrebbero sostenere il marxismo-leninismo o la teoria della comunizzazione, seppure in maniere diverse), venne incentivata la costruzione, esteticamente sperimentale, di reti faida-te nel bel mezzo delle macerie. John Cage, l’arte concettuale e la musica minimalista erano molto meno importanti qui, in confronto all’abilità di estrapolare la teoria dai suoi contesti ed inserirla in una intransigenza gioiosa e traviata. Il prodotto di Autonomedia è un piccolo scorcio su un mondo più vasto, di cui la scena downtown di New York City fu la punta riconoscibile dell’iceberg. Ques-
to era un mondo popolato da anarchici, emarginati urbani, gruppi scismatici, svitati, eccentrici, pigri di professione, punk, nomadi, mistici parodisti, vagabondi, ed altri personaggi che, citando l’Anti-Edipo, “sanno come fuggire, guastare codici, far passare dei flussi…” 9 Questo mondo aveva i suoi codici di accesso, i suoi rituali, ed i suoi oggetti che circolavano al di fuori delle relazioni di scambio mercificato. Le fanzine erano un aspetto essenziale di questa circolazione, così come lo erano i nastri di garage bands e di musica noise; la ‘mail art’ (con la sua origine nel movimento Fluxus) aiutò a collegare l’intera rete. Rimanendo fedeli alla loro insistente teoria che la sottocultura americana diede origine alla militanza astratta dei teorici francesi, Semiotext(e) pubblicò nel 1987 Semiotext(e) USA, curato da Jim Fleming (l’editore di Autonomedia) e Peter Lamborn Wilson (meglio noto come Hakim Bey). Una corposa compilazione di scritti, lettere, fumetti, pubblicità e opere inclassificabili, Semiotext(e) USA mette in scena una archeologia vivente di questo mondo sotterraneo. Come era già stato per gli aunonomi e gli adepti della no wave, un tema ricorrente è il rifiuto del lavoro. Il celebre Abolition of Work di Bob Black compare accanto a materiale di propaganda anarco-sindacalista, pubblicità modificate tratte da riviste femminili che inneggiano la gente ad abbandonare il proprio lavoro, e fumetti che suggeriscono che una rivoluzione micro-politica non è così differente da una cosiddetta trasformazione macro-politica. Il concetto viene espresso chiaramente dalla figura di una donna che guarda avanti con nostalgia, il ticchettio di un orologio dietro di lei. “Quanti
rivoluzionari senza rivoluzione” dice il pensiero nella nuvoletta sopra la sua testa. “Voglio una rivoluzione senza rivoluzionari!” Semiotext(e) USA si presenta come una sorta di ‘performance scritta’. La seconda metà del libro contiene una sezione di autentiche pubblicità, piena di inserzioni ed indirizzi per fanzine, vari gruppi marginali, strani individui, e fanatici di cospirazioni. Una pagina intera è dedicata alla Chiesa del SubGenio, un movimento religioso-satirico fondato da Ivan Stang. Al di là della relazione tra la Chiesa e l’avanguardia postale (attraverso le sue connessioni con il Neoismo, la cultura delle audiocassette, e la mail art di grandi dimensioni), le somiglianze sono chiare: la Chiesa predica un vangelo di nullafacenza anziché di lavoro, ed incoraggia i seguaci ad andare oltre ed apprendere da ogni sottocultura marginale, gruppo cospirativo e setta religiosa possibile. Fornendo una cornice di dialogo a queste fonti rizomatiche, Semiotext(e) USA invitava il lettore a partecipare direttamente a questo mondo. Due anni dopo, Semiotext(e) e Autonomedia presentarono il seguito di Semiotext(e) USA – debitamente intitolato Semiotext(e) SF. Qui il tema è il genere accelerazionista ante litteram del cyberpunk e di altre correnti mutanti della fantascienza. Se USA era una mappatura della cultura sotterranea esistente, SF puntava a mostrare esattamente in quale direzione l’accelerazionismo grunge stava andando – i redattori (Peter Lamborn Wilson/ Hakim Bey, Robert Anton Wilson e Rudy Rucker) fanno notare che tante delle collaborazioni che riuscirono ad ottenere “emergevano dal mondo sotterraneo 79
delle micro fanzine fotocopiate e dei samizdat americani: gli scrittori erano talmente marginalizzati che non potevano mai essere cooptati, recuperati, reificati o comprati dalle istituzioni.” 10 Quando si tratta di nomi noti legati a questo genere (William Gibson, Bruce Sterling, ecc.) il punk in cyberpunk riceve grande enfasi. “Uno se li immagina,” dicono gli autori, “come hacker pazzi con tagli alla mohawk e giacche di pelle usurate, fatti di droghe talmente nuove che la FDA non ne ha ancora sentito parlare, intenti a processare la loro prosa necro-psichedelica e ad ascoltare nastri a tutto volume di gruppi che portano nomi come Crucifucks, Dead Kennedys, Butthole Surfers, Bad Brains…” Nella prima pagina di Semiotext(e) SF troviamo le parole “NO WAVE SF”. Nonostante questo punto rimanga inspiegato, forse quelle parole contengono più che un semplice tentativo di costruire un ponte tra futuro e passato. Prendiamo per esempio Glenn Branca, che musicalmente si fece le ossa nella band no wave Theoretical Girls prima di pubblicare una serie di lavori profondamente astratti che combinavano la chitarra rock con i droni minimalisti di La Monte Young e Terry Riley – il culmine di un esperimento iniziato dai Velvet Underground nel 1966. Gli album di Branca sono pieni di riferimenti alla simulazione di Baudrillard ed alla critica situazionista dello Spettacolo; non dovrebbe sorprenderci dunque trovarlo più tardi a vendere copie usate di romanzi cyberpunk dal suo sito internet. Come dice James Reich, sembra esserci una discreta ma evidente corrispondenza con i paesaggi sonori di chitarre liquid-metal di Genn Branca. Descrivendo la prima della sua “Symphony No.
12” nel 1997, egli scrive: “Per coloro tra di noi che non sono scappati dall’auditorium tappandosi le orecchie, la musica di Branca ci ha posseduto (e continua a possederci) tramite strutture, piani e iperspazi, coinvolgendoci in una strana allucinazione consensuale nella distorsione.” 11 Radicandosi nella sovrapposizione tra musica e arti visive in New York, Reich aggiunge che “Branca tifoso del cyberpunk è il legame con l’artista Robert Longo, di cui Branca utilizzò un dipinto tratto dalla serie Men in the Cities come copertina dell’album Ascension (1981) e il film Johnny Memonic (1995) basato sul racconto breve di Gibson che porta lo stesso nome (1981)” Un punto di ancor più diretta connessione subculturale arriva dai Sonic Youth, la celebre band, che emerse nella parte finale della no wave (e che si fece produrre da Branca molti dei loro primi album). Dopo una sfilza di pubblicazioni che seguivano il modello no wave – e che affrontavano i tipici temi no wave – cambiarono marcia e cominciarono a bersagliare la loro musica con citazioni dalle opere di fantascienza schizofrenica di Philip K. Dick e dal cyberpunk di William Gibson. Per esempio, “Day Dream Nation”, una delle loro opere fondamentali, vanta una traccia intitolata “The Sprawl” – il nome della super-città distopica di Neuromancer e dei suoi sequel. La conseguenza di tutto ciò è che la New York sotterranea – quella che produsse la cultura downtown, la no wave, e gli altri elementi presenti nella concezione della “schizo-cultura” proposta da Semiotext(e) – è l’equivalente reale di quegli strani luoghi creati da Gibson e colleghi. Questo marca, con una certa ironia, la trasformazione dell’accelerazionismo grunge in
cultura grunge, che dilagò negli USA degli anni novanta – tanto quanto la promessa di una sua successiva mercificazione attraverso il processo di riterritorializzazione in atto. Mi rendo conto che questo saggio è fin troppo lungo, e senza una fine in vista. Al posto di una conclusione vera e propria, voglio solo aggiungere alcune osservazioni. Prima di tutto, questa piccola transtoria che abbiamo ricostruito sfocia in un labirinto di sentieri che si intrecciano, con una moltitudine di strade da poter seguire per chi fosse interessato: • Qui non si è fatta menzione di William Burroughs, romanziere della Beat Generation, diventato prima scrittore di fantascienza e poi rivoluzionario (micro)politico. Considerato come il padrino del punk, Burroughs ha avuto una grande influenza sugli artisti no wave, ed i suoi saggi possono essere trovati in vari numeri di Semiotext(e), inclusi Schizo-Culture e Semiotext(e) SF. Le sue strategie letterarie, come la tecnica del ‘cut-up’, sono essenziali quando si traccia non solo la linea di discendenza delle attuali strategie dei media tattici, ma lo stesso sviluppo del cyberpunk come genere narrativo. • Dopo il loro smantellamento da parte dello stato italiano, gli autonomi si dispersero tra occupazioni auto-gestite e centri sociali. Fu qui che la ‘politica cyberpunk’ italiana prese piede, quando gli autonomi diffusero traduzioni di Burroughs e Gibson e cominciarono a rivolgersi al mondo dei computers e all’accesso collettivo alle nuove tecnologie come il nuovo terreno di lotta sociale. Per approfondire i loro legami esterni, questi cyberpunk-autonomi operarono in stretta collaborazione con la rete globale della mail art. 80
• Qui è stata tralasciata anche la sottocultura industriale, che oscilla a metà tra il punk ed il cyberpunk. Attraverso gruppi come i Throbbing Gristle, Burroughs emerge anche qui come la figura di riferimento, e la sua tecnica del ‘cut-up’ viene riformulata nell’idea di alterazione dei corpi attraverso la tecnologia come un mezzo per evadere i processi di soggettivazione messi in atto dal potere. Ed infine, vorrei concludere con una citazione da Nietzsche, tratta da Hardt e Negri: “Chi sono oggi i nostri barbari?”
1 Critical Art Ensemble Electronic Civil Disobedience http://www.critical-art.net/ books/ecd/ecd2.pdf 2 Michael Hardt and Antonio Negri Empire Harvard University Press, 2000, pg. 214 3 Sylvere Lotringer “Better Than Life: My 80s” Artforum, March, 2003. 4 Sylvere Lotringer “Libido Unbound: The Politic of ‘Schizophrenia’”, in Semiotext(e) Anti-Oedipus: From Psychoanalysis to Schizopolitics, 1977, pg. 6. 5 Gilles Deleuze “Nomad Thought”, in Semiotext(e) Nietzsche’s Return 1977, Pg. 15; Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, pg. 312 (Pensiero nomade si trova in appendice al libro in oggetto), Einaudi, 2002. 6 Marc Masters “No! The Origins of No Wave” Pitchfork January 15th, 2008, http:// pitchfork.com/features/articles/6764no-the-origins-of-no-wave/ 7 Antonio Negri “Capitalist Domination and Working Class Sabotage” https:// libcom.or g/librar y/capit alis t- domination-working-class-sabotage-negri 8 Felix Guattari “The Proliferation of the Margins”, in Autonomia: Post-Political Politics Semiotext(e), 1979 pg. 109 9 Gilles Deleuze and Felix Guattari Anti-Oedipus Penguin, 1977, pg. 133 10 Rudy Rucker, Peter Lamborn Wilson, Robert Anton Wilson, Semiotext(e) SF Semiotext(e), 1989 pg. 13 11 James Reich “Glenn Branca and the Lost History of Cyberpunk” Fiction Advocate, May 29 th, 2009, http://fictionadvocate.com/2014/05/29/glenn-branca-andthe-lost-history-of-cyberpunk/
81
paolo davoli e letizia rustichelli
v
Marx, moneta e capitale nel dibattito della sinistra marxista italiana e francese ai tempi dell’Anti-Edipo.
Intervista a Lapo Berti, economista della rivista ‘Primo Maggio’
PD Puoi riassumere per il pubblico d’oggi il contesto intellettuale e politico nel quale s'inscrive la discussione intorno a «moneta e capitale» nella sinistra marxista italiana e francese degli anni Settanta?
LB I primi anni settanta sono stati un periodo turbolento, socialmente, economicamente e politicamente. Non c’erano solo i movimenti di protesta scatenati dalle nuove generazioni di studenti cresciute all’interno dei vari miracoli economici e dai ceti operai che chiedevano una porzione maggiore della ricchezza prodotta. C’era stato il 15 agosto 1971, quando Nixon aveva di fatto posto fine, in maniera del tutto unilaterale, al sistema monetario internazionale creato a Bretton Woods nel luglio del 1944, che, sancendo la supremazia mondiale degli Stati Uniti, aveva accompagnato in maniera tutto sommato equilibrata lo sviluppo degli scambi internazionali e la crescita dell’economia mondiale. Ci fu il primo grande shock petrolifero nel 1974, che pose il mon83
do capitalistico sviluppato di fronte al fatto che non aveva più il controllo diretto sul prezzo di quello che era, ed è, il combustibile dello sviluppo come finora l’abbiamo conosciuto. E c’erano, naturalmente, gli sconvolgimenti che, a seguito di tutti questi eventi, investivano la sfera della moneta, in primo luogo con l’esplosione inflazionistica dei prezzi, con la difficoltà di gestire i movimenti internazionali dei capitali, con la necessità di reinventare la politica monetaria a livello nazionale e globale. Sul fronte dei movimenti sociali e nel ribollire di tentativi di dar vita a soluzioni organizzative che li proiettassero sul terreno della lotta per il potere, si assisteva, per lo più, a riprese acritiche di esperienze del passato, già sepolte dalla storia, o a fughe volontaristiche in avanti verso un futuro di cui si sapeva e si capiva ben poco. Specialmente in Italia, si respirava un’aria strana all’interno dei movimenti extra-parlamentari o, almeno, così la vivevo io. La fase dell’operaismo o, se si preferisce, del primo operaismo era definitivamente
alle spalle. Chiusa nel 1966, con scandalosa consapevolezza, l’esperienza di Classe operaia, coloro che, a vario titolo, ne avevano fatto parte avevano compiuto altre scelte e le avevano portate avanti concretamente, anche dando vita a primi esperimenti organizzativi. Le cose avevano preso una piega diversa da quella che aveva costituito la ragion d’essere del primo operaismo. Alcuni di noi, dentro e fuori le organizzazioni che si erano formate, erano perplessi, specialmente di fronte alla drastica caduta dell’impegno innovativo sul piano dell’analisi e della teoria cui facevano da contraltare le cieche derive dell’azione violenta. L’attivismo dei movimenti portava necessariamente a una semplificazione delle parole d’ordine e, in parte, anche al recupero di atteggiamenti e stilemi che appartenevano a una cultura politica, quella comunista, che ritenevamo dovesse essere superata. Il problema dell’organizzazione dei movimenti sembrava prevalere su tutto. Non mancavano le forzature volontaristiche.
LB In questo contesto, nacque, per iniziativa principalmente di Sergio Bologna, il progetto di una rivista, chiamata programmaticamente “Primo maggio”, che tenesse fermo l’ancoraggio del discorso politico all’esperienza materiale delle lotte operaie, andando alla ricerca, nella concretezza storica, delle manifestazioni di quella autonomia operaia la cui enunciazione era il lascito più significativo del primo operaismo. La rivista era nata anche con un programma scientifico radicale e innovativo, che si proponeva di restituire nella loro autenticità, non mediata dall’ideologia, le esperienze di lotta, facendo ricorso alle testimonianze orali di coloro che ne erano stati protagonisti. C’era, inoltre, una forte spinta a innovare nelle metodologie delle varie discipline, dalla storia all'economia, alla politica. Per chi, come me, era fortemente preoccupato delle possibili derive cui si andava incontro con una radicalizzazione volontaristica dello scontro sociale, si trattava di un ancoraggio importante, che delimitava uno spazio di discussione libera, al riparo dalle forti pressioni che provenivano dal contesto. Era il tentativo di sottrarsi a scelte non convincenti o eccessivamente semplificatrici, foriere di sciagure, ritagliandosi uno spazio in cui costruire un’elaborazione autonoma, anche di temi che erano allora estranei alla cultura elementare e improvvisata dei movimenti. Credo che in molti di quelli che più attivamente parteciparono all’elaborazione teorica della prima fase di “Primo Maggio”, sicuramente in me, si agitasse un’inquietudine generata dalla crescente consapevolezza dei limiti che erano posti alla comprensione del presente dal rimanere confinati entro il pe84
rimetro dell’ortodossia marxista, con il sostanziale rifiuto di confrontarsi con i punti di vista e le analisi elaborati dagli avversari. La formazione culturale dei militanti avveniva, per lo più, tramite la frequentazione ossessiva dei sacri testi del marxismo, non sempre di eccelsa qualità teorica, a parte quelli di Marx e alcuni di Lenin. Era inevitabile l’inclinazione all’ortodossia, perché quello era l’unico metro di paragone. Questo generava, almeno, in alcuni, un senso di asfissia, alleviato, per quanto mi riguarda, solo dall’esperienza innovatrice del primo operaismo. C’era bisogno di confrontarsi con altre correnti di pensiero, addirittura di andare a curiosare nel campo dell’avversario. Io, per esempio, in quegli anni avevo cominciato a studiare intensivamente la letteratura monetarista e trovavo che ci fossero più stimoli in questa lettura che nella ripetizione pappagallesca delle formule marxiste. L’esperienza dei “Quaderni rossi” e di “Classe operaia”, con la sua tensione verso l’analisi del presente e il suo tentativo di immettere linfa vitale nella lettura dei testi marxiani, facendo saltare l’ortodossia sclerotizzata, ebbe anche questo effetto. Il via al “dibattito sulla moneta” in “Primo Maggio” lo dette, di nuovo, Sergio Bologna, con la sua felice intuizione di riproporre gli scritti, pressoché sconosciuti, di Marx sulla crisi del 1858 quale potente sollecitazione a ripensare i rapporti fra moneta e crisi capitalistica. Convinto com’ero che gli strumenti teorici con cui la sinistra, in tutte le sue componenti, affrontava l’analisi della crisi in atto fossero del tutto obsoleti e insufficienti e che la chiave di tutto, su cui far leva per elaborare un nuovo approccio alla crisi capitalistica, fosse proprio
un’analisi più realistica del modo di funzionamento del sistema monetario e del suo ruolo nella gestione del comando capitalistico, aderii con entusiasmo alla proposta di partecipare a un lavoro collettivo di approfondimento di questi temi. Nacque così, all’interno di “Primo Maggio”, il “gruppo sulla moneta”, in cui si raccolsero e si incrociarono percorsi di ricerca e insofferenze politiche, dando luogo a un lavoro collettivo molto aperto e creativo, in cui ciascuno cercava di portare quegli che gli sembravano i punti di vista più innovativi e promettenti, spesso niente di più che spunti e intuizioni allo stato grezzo, ma che avevano il pregio di nascere dall’osservazione disincantata della realtà sociale e della dinamica dei conflitti. Il metro di giudizio che portavamo con noi era quello della più efficace rappresentazione dei processi economici in atto come manifestazione di una crisi che percorreva tutto l’universo capitalistico e aveva la sua linea di faglia nel confronto con le lotte sociali che avevano caratterizzato gli anni precedenti. Concentrare l’attenzione sui fenomeni monetari e sulla politica monetaria rappresentava uno scarto importante, perché la lettura codificata del marxismo ci aveva abituato a osservare in primo luogo, se non esclusivamente, la sfera della produzione, ad analizzare i rapporti di produzione, i conflitti che attengono ai rapporti di lavoro o, se si preferisce, di subordinazione del lavoro al capitale. Non si trattava di abbandonare quel terreno, anche se ci appariva sempre più chiaro che, anche se quello era l’epicentro del conflitto sociale, non esauriva l’ambito del conflitto. Occorreva alzare lo sguardo a quell’insieme di fattori e di pratiche
cui Foucault (1978) avrebbe poi dato il nome di “governamentalità”, perché ci si rendeva conto che esistevano strumenti e poteri sovraordinati alle lotte operaie e studentesche, di cui era necessario e urgente comprendere la logica di funzionamento, per pervenire a una rappresentazione più efficace della crisi e delle dinamiche che in essa erano in gioco. LR Qual’è stato il tuo ruolo dentro a «Primo Maggio» e come è nato, e poi sviluppato, il confronto con Suzanne de Brunhoff?
LB Non sta a me, ovviamente, definire il mio ruolo dentro “Primo Maggio”. Del resto, analisi e giudizi su quell’esperienza sono già stati espressi (Bologna 1993; Bermani 2010; Karl Heinz Roth e Stefano Lucarelli ibid.; Steve Wright 2013; Lucarelli 2013). Essendo già impegnato in studi sull’economia monetaria, a me toccò il compito di stimolare e coordinare il lavoro, ma questo fu, nel senso più lato, un lavoro collettivo. A me, in particolare, fu affidato il compito di formulare un primo resoconto dei risultati cui era arrivato il gruppo e dell’orientamento che esso cercava di proporre e di argomentare. Denaro come capitale (“primo Maggio”, n. 3-4, 1974), pur nella consapevolezza dei limiti nel grado di elaborazione teorica, voleva rappresentare, se non proprio un manifesto, un programma di lavoro, che si muoveva lungo due assi prospettici, che volevamo fissare come punti fermi. Da un lato, c’era lo sforzo e l’impegno di ripartire dalle cose stesse, da un’analisi dei processi in atto quanto più possibile scevra da posizioni preconcette. Dall’altra, il proposito di “testare” la 85
validità dell’approccio marxiano, con la ferma intenzione di rimanere ancorati ai fatti invece di adattarli, come era abbastanza diffuso nell’ortodossia marxista. Naturalmente, le due linee erano strettamente intrecciate. La nuova rappresentazione della crisi capitalistica veniva prendendo forma in un serrato confronto con i punti di riferimento marxiani e con i processi reali, nonché, per quanto mi riguarda, con gli strumenti di analisi messi in campo dall’avversario intellettuale (il monetarismo). Eravamo convinti che la funzione e il modus operandi della moneta fossero profondamente mutati, in particolare con la fine di un sistema monetario internazionale imperniato su cambi fissi, e che si fossero enormemente ampliati i confini della politica monetaria ovvero della manipolabilità della moneta con finalità più o meno dichiaratamente politiche. Per essere più precisi, ritenevamo che la moneta, ormai svincolata da qualsiasi legame diretto o indiretto con un valore fisicamente definito (l’oro), fosse diventata una variabile interamente manovrabile e che questa manovrabilità della moneta si stesse costituendo come uno dei principali strumenti di governo dell’economia capitalistica, se non il principale. La moneta era diventata un’istituzione ad alta valenza politica. Era inevitabile, dunque, che la politica monetaria, divenuta a tutti gli effetti strumento di governo politico, intervenisse direttamente nel regime dei rapporti di forza fra le classi. Questa era la nuova realtà del conflitto che andava portata alla luce. In questo progetto ci eravamo impegnati. L’attenzione era concentrata sulla gestione politica della moneta quale strumento principe del comando
capitalistico sull’economia e del controllo dei conflitti sociali che avessero il potere di influenzare negativamente il processo della produzione industriale e, soprattutto, l’andamento dei profitti. In altre parole, la politica monetaria come strumento di controllo della distribuzione del reddito a salvaguardia dei livelli di profitto e, quindi, a favore delle imprese. Questa era l’avventura intellettuale in cui ci sentivamo impegnati. Denaro come capitale tentava di gettare le basi di questa prospettiva teorica; il successivo Inflazione e recessione: la politica della Banca d’Italia (1969-1974), ancora scritto da me, tentava di applicare questa impostazione teorica a un caso concreto, quello italiano. Si narra che quest’ultimo articolo abbia suscitato una certa sorpresa e qualche sconcerto all’interno della Banca d’Italia, fra coloro che prestavano attenzione alle cose della sinistra, fino al punto di sospettare che in realtà provenisse dall’interno. Segno inequivocabile che avevamo colto nel segno e messo il dito nella piaga! In realtà, l’articolo aveva uno scopo molto ambizioso, perché intendeva mostrare, sulla base di un esempio concreto e piuttosto rilevante, come il governo dei flussi monetari non fosse affatto un compito puramente tecnico, ma avesse una forte valenza politica. Questa prospettiva analitica era resa possibile dal fatto che avevamo compreso, in primo luogo, che la moneta non era affatto neutrale rispetto ai processi dell’economia produttiva, come sosteneva la dottrina monetarista dominante, ed era, invece, manovrabile e manovrata quale strumento per intervenire in quello che era allora il terreno di scontro sociale più aperto,
quello della ripartizione del reddito fra salari e profitti. Avevamo capito che la banca centrale aveva il potere di determinare il modo in cui la moneta entrava nel sistema economico e deciderne la quantità. Tramite queste due leve era in grado di intervenire sui prezzi relativi, per esempio dei beni e della forza lavoro e, quindi, di spostare gli equilibri sociali e attutire l’impatto delle rivendicazioni salariali. La novità che intendevamo portare nella considerazione dei fenomeni monetari era tutta qui, ma aveva implicazioni teoriche e politiche dirompenti, che rimasero, in buona parte, allo stato embrionale o del tutto inespresse. Nei numeri successivi comparvero altri articoli prodotti dal gruppo sulla moneta, tra cui quello di Franco Gori sulla spesa pubblica e quello di Mario Zanzani sull’inflazione. Erano carotaggi in campi per noi inesplorati. Davano conto della fecondità delle ipotesi, ma non erano ancora i capitoli di una ricostruzione organica e sistematica del quadro economico che avevamo davanti. Da questo traguardo rimanemmo decisamente lontani e negli anni successivi, per tanti motivi, nessuno riprese e tanto meno portò avanti il lavoro iniziato. Quello che poteva essere un nuovo stadio nello sviluppo di una teoria del capitalismo che riprendesse le istanze marxiane di fondo rimase in fasce, senza neanche raggiungere l’adolescenza. Ci furono, in seguito, tentativi sporadici di riprendere le fila del discorso, ma il lavoro si era ormai rinchiuso nello spazio sterile delle aule universitarie. Non respirava più l’aria pungente dei movimenti sociali che l’avevano originariamente ispirato. La breve controversia con Suzanne de Brunhoff nacque a 86
seguito di un seminario su “Il discorso marxista sul denaro alla luce della crisi monetaria”, cui non potei partecipare (risiedevo a Firenze), che si svolse presso la Fondazione Feltrinelli fra l’11 aprile e il 13 giugno 1975 e a cui, oltre alla de Brunhoff, partecipò anche Jochen Reiche, un economista tedesco in contatto con Sergio Bologna. La de Brunhoff era una marxista rigorosa, ma non dogmatica, impegnata a sviluppare e ad arricchire la teoria marxiana della moneta, applicandola, in particolare, all’analisi della politica monetaria, ma mantenendosi rigorosamente entro in confini dell’impostazione marxiana. Non era sorda alle novità e non rifuggiva dell’innovazione, ma tutto il suo lavoro teorico era rivolto a difendere la teoria del valore quale punto archimedico dell’analisi marxiana del capitalismo. In un articolo pubblicato su “Politique aujourd’hui”, maggio-giugno 1975, la de Brunhoff coglieva impietosamente i punti deboli e le lacune contenuti in Denaro come capitale per contestare un’impostazione che, pur nelle sue insufficienze, considerava, evidentemente, interessante e stimolante, tanto da meritare una confutazione. La de Brunhoff, tuttavia, non affrontava il punto centrale della nostra argomentazione ovvero la manovrabilità e, quindi, la valenza politica della moneta. Due erano le critiche principali avanzate dalla de Brunhoff. Da un lato, ci rimproverava di non aver elaborato a sufficienza la nozione di moneta utilizzata nell’argomentazione e, dall’altro, critica ancora più bruciante, di essere succubi, più o meno consapevolmente dell’impostazione keynesiana o, peggio ancora, monetarista. Con giovanile baldanza, le rispondemmo, più o meno, che non ci impor-
tava molto il colore del gatto purché prendesse i topi. In altre parole, la nostra prima preoccupazione non era di difendere l’ortodossia marxiana e di preservarci puri rispetto a eventuali contaminazioni “borghesi”. Ci sentivamo liberi di prendere gli strumenti che ritenevamo più utili ovunque li trovassimo, perché l’obiettivo principale era quello di disporre di un apparato teorico che facesse presa sulla realtà e che fosse in grado di fornire ai soggetti sociali in lotta idee capaci di farsi azione. Era quel tentativo di mettere in comunicazione teoria e pratica che costituiva un tratto caratteristico dei movimenti usciti dall’esperienza del ’68 e che, in seguito, tante critiche avrebbe attirato da parte di intellettuali che di pratica non volevano sentir parlare. Per quanto riguarda la nozione di moneta, è vero che non avevamo elaborato una definizione originale e compiuta, ma ci sembrava di avere colto quello che contava e che non era scritto in nessuna delle teorie monetarie correnti, ovvero che la moneta è un’istituzione che fa parte dell’apparato in cui si articola il governo della società. E questo, per il momento, ci bastava. Personalmente, sono tornato sui temi della moneta e del capitale in un contributo del 1992, Moneta, capitale e ricchezza, “Problemi del socialismo”, Il denaro, n. 7-8. PD Quali erano i limiti che avevi riscontrato in Marx e nella sua teoria generale della moneta? Quali erano invece le posizioni ‘ufficiali’ del movimento marxista europeo? Perché non ci si è accorti - se non con grave ritardo - che il capitalismo stava avviando quello «switch» fatale tra produzione e finanza e tra plusvalore umano e plusvalore macchinico?
LB In generale, la situazione del marxismo in quegli anni era deplorevole. Un’immensa e soffocante scolastica, fatta di chiose e commenti del tutto ripetitivi e assolutamente autoreferenziale. La correttezza era il presupposto, non il risultato dell’analisi. I fatti avrebbero dovuto adattarsi o altrimenti peggio per loro. Era così in Francia, in Germania, in Italia, fatta salva l’esperienza (moderatamente) eretica del primo operaismo. Anche quando c'erano autori che tentavano di rinnovare la prospettiva marxista, come, per citarne due molto diversi fra di loro, Della Volpe in Italia e Althusser in Francia, il dibattito non filtrava all'esterno e rimaneva confinato nel chiuso delle parrocchie, sostanzialmente incapace di confrontarsi con quanto veniva elaborato al di fuori del perimetro del marxismo. C'era, implicita o esplicita, una presunzione di superiorità scientifica dell'impostazione marxista che esimeva dal confronto. Per quanto mi riguarda, dopo avere passato anni sui sacri testi, letti in italiano, in tedesco e nel francese dei primi due volumi della mitica edizione di Maximilian Rubel, i panni del marxismo mi stavano stretti e mi agitavo per liberarmene. Pensavo di avere appreso tutto quello che contava e che ancora era vivo del marxismo ed ero pronto per imbarcarmi in imprese intellettuali meno certe e rassicuranti. Pensavo, in particolare, di avere acquisito un metodo di analisi dei fatti economici che mal sopportava gli angusti confini disciplinari e non intendeva rinunciare a considerarli nel loro contesto politico, mettendone in luce le implicazioni per il governo della società. L’elemento scatenante furono i movimenti sociali della fine degli anni sessanta e la crisi che ne seguì. 87
Mi ero convinto che il marxismo ortodosso non fosse più in grado di cogliere e di elaborare teoricamente le mutazioni del capitalismo. L'impennata inflazionistica dei primi anni settanta e la fine del sistema di Bretton Woods attiravano inevitabilmente l'attenzione sui fenomeni monetari in generale e, in particolare, sull’evoluzione del sistema dei pagamenti e sulla centralità acquisita dalla gestione della politica monetaria, sia a livello nazionale che internazionale. Oggi è difficile comprendere l'effetto dirompente di quegli eventi che intervenivano a porre fine ai "trenta gloriosi", allo sviluppo impetuoso del dopoguerra, e sembravano aprire una nuova fase di instabilità del capitalismo e quindi di spazi aperti per chi pensava alla possibilità di un suo superamento. C'erano stati gli anni delle grandi lotte e delle rivendicazioni salariali e non era difficile cogliere l'esistenza di una connessione fra i due insiemi di eventi. Ma qui sorgevano domande cui, al momento non c'erano risposte. Il marxismo, anche nei suoi sviluppi più recenti, non sembrava in grado di fornire chiavi interpretative utili e utili strumento di analisi. Avevamo compulsato furiosamente le dense pagine dei Grundrisse dedicate alla moneta e, in particolare, alla moneta come capitale (35-162) nonché i geniali abbozzi della sezione V del terzo libro del capitale sul credito, sul capitale monetario e sul saggio d'interesse. Ma, anche qui, erano più gli interrogativi che le risposte. Se si volevano cogliere appieno questi cambiamenti, occorreva uscire dalle gabbie intellettuali del passato, anche se firmate Karl Marx. Allora, stiamo parlando di più di quarant’anni fa, forse non era
possibile intuire gli sviluppi cui la moneta priva di valore intrinseco, la fiat money, come la chiamano gli americani, avrebbe potuto dare luogo in direzione di una progressiva estensione dell’area occupata dall’attività finanziaria e, soprattutto, di una crescente sovra-determinazione dell’economia da parte della finanza. Non era possibile, allora, immaginare la formazione di un’oligarchia finanziaria globale come quella che oggi abbiamo di fronte. Ma avevamo cominciato a porre le basi di uno schema teorico che avrebbe consentito di analizzare e di comprendere questi sviluppi. Il punto di forza stava in un’analisi interdisciplinare, che non guardava solo all’economia ma anche alla politica, ripristinando lo spirito originario dell’“economia politica” offuscato dalla deriva tecnocratica della scienza economica contemporanea. Gran parte dell'intellettualità di sinistra che si confrontava direttamente con i testi marxiani era impegnata a difendere la teoria del valore-lavoro, perché riteneva, non a torto, che con questa crollava l'intero impianto della costruzione teorica marxiana fondato sulla denuncia dell'appropriazione indebita, da parte della classe dei capitalisti, di un plusvalore che non sarebbe stato altro che una parte del lavoro erogato non pagata. A nostro avviso, tuttavia, il mantenimento della teoria del valore-lavoro come architrave dell'interpretazione marxiana del sistema capitalistico, impediva di comprendere l'essenza e la funzione centrale della moneta nel capitalismo attuale. L’impostazione marxiana, nonostante alcune brillanti intuizioni, rimaneva ancorata all’idea della moneta-merce, strettamente intrecciata alla teoria del va-
lore-lavoro. Non ci ponemmo il problema di elaborare una visione più ampia e più avanzata che riuscisse a tenere insieme l'istanza critica rappresentata dalla teoria del valore-lavoro con la nuova, seppur embrionale, interpretazione dei fattori monetari che consideravamo parte integrante e caratteristica del sistema capitalistico. Urgeva la necessità di dotarsi di strumenti di analisi adeguati, anche se rozzi, per comprendere la nuova realtà del capitalismo e dotare i movimenti sociali di una conoscenza capace di tradursi in azione. Le analisi dei fenomeni monetari portate avanti all’interno di “Primo Maggio” erano una vicenda tutta italiana, dovuta, forse, all’intensità che qui avevano raggiunto i movimenti sociali e alla forte domanda di teoria nuova, di un pensiero più fresco, capace di aggredire i fatti e renderli leggibili a un’ampia platea di soggetti non adusa a frequentare la teoria. Non mi risulta che altrove vi fosse una simile vivacità nella ricerca. Era anche questo, forse, un lascito del primo operaismo, che ci aveva abituato a non aver paura dell'eresia e al gusto di spostare sempre la visuale rispetto a quello che era l'asse dell’ortodossia, con l’occhio fisso alle dinamiche del conflitto sociale. In quegli anni, nei paesi caratterizzati dalla presenza di forti partiti comunisti, il marxismo era un'ortodossia soffocante, i cui sacerdoti erano impegnati in discussioni che a noi sembravano bizantine su questioni irrilevanti. L'interpretazione prevaleva sull'analisi. Neanche i nuovi movimenti erano del tutto esenti dal richiamo dell'ortodossia, dietro cui nascondere una certa incapacità di elaborare i problemi oltre alla dimensione della quotidianità. 88
LR Visto con gli occhi di oggi, cosa ne pensi del dibattito che si sviluppò in quegli anni? E’ servito, a sinistra, per rendere più accurata la critica al capitalismo oppure lo ritieni un’occasione sprecata? La moneta, e la finanza in particolare, non continua ad essere - tutt’oggi - la «bestia nera» della sinistra?
LB In tutta onestà, direi che quel dibattito non fu nulla più che un’ouverture. La strada, ritengo, era quella giusta, ma su quella strada riuscimmo solo a muovere i primi passi, largamente incerti e confusi. Due cose basilari avevamo capito, che non erano certo patrimonio condiviso della sinistra, né in Italia né altrove. Avevamo capito, in primo luogo, una cosa molto semplice: che la natura della moneta era definitivamente cambiata e che questo cambiamento rendeva possibile strumenti interamente nuovi e impensati di intervento nell’economia. Strumenti potenti, che possono agire su uno degli aspetti più delicati di una società, quello della distribuzione del reddito, dotati, quindi, di una fortissima valenza politica. I fatti ci hanno dato ampiamente ragione. La politica monetaria, ancorata all’indipendenza formale e sostanziale delle banche centrali, sarebbe diventata il perno della nuova governamentalità. E, studiando il modus operandi della moneta, avevamo capito anche un’altra cosa fondamentale, che attraverso di essa si manifestava uno dei problemi irrisolti delle società moderne, quello del potere economico, lasciato libero di agire indisturbato, senza soggiacere a nessuno dei vincoli e dei limiti cui le costituzioni moderne hanno assoggettato gli altri poteri fondamentali nella società. Nell’architettura dell’equilibrio
e della distinzione dei poteri, che, pur nella sua imperfezione, ha reso possibili le società democratiche, il potere economico era assente. Se avessimo proseguito su quella strada, se avessimo approfondito quelle analisi, forse, non saremmo stati sorpresi e non ci saremmo fatti trovare disarmati di fronte al dilagare del potere economico su scala globale e si sarebbe, forse, potuto porre argini, anche solo con la piena consapevolezza, alla colonizzazione della politica da parte di un potere intimamente oligarchico, come è quello economico, e quello bancario e finanziario in particolare. Forse, ci saremmo accorti prima della deriva cui andavano incontro le democrazie, svuotate di qualsiasi potere sostanziale, così come i corpi intermedi che di quelle democrazie avrebbero dovuto essere l’anima e il sangue. Forse non saremmo stati sorpresi, e battuti, dall’avvento del reaganismo e del thatcherismo. Non ci fu nulla di tutto questo. La sinistra ortodossa fu appena sfiorata da questi temi e, quando li affrontò, lo fece rimanendo rigorosamente entro i confini della dottrina accademica, senza raccogliere la sfida di una teoria che spostasse sostanzialmente lo sguardo sui processi economici reali avviandosi verso quell’approccio interdisciplinare cui pure avevano alluso i più grandi economisti del secolo, Keynes e Schumpeter, per non parlare di un antropologo come Polanyi. Il tentativo di analizzare i fenomeni monetari in una prospettiva teorica nuova, capace di rendere conto della centralità che la dimensione monetaria sembrava avere assunto nella metamorfosi del capitalismo in atto dall’inizio degli anni settanta, fu ripreso, in maniera ap-
89
parentemente del tutto indipendente, da un gruppo di discussione messo in piedi e animato da uno degli economisti italiani più originali, Augusto Graziani. Di quel gruppo Graziani chiamò a far parte anche me, dopo avermi contattato nella tumultuosa atmosfera di un convegno di movimento, a Napoli, in cui si sproloquiava anche di moneta (da parte mia), mostrando di apprezzare le intuizioni che avevano preso forma all’interno del “gruppo sulla moneta” di “Primo Maggio”. Della partita era anche un altro amico proveniente dall’esperienza di “Primo Maggio”, Marcello Messori, cui si devono importanti elaborazioni nel campo della teoria monetaria. Così, unico non accademico, entrai a far parte di quel gruppo prestigioso che produsse una notevole mole di lavoro nel tentativo di costruire una teoria monetaria della produzione e nel riportare alla luce autori noti e meno noti che avevano dato contributi originali e importanti alla costruzione di una teoria monetaria (vedi la collana “Economia Monetaria”, diretta da Graziani e pubblicata dalle Edizioni Scientifiche Italiane fra il 1987 e il 1999). In quel gruppo, tuttavia, si era persa, inevitabilmente, data l’impronta accademica prevalente, l’istanza politica che aveva animato il lavoro di “Primo Maggio” nella ricerca di un nesso fra la gestione della politica monetaria e la dinamica dei rapporti di potere che dall’ambito economico si proiettano sulla totalità dei movimenti e dei conflitti che percorrono la società. Questo, a parte sporadiche incursioni, è rimasto un terreno sostanzialmente inesplorato, anche se più recentemente ha cominciato a popolarsi di stregoni e ciarlatani, espressione di un populismo monetario che è 90
una variante particolarmente insidiosa di questo cancro della democrazia. Oggi, la prospettiva che avevamo intravisto nei primi anni settanta si è pienamente realizzata. Il dominio della moneta quale strumento di governo della vita economica ha raggiunto livelli e dimensioni impensati, e impensabili. Ma ora quel mondo è qui e, di nuovo, bisogna innanzitutto capirlo, svelarne le caratteristiche, le funzioni, il modus operandi. All’inizio si può essere molto semplici, addirittura banali. La ratio che muove l’evoluzione della sfera monetaria e ne detta i passaggi sta sempre, credo, nell’insopprimibile esigenza del capitalismo di ampliare continuamente la disponibilità di mezzi di pagamento per dar vita a nuove combinazioni produttive. L’ideale è quello che oggi abbiamo davanti: un sistema capace di creare, sotto varie forme (che non sono indifferenti e interscambiabili), una quantità virtualmente illimitata di mezzi di pagamento. L’Eldorado capitalistico sembrerebbe finalmente a portata di mano. Le banche centrali mettono in circolazione nuova liquidità praticamente a costo nullo. Il sistema bancario, manovrando la leva finanziaria (leverage), fa il resto. La dilatazione del sistema finanziario cerca di trattare la mole crescente dei rischi connessi con questa modalità di creazione dei mezzi di pagamento. Ma qui le cose si complicano. Il sistema dei mezzi di pagamento ha subito una metamorfosi che i vecchi strumenti analitici non sono in grado di cogliere. La massa dei mezzi di pagamento in circolazione assume sempre più la caratteristica di un debito e finisce con il coincidere con esso. Un fenomeno non nuovo,
anche se raramente rilevato, ma che oggi assume forme totalmente nuove e comporta conseguenze del tutto impreviste. La moneta, il mezzo di pagamento, nasce oggi come un debito nei confronti di un qualche soggetto, pubblico o privato che sia. Ogni volta che nuovi mezzi di pagamento entrano nel sistema, questo avviene perché qualcuno ha contratto un debito. Nella circolazione, tuttavia, questa caratteristica sembra scomparire, annullarsi. I mezzi di pagamento sembrano vivere di vita propria. Il debito, cui sottende sempre, in maniera apparentemente costitutiva, una scadenza che definisce la durata dell’impegno, tende a diventare permanente, con ciò mutando natura. Come talora avviene con gli oggetti sociali che, dopo evoluzioni anche lunghissime e infinite metamorfosi, sembrano ritornare alle origini, esibendo la loro essenza, spogliata di ogni attributo accessorio, anche il debito sembra riassumere quella forma che taluni antropologi intravedono nelle società preistoriche quando il debito sarebbe stata la forma stessa dell'esistenza, in quanto la vita era percepita come un debito nei confronti della divinità che andava periodicamente rinnovato tramite l'istituzione del sacrificio animale o umano. Così, oggi, il debito nei confronti di istituzioni terrene, divenuto permanente, potrebbe essere concepito come la condizione generale della riproduzione sociale, con il periodico pagamento di un tributo, sotto forma di interesse, destinato a mantenere in vita il debito stesso. Nessuno ripagherà quel debito, ma la sua permanenza detta le condizioni a cui tutti i membri della società, vincolati dal quel rapporto assoluto di assoggettamento che è l'indebitamento,
sono tenuti a conformarsi. Questo è il vero arcano che da sempre si cela dietro la moneta e che oggi per la prima volta viene allo scoperto in tutta la sua brutale potenza. I sistemi dei pagamenti attualmente in vigore, sia a livello nazionale che internazionale, sono tutti figli di due fondamentali condizioni che hanno preso forma nel corso del tempo. Da un lato, lo sganciamento di quella che è ancora oggi la moneta internazionale, il dollaro, da qualsiasi vincolo nei confronti di qualsiasi valore fisico determinato dalla condizione di scarsità (l’oro). Questo ha avuto come conseguenza di rendere i mezzi di pagamento (la moneta), in tutto e per tutto, un’istituzione fondata sulla convenzione o, meglio, sulla fiducia, il cui “valore” deriva dal fatto di essere amministrata in monopolio da una o più istituzioni a questo deputate dallo stato. Dalla moneta-merce alla moneta-debito. Dall’altro lato, la separazione dell’attività di emissione della moneta dall’attività di governo che è stata affidata, in esclusiva, a un ente autonomo e indipendente, la banca centrale, del tutto sottratta, almeno teoricamente, all’influenza politica del governo. Ne consegue che, oggi, i mezzi di pagamento sono, per intero, di origine bancaria e, almeno sotto il profilo formale, rappresentano un debito che deve essere restituito agli emittenti. Non deve sfuggire che, storicamente, lo sviluppo di un sistema monetario e di un sistema dei pagamenti sono entrambi processi che promanano dall’alto, dallo stato e dai grandi commercianti/capitalisti. Che siano le banche centrali a “creare” dal nulla la moneta e che essa rappresenti la contropartita di un debito, è cosa 91
nota almeno dagli anni venti del secolo scorso. Lo proclamò, ad esempio, davanti a una Commissione del Congresso, un grande Governatore della Federal Reserve, Marriner Eccles nel settembre del 1941. In risposta alla richiesta di spiegare come la banca trovasse i soldi per acquistare i titoli governativi, Eccles affermò: “La creiamo noi… sulla base del diritto di emettere moneta creditizia… Questo è il nostro sistema monetario. Se non ci fossero debiti, nel nostro sistema monetario non ci sarebbe nemmeno la moneta” (cit. in Griffin 2010, 187-88). Allora, tuttavia, era ancora presente il vincolo costituito dal collegamento del dollaro con l’oro, anche dopo la svalutazione del 40% operata da Roosevelt nel 1934. Il target dei 35$ per oncia di oro fino costituiva un vincolo che impediva alla banca centrale americana di utilizzare indiscriminatamente e illimitatamente il potere di emettere moneta creandola dal nulla. Come ho già detto, ciò che caratterizza la situazione attuale a partire dal fatidico ferragosto del 1971 è che anche questo vincolo all’emissione di moneta ovvero alla creazione di mezzi di pagamento è venuto meno. Le banche centrali sono virtualmente in grado di immettere sul mercato tutta la liquidità che ritengono opportuna. Il QE (Quantitative Easing) è lo strumento con cui attualmente esse attuano questa possibilità. I mercati vengono inondati di liquidità a costi pressoché nulli per gli utilizzatori, le banche in primis. Questa ipertrofia dell'offerta di mezzi di pagamento è concettualmente all'origine del divario sempre più ampio e pericoloso che si è scavato fra il mondo delle imprese che producono beni e servizi e il mon-
do delle banche e della finanza. È venuto meno il dispositivo che regolava la creazione di mezzi di pagamento in relazione ai bisogni della produzione e dell'investimento. I flussi di mezzi di pagamento originati dal sistema delle banche, ma non richiesti e non utilizzati dalla sfera della produzione, si sono indirizzati verso gli impieghi finanziari gonfiando a dismisura lo spazio della finanza e moltiplicando all'infinito gli strumenti idonei ad assorbire, almeno sulla carta, i rischi connessi all'espansione della leva finanziaria. Nel frattempo il panorama degli strumenti di pagamento si è notevolmente arricchito e articolato. Si sono moltiplicate le monete locali, le monete parallele, le monete telefoniche (coma la famosa M-Pesa in Kenya). La rivoluzione informatica ha reso disponibili nuove tecnologie che, applicate al sistema dei pagamenti, hanno prodotto strumenti di pagamento fortemente innovativi, le monete digitali e le criptomonete, che aprono scenari di cui è ancora difficile, e pericoloso, individuare gli sviluppi. Il più noto è il Bitcoin, uno strumento che presenta caratteristiche inusitate. In primo luogo, ma è l’aspetto meno innovativo, è uno strumento di pagamento privato, che non prevede in alcun modo l’intervento dello stato. Dietro non c’è nessun istituto bancario e, soprattutto, non vi è alcun sistema di compensazione centralizzato, che è la caratteristica distintiva del sistema dei pagamenti attualmente prevalente. A crearlo è una rete di partecipanti che ha accesso a un sistema peer-to-peer che poggia su sofisticati algoritmi e si avvale di una tecnologia altrettanto sofisticata denominata blockchain o distribute ledger technology. Non ha una propria
unità di conto e non fa alcun riferimento alla moneta legale anche se può essere scambiato con essa. Infine, insieme con l’oro, è l’unico strumento di pagamento, l’unica moneta, che non rappresenti la contropartita di un debito. Esiste di per sé e ha valore solo in quanto sussiste la fiducia che sia universalmente accettato. Sotto questo profilo, rappresenta la quintessenza dello strumento di pagamento. Qualcuno si azzarda a ipotizzare o ad auspicare che possa sostituirsi al verticistico sistema dei pagamenti, imperniato sulla banca centrale, che abbiamo attualmente, malgrado copra per ora un ambito piuttosto ristretto e preveda addirittura un tetto alla creazione di mezzi di pagamento (bitcoin), mimando anche in questo lo statuto monetario dell'oro. Allo stato, è più verosimile che esso possa affiancarsi al sistema dei pagamenti tradizionale, secondo una logica di integrazione non nuova. Molte banche stanno attualmente studiando la possibilità di adottare la tecnologia distribute ledger per rendere più efficiente e meno costoso il loro sistema dei pagamenti e, in particolare, delle transazioni finanziarie. In realtà, nessuno, in questo momento, è in grado di prevedere in quale direzione potrà evolvere la tecnologia blockchain in campo monetario e secondo quali modalità interagirà con il sistema monetario e finanziario attuale. La cosa più probabile è che la tecnologia blockchain, che supporta il bitcoin e le altre monete simili, venga utilizzata separatamente dal sistema bancario tradizionale per introdurre un nuovo e più efficiente sistema di gestione delle transazioni bancarie e finanziarie. Per comprendere a fondo la portata della gestione del siste92
ma dei pagamenti nelle nostre società, occorre sempre partire dalla considerazione che in un’economia monetaria pienamente sviluppata, com’è per sua natura quella capitalistica, non è possibile accedere ad alcun bene o servizio se prima non si è entrati in possesso di un determinato ammontare di mezzi di pagamento. Dovremmo sempre avere presente, infatti, che un sistema economico interamente fondato sulla circolazione della moneta, come quello in cui viviamo, è il portato della diffusione del capitalismo ed è il capitalismo che lo ha plasmato in base alle proprie esigenze di espansione. Il diaframma che la moneta interpone fra i bisogni umani e il mondo dei beni è il presupposto fondamentale per il dispiegamento di un’economia capitalistica. In altre parole, l’obbligo di utilizzare i mezzi di pagamento per soddisfare i propri bisogni, è ciò che fonda il nesso sociale capitalistico in quanto impone alla stragrande maggioranza degli individui di impegnare ciò che hanno di più caratteristico e costitutivo della loro personalità individuale, la loro capacità lavorativa, al fine di ottenere il biglietto d’ingresso al mondo dei beni e dei servizi ovvero i mezzi di pagamento necessari per procurarsi "da vivere". Se, dal lato dell'imprenditore capitalista, i mezzi di pagamento, la moneta, si pongono come la condizione necessaria del suo essere capitalista/imprenditore ovvero come capitale, in quanto si contrappongono al mondo dei fattori produttivi come "potere di acquisto", dal lato di tutti gli altri individui, essi si pongono come la condizione necessaria per vivere, per esistere come consumatori in grado di acquisire i beni e i servizi necessari alla sopravvivenza. In questo senso, la
moneta è l'architrave dell'ordine capitalistico in quanto fattore oggettivamente coercitivo che costringe l'intera società a sottomettersi al rapporto di produzione capitalistico. L’intelaiatura istituzionale della società e dell’economia risponde alla necessità di regolare le modalità attraverso cui si entra in possesso dei mezzi di pagamento. Come qualsiasi ambito della vita sociale, anche l'economia funziona sulla base di bisogni, di pulsioni, di incentivi e disincentivi, e il modo in cui questi fattori sono orchestrati determina di volta in volta lo stile economico prevalente. Anche all'interno del sistema capitalistico vivono e convivono stili economici diversi. In generale, tuttavia, lo stile economico capitalistico è plasmato da pulsioni individualistiche che hanno preso forma all'interno dei processi secolari che hanno portato alla costituzione dell'individuo come portatore di libertà soggettive, affrancato dall'ordine gerarchico medievale. Allo stato attuale dell'evoluzione storica della nostra civiltà, l'esistenza dell'individuo formalmente libero appare inscindibile dal contesto capitalistico in cui questa metamorfosi antropologica si è dispiegata. Come in tutti i periodi di crisi e, in particolare, di crisi finanziaria, la moneta torna ad affascinare le menti e a solleticare l'immaginario, come fanno spesso i fenomeni mal compresi. La sinistra è oggi, o almeno sarebbe, più attrezzata sul piano teorico perché, proprio a seguito della crisi degli anni settanta, sono state elaborate analisi e teorie molto raffinate e approfondite del ruolo della moneta e della finanza nel determinare le crisi capitalistiche. Un nome su tutti, quello di Hy-
man Minsky, il quale, tuttavia, non ha avuto quella valorizzazione universale che avrebbe meritato ed è rimasto patrimonio di una cerchia ristretta di economisti di sinistra. Per l'Italia, è d'obbligo richiamare, ancora una volta, il nome di Augusto Graziani, cui si deve il tentativo di elaborare una teoria monetaria della produzione. Ma anche questo impulso ha rapidamente esaurito la sua spinta innovativa ed è stato, di fatto, abbandonato. In generale, mi sembra che la cultura che definiamo di sinistra, non solo in Italia, sia sostanzialmente priva di una visione capace di sorreggere un’analisi efficace del presente e questo è particolarmente evidente per quanto riguarda la comprensione, in profondità, dell’economia monetaria capitalistica e del suo cuore finanziario. Dopo la crisi del keynesismo, negli anni settanta, è mancata, per motivi che non si è neanche provato ad analizzare, la capacità di andare oltre, confrontandosi con i problemi di una società che vive in un sistema di mercati interdipendenti su scala globale e in cui la finanza ha acquisito una posizione egemonica, ridisegnando il sistema della governamentalità a livello mondiale. La riprova è che oggi, di fronte a una crisi che pone problemi e interrogativi nuovi e dirompenti, non si è saputo fare altro che rispolverare gli arnesi keynesiani, spesso nella versione più logora. Sono passati più di quarant'anni dalle rozze e ingenue elaborazioni del "gruppo sulla moneta" di "Primo Maggio", ma ritengo che le istanze che ne erano alla base non abbiano perso la loro forza e la loro validità. Abbiamo ancora bisogno di un'analisi che, dentro i processi dell'economia monetaria e finanziaria che chiamiamo capitalismo, sappia 93
scorgere i fili di quello che allora chiamavamo il comando capitalistico e che oggi, sulla scia delle suggestioni foucaultiane, chiameremmo forse governamentalità neo-liberale. La moneta e la finanza dell'economia globale sono oggi molto più complesse e articolate e, per comprenderne gli andamenti, gli esiti e i fattori critici, è necessaria un'attrezzatura analitica altrettanto complessa. Ma, senza il filo rosso di una ricerca socialmente orientata, che ci guidi a leggerne i presupposti politici, i modelli di governo e le reti di potere sottostanti, sarà difficile, se non impossibile, venirne a capo. Follow the power, verrebbe da dire, parafrasando il motto reso celebre dal film All the President's Men: “Follow the Money”. Ma forse oggi, come non mai, le due piste si intrecciano inestricabilmente, ponendo problemi che le democrazie non sono attrezzate per affrontare e di fronte ai quali rischiano di soccombere. L’intreccio tra finanza e potere politico ha generato una nuova forma di governamentalità che sarebbe il caso di analizzare al di fuori delle litanie sulla democrazia offesa, ferita o, semplicemente, accantonata. Oggi siamo di fronte a istituzioni finanziarie private che muovono, su scala mondiale, masse monetarie confrontabili con l'intero reddito monetario di molti paesi. Sappiamo che esiste, anche se non lo vediamo, uno shadow banking system (sistema bancario ombra) che opera anch'esso su scala mondiale e che è arrivato a superare le dimensioni del sistema bancario ufficiale. Sappiamo che i due sistemi sono intrecciati come lo sono con le finanze pubbliche e private di tutti i paesi del mondo. Al centro di questo sistema di sistemi ci sono le
banche centrali delle maggiori economie mondiali che operano in pressoché totale autonomia e con la capacità di emettere qualsiasi ammontare di moneta, concorrendo a determinare le politiche dei governi. Il sistema creditizio e finanziario privato può fare altrettanto. E sappiamo, soprattutto, che tutto ciò che avviene all'interno di questi circuiti, tutte le decisioni che al loro interno vengono prese e da essi promanano, appartengono a un ambito in cui i poteri democratici non entrano. Questo è il vero problema. Questa è l'idra che bisogna provare ad abbattere prima che le sue cento teste e, soprattutto, le sue cento bocche si divorino il mondo, come in parte già hanno fatto. Non sarà la concorrenza, per quanto utile, delle monete parallele o alternative e, tanto meno, delle troppo mitizzate monete digitali o criptomonete, a farlo. In altre parole, non sarà la tecnologia dei pagamenti, con le sue innovazioni, a farlo. Le innovazioni nella tecnologia dei pagamenti sono importanti perché avvicinano sempre più i mezzi di pagamento concreti a quella che è l’essenza della moneta, quella di unità di conto della contabilità sociale. Alcune innovazioni, come le monete digitali, posso agevolare l’evoluzione verso un sistema dei pagamenti meno incentrato sulle banche centrali. Le monete parallele possono dare spazio a sistemi dei pagamenti territorialmente limitati che favoriscono e rafforzano la cooperazione fra un certo numero di soggetti. Ma, da sole, queste innovazioni non basteranno a eliminare o anche solo ad addomesticare l’anima capitalistica di tutti i sistemi di pagamento attuali. Solo una presa di coscienza delle democrazie, simile a quella che sta pren-
dendo corpo nei confronto dei rischi ambientali, può portare a ridefinire le leggi fondamentali che regolano la separazione e l'esercizio dei poteri che governano la società, includendovi quello che è oggi il più esorbitante ed esente da limiti e vincoli, il potere economico. La soluzione o sarà politica o non sarà. Abbiamo bisogno, credo, di un nuovo patto sociale, forse di una nuova legge fondamentale, che stabilisca i limiti e i confini entro cui la ricchezza, il potere economico, sono compatibili con la stabilità e la coesione della società. E questo a livello globale, perché nessuna nazione può farlo da sola. Se non siamo in grado di affrontare il problema in questi termini, assisteremo alla deriva che già da qualche decennio ci sta trascinando, in cui è l’oligarchia finanziaria che, attraverso il braccio armato della politica e dei governi, disegna e circoscrive lo spazio dei cambiamenti possibili. Le torme di ciarlatani che, sproloquiando sul fatto che la moneta è oggi una semplice rappresentazione, al limite una rappresentazione digitale, e può essere creata teoricamente a costo zero, proclamano che chiunque potrebbe e dovrebbe prodursi la quantità di moneta che gli serve, mostrano di non aver capito nulla del fenomeno monetario. In particolare, non hanno capito che la moneta non è uno strumento materiale per effettuare gli scambi e che, in secondo luogo, essa riflette ed esprime una specifica configurazione dei rapporti sociali. Cambiare il regime della moneta significa, dunque, cambiare il modo di funzionamento del sistema economico-sociale. La moneta è un’istituzione che ha senso ed esercita una funzione solo all’interno di un determinato assetto 94
sociale che, a sua volta, la implica e su di essa fonda il proprio funzionamento nell’assicurare la riproduzione della società. Dovrebbe essere sempre tenuto presente che, se è vero che la moneta e i mezzi di pagamento esistono da sempre, un sistema che poggia interamente sulla circolazione monetaria e da essa dipende si forma solo in concomitanza con l'ascesa del capitalismo. Il sistema dei pagamenti che rende possibile l'assegnazione dei beni e servizi prodotti è consustanziale al capitalismo. L'uno implica l'altro e, presumibilmente, simul stabunt vel simul cadent. La prospettiva di istituire regimi monetari paralleli in isole economiche sottratte alla logica capitalistica è, al momento, del tutto illusoria, come lo è quella di superare il sistema dei pagamenti costruito intorno alle banche centrali, tramite sistemi peer-to-peer, come il bitcoin, la cui più recente evoluzione dovrebbe far riflettere.
Nome LP LR PD
95
Lapo Berti Letizia Rustichelli Paolo Davoli
vi
paolo vignol a e sar a bar anzoni
Biforcare alla radice. Su alcuni disagi dell’accelerazione
Nei tre anni che passano dalla pubblicazione nel 2013 del Manifesto per una politica accelerazionista ad oggi si è verificato un moltiplicarsi di saggi, conferenze e riferimenti filologici in favore o contro l’ipotesi tracciata da Srnicek e Williams – i quali hanno infine pubblicato un libro, Inventing the Future, in cui le loro tesi politiche vengono espresse più ampiamente. Dal punto di vista filosofico, comunque, già il Manifesto ha avuto il merito di attrarre magneticamente a sé, non per forza come alleati, un folto insieme di autori inclini a ragionare sulle sorti dell’umanità al tempo della catastrofe capitalistica contemporanea. Due libri collettivi usciti nel 2014, in particolare, raccolgono una serie di riflessioni inaggirabili per chi volesse comprendere la posta in gioco teoretica e politica del dibattito sull’accelerazionismo: #Accelerate. The accelerationist reader, a cura di Avanessian e McKay, e per il pubblico italiano Gli algoritmi del Capitale, curato da Matteo Pasquinelli. Entrambi i volumi riportano integralmente il Manifesto di Srnicek e Williams, come una sorta di pietra focaia che con la sua scintilla permette di illuminare le pagine di alcuni grandi filosofi della seconda metà del Novecento, come Deleuze e Lyotard, nonché di due immensi predecessori: Marx e Nietzsche. 97
Di Marx sono due i riferimenti più importanti all’orizzonte del ragionamento collettivo. Il Manifesto per una politica accelerazionista chiama a testimoniare Il Capitale, e con esso la prospettiva generale di Marx per cui i vantaggi prodotti dal capitalismo «non dovevano essere invertiti, ma accelerati oltre le restrizioni della forma valore capitalista».1 I due libri sopra menzionati focalizzano invece maggiormente l’attenzione sul famoso “Frammento sulle macchine” contenuto nei Grundrisse e, quindi, sui nuovi scenari generati dal rapporto tra tecnologia, informazione e General Intellect, nella loro attualizzazione algoritmica e nel loro potenziale al tempo stesso totalizzante ed emancipativo per la soggettività del XXI secolo. Un discorso, quest’ultimo, che si è sviluppato in realtà fin dalla prima pubblicazione del “Frammento”, sui “Quaderni Rossi” nel 1964,2 tradotto da Renato Solmi e a cura di Raniero Panzieri. Dal canto suo, il riferimento a Nietzsche, anche per il medium discorsivo che lo porta in primo piano, appare nella sua sfavillante problematicità. Tale medium è L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, libro a dire il vero tempestato di riferimenti nietzscheani che lo hanno reso, al netto del dibattito psicoanalitico e di
quello post-sessantottino, un autentico capolavoro teoretico-politico a cui molti filosofi continuano ad attingere – risentimento, forze reattive, cattiva coscienza, crudeltà, giudizio, debito, divenire, nomadismo, tra gli altri. In particolare, il passo in questione è il seguente: Ma quale via rivoluzionaria, ce n’è forse una? Ritirarsi dal mercato mondiale, come consiglia Samir Amin ai paesi del Terzo Mondo, in un curioso rinnovamento della «soluzione economica» fascista? Oppure, andare in senso contrario? Cioè andare ancor più lontano nel movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione? Forse, infatti, i flussi non sono ancora abbastanza deterritorializzati, abbastanza decodificati, dal punto di vista di una teoria e di una pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico. Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, «accelerare il processo», come diceva Nietzsche: in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla.3 La maggior parte delle interpretazioni che di questo passo sono state date, pur nella loro eterogeneità o perfino antinomia nel giudizio – errore strategico
oppure lungimiranza rivoluzionaria –, paiono contraddistinguersi da un lato per il focus sulla deterritorializzazione, e dall’altro lato per un certo disinteresse filologico o almeno una minimizzazione dell’ambiguità del discorso nietzscheano infoderato nella retorica di Deleuze e Guattari. In altre parole, mentre si interpreta l’accelerazione dei flussi di decodificazione del mercato come una opportunità rivoluzionaria per i processi di soggettivazione che possono nutrirsi della carica disruptiva di tali flussi nei confronti dello stato, della famiglia, della morale e della disciplina, si attesta implicitamente e di conseguenza una sola direzione alla prospettiva nietzscheana, quella espressa nel frammento “I forti dell’avvenire”: «Il livellamento dell’uomo europeo è il grande processo che non si deve ostacolare: bisognerebbe affrettarlo ancora di più».4 Questo passo nietzscheano oggi può essere considerato alla radice dell’accelerazionismo, persino dell’accelerazione della specie umana, ma l’intenzione di utilizzarlo a fini anti-capitalisti, rivoluzionari ed emancipativi della soggettività – dunque di attualizzarlo e perciò di attualizzare l’inattuale – presenta sicuramente alcuni fattori di complessità di cui probabilmente bisognerebbe tener conto. In particolare, se è nel 1887 che si esprime l’afflato accelerazionista di Nietzsche, è dello stesso anno la sua prognosi sul compimento del nichilismo nei due secoli a venire,5 ossia ora – e i sintomi, come vedremo, possono già essere segnalati dal punto di vista politico, sociale e culturale. In tal senso, seguendo solo una delle due indicazioni, quella pro-attiva e ignorando quella pro-gnostica, si corre il rischio di mutilare la prospetti98
va tragica di Nietzsche e, a fortiori, il suo prospettivismo, di cui Deleuze ha sempre sottolineato la valenza teoretica, estetica e politica: Con ottica di malato considerare le nozioni e i valori più sani, poi, inversamente, a partire dalla pienezza e dalla sicurezza tranquilla della vita ricca, guardare in basso il lavoro segreto dell’istinto di décadence – questo è stato il mio più lungo esercizio, la mia vera esperienza, l’unica in cui, semmai, sia diventato maestro. Ora è in mano mia, mi sono fatta la mano a spostare le prospettive.6 Tale spostamento delle prospettive, a ben vedere, lo si può ritrovare all’opera anche in Deleuze, ad esempio nella duplicità della ripetizione, e persino in Deleuze e Guattari per ciò che concerne proprio il rapporto tra accelerazione e deterritorializzazione. È ciò che Franco Berardi Bifo ha esibito nel suo saggio critico sul Manifesto di Srnicek e Williams, mostrando come la spinta accelerazionista presente in L’Anti-Edipo trovi il suo antidoto in Che cos’è la filosofia?, quando i due autori affermano: Chiediamo soltanto un po’ di ordine per proteggerci dal caos. Niente è più doloroso, più angosciante di un pensiero che sfugge a se stesso, delle idee che si dileguano, che appena abbozzate scompaiono, già erose dalla dimenticanza o sprofondate in altre che a loro volta non controlliamo.7 Ritorneremo su questo passaggio, poiché, al di là della sua indubbia carica suggestiva, rimanda al titolo del presente
saggio, ossia la biforcazione, e la sua relativa funzione nei sistemi complessi come concepita da Prigogine e Stengers. Ora è invece importante sottolineare che, forte di tale considerazione, e rifacendosi anche a Caosmosi di Guattari, Berardi sostiene che oggi «il processo di soggettivazione autonoma è devastato dall’accelerazione caotica, e la soggettività sociale è catturata e soggiogata dalla governance del capitale, sistema costituito da dispositivi automatici che corrono a velocità strabiliante».8 Si tratta di una questione cruciale, disattesa da Srnicek e Williams, e il saggio di Berardi, nella sua brevità, riesce a mettere in evidenza una certa debolezza dell’analisi socio-culturale che sta dietro al Manifesto. Proprio per via della sua brevità, però, tale saggio non affronta diversi aspetti legati all’ipotesi accelerazionista ma che non sono essenzialmente espressione del Manifesto, relativi in particolare al rapporto tra tecnologia e umanità, motivo per cui riteniamo opportuno dotarci di uno spettro teorico, composto anche dal pensiero di Berardi, più incline a ragionare su tale rapporto e, nel fare ciò, cercheremo di mantenere una sorta di diplopia per far sì che le due affermazioni di Nietzsche, sull’accelerazione e sul compimento del nichilismo, abbiano un’importanza commensurabile. In questo senso, la critica che proveremo a sviluppare nei confronti della postura accelerazionista dovrebbe essere intesa più come una sintomatologia che come una opposizione. Tale sintomatologia, che condivide l’atteggiamento critico di Benjamin Noys in quanto focalizzata su ciò che sta accadendo agli individui,9 punta dritta alla radice del rapporto tra uomo e tecnica; a partire da questo
“luogo”, con l’ausilio di Stiegler, decideremo di attuare una biforcazione dal philum genealogico su cui ci paiono basarsi le ipotesi di accelerazione o addirittura di superamento della specie umana – biforcazione a nostro avviso necessaria per tenere politicamente assieme, oggi, le due considerazioni nietzscheane. Tecnicità originaria e proletarizzazione
Prima di essere accelerazionisti o decelerazionisti, oppure prima di evitare tale dibattito, sarebbe opportuno domandarsi in cosa consiste l’accelerazione nel contesto sociale, ossia nel rapporto tra tecnologia, economia e società e quali ripercussioni, positive e negative, può avere sulla soggettività. Sarebbe cioè strategico dotarsi di una teoria in grado di comprendere cosa sta succedendo e cosa potrebbe succedere agli individui in determinati scenari futuri. In tal senso, si tratta di pensare o di ripensare il passato dell’uomo nei suoi rapporti con la tecnica, prendendo come sintomo il suo presente, che qui, grazie ai due frammenti di Nietzsche, comprendiamo come nichilismo. Stiegler offre una delle più interessanti ricognizioni del rapporto tra essere umano e tecnica, almeno per quanto riguarda la posta in gioco di un’eventuale accelerazione, in quanto, se compreso nella sua radicalità, tale rapporto costringe ogni afflato accelerazionista, così come ogni postura resistente, a fare i conti con una domanda letteralmente essenziale: non cosa si vuole accelerare, o si sta accelerando, ma chi sta e si sta accelerando? Esiste un chi? E come si sareb99
be formato tale chi? E se pensiamo il chi innanzitutto come l’oggetto dell’accelerazione? Altrimenti detto, questo insieme di interrogazioni ci sembra ricoprire l’impensato, da parte della prospettiva accelerazionista – ma anche di quella trans-umanista ed extropianista –, del frammento di Nietzsche sui forti dell’avvenire. Non è un caso, dunque, che Stiegler, in quanto filosofo della tecnica e della tecnicità originaria, sia rimasto fino al 2016 un outsider rispetto al discorso accelerazionista ma anche alla sua critica diretta.10 Veniamo però al sodo della questione. La tecnica, in quanto materia inorganica organizzata dall’uomo, è per Stiegler la «prosecuzione della vita con altri mezzi rispetto alla vita», ossia un agente di evoluzione non darwiniana e, in tal senso, un fattore fondamentale di differenziazione e biforcazione, ossia di differimento e diversione dell’entropia, perciò di accentuazione della neghentropia.11 Al tempo stesso, e a maggior ragione a partire dall’industrializzazione, la tecnica rappresenta anche un’accelerazione dell’entropia, non solo perché consiste sempre in un processo di combustione e di dissipazione di energia, ma poiché l’effetto collaterale della standardizzazione industriale è il progressivo annichilimento della biodiversità e della sociodiversità, ossia della vita come proliferazione di differenze – in tal senso, la tecnica è anche agente di involuzione. La tecnica come pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso, agente entropico ma potenzialmente neghentropico, è allora ciò che, pensata dalla tradizione filosofica occidentale in quanto nulla o comunque inessenziale rispetto all’uomo,
tuttavia contribuisce sostanzialmente alla costituzione dell’essere umano e ne rivela la non-essenza costitutiva, il suo «difetto di origine», vale a dire la sua essenziale incompletezza. Ciò che comunemente chiamiamo l’uomo può diventare quel che è, per dirla con Nietzsche, solo attraverso protesi tecniche che, supplendo tale difetto originario, lo conducono al di là di sé, ad ex-istere e perciò, simondonianamente, a individuarsi. Questo è il senso antropopoietico o antropo-maieutico del supplemento necessario, che Stiegler, seguendo e separandosi da Derrida, ricava dal paleoantropologo Leroi-Gourhan: È lo strumento, ossia la techne, che inventa l’uomo, e non l’uomo che inventa la tecnica. O ancora: l’uomo s’inventa nella tecnica inventando lo strumento – «esteriorizzandosi» tecno-logicamente. Ora, l’uomo è qui «l’interno»: non esiste esteriorizzazione che non designi un movimento dall’interno verso l’esterno. Tuttavia, l’interno è inventato da questo movimento: non può perciò precederlo. Interno ed esterno si costituiscono di conseguenza attraverso un movimento che inventa, al tempo stesso, l’uno e l’altro: un movimento in cui si inventano l’uno nell’altro, come se vi fosse una maieutica tecno-logica di ciò che si chiama l’uomo.12 Questo passaggio mostra un aspetto fondamentale della prospettiva stiegleriana, che vale la pena sviluppare poiché spesso rimosso da letture troppo veloci. A differenza di altri autori che hanno messo in evidenza gli effetti tossici delle tecnologie sulla vita sociale, Stiegler, pur impegnandosi da più di venti
anni in tale denuncia, non può assolutamente essere considerato né tecnofobico né desideroso di salvaguardare una qualche purezza originaria dell’uomo. Il concetto che probabilmente ha finito per dare questa impressione è la grammatizzazione come agente di proletarizzazione, anche se essa implica precisamente il contrario di una purezza originaria, e può essere compresa nella sua interezza solo se si assume la prospettiva farmacologica. Per tale motivo, si rende opportuna una prima digressione terminologica che dipani i dubbi relativi al rapporto tra grammatizzazione, umanizzazione e proletarizzazione. Seguendo Stiegler che si rifà a Sylvain Auroux, la grammatizzazione è stata, da un lato, l’agente principale di costruzione della psiche e di sviluppo della civilizzazione mediante il processo continuo di esteriorizzazione della memoria, dalla selce scheggiata ai graffiti rupestri, dalla scrittura alla discretizzazione industriale dei gesti, dei linguaggi e dei comportamenti, fino all’archiviazione dei Big Data; in tal senso, in quanto discretizzazione dei flussi cognitivi, emotivi ed esperienziali e archiviazione della memoria su supporti materiali, essa è il vettore di trasmissione dei saperi nel corso della storia dell’umanità – dal momento che, stando a Husserl e Derrida, il sapere, per essere trasmesso e appreso, ha sempre bisogno di una sua esteriorizzazione e reiterazione tramite un supporto materiale. Dall’altro lato, lo stesso processo di grammatizzazione ha finito per generare anche l’effetto contrario, ossia una progressiva perdita di sapere, che Stiegler definisce proletarizzazione. In quest’ottica, Platone è allora il primo pensatore del proletaria100
to, dal momento che la questione del Fedro relativa alla scrittura come pharmakon, ossia alla memoria (anamnesis) che viene delegata al suo supporto materiale (hypomnesis), descrive una perdita di sapere per via di una esteriorizzazione dei contenuti di memoria senza ritorno, ossia senza re-interiorizzazione, se a tale pharmakon non viene affiancata una “terapia”, ossia una pratica pedagogica, euristica o politica. Si tratta di una proletarizzazione cognitiva, prima che materiale, ma nell’ottica di Stiegler è legata a doppio nodo con quella marxiana, «se è vero che il proletariato è l’attore economico sprovvisto di sapere, perché senza memoria: la sua memoria è passata nella macchina riproduttrice dei gesti che questo proletario non ha più necessità di saper fare, dato che deve semplicemente servire, ridivenendo così un servo».13 La proletarizzazione perciò non riguarda solo i proletari storicamente intesi, vale a dire coloro che, privati dei mezzi di produzione, dispongono unicamente della propria forza-lavoro. Proletarizzato è chiunque perde una forma di sapere, sia esso pratico, corporeo o teorico: il lavoratore dell’industria perde il proprio saper-fare, assorbito dalla macchina, il consumatore perde il proprio saper-vivere, annullato dal marketing, il lavoratore cognitivo la sua stessa vita mentale, formattata dai sistemi informatici del cosiddetto “capitalismo cognitivo”. Inoltre, facendo un passo avanti – o a lato – della scrittura stiegleriana, possiamo affermare che, se a livello individuale viene proletarizzata la vita mentale, e se il capitalismo cognitivo si basa sullo sfruttamento della cooperazione tra i cervelli, a livello collettivo ciò
che viene proletarizzato, ossia privato del proprio sapere sociale, è niente di meno che il General Intellect. La proletarizzazione generalizzata sembra poi raggiungere il proprio culmine nella società digitalizzata, o società automatica, basata sull’automazione della produzione e sulla governamentalità algoritmica degli individui. Infine, e a proposito dei saperi corporei, con i sensori wearables, i senseables, i dispositivi ambientali di cattura e trattamento dei dati, nonché le biotecnologie di potenziamento cognitivo, la proletarizzazione per mano tecnologica sembra raggiungere persino le radici fisiologiche della sensibilità e l’affettività, e con esse le condizioni di possibilità del saper-vivere e delle altre forme di sapere (saperi teorici e saper-fare). Nel descrivere questa serie di fenomeni, non si tratta di essere fatalisti o catastrofisti, quanto dell’essere disposti a leggere i sintomi di questo fenomeno, e di divenire, come Nietzsche, in grado di spostare le prospettive, facendo della situazione di disagio un territorio ed un volano per trovare la possibilità di rifunzionalizzazione deproletarizzante dell’esperienza, al di là di ogni facile tecno-entusiasmo. L’abilità critica è infatti ciò che permette la solidità necessaria per non confondere rischi e vantaggi, e per spingere l’acceleratore, questa volta sì, sul piano terapeutico. Ad ogni modo, una simile possibilità potenziante è quella ipotizzata da Mark Hansen attraverso la peculiarità dei cosiddetti “media del ventunesimo secolo”, 14 da lui salutati come l’innovazione tecnologica finalmente in grado di aumentare le prestazioni del corpo e delle sue facoltà, grazie alla loro capacità di operare
al di sotto della soglia della cognizione e della percezione umana. Rispetto ai media precedenti che lavoravano in funzione prostetica, ossia correlandosi direttamente alla capacità di sentire e di intraprendere processi cognitivi allo scopo di aiutarli registrando, stoccando e trasmettendo informazioni, tali nuovi dispositivi avrebbero un’agency propria. In altre parole, essi sarebbero in grado di attuare operazioni slegate dalle facoltà individuali cessando dunque di essere al servizio dell’uomo. Tale indipendenza sarebbe inoltre rafforzata dal fatto che, essendo in grado di raccogliere dati nella stessa dimensione microtemporale dell’esperienza sensibile, che non può mai apparire in quanto tale alla coscienza, quest’ultima non può avere accesso a tali operazioni, che dunque non può influenzare. è proprio su questo piano, ci pare, che ad Hansen manca invece un vero e proprio apparato critico in grado di rendere quella che egli dichiara come la propria posizione farmacologica un punto di appoggio consistente per l’impalcatura della teoria. Da parte sua, infatti, egli dichiara che il rovescio negativo di questo potenziamento sta nell’indebolimento della facoltà percettiva, una perdita tutto sommato accettabile, a suo avviso, dal momento che grazie ai dispositivi sopra elencati il campo del sensibile si trova ampliato fino a raggiungere una “sensibilità diffusa” (worldly sensibility), o “sensibilità non percettibile” (nonperceptual sensibility), in grado di aprire un mondo sconosciuto e ulteriore rispetto ai limiti della soggettività. Dal nostro punto di vista, un simile rovescio non pare innanzitutto essere coerente in termini di farmacologia, in quanto, per essere tale, essa ha sempre 101
bisogno di un individuo che “assuma” il farmaco e sul quale questo possa agire – mentre se si parla di un ampliamento della sensibilità ambientale (o diffusa) si procede precisamente verso la sua eliminazione. Mancando dunque questo piano, il rischio è quello di non accorgersi della capacità di tali tecnologie di generare ulteriori livelli di proletarizzazione. Nel momento in cui la percezione smette di essere considerata come necessaria nel processo di esperienza sensibile – questo pare sostenere Hansen – perché sostituibile dal più potente feed forward operato da certe tecnologie della sensibilità, verrebbe da chiedersi cosa ne è del processo noetico che permette di sviluppare senso dal sentito. Più che potenziate, le facoltà cognitive paiono essere cortocircuitate e ridotte ad una dimensione meccanica molto più simile all’efficienza ed immediatezza di un database all’interno del quale si immagazzinano contenuti che, in quanto segnali automatici avulsi da qualsiasi significazione propria, non paiono essere esenti dal contribuire al rischio nichilistico del livellamento delle facoltà, riducendole a puro calcolo analitico assistito dagli algoritmi di computazione di dati, senza un piano di sintesi generatore di nuovo sapere. Nichilismo organologico
Queste considerazioni ci forzano ad esplorare in profondità i sintomi nichilistici del presente, che Stiegler ci invita a pensare a partire dal concetto di Antropocene, ossia l’epoca in cui l’uomo sarebbe diventato un fattore geologico di prim’ordine, in grado di trasformare, metten-
dolo seriamente a rischio, l’equilibrio geo-fisico e chimico della Terra.15 A tal proposito, in La société automatique I. L’avenir du travail, Stiegler pone in parallelo la realizzazione contemporanea dell’Antropocene, «la cui storia coincide con quella del capitalismo», con il sorgere della governamentalità algoritmica descritta da Thomas Berns e Antoinette Rouvroy, vale a dire l’inedito modo di governo basato sull’estrazione di dati, metadati e tecniche di profilaggio nell’ottica di una previsione a lungo termine dei comportamenti individuali e collettivi.16 Dalla macchina a vapore, le leggi della termodinamica e il climate change, ai Big Data e alle matematiche correlazioniste, il filosofo francese individua il fil rouge della mathesis universalis che, sotto la spinta dell’accelerazione tecnica, conduce alla totale automatizzazione della società e, dunque, al compimento del nichilismo come era dell’Antropocene e della governamentalità algoritmica, la quale rappresenta lo stadio attuale delle società di controllo deleuziane, quello dell’iper-controllo, «generato dai dati personali auto-prodotti, auto-captati e auto-pubblicati dalle stesse persone – deliberatamente o meno – e sfruttati dal calcolo intensivo prodotto su questi dati di massa».17 Frammentati in una miriade di dati, gli individui divengono infinitamente calcolabili, comparabili, indicizzabili, e come tali preda di tali tecniche “su misura”. D’altra parte, ciò alimenta la compulsione a produrre dati: una volta rese le esistenze computabili, l’auto-(iper)controllo delle proprie prestazioni diviene tendenzialmente irrinunciabile, e il desiderio di adeguarsi alle prescrizioni che l’analisi di tali producono, “divenendo il proprio
profilo”, in un certo senso totalizzante. Ad accomunare nichilisticamente queste due condizioni, l’Antropocene e la governamentalità algoritmica, è una particolare concezione dell’entropia che, ripresa dalla termodinamica, viene tradotta nel sociale. Quanto tale trasposizione possa tenere sul piano teoretico sarà una questione da valutare a breve. Per il momento risulta opportuno osservare ancora più da vicino in cosa può consistere l’avvento del nichilismo oggi. Stiegler concepisce il nichilismo occidentale, quello relativo al livellamento delle differenze, come una disindividuazione generalizzata, ossia come il drastico indebolimento fino all’arresto progressivo dei processi d’individuazione psichica e collettiva su cui si fondano il divenire e l’avvenire della società.18 Questo annichilimento dei processi d’individuazione, che si traduce nel venir meno dei legami sociali, nella decadenza dei saperi (saper-vivere, saper-fare, saperi teorici), degli affetti e del sentimento di esistere, è il risultato di un determinato rapporto tra apparati psico-fisiologici, sistemi tecnici e istituzioni sociali, la cui co-evoluzione storica, così come la loro involuzione, è pensata nel senso di un’organologia generale, la cui definizione è la seguente: L’organologia generale è un metodo di analisi congiunta della storia e del divenire degli organi fisiologici, degli organi artificiali e delle organizzazioni sociali. Essa descrive una relazione trasduttiva tra tre tipi di “organi”: fisiologici, tecnici e sociali. La relazione è trasduttiva nella misura in cui la variazione di un termine in un organo coin102
volge sempre la variazione dei ter- novità tecnica inserendola all’interno mini negli altri due tipi di organi.19 delle pratiche individuali e collettive. A ben vedere, la condizione di disaggiL’Antropocene o(ssia) il compimento ustamento è pressoché una costante del nichilismo sono fenomeni che, nel del processo di individuazione e si può rendere esplicita la dimensione or- affermare che contribuisca alla sua ganologica dell’esistenza umana, espri- realizzazione: l’equilibrio, come direbmono anche, in quanto sintomi del suo be Simondon, è solo metastabile, semdisagio, l’insostenibilità di tale dimenpre teso tra due tendenze contrapsione sotto l’egemonia del rapporto poste. Il disaggiustamento è perciò da sociale capitalistico. L’insostenibilità intendersi all’interno della condizione ambientale rinvia a un’insostenibilità farmacologica dell’individuazione, che organologica che a sua volta non perStiegler pensa al di là dello stesso Simette un riequilibrio ecologico, nel mondon. senso che ciò che non è sostenibile Se lo shock tecnologico sembra dal punto di vista sociale trova il suo appartenere alla strategia della “disomologo sul piano psico-fisiologico e truzione creatrice” concepita da i due non possono essere ri-organSchumpeter, vale a dire la sistemizzati senza un riaggiustamento del atica e al tempo stesso vulcanica sistema tecnico, il quale appunto è sostituzione dei prodotti e dei sisinsostenibile dal punto di vista ecotemi di produzione più deboli, relesistemico. gati all’obsolescenza, per far posto Più in generale, il divenire tecnoall’innovazione più disruptiva e al logico provoca sempre uno sfasaconseguente sviluppo economico, mento tra le sfere della vita umana, l’analisi di Stiegler sottolinea invece che Stiegler descrive come piani orl’effetto tossico di tale pratica sui ganologici, ossia come piani dell’inprocessi d’individuazione psichidividuazione psico-fisiologica, soca e collettiva: i continui shock ciale e tecnica. Ciò si rende palese dell’innovazione, di cui l’economia nei periodi di grande accelerazione è dipendente, generano una proche determinano una trasformazigressiva perdita di individuazione. one repentina del sistema tecnico, Al netto del lessico simondoniano, in cui l’individuazione psico-fisiola distruzione creatrice, divenendo logica e quella sociale non riescono puramente shockante e incapacita stare al passo con l’individuaziante, si trasforma in una nichilisone tecnologica. In tal senso, per tica distruzione distruttrice che Stiegler lettore di Bertrand Gille, devasta tanto gli organi psicososi produce un disaggiustamento matici quanto le organizzazioni tra i tre piani organologici, ossia la sociali. loro perdita di equilibrio reciproAll’interno di questa diagnoco. Ogni trasformazione del sissi organologica possiamo innetema tecnico provoca perciò uno stare le considerazioni critiche di shock organologico, da intenderFranco Berardi Bifo nei confronti si come la sospensione delle aldel Manifesto accelerazionista, e tre due forme d’individuazione, in particolare verso la prospetuna sorta di epochè o di ritartiva immanentista del superado socio-culturale che richiede mento del dominio neoliberale. l’instaurazione di nuove norme Per il filosofo italiano, da un sociali in grado di adottare la lato «l’immanenza della possi-
bilità liberatoria (l’immanenza del comunismo se volete, o l’immanenza del dispiegamento autonomo dell’intelletto generale) significa la possibilità di questo dispiegamento, ma non implica affatto la sua necessità».20 Dall’altro lato, l’accelerazione dell’innovazione tecnologica, nel suo essere un vettore di deterritorializzazione sociale, non può superare la condizione capitalista, poiché è il sistema stesso del capitale ad aumentare il proprio potere in ogni momento di shock, di crisi e di instabilità. Se cioè Berardi mette in guardia dal confondere la possibilità con la necessità, è perché «questa possibilità infatti può essere ostacolata e deviata dalle forme culturali e psichiche dell’esistente soggettività sociale», ed è proprio l’accelerazione prodotta, fomentata e controllata dalla governance neoliberale che «distrugge le condizioni della soggettività sociale, dal momento che questa si fonda sul ritmo del corpo desiderante che non può accelerarsi oltre un certo punto senza provocare lo spasmo».21 I processi di accelerazione organologica, che nel corso della storia hanno sistematicamente condotto a stati di shock tecnologici, con l’instaurazione del modello neoliberale come controllo degli organi tecnici, producono per Stiegler un «iper-disaggiustamento», corrispettivo dello spasmo segnalato sopra, che consiste nell’incontro di due forme di proletarizzazione. Da un lato, a partire dalla “rivoluzione conservatrice” della fine degli anni Settanta fino ai nostri anni di crisi sistemica, il neoliberalismo ha progressivamente rimpiazzato le organizzazioni sociali con servizi basati su dispositivi tecnologici in funzione di un sistema economico esclusivamente 103
speculativo. Dall’altro lato, proprio attraverso la proliferazione di dispositivi tecnologici e mediatici, il modello neoliberale è riuscito ad impiantare l’ideologia del There is no alternative, del “non c’è alternativa a questo sistema economico-politico”, negli organi psichici dei cittadini-consumatori22 – e sono le conseguenze di massa di questo ultimo aspetto che paiono sfuggire agli “accelerazionisti”, proprio quando a ragione affermano che “il futuro è stato cancellato”. Ciò che il Manifesto pare non prendere in considerazione è che la continua ripetizione di shock derivati dall’innovazione tecnologica – ed è questo l’aspetto tossico e altamente entropico del There is no alternative – rischia di creare un disorientamento tale da compromettere ogni processo di individuazione psichica e collettiva in grado di indirizzare le proiezioni nel futuro e di generare significati politici condivisi, vale a dire la stessa idea di qualcosa come “la sinistra”. Qualcosa di sinistra
Il rischio, in pratica, è che sottostimando gli effetti dello spasmo provato dal corpo desiderante o dell’iper-disaggiustamento dei piani organologici, collaterali o diretti che siano, Srnicek e Williams rischiano di invocare una egemonia socio-culturale della sinistra senza contenuti o qualità, una sinistra dis-individuata o radicalmente proletarizzata, e questo per almeno due motivi. Il primo, è che uno degli effetti dell’accelerazione tecnologica in atto è una sorta di riterritorializzazione gregaria e omogeneizzante delle soggettività: questa consiste non solo nella xenofo-
bia, nel sessismo, nell’individualismo e nei fondamentalismi di ogni genere, ma anche in quei flussi di fesseria segnalati da Deleuze e Guattari in L’Anti-Edipo, e ripresi recentemente da Lazzarato, il quale ha del resto indagato accuratamente le mnemotecnologie, gli psicopoteri e la noopolitica che fabbricano e governano le soggettività a partire dalla radice cerebrale:23 L’anti-produzione affianca al capitale e al flusso di conoscenza un capitale e un flusso equivalente di fesseria, che ne operano pure l’assorbimento e la realizzazione, e che assicurano l’integrazione dei gruppi e degli individui al sistema. Non solo la mancanza in seno al troppo, ma la fesseria nella conoscenza e nella scienza.24 In La fabbrica dell’uomo indebitato, Lazzarato ha commentato questo passaggio con particolare riferimento ai giorni nostri, che descrive come una «catastrofe soggettiva» causata dal capitalismo cognitivo e dall’industria culturale che sfruttano sistematicamente ed entropicamente la cooperazione tra i cervelli,25 in una spirale al ribasso che, come prefiguravano appunto Deleuze e Guattari, conduce il lavoratore cognitivo a diventare il «distruttore forzato della propria creatività».26 Quantomeno singolare è il fatto che tale affermazione “sintomatologica” si incontri poche pagine prima del famoso “frammento accelerazionista” di L’Anti-Edipo; sembra in effetti mimare la doppia prospettiva nietzscheana dell’accelerazione e del compimento del nichilismo, e ciò non può non far riflettere sulla problematicità della postura accelerazionista. Comunque sia, questo fenomeno “entropi-
co” ormai cinquantennale che riguarda il rapporto tra psiche e capitale, oltre ad essere uno degli aspetti della proletarizzazione descritta in precedenza, dovrebbe far riflettere circa lo stato di salute della soggettività, di quella “anima al lavoro” di cui parla Bifo,27 e pone un serio problema di contenuto rispetto al “futuro da immaginare” che il Manifesto accelerazionista si pone come obiettivo. Che cosa può immaginare il lavoratore cognitivo, una volta proletarizzato nelle sue stesse funzioni cognitive, nella sua attenzione, nella sua memoria, nel suo desiderio? Più nello specifico, uno degli obiettivi dell’accelerazione tecnologica di questi ultimi anni e del capitalismo cognitivo alla sua guida è senza dubbio il focus sull’attenzione degli individui; tema sul quale si sono concentrati gli autori citati in precedenza: Bifo, Stiegler, Lazzarato. Questo tema però non è presente nel Manifesto, e tale mancanza non può che essere il sintomo di una “disattenzione” allo stato di salute di quelle stesse soggettività che Srnicek e Williams vorrebbero porre in accelerazione. In realtà non è solo il Manifesto a non porre in questione ciò che sta accadendo all’attenzione degli individui per mano del capitalismo cognitivo, dato che anche negli ambienti trans-umanisti ed extropianisti l’aspetto per così dire qualitativo delle facoltà cognitive pare non essere un focus importante. Non si tratta, dal punto di vista che qui stiamo sviluppando, di valutare gli effetti potenzianti o indebolenti che le tecnologie - da Internet alle cognitive enhancement technologies - possono avere sull’attenzione, bensì del come l’attenzione possa essere incanalata, selezionata, lavorata, modulata in un ambiente tecnico a iniezione neoliberale.28 104
Ora, siamo consci del fatto che l’attenzione stessa, all’interno della società, sia un fenomeno tecno-logicamente formato, in quanto per svilupparsi necessita sempre di un ambiente costituito da artefatti come supporti e veicoli di informazione, e di pratiche, ossia di tecniche, di relazione tra l’individuo e questo ambiente. L’attenzione, socialmente costituita, è sempre il risultato di un concatenamento tra i diversi tipi di organi segnalati in precedenza: psico-somatici, tecnici e sociali. Tuttavia, all’interno del capitalismo cognitivo è palese che l’attenzione sia una risorsa di primaria importanza la quale, non essendo esattamente infinita, richiede di essere sfruttata al meglio attraverso ogni forma di tecnologia, con l’effetto di un suo stress che, ormai in molti casi, conduce a vere e proprie patologie, come la ADHD o la cognitive overflow syndrome. Al di là dei casi clinici, o del disagio collettivo, vi è un aspetto decisamente politico, o psico-politico, che non può essere trascurato - almeno dal punto di vista “post-nietzscheano” che si sta tracciando. Ed è questo l’aspetto qualitativo propriamente detto: vivendo ai tempi di un’economia politica che ha nel marketing, nella data economy e nella feticizzazione dell’ibrido tecno-umano le sue “armi di istruzione di massa”, risulta facile comprendere che solo alcune modalità di attenzione vengano promosse come ottimali, mentre altre, meno produttive o “consumatrici”, siano relegate ai margini dell’innovazione tecnologica. In altre parole, solo adattandosi ai canali disegnati dall’egemonia del capitalismo cognitivo, l’attenzione può non solo sopravvivere ma perfino potenziarsi o integrarsi con la tecnologia.
Ed è solo tramite questo adattamento che essa può diventare produttiva, se non iper-produttiva, ma anche consumatrice e iper-consumatrice – e spesso entrambe le cose, in un vortice neuro-economico senza soluzione di continuità. Inutile dire che, a fronte di tali acquisizioni, ossia il potenziamento dell’attenzione, vi siano sempre da mettere in conto delle perdite, ossia una qualche forma di proletarizzazione. Ma l’aspetto più importante, dal punto di vista politico, e qui possiamo anche fare a meno del prefisso “psico”, risiede nell’attenzione agli altri, ossia nella capacità empatica e associativa degli individui, che è direttamente legata alle facoltà cognitive sfruttate dal “mercato”. Questa forma di attenzione non deve essere intesa tanto nella sua accezione caritatevole, sebbene quest’ultima sia una delle sue possibili valenze, quanto in quella sociale in generale, dunque associativa, comprendendo chiaramente la componente conflittuale dell’associazione, e nel lessico simondoniano andrebbe tradotta come un aspetto imprescindibile della “individuazione collettiva”. Berardi mette bene in chiaro che se le tecnologie informatiche e biomediatiche permettono ai corpi e agli individui una sorta di connessione continua guidata dagli automatismi, tale connessione si basa su una esclusività di determinate valenze attenzionali, più facilmente codificabili, engrammabili e modulabili, a scapito di altre, non o non ancora perfettamente grammatizzabili – per dirla con Stiegler – e dunque non adeguate all’estrazione di valore o all’impiego performante e competitivo nella produzione di ulteriore valore. In altre parole, una sempre più perfetta e
“cablata” connettività tra gli individui, che consiste nella loro connessione algoritmica e biomediatica, si sviluppa a scapito della capacità di congiunzione sociale, ossia dell’abilità e inclinazione a formare dei legami d’individuazione collettiva attraverso modi imprevedibili, incalcolabili e non codificabili.29 In tal senso, e da un punto di vista organologico, se l’adattamento alle tecnologie estrattive di valore cognitivo richiesto alle forme attenzionali è proletarizzante, ciò che dovrebbe essere ricercata è l’adozione di queste stesse tecnologie, ossia una modalità di negoziazione dell’accelerazione tecnologica volta alla ricerca di un certo grado di autonomia da parte degli organi psico-fisiologici in rapporto agli organi artificiali. E tale negoziazione non può che essere politica, ossia presa in carico dalle organizzazioni sociali. Il secondo motivo, forse anche più controverso, e che meriterebbe sicuramente un’analisi più approfondita, oltre ad essere comunque legato al primo, è interno alla stessa strategia politica del Manifesto e riguarda l’intenzione di farla finita con le pratiche e i costumi della folk politics, ossia la politica del senso comune e a vario titolo “militante”. Per Srnicek e Williams, da un lato vi sarebbe una “sinistra” da obliterare come perdente e passata, “basata su localismo, azione diretta ed inesauribile orizzontalismo”, mentre dall’altro, l’unica sinistra che può immaginare un futuro, una sinistra “accelerazionista, a proprio agio con una modernità fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia”. Come recita il titolo, questo nostro saggio sta in realtà cercando di evidenziare i disagi, reali, possibili e immaginari, dell’accelerazione, 105
ma ora la cosa forse più interessante è un’altra. Per quanto sia piuttosto evidente la debolezza del localismo, così come l’inutilità strategica delle pratiche antagoniste di piazza, soprattutto per via della recente accelerazione nell’innovazione degli strumenti di repressione e di controllo, ma anche per il motivo riterritorializzante segnalato sopra, la pretesa di Srnicek e Williams è talmente radicale da rischiare di segare l’albero dal quale cercano di osservare il futuro – vale a dire la sinistra (detto tra parentesi: “sinistra” in questo testo è solo un significante che ognuno potrà tradurre nel proprio idioletto; noi, ad esempio, lo traduciamo con “individuazione collettiva critica e solidale”). Si ripresenta così la stessa domanda di prima, solo con un’altra sfumatura: che cosa può immaginare l’individuo di sinistra? Non è una questione di nostalgia per gli anni rivoluzionari di L’Anti-Edipo, o di crepuscolarismo, bensì precisamente di processi d’individuazione psichica e collettiva, di pre-individuale e di trans-individuazione, ossia di significati condivisi, di memoria collettiva, di pratiche e saperi che costituiscono la collettività. In tal senso, le pratiche e le posture che il Manifesto vorrebbe obliterare come perdenti o inutili, rappresentano tuttavia il sedimentarsi dei processi d’individuazione psichica e collettiva degli individui che gli stessi autori dichiarerebbero di “sinistra”. Eliminarli o anche solo limitarne il valore strategico significherebbe alla lettera proletarizzare ulteriormente i proletari e i proletarizzati, in quanto comporterebbe una perdita di saperi pratici e teorici quindi anche una perdita d’individuazione. È così che Srnicek e Williams finirebbero per segare
il ramo dal quale stanno cercando di immaginare il futuro. In ultimo, l’analisi organologica ci pare possa produrre un punto di vista in grado di tenere assieme questi due aspetti, ossia quello della proletarizzazione causata dal capitalismo cognitivo e quello dei saperi critici, delle memorie, delle pratiche e delle intenzioni condivise collettivamente, all’interno della sinistra – considerando che sono proprio i saperi, le memorie, le pratiche e le intenzioni comuni che definiscono qualcosa come la sinistra. Sembra lecito affermare che, astraendo l’accelerazione del processo d’individuazione tecnica dai rapporti che inevitabilmente intrattiene con gli altri processi di individuazione, relativi alle organizzazioni sociali (di cui la sinistra fa parte) e agli organi psico-fisiologici (su cui incide il capitalismo cognitivo), i quali senza un sistema di adozione e di cura dello stesso processo d’individuazione tecnica sono costretti ad adattarvisi subendone gli effetti spasmodici, il Manifesto rischia di condurre una battaglia in favore non tanto dei proletari, quanto della proletarizzazione. La quasi-causa del nihil
Proviamo ora, seguendo le indicazioni di Berardi e di Stiegler, a fare un passo più in profondità rispetto al tema del nichilismo. Se a rappresentare il compimento della profezia nietzscheana riguardo ai “prossimi due secoli” sono la governamentalità algoritmica e l’Antropocene, non è solo perché stanno annichilendo la vita (antropocene) e la volontà dei soggetti (governamentalità algoritmica), ma anche e innanzitutto poiché le tecnologie in-
dustriali che li hanno prodotti esprimono il nihil dell’uomo, vale a dire la sua non-essenza costitutiva – il suo difetto di essenza – che ha sempre richiesto un suo divenire-tecnico e un sistema di cure sociali adeguato a contrastare gli effetti collaterali prodotti da questo divenire (inquinamento, shock tecnologico, miseria simbolica, ecc.). In mancanza di un tale sistema di cure, il divenire tecnico, in quanto acceleratore dell’entropia, rischia di condurre l’essere umano a scomparire, a non esistere più. Ora, la non-essenza costitutiva dell’uomo è una questione centrale anche per le prospettive post-umaniste e trans-umaniste che sembrano ipotizzare, nietzscheanamente, il superamento dell’uomo mediante la tecnologia. Tale superamento, se non fa i conti con l’antropocentrismo latente nella concezione del rapporto tra uomo e tecnologia, secondo cui l’anthropos dispone della techne, rischia di rimanere “umano, troppo umano” o, nel lessico di Stiegler, “antropico, troppo antropico”, vale a dire espressione di un’immagine, una postura e un’attività essenzialmente legate al processo di antropizzazione del mondo che ha condotto alla situazione attuale, all’Antropocene come accelerazione antropica dell’entropia: “L’uomo” divenuto antropocenico è diventato non un lupo tra gli uomini, bensì il nemico della “umanità” e più in generale del vivente. Come “ultimo uomo”, non è più in grado di pensare l’essere non-inumano che egli può essere solo in quanto noetico - solo in quanto in-esistente: può esserlo solo e sempre nel non esistere ancora come tale, nell’esistere sempre come “non ancora”, sempre 106
già divenuto antropocenico, troppo antropocenico. L’uomo non è ciò che è dato, ma ciò che deve essere prodotto, ri-prodotto.30 L’ultimo uomo, nella prospettiva “post-nietzscheana” di Stiegler, è colui che non può più pensare il non-inumano a cui dovrebbe sempre aspirare poiché non riesce più a pensare l’inumanità dell’uomo, ossia il difetto d’origine, di essenza umana, che è la molla stessa dell’ominazione, ma anche il fondo in cui la stessa ominazione e lo stesso ultimo uomo non smettono di ricadere, seguendo in tal senso il ritmo intermittente dell’anima noetica di Aristotele: «Il trans-umanismo pretende di colmare il difetto noetico presentandosi come discorso dell’uomo perfetto, ossia come progetto di eliminazione del difetto che è la noesi».31 L’ultimo uomo non riesce cioè a pensare il nihil che sta alla radice dell’anthropos e su cui l’inumano come condizione originaria sempre ripetuta poggia per divenire non-inumano, per ex-istere al di là delle proprie condizioni di partenza. Senza questa condizione di difetto necessario inscritto in ciò che chiamiamo umano, Stiegler vede il rischio di proiettare l’umanità verso una «tentazione rovinosamente ingenua (e nichilista) che acclama la necessità di superare l’uomo precisamente dal punto di vista transumanista».32 Le due forme di omogeneizzazione capitalistica, quella relativa alla biodiversità e quella cognitiva, corrispondono perciò alle due facce del nichilismo contemporaneo, il livellamento dell’uomo non solo europeo, come prefigurava Nietzsche, bensì antropocenico, ossia tossicamente globalizzanze e tragicamente
globalizzato. Alla base di questa coincidenza vi è una particolare interpretazione dell’entropia da parte di Stiegler, il quale la intende non solamente come dissipazione di energia e progressione del disordine, bensì e più in generale come il tendenziale livellamento di ogni genere di differenza. Ciò significa che se la globalizzazione neoliberale sta distruggendo la biodiversità con l’inquinamento e la devastazione degli habitat, il capitalismo cognitivo, come suo sottoinsieme, sta accelerando tanto l’omogeneizzazione culturale, quanto la sincronizzazione percettiva, affettiva e, appunto, cognitiva. A rendere conto di questo ultimo fenomeno sono due tendenze tecnologiche che sembrano destinate a intrecciarsi sempre più: una esterna e sociale, esosomatica, quella di Internet, del neuromarketing e della comunicazione; l’altra incorporata e individuale, endosomatica, quella delle nano e micro tecnologie, con la loro valenza potenziante ma anche canalizzatrice delle capacità cognitive. Ora, se l’Antropocene e la governamentalità algoritmica rappresentano il compimento del nichilismo nel XXI secolo, per Stiegler ciò a cui chiamano le tendenze trans-umaniste o extropianiste, ossia la presa in carico affermativa del nichilismo per mezzo della tecnologia, non può essere accolto né ottimisticamente né pessimisticamente, bensì proprio con un atteggiamento nietzscheano e deleuziano, ossia con l’arte di spostare le prospettive. Piuttosto che cedere ad analisi disarmanti o a mitologie della fuga dal mondo iper-tecnologico, Stiegler cerca perciò di individuare la leva interna alle condizioni tecnologiche date per rovesciare la situazione, passando
farmacologicamente da un nichilismo passivo a un nichilismo attivo, in cui anthropos, techné e geos trasvalutano tutti i valori del capitalismo in favore di una nuova economia, ossia di una nuova ecologia generale e politica, sulle orme di Gorz e di Guattari. Di fronte al nichilismo computazionale e a quello ecologico (passivi poiché espressioni dell’“ultimo uomo”), dove in entrambi i casi si assiste al livellamento e alla scomparsa delle differenze – sociodiversità e biodiversità – per Stiegler seguace e prosecutore del Poscritto deleuziano la missione etico politica fondamentale consiste nel «divenire la quasi-causa del nulla, del nihil». Nel lessico deleuziano, divenire la quasi-causa di un evento significa saperlo contro-effettuare, vale a dire estrarre da esso il senso che permette di ripensare l’esperienza, di esprimere la propria condizione e di creare così un concetto degno di quel che accade – è anche, simondoniamente, proseguire il proprio processo d’individuazione. Nella prospettiva tecno-logica di Stiegler, ciò significa che le nuove tecnologie di body e cognitive enhancement ci chiamano ad «assumere su di noi l’estremizzazione farmacologica di questa situazione, […] interrogandoci sulle condizioni organologiche che hanno reso possibile tutto questo e sul carattere irriducibilmente farmacologico di queste condizioni».33 Detto altrimenti le tecnologie di cognitive enhancement, la “metadata society” o la “società automatica”, così come il climate change antropogenico, diventano occasioni per ripensare l’umano e l’inumano, il fuori e il dentro, l’agency e le affordances, la stessa sinistra, nonché i processi d’individuazione 107
psichica e collettiva. Questi ultimi infatti, se enhancement si dà, non possono che risentirne farmacologicamente – ed è su questo piano che il pensiero politico dell’intelligenza collettiva, da intendersi come prendersi cura del general intellect (o anche come “sinistra”!), può e deve essere ripensato a partire da una sintomatologia, ossia dalla valutazione degli effetti nell’ambiente capitalistico nel quale tali tecnologie di enhancement si radicano – anche quando la loro azione potrebbe essere quella di sradicarsene. Ed è proprio a partire dai sintomi (come quelli relativi all’attenzione, al divenire profile dell’esistenza, oppure alla assuefazione ai social networks) che, ancora deleuzianamente, si possono cogliere gli eventi e controeffettuarli:34 anche se in condizioni precarie, la salute dell’individuazione collettiva può ancora pensarsi come una “grande salute”, quella in grado di istituire nuovi valori per ciò che verrà. In tal senso, solo a fronte di una sintomatologia del nichilismo passivo che sembra realizzarsi nel contesto dell’Antropocene, come età dell’ultimo uomo, pare praticabile un progetto nichilistico affermativo. Quest’ultimo potrebbe consistere nell’immaginazione di un percorso differente da quello antropocenico e trans-umanista: non accelerare ulteriormente il treno impazzito che corre sui rapporti di potere neoliberali per dar vita a un super-uomo, ma cercare, anche faticosamente e con il rischio di non riuscirci, di azionare la leva che faccia dirottare il treno su un altro binario. Invece di accelerare, provare a biforcare.
La radice della biforcazione
Abbiamo finora accennato alla nozione di biforcazione senza davvero addentrarci nel senso profondo che questa, se trasformata in un concetto ossia in un punto di vista in grado di forgiare un valido strumento di pensiero, può costituire. Molto spesso abbiamo incontrato questa nozione nel nostro percorso filosofico, da Deleuze e Guattari, con la descrizione dell’emissione di singolarità all’interno di processi auto-organizzati, a Stiegler, per significare l’ipotetico punto di rottura dove da un’epoca catastrofica e totalmente entropica (l’Antropocene) si può passare a un’epoca fondata sull’inversione di questa tendenza. Proprio l’individuare come fa Stiegler l’attuale pressione che incide sulle soggettività e sul pianeta come un aumento esponenziale di disordine, e dunque di entropia (egli parla a riguardo di Entropocene) causato dalla stessa attività umana, ci permette di aprire questa nozione per scendere nella profondità del discorso scientifico, sebbene non ci sia il tempo di affrontarlo qui nel suo dettaglio. Cercheremo però di andare oltre le intuizioni di Stiegler, la cui discussione resta situata su di un piano evocativo, e pone in realtà il fuoco sull’invocazione dell’avvento di questa epoca ulteriore, il Negantropocene, che dovrebbe essere dominato dalla neghentropia anziché dall’entropia. Se ci atteniamo alle leggi della termodinamica capiamo immediatamente che questo non è possibile da un punto di vista fisico – la tendenza generale dell’universo è quella verso la dissipazione, e i processi neghentropici si possono attuare solo a livello locale, restando l’equilibrio macroscopico
quello che tende all’entropia massima. Non ci inoltreremo dunque a discutere ulteriormente l’eventualità di una simile epoca, mentre ci pare di poter tentare una sintomatologia dell’Antropocene dal punto di vista delle scienze, mettendo in campo le nozioni di ordine e disordine, equilibrio e disequilibrio, attività e inerzia, non linearità e differenza, accelerazione e, appunto, biforcazione. E ciò che rende questo paradigma particolarmente interessante è proprio il focus specifico degli scienziati che convocheremo su questi, che riconosciamo essere gli stessi aspetti che contraddistinguono la realtà attuale, nel suo accelerato vortice di cambiamenti. Sarà proprio la questione dell’ordine e del disordine a permetterci di aprire questo parallelo: una questione che, in campo scientifico, si è molto nutrita dell’approccio tipico delle scienze sociali, maggiormente inclini a valutare le tendenze in termini di probabilità, più che di determinismo, originando così nuove possibilità di studiare le situazioni di instabilità nei sistemi (inaugurata da Turing nel 1952 e oggi piuttosto comune). La nota legge dell’entropia fu introdotta da Clausius oltre un secolo e mezzo fa precisamente per dar conto di una progressione irreversibile nel disordine dell’universo – processo in un certo senso incompatibile con le leggi della fisica dinamica, le quali descrivono fenomeni reversibili, ossia dove passato e futuro possono essere controllati e sovvertiti nel rispetto della costanza di energia totale. Tale teoria continua ad affascinare e a riempire di interrogativi le scienze e non solo. Come sia possibile, ad esempio, che l’esperienza comune, supportata dalle scienze umane, 108
constati che sistemi semplici o caotici si evolvono piuttosto naturalmente verso strutture ordinate e complesse, mentre la termodinamica ha stabilito che un sistema evolve necessariamente disperdendo il proprio ordine ed accumulando disordine. O come due tipi di temporalità, reversibile ed irreversibile, possano convivere nello stesso sistema. Prigogine e Stengers hanno provato a loro tempo a fornire risposte adeguate a tali questioni, e quello che ci proponiamo ora di fare è seguire la loro argomentazione35 a partire dalla seguente indicazione metodologica: «L’attività umana, creativa e innovatrice, non è estranea alla natura, ma può essere anzi considerata un’amplificazione e un’intensificazione di tratti già presenti nel mondo fisico».36 Un simile lancio risulta prezioso al fine di attuare lo spericolato salto quantico a cavallo di differenti discipline che ci si prospetta: ci permettiamo dunque di attingere da fisica, termodinamica e chimica per provare a trovare quel po’ di ordine (o sarà disordine?) invocato da Deleuze e Guattari al fine di proteggerci dal caos – e loro stessi, come è risaputo, hanno attinto anche da Prigogine e Stengers. Prima di seguire la proposta prigoginiana di sintesi tra temporalità reversibile e irreversibile, è però necessario introdurre un’altra teoria, quella dell’equilibrio dei sistemi termodinamici. In estrema sintesi, essa prevede che in un sistema chiuso, ossia isolato o protetto, lo stato di equilibrio fisico dipenda dalla competizione tra energia ed entropia, regolata dalla temperatura: quando questa è bassa l’energia prevale, e si hanno strutture ordinate a basso fattore entropico (i cristalli ad esempio), mentre quando la
temperatura cresce l’entropia aumenta e le strutture abbandonano la loro regolarità per entrare in uno stato di disordine molecolare (liquido o gassoso). Quelli che invece dobbiamo prendere in considerazione, se ci occupiamo di situazioni che hanno a che fare con la vita, sono però i sistemi aperti: la vita infatti non è possibile se non nell’interazione e nello scambio energetico con l’ambiente circostante. Nel mondo che conosciamo, dunque, un equilibrio del primo tipo è qualcosa di estremamente raro e precario, mentre la crescita di entropia è la tendenza naturale del sistema: così, essa non corrisponde più a una perdita di regolarità ma piuttosto alla sua affermazione, definendo una nuova condizione di “’equilibrio” termodinamico. Ora, dato per acquisito che in situazioni di equilibrio il comportamento della materia è piuttosto ripetitivo e “conservatore”, la domanda fondamentale rispetto a questi sistemi è se in qualche modo i loro comportamenti possono essere controllati e manipolati, così come avveniva nei sistemi dinamici della fisica classica, che a partire da una condizione iniziale potevano essere condotti lungo un percorso evolutivo dalla traiettoria determinabile. Come chiariscono Prigogine e Stengers, un sistema termodinamico chiuso può in effetti a sua volta essere controllato e gestito, attraverso le sue condizioni limite: su di esse possono essere attuate manipolazioni il cui esito è reversibile – e in questo caso, l’irreversibilità è considerata come una forma di “attività fuori controllo” del sistema, espressione di movimenti spontanei che eludono le modificazioni imposte dai dispositivi sperimentali. In situazioni di equilibrio ritroviamo in questi
sistemi un andamento probabilistico, ossia una distribuzione piuttosto regolare basata sulla “legge dei grandi numeri”, e in genere organizzata attorno ad un “attrattore”: una volta che esso è inserito in un sistema, questo si organizza in sua dipendenza, e i movimenti possibili sono solo fluttuazioni attorno a questo stato. L’esito è dunque prevedibile, e l’evoluzione procede verso una forma stabile. Lontano dall’equilibrio, le cose cambiano drasticamente: le fluttuazioni si moltiplicano ed i cambiamenti divengono frenetici ed imprevedibili, sfuggenti ai tentativi di manipolazione esterna. In realtà, sostengono i due autori, anche questo tipo di caos possiede un suo ordine particolare, che si realizza autonomamente in condizione di massima lontananza dall’equilibrio, ossia in una disposizione nella quale quanti più “nuovi” comportamenti possibili si possono generare – una situazione decisamente inconcepibile da un punto di vista classico. Allo stesso tempo, quando la potenza delle fluttuazioni forza il sistema in simili condizioni ne minaccia la stabilità della struttura, fino al raggiungimento di punti critici detti “punti di biforcazione” – ed ecco comparire la nozione che diverrà la nostra guida. Se ciò avviene è perché il sistema è impossibilitato a conservarsi tale quale, e dunque le due possibilità di cambiamento che la biforcazione apre non sono né in vista del suo potenziamento né una possibilità di articolazione con il nuovo, ma esprimono piuttosto la necessità di instaurare condizioni completamente differenti: o la distruzione totale e definitiva, o il salto verso un livello più evoluto di organizzazione – un sistema cosiddetto dissipativo, a causa dell’aumento della 109
quantità di energia necessaria alla sua conservazione. Ma quando si tratta di descrivere il comportamento di questi sistemi, non si possono utilizzare modelli probabilistici. Una volta raggiunto un punto di biforcazione, infatti, gli elementi che si generano in seguito a una spinta accelerante non rispettano un andamento deterministico, tipico invece delle fasi “stabili” del sistema, ma assumono comportamenti fluttuanti e casuali, inducendo l’impossibilità di stabilire una traiettoria particolare. A questo punto è dunque impossibile stabilire quale delle due direzioni il sistema prenderà rispetto alla biforcazione, e in che modo verrà operata la scelta: essa è puramente casuale, come il risultato di un lancio di dadi. Certo, ci sono modi di provocare delle “biforcazioni assistite”, che consistono nel creare le condizioni ideali perché uno dei due percorsi sia preferito. Occorre però tenere presente che i sistemi instabili hanno un’elevata sensibilità, e sono in grado di percepire differenze che in stato di equilibrio sarebbero insignificanti. Questo fa sì da un lato che la loro adattabilità all’ambiente e alle condizioni esterne sia elevata, ma, allo stesso tempo, che la sensibilità ad ogni “rumore” o elemento casuale, inevitabile nei sistemi aperti (come quelli “naturali”), sia massima, e dunque in grado di generare continui risultati inattesi e schemi di reazione molto complicati. Un esempio molto semplice utilizzato da Prigogine e Stengers è quello relativo alla stabilità strutturale di un sistema nel caso in cui vengano inseriti elementi in grado di moltiplicarsi prendendo parte ai processi del sistema stesso. La reazione normale, affermano i due autori, può essere così descritta: se introdotti in numero
ridotto, i nuovi componenti generano nuovi tipi di reazioni e combinazioni che entrano in competizione con i processi precedenti. Se il sistema di partenza è relativamente stabile, gli “innovatori” non saranno in grado di prevalere e scompariranno. Se invece gli elementi fluttuanti saranno abbastanza forti da sopravvivere ed imporsi, il sistema adotterà un nuovo comportamento e sarà governato da una nuova sintassi. Determinismo e caso procedono dunque necessariamente insieme, e, una volta inteso in questo senso, anche un movimento entropico può condurre, in condizioni di non equilibrio, alla generazione di nuove forme di ordine, di organizzazione, e dunque di vita: Un sistema lontano dall’equilibrio può essere descritto come organizzato non in quanto realizza un piano generale, al di là delle singole attività, ma al contrario, perché l’amplificazione delle fluttuazioni microscopiche, se occorsa al giusto momento, può favorire un percorso di reazione piuttosto che altri. In certe circostanze, il ruolo del comportamento individuale può essere decisivo. Più in generale, il comportamento collettivo non può essere considerato dominante rispetto ai processi elementari che lo compongono. I processi di auto organizzazione in tali situazioni sono davvero un delicato gioco di caso e necessità, fluttuazioni e determinismo. Ciò che ci aspettiamo di vedere, è che vicino ai punti di biforcazione gli elementi casuali giochino un ruolo più importante, mentre tra una biforcazione e l’altra il procedere assuma una direzione più deterministica.37
Evidentemente, sostengono gli autori de La Nuova Alleanza, l’analogia con i fenomeni sociali, economici e politici, è inaggirabile, e non si tratta di un caso di riduzionismo. Certo, i sistemi sociali sono molto più complessi di quelli fisici, ma alcune dinamiche possono essere studiate anche alla luce di questi. I loro riferimenti, ad esempio, intendono gettare nuove luci sul concetto di rivoluzione; d’altro canto, la descrizione di come è grazie a diverse situazioni di instabilità che si giunge a una trasformazione ha profonde implicazioni politiche, così come l’idea che comportamenti fuori dal comune emergano precisamente in condizioni di disequilibrio è a loro avviso un mezzo per ridefinire l’innovazione.38 Ciò che invece vorremmo utilizzare in risposta all’accelerazionismo è ancora una volta la questione di come ottenere ordine da uno stato di disordine (entropia) massimo. Accelerare il processo entropico, quel disequilibrio che con Stiegler abbiamo definito disaggiustamento, per far sì che i punti di rottura si creino più in fretta, può sembrare rispecchiare la dinamica che porta al collasso della struttura precedente ed apre la possibilità che si crei, auguratamente, un ordine nuovo. Sfortunatamente, però, nonostante le cicliche crisi e l’equilibrio apparentemente precario, l’attuale sistema capitalistico neoliberale è tutt’altro che instabile, ed anzi, abbiamo visto come si regga precisamente sulla finzione della propria malattia, mentre chi è debole, in quanto proletarizzato, sono le soggettività, che una volta in balia del caso della situazione di biforcazione, rischiano di non riuscire a reggere – il che significa, non solo non riuscire a produrre 110
nulla di nuovo, ma precipitare inesorabilmente verso l’annichilamento totale e irreversibile. Eventualmente, pensare di accelerare l’innovazione tecnologica potrebbe funzionare in un sistema molto semplice come un sistema chiuso, governato da poche regole di tipo deterministico. Mentre in generale, la difficoltà di governare i processi di mutazione all’interno di strutture complesse, caratterizzate dall’insorgere di fenomeni casuali, inattesi, fluttuanti, e la ridotta possibilità di predire la reazione in grado di generarsi – spesso invece controintuitiva rispetto alla nostra tendenza al ragionamento secondo la causalità lineare – ci fa dubitare dell’utilità di un simile modello di evoluzione applicato alla situazione attuale. Siamo invece più inclini a considerare la possibilità suggerita da Prigogine e Stengers, quella di un “ordine attraverso fluttuazioni”. Se nella prima, quella accelerazionista, il flusso accelerante elimina la significatività di ogni azione individuale, nella seconda, “un individuo, un’idea, o un nuovo comportamento può sconvolgere lo stato globale”, aprendo regioni di biforcazione e dunque di cambiamento. Ma anche in questo caso, lo ripetiamo, non basta amplificare la possibilità che tali variazioni occorrano, dal momento che le stesse non linearità possono produrre ordine dal caos o, nel caso in cui le circostanze intercorrenti siano diverse, essere responsabili della distruzione di questa stessa possibilità. «La natura che si biforca è quella in cui differenze piccole, fluttuazioni insignificanti, possono, se si danno circostanze opportune, espandersi in tutto il sistema e produrre nuove funzioni, un nuovo comportamento globale».39
Far funzionare l’entropia come progenitore dell’ordine non è possibile accelerandone il suo processo. La biforcazione può essere una scelta solo se operata alla radice: ossia a livello delle piccole fluttuazioni che a certi critici paiono insignificanti, quelle che caratterizzano l’individuazione/le soggettività. Altrimenti non sarà certo una condizione auspicabile, quanto piuttosto il rischio di un grande salto nel vuoto.
1 N Srnicek, A. Williams, “Manifesto per una politica accelerazionista”, in M. Pasquinelli (a cura di), Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Ombre Corte, Verona 2014, p. 21. 2 K. Marx (Grundrisse), “Frammento sulle macchine”, «Quaderni rossi», 4, 1964, pp. 289-300. 3 G. Deleuze, F. Guattari, L'Anti-Edipo, trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, p. 272. 4 F. Nietzsche, Frammenti postumi 18871888, in Id. Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, trad. it. di S. Giammetta, Adelphi, Milano 1971, Vol. III, tomo II, (105) 9 [153]. Un’esaustiva ricognizione filologica, genealogica e critica delle “avventure” del Beschleunigen è fornita dal lavoro di P. Davoli e L. Rustichelli, “I forti dell'avvenire. Il frammento accelerazionista di Friedrich Nietzsche nell'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari” (https:// www.academia.edu/16102511/). 5 «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l'avvento del nichilismo», F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit., Vol. III, tomo II, 362 [119]. 6 F. Nietzsche, Ecce Homo, in Opere, cit., a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964, vol. VI (III), p. 273. 7 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino, 1996, p. 211. 8 F. Berardi Bifo, “L'accelerazionismo in questione dal punto di vista del corpo”, in M. Pasquinelli, Gli algoritmi del capitale, cit., p. 43. 9 B. Noys, “Days of Future Past. Capitalism, Time, and Acceleration”, 2015. 10 Una prima critica di Stiegler al manifesto accelerazionista di Srnicek e Williams è presente nelle conclusioni di B. Stiegler, Perdus dans la disruption. Comment ne pas devenir fous, Les liens qui liberent, Paris 2016. 11 Cfr. B. Stiegler, “Uscire dall’Antropocene”, Kaiak, n.2, “Apocalissi culturali”, 2015. 12 B. Stiegler, La Technique et le Temps I. La faute d'Epiméthée, Galilée, Paris 1994, p. 152. 13 B. Stiegler, “Anamnesi e ipomnesi. Platone primo pensatore del proletariato”, in Id., Platone digitale. Per una filosofia della rete, a cura di P. Vignola e F. Vitale, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 38.
111
14 M.B.N. Hansen, Feed Forward. On the future of Twenty-First-Century Media University of Chicago Press, Chicago 2015.
19 V. Petit, “Vocabulaire d’Ars Industrialis”, in B. Stiegler, Pharmacologie du Front national, Paris, Flammarion, 2013, p. 419.
15 Cfr. in particolare P. J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, a cura di A. Parlangeli, Mondadori, Milano 2005.
20 F. Berardi Bifo, “L'accelerazionismo in questione dal punto di vista del corpo”, cit., pp. 42-43.
16 Berns, Th., Rouvroy, A. (2012). “Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation”. Réseaux 177. pp.163-196.
22 «Vi è iper-disaggiustamento quando gli organa artificiali che formano il sistema tecnico cortocircuitano al tempo stesso il livello degli organi e degli apparati psicosomatici […] e il livello degli organismi sociali. È ciò che conduce a quella che definiamo una proletarizzazione generalizzata», V. Petit, “Vocabulaire d’Ars Industrialis”, cit., p. 420.
17 B. Stiegler, La société automatique I. L’avenir du travail, Fayard, Paris 2015, p. 110. 18 Alcune precisazioni sulla nozione di individuo e di individuazione. Per Simondon l’individuo è il risultato parziale e provvisorio di una serie di processi di individuazione psichica che avvengono nella dimensione collettiva, e tramite essa. Parziale perché esso non potrebbe esistere senza un ambiente a lui associato (ambiente pre-individuale, che può essere fisico, simbolico e tecnico), e provvisorio poiché il mutare delle proprie condizioni di esistenza può innescare un nuovo processo di individuazione. Ogni trasformazione, ogni transizione di fase nel processo rappresenta la soluzione ad un problema della fase precedente. L’individuo è in tal senso la realtà di una relazione “metastabile” con il proprio ambiente e «il vivente è come un cristallo che mantenga attorno a sé, e nella sua relazione con l’ambiente, una permanente metastabilità». G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, trad. it. di P. Virno, DeriveApprodi, Roma 2001, p. 87. Simondon recupera dalla fisica la nozione di “metastabilità”, applicandola all'ontologia. In fisica la metastabilità è una condizione di equilibrio che si differenzia dal cosiddetto “equilibrio stabile”, poiché ad essa non corrisponde un minimo assoluto di energia. Un sistema in equilibrio metastabile si mantiene in condizione di equilibrio per un tempo indeterminato, fino a che non viene fornito al sistema un quantitativo sufficiente di energia. Se l'energia fornita è sufficiente, essa sblocca la condizione di stabilità del sistema, conducendolo ad un'ulteriore condizione di “equilibrio metastabile”. Ora, il processo di individuazione psichica e collettiva che descrive la vita sociale è sempre al limite del disequilibrio o, appunto, in equilibrio metastabile, e tale condizione permette il passaggio da una fase di individuazione all’altra. Per Stiegler, «l’individuazione è sempre al tempo stesso psichica e collettiva, ed è precisamente questo al tempo stesso che costituisce il sapere come tale, e come legame originario e indissolubile […]: è proprio nella misura in cui il sapere è sapere solo a condizione di una sua condivisione [partage], del suo divenire-pubblico, che l’Io, come individuo psichico, non può essere pensato se non come appartenente a un noi, che è individuo collettivo», B. Stiegler, Réenchanter le monde, cit., p. 141.
21 Ibidem.
23 M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma 2012 24 G. Deleuze, F. Guattari, L'Anti-Edipo, cit., p. 267. 25 Cfr. M. Lazzarato, La fabbrica dell'uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 164. 26 G. Deleuze, F. Guattari, L'Anti-Edipo, cit., p. 268. 27 Cfr. F. Berardi Bifo, La fabbrica dell'infelicità. New economy e movimento del cognitariato, DeriveApprodi, Roma 2002. 28 Oltre alle considerazioni di Stiegler e Berardi, importante è l’analisi di T. Terranova, “Attention and the Brain”, Culture Machine, 2013. 29 F. Berardi Bifo, The Soul at Work, cit., p. 197. 30 B. Stiegler, “Elements de neguanthropologie”, (testo della conferenza tenuta a Nijmengen, 1 febbraio 2016). 31 Ibidem. 32 Ibidem. 33 J. Wambacq, B. Buseyne, B. Stiegler, “We moeten de quasi-oorzaak van het niets worden, van het nihil.”, Uil Van Minerva, 2015. 34 Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, trad. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 2005, p. 147. 35 Ci riferiamo principalmente all’opera I. Prigogine, I. Stengers, Order Out of Chaos: Man’s New Dialogue with Nature, Bantam Books, New York 1984 (versione inglese rivista e ampliata del noto La nouvelle alliance. Métamorphose de la Science, Gallimard, Paris 1979).
36 I. Prigogine, La fine delle certezze. Il tempo, il caos e le leggi della natura, trad. it. di L. Sosio, Bollati Boringhieri, Torino 2014, p. 68. 37 I. Prigogine, I. Stengers, Order Out of Chaos, cit., p. 176. 38 A. Toffler, “Science and Change”, in ivi, p. xxiv. 39 I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, a cura di P.D. Napolitani, Einaudi, Torino 1984.
vii
vari autori
Cyberforum ‘Biforcare alla radice’
PD Sono il curatore del progetto «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire» e in questa veste ho ospitato di comune accordo con Paolo Vignola e Sara Baranzoni il loro intervento all’interno di questo spazio che utilizziamo per promuovere i materiali che assembliamo sotto il moniker di Obsolete Capitalism. Ringrazio Paolo Vignola e Sara Baranzoni per la loro disponibilità al confronto e per lo sforzo prodotto sia nel testo critico che nella volontà di sperimentare nuove forme di dialogo e di pensiero. Paolo Vignola e Sara Baranzoni, filosofi, sono attualmente membri della Universidad de Investigación de Tecnología Experimental di Yachay, Ecuador. Il mio intervento sarà distribuito sul testo sotto forma di cinque nodi/post strettamente tematici - concordati con gli autori - per enucleare i punti di convergenza e i nodi di differenziazione tra i due ‘universi’ che esprimiamo, mantenendo un confronto che non si esaurisca solo nella suggestione del testo, ma che lo ‘buchi’, entrando e uscendo dallo scritto e dal libro. I cinque nodi/temisono: • Nietzsche e nichilismo • Stiegler e proletarizzazione • Deleuze-Guattari ed accelerazionismo non-marxista • Biforcazione e pensiero • Tecnologia e Capitalismo Nulla vieta agli invitati di introdurre altri temi, a propria scelta, rispetto ai cinque da noi 113
individuati. La nostra opzione inerente i 5 temi/nodi è stata effettuata solo per facilitare la lettura e gli interventi. Il «Manifesto per una politica accelerazionista» è stato pubblicato da Ombre Corte, 2014, in un volume a cura di Matteo Pasquinelli «Gli algoritmi del capitale», di cui consigliamo la lettura. Nietzsche e nichilismo
PD Sono d’accordo con la vostra lettura di Nietzsche in merito alla situazione in cui si trova la società attuale, e dunque sul compimento del nichilismo, sulla scia dell’asse Klossowski-Deleuze. Il Nietzsche dello «spostamento di prospettive» è il Nietzsche valetudinario degli anni ’80 del XIX secolo, ovvero quell’uomo che s’interroga sulla validità delle proprie esperienze in base ai criteri di «sanità» e «malattia»: perfino il pensiero viene da lui ritenuto sintomo di impotenza. Per ottenere «l’ottica di malato» e «guardare in basso» Nietzsche indaga profondamente dentro di sé e scopre affinità ed echi infiniti tra la decadenza della società borghese e il proprio stato valetudinario. Il «tiranno» che è in sé lo porta di continuo a censurarsi e qualsiasi pensiero viene filtrato dal censore che, come un mostro, lo domina. Ogni esperienza e ogni pensiero sono passati al vaglio delle nuove coppie
concettuali che sono germogliate dentro di sé: gregario/singolare, malato/ sano, debole/forte. La domanda alla quale Nietzsche tenta di rispondere è: come attribuire forza al singolare (il forte dell’avvenire), al non scambiabile (colui che si oppone al positivismo mercantile), quando la specie (ovvero la natura) attribuisce la forza alla gregarietà e alla totalità malsana della società livellata? Come ridare sovranità agli irregolari? L’esito finale di questa cesura/fenditura interiore, foriera della nascita dello spostamento di prospettive, è cesellata nel frammento 40 [65] dell’agosto-settembre 1885: “Divenni allora signore, dentro di me, di ogni “pessimismo”; la mia medicina fu la stessa volontà di salute, la commedia della salute». L'ottica del malato trova la propria medicina nella «volontà» di salute che si tramuta nella «teatralizzazione» dei valori più sani. Ma se alla base dell’accelerazionismo sta la trazione NietzscheDeleuze del famoso passaggio dell’Anti-Edipo da voi riportato - il «locus classicus» dell'accelerazionismo lo definisce Matteo Pasquinelli - perché, non solo Srnicek e Williams - cioè l’accelerazionismo marxista ‘classico’ - rifiuta la genealogia nietzscheana, ma anche gli autori dell'antologia #Accelerate# - MacKay e Avanessian - in un qualche modo la ricusano, ri-tracciandola nel «Frammento delle macchine» di Marx? Cosa c’è nel frammento
marxiano che manca nel frammento nietzscheano o, viceversa, cosa c’è nel frammento nietzscheano che manca nel frammento marxiano? E' possibile trovare un'assonanza tra i due frammenti? Punti d'appoggio segreti, attriti sensibili, crepe sincrone, varianti caotiche, ve ne sono? Stiegler e la proletarizzazione
PD Il contributo più originale del vostro saggio, così come della vostra intera produzione filosofica, è l'utilizzo che fate della filosofia e delle teorie di Stiegler, autore non molto conosciuto e discusso in Italia - purtroppo. Voi costruite un percorso di critica della modernità inserendo direttamente Stiegler tra la denuncia dell'avvento del nichilismo e il farsi epoca dell'homo oeconomicus, cioè l'Antropocene. Come elemento teorico, in chiave critica, del momento culminante di nichilismo, capitalismo, accelerazionismo tecnologico e crisi ambientale, utilizzate il concetto di proletizzazione di Stiegler, ovvero la pauperizzazione dei saperi da parte della nostra contemporaneità dovuta a una continua esternalizzazione dello scibile nei supporti fisici o immateriali che la tecnica ha inventato. Il proletizzato è l'uomo privato dal sapere, dunque già prono alle forze livellanti operanti nel sociale. Questa condizione proletizzante è però verticale, riguarda tutti gli strati sociali. Questo vostro discorso, a mio avviso, presenta un guadagno e una perdita. Il guadagno è rappresentato dal ricentrare sul sapere e sulla distribuzione dei saperi, anche spaziale, l'attenzione del mondo filosofico e politico: mi sembra che su questo punto - dal come porsi 114
nei confronti di Google all'alleanza con la critica della governance algoritmica della Rouvroy - il suo, e vostro, atteggiamento sia tra i più lungimiranti e avanzati in essere. Mirate a una 'pragmatica' vigile ma non ideologizzata nei confronti delle culture di Rete. D'altra parte il discorso sul sapere e la visione globale e totalizzante che ne deriva sembra offuscare, o allontanare, un altro grande autore che si è speso molto sul concetto di 'sapere' e sui dispositivi mobili adiacenti: Foucault. Stiegler - e mi pare di capire - voi con lui, gioca/giocate Simondon contro Foucault. Perchè? SB & PV Nella risposta al nodo/ punto 3 abbiamo già anticipato alcune considerazioni forse utili a chiarire la questione che poni qui. La tua descrizione della proletarizzazione è poi precisa rispetto a quello che scriviamo, dunque non aggiungiamo altro (per il momento). Non giochiamo però Simondon contro Foucault (anzi forse, leggendo diversi altri nostri testi, ci sforziamo di esprimere una loro alleanza) e quando Stiegler lo fa, come ad esempio in "Prendersi cura", finisce per mostrare i suoi propri limiti interpretativi. In quel caso, addirittura, aveva giocato principalmente Deleuze contro Foucault, per evidenziare una certa lungimiranza di Deleuze rispetto allo psicopotere, come concetto più adeguato del biopotere (Psicopotere, in quel caso, è ciò che Lazzarato descriverebbe come noopolitica). Ma, lo diciamo per chi non passa il tempo a leggere Stiegler, il suo discorso farmacologico è debitore anche nei confronti di Foucault, e in particolare della "cura di sé e degli altri", degli hypomnemata e dell'ermeneutica del soggetto, che appunto
possono essere composti con - e non opposti a - l'individuazione psichica e collettiva di Simondon. Anzi, se andiamo a vedere, Stiegler, con il suo discorso sull'individuazione tecnica, critica Simondon (il quale non si è spinto fino a quel punto della tecnicità originaria) molto più profondamente di quanto possa fare con Foucault. L'aspetto straniante di Stiegler, se vogliamo, è che mentre la tendenza del pensiero critico è quella di utilizzare Foucault in chiave polemica, critica (appunto), e analitica (nel senso politico), per descrivere il presente, Stiegler è come se lo tenesse in panchina, pronto per essere utilizzato una volta che il discorso sulla tecnicità originaria e sulla farmacologia dei saperi si sia abbastanza sedimentato da potersi comporre con "Le parole e le cose". Sappiamo che a brevissimo uscirà un libro di Stiegler in cui dovrebbe provare una composizione problematica tra Derrida e Foucault, proprio a partire dalla "Storia della follia"… sarà sicuramente qualcosa che non piacerà né ai derridiani né ai foucaultiani, ma è anche così che, foucaultianamente, si muove "la volontà di sapere"… Deleuze, Guattari e l’accelerazionismo non marxista
PD Uno degli obiettivi principali del progetto e.book 'Moneta, rivoluzione e filosofia dell'avvenire' è di indagare la teoria dell'accelerazionismo insita nell'opera «L'Anti-Edipo» di Deleuze e Guattari. Com'è noto, Pasquinelli indica il passaggio della via rivoluzionaria e dell'accelerazione del processo come il locus classicus del movimento accelerazi-
onista; non solo, Mackay e Avanessian hanno inserito l'intero paragrafo «La macchina capitalistica civilizzata» - sempre dall'Anti-Edipo (pg. 251272), nella loro antologia #Accelerate (pg.14-17 e pg. 147-162), a suggellare l’importanza strategica del testo in questione. Fin dall'inizio della nostra ricerca abbiamo notato, all'interno delle due antologie accelerazioniste sopra richiamate, due fragorose assenze due fantasmi enigmatici e familiari, una sorta di materia oscura del pensiero: Nietzsche e Klossowski. Abbiamo pensato che fosse possibile, forse, una contro-storia della «Macchina capitalistica civilizzata» che facesse luce sul grande fraintendimento in opera da parte del cosiddetto «accelerazionismo marxista», rivisitando con occhi nuovi il celebre passaggio della via rivoluzionaria e dell'accelerazione di processo. Ecco dunque la prima secca domanda, ineludibile, che ci siamo posti e alla quale vi chiediamo di rispondere: Deleuze e Guattari sono filosofi paradigmatici dell'accelerazionismo? A partire dal vostro saggio, è possibile costruire una sintomatologia del capitalismo e della sua attuale fase di governance algoritmica che tenga conto della logica dell'accelerazione e della dromologia, per la costruzione di un accelerazionismo non marxista dunque non un «ritorno a Marx» ma una «fuga da Marx» - o, per usare la vostra terminologia, una «biforcazione da Marx»? Sono infatti d'accordo con il messaggio di fondo del vostro saggio, nato sotto il segno del caos: pensare la società complessa che noi tutti esperiamo vuol dire dotarsi di strumenti analitici che abbandonino o superino il paradigma marxista - il lavoro, la produz115
ione, l'industria, la linearità - per contemplare il nuovo paradigma caotico, e non solo nel senso dimostrato dai matematici Li e Yorke, ma anche come protezione/ombrello, attrito/resistenza, composizione/caosmosi, intensità/ fluttuazione o catastrofe/risorsa - e le serie polari potrebbero frattalizzare all’infinito. Non è già il Cervello-Pensiero di Nietzsche un «inner cinema» in cui «l'intensità obbedisce a un ondeggiante caos senza principio né fine» (K, NCV, 93)? E Klossowski non ha designato Nietzsche stesso come un soggetto che «passa per una serie di stati, e che identifica i nomi della storia a tali stati: 'Tutti i nomi della storia, sono io…’», e in cui «il soggetto si stende sul contorno del circolo di cui l'Io ha disertato il centro» (AE, 23)? E per terminare, non sono gli stessi Deleuze e Guattari a suggerire che il Cervello-Pensiero sia una forma vera, primaria, uno stato di sorvolo che è «co-presente a tutte le sue determinazioni senza prossimità o allontanamento, [e] le percorre a velocità infinita, senza velocità-limite, e ne fa altrettante variazioni inseparabili» (CCLF, 223)? Non ne farei una partita procaos vs anticaos, o accelerazionisti vs. catecontici: materia, energia e informazione sono in abbondanza nell'universo, e se non abbiamo frainteso l’appello al lavoro comune di Tommaso Gazzolo, altre mutazioni, ibridazioni e interferenze di pensiero sono possibili, a breve, chi passando da Stiegler e Rouvroy o Whitehead/Simondon, chi da Virilio e Sampson - il cui prossimo libro «The Assemblage Brain: Sense Making in Times of Neurocapitalism» proporrà una radicale critica al mondo neurocentrico sulla quale potremmo trovare tutti noi importanti consonanze.
PV Grazie per queste osservazioni, e grazie almeno per due motivi. Il primo riguarda Nietzsche, Klossowski e l'ipotesi di "accelerazionismo non marxista", l'altro il tema del cervello in Deleuze e Guattari. Siamo d'accordo con te sulla rimozione dell'aspetto insidioso, tragico e quasi ineffabile di Nietzsche da parte di molti accelerazionisti, in particolare da chi propone un nichilismo attivo senza "passare" per una sintomatologia (si trovano alcune suggestioni orgogliosamente nichilistiche nel libro collettivo curato da Pasquinelli "Alleys of your mind"). Non siamo chiaramente noi i primi ad aver messo in guardia rispetto alla sofferenza del nichilismo reattivo e passivo nel XXI secolo, bensì Bifo e Stiegler, tra gli altri. La nostra prospettiva, però, non vuole far segno verso un "accelerazionismo non marxista", non ci sogneremo mai di biforcare da Marx! Non vogliamo nemmeno opporre qualcuno a qualcun altro, poiché riteniamo che l'opposizione sia la peggior arma filosofica da usare. Ecco, se c'è un problema metodologico nel pensiero "radicale" contemporaneo (ma è anche vero che questa tendenza è messa in questione da sempre più persone), è quello di opporre un filosofo a un altro, o di essere bersagliati perché si usa un filosofo già criticato da qualcun altro. Per noi, la questione è diversa. Normalmente proviamo a partire da un problema che ci riguarda, come ad esempio lo "spasmo" di cui parla Bifo, oppure il livellamento algoritmico dei comportamenti, oppure la proletarizzazione del "saper vivere" di Stiegler, e cerchiamo aiuto in autori che, presi tutti d'un pezzo, non potrebbero aiutarci:
Nietzsche, Marx, Derrida, Simondon, Whitehead, tra gli altri. Non possiamo allora opporre Nietzsche a Marx, o Marx a Whitehead, o Derrida a Simondon, ecc., perché ognuno ci aiuta fin "dove può", o fin "dove vuole", ed è già tanto se riusciamo a farci aiutare da questi autori. Un esempio per tutti è il concetto di proletarizzazione, à la Stiegler (a cui abbiamo dedicato parecchio spazio). Con il lavoro di composizione che Stiegler compie, per noi diventa impossibile pensare la proletarizzazione "solo" con Marx, e banalmente per un motivo: non descrive quel che sta accadendo oggi. Neanche Nietzsche, alla lettera, descrive quel che sta accadendo oggi, ma se lo componiamo con Marx, diversamente da come lo avevano fatto Deleuze e Guattari in L'Anti-Edipo, allora è Nietzsche il complice più adeguato per fare una critica del neoliberalismo di oggi - ed è il più adeguato persino a criticare l'accelerazionismo. La proletarizzazione, senza Nietzsche, rischia di diventare un concetto storiografico, ed è quello che a nostro avviso va evitato. Ci piace immaginarla così: a un certo punto, forse, sarà lo stesso Marx a doversi alleare con Nietzsche, magari in segreto, per sviluppare una nuova interpretazione dei Grundrisse. Rouvroy, Terranova, Berry, ad esempio, ci pare che, ognuno/a a proprio modo, vadano in quella direzione. Tutto questo per dire che Marx da solo chiaramente non basta, ma piuttosto che "biforcare da Marx", conviene andare alla radice della biforcazione tra Marx e Nietzsche per… fare rizoma! Lo stesso vale, almeno nella nostra prospettiva, tra Simondon e Derrida, così come, per certi aspetti, tra Deleuze e Stiegler. 116
Sul cervello in D&G, cogli nel segno: non è una partita caos/anticaos, semmai si tratta di comprendere come "far prendere ordine" alle tre caoidi, come giocarsi filosoficamente e politicamente la fenditura sinaptica, come fare filosofia oggi. Quello del cervello in Deleuze è un cantiere aperto, che si compone, decostruendolo, con quello del desiderio. PD Caro Paolo, grazie per la tua risposta, che ci obbliga a precisare la «biforcazione da Marx». Se ci riferiamo a Marx, e non ai marxismi, come coordinata geografica di un sistema di riferimento topologico d’impostazione dromologica o accelerazionista, ciò significa che il rivoluzionario di Treviri rientra a pieno titolo in quella mappa cognitiva che stiamo cercando di costruire; si tratta di una mappa sperimentale, a maglie strette, multi-connessa, in cui sono presenti quegli autori (ma altri ne mancano) più volte richiamati in questo forum. «Biforcare da Marx» vorrà significare, allora, che sul singolo problema che ci si para innanzi, Marx potrebbe risultare scostato, o fuori scala, o superfluo, o sfocato o addirittura essere d’ostacolo; o, più banalmente, «perché non descrive quel che sta accadendo oggi» come scrivi giustamente tu. «Biforcare da Marx» può anche significare oltrepassare - biforcando alla radice - i concetti marxiani, così come accaduto al concetto di reificazione con le opere di Honneth e di Berger e Luckmann. Se scriviamo «accelerazionismo non marxista» non è perché vogliamo escludere Marx, o gli vogliamo contrapporre un altro filosofo, magari Nietzsche; significa solo che non gli assegniamo - né a lui, né ad altri- alcuna
posizione tolemaica, fissa, centrale, rispetto alla quale, non solo gli autori richiamati, ma anche gli astanti, gli osservatori - i viventi, insomma - si troverebbero a orbitare in genuflessa rivoluzione ciclica. Il pericolo maggiore, da evitare con cura, è quello di confinare Marx, il suo pensiero, la sua energia trasformatrice, in una semplice autorità anti-ciclica, da attivare nel culmine delle ricorrenti crisi dell’economia di mercato, buona per tutte le stagioni di depressione del capitalismo; Marx, in questa guisa, figurerebbe come un panno di Pavlov da sventolare nei confronti di una sinistra passiva il cui incarico primo sarebbe la rigenerazione delle (magnifiche) sorti del capitale. Marx, letto in questa forma, diciamo così, istituzional-sistemica, diverrebbe un farmaco politico, un lenitivo filosofico, utile fintanto che si riproducano le condizioni mercantili antecedenti al crollo. Tranne che per una cosa: una volta terminata la crisi, i debiti, i cocci, gli incagli saranno socializzati. Ecco servito il vero obiettivo del comunismo del capitale, una variante hard e rossa (o rosa tiepido, come i gusti comandano) delle assiomatiche di recupero del capitale. Il nostro presente richiede, invece, creazione e coraggio. Perché non cercare strade non battute, impervie, sdrucciole, per essere all’altezza del reale e delle sfide lanciate dalla complessità attuale? Le fluttuazioni economiche amplificate alle quali assistiamo in questi ultimi anni non sono forse determinate dal cambiamento sensibile delle condizioni iniziali del mercato rispetto alle quali molte analisi della sinistra risultano in affanno, se non in colpevole ritardo? Facciamo un breve esempio, anche se di
portata secondaria: per spiegare e cogliere in tutta la sua ampiezza e portata il «Flash crash» di Wall Street del 6 maggio 2010 - quando l’algorithmic trader Navinder Singh Sarao immise migliaia di ordine di vendita in pochi secondi per oltre 200 milioni di dollari causando uno storico crollo di borsa - é necessaria anche la «teoria degli incidenti» di Virilio oppure ci facciamo bastare l’analisi del plusvalore di Rete derivata dalle teorie marxiste? Se la sinistra marxista non riesce a cogliere le modalità nuove del tempo quantizzato, cioè il tempo cronoscopico di Virilio, del muoversi turbolento della finanza contemporanea, è forse perché si rifà ancora ai tempi sociali e alla temporalità lineare dell’archeologia industriale del XIX secolo e della produttività di fabbrica ai tempi di Marx? Se così è, dunque, essa non è capace di contrastare il proprio nemico sullo stesso terreno di scontro. Come è possibile combattere, e vincere, un nemico che è in grado di scegliere il campo di battaglia, i tempi e le velocità del conflitto? Per rimanere al nostro tema moneta e rivoluzione - la debolezza teorica della sinistra marxista non è da accoppiare, e non è anche figlia, della debolezza teorica della teoria marxista della moneta esposta nel Capitale che assegna alla moneta-credito e al sistema bancario un ruolo marginale rispetto alla moneta propria della circolazione di merci? Marx, nel Capitale, rifiuta categoricamente l’accensione di crediti e debiti come punto di partenza della sua analisi monetaria (de Brunhoff, La moneta in Marx, pg. 17), preferendogli la circolazione semplice della moneta metallica. Questa scelta, ai nostri fini specifici, è stata probabilmente fatale, sia per la sua compren117
sione della galassia-moneta, sia per i suoi futuri seguaci-militanti, resi incapaci di difendersi teoreticamente dagli sviluppi futuri della circolazione monetaria e del potere extra-scambista che la moneta assumerà a partire dagli sessanta e settanta del secolo scorso. Deleuze e Guattari, nel paragrafo «La macchina capitalistica civilizzata» non parlano d’altro, se non di questo «triangolo che ci domina da secoli, composto da desiderio, valore e simulacro» che Marx e Freud hanno cercato «disperatamente» di analizzare e spiegare nelle loro opere (Foucault, 1970, lettera a Klossowski, manoscritta). PV Grazie Paolo per questa precisazione, a cui mi aggancio, un po' in ritardo, per esprimere piena solidarietà verso il tuo impegno teorico, che mi pare richiamare la "filosofia del non" di Bachelard, o al limite fare segno verso una definizione bachelardiana di "non marxista" e in generale del "non-…". Per Bachelard il "non" era innanzitutto da intendersi come, al tempo stesso, un antagonismo legittimo (la frattura) e una dipendenza così forte da rendersi in qualche misura rigorosamente trascendentale (l'ostacolo). Ad ogni modo, il "non" significa sbloccare il cammino del sapere, della sua individuazione. In questo senso, e in parallelo con l'epistemologia di Bachelard, vorrei chiederti se essere "non marxisti", o proporre un "accelerazionismo non marxista", non sia forse innanzitutto voler difendere meglio, fino a renderlo protagonista, un aspetto subordinato o persino represso (in tutti i sensi, almeno da L'Anti-Edipo in poi) nelle varie declinazioni che si sono date del "movimento" marxista? E se sì, non bi-
sognerebbe riuscire a parlare di questo aspetto, ad esprimerlo, a concettualizzarlo? Gli spunti che abbiamo provato a fornire nel saggio qui in discussione, per quanto dispersi e abbozzati, fanno segno verso la questione della proletarizzazione generalizzata. Ecco, per noi è la proletarizzazione il concetto che ci sta più a cuore, e per questo abbiamo provato ad accoppiare il processo di proletarizzazione con il nichilismo. Chiaramente ve ne sono molti altri di concetti, e il problema in tal senso diviene "come comporli assieme" problema in cui tutti ci dimostriamo sempre ancora troppo inadeguati. Ritornando per concludere all'accelerazione, porre un "accelerazionismo" o anche una "dromologia" non-marxista, per noi rinvia alla necessità di intensificare la diagnosi teorica e politica su di una possibile sostenibilità dell'accelerazione ("abbiamo bisogno di un po' di ordine per difenderci dal caos"), e di conseguenza sui molteplici e inediti processi di proletarizzazione in corso, che ci pare necessitino di una estensione, una interpretazione o persino una trasformazione dell'analisi marxiana (magari pure decostruendone anche la stessa popolare opposizione tra interpretare e trasformare). Per questo la "sintomatologia della decadence" di Nietzsche, che sta sempre sullo sfondo del nostro testo, ci sembra la prospettiva preliminare per pensare la proletarizzazione in un modo inattuale, intempestivo, rispetto al marxismo - dunque per continuare ad essere suoi complici. PD Ti posso rispondere a pillole? Il tuo intervento é così importante e fruttificante perché coglie in pieno molti dei problemi che abbiamo davanti, e li coglie in modi sempre intelli-
genti e sorprendenti allo stesso tempo. • Quando penso all'accelerazionismo - posto che si debba utilizzare questo termine - lo penso sempre nei termini di dromologia, quindi non lo penso in termini ideologici, o strettamente ideologici. Su questo punto ha ragione Tommaso, non puoi fare riferimento all'accelerazione se non ti carichi sulle spalle tutto il discorso del movimento, del tempo, dello spazio, della fisica e in particolare della fisica meccanica, dell'infinito, della singolarità etc etc. Un esempio, tanto per chiarirci. C'è un frammento di Nietzsche, il 14 [79] dell'autunno 1888 che è pura dinamite. Noi lo chiamiamo «il frammento sui quanti di potenza» e, tra le altre affermazioni, Nietzsche scrive: 'Non ci sono leggi: ogni potenza trae in ogni momento le sue ultime conseguenze. La calcolabilità si basa proprio sul fatto che non c'è un mezzo termine'. Tra le cose che ne discendono, giusto come spunti: l'impossibilità dell'equilibrio (il mezzo termine), il Reale in perenne squilibrio, la trans-qualitatività dei processi di potenza, la pluralità dei piani d'intervento e delle prospettive, gli 'Herrschaftsgebilde' - le formazioni di sovranità - come agenti cinici dell'«insignificanza» di potenza, dove per «insignificanza» crediamo si possa individuare la Natura-Energia generatrice che eccede sempre i propri 'presunti' scopi e sensi - a questo proposito, e secondo il nostro stato attuale, la Natura senza scopo e senza senso, cosa produce? Quali problemi solleva?; poi, il rapporto tra calcolabilità e caos, che apre lo scenario 'metamatico' degli algoritmi 'dinamici' che si aprono alle contingenze; la prospettiva del 'senza leggi' che penso possa sprigionare qualche fenditura nella Teoria dello Stato e 118
nella giurisprudenza; il rapporto 'necessità', regola, costrizione, potenza; l'inarrestabilità, o il lavorio instancabile, della potenza e la sua continuità nel tempo, da cui la pressione costante del e nel tempo, e così via. Di altre prospettive, o pensieri, da trarre da questo frammento ne avremmo a iosa e ci potremmo scrivere sopra saggi, libri, o inventarci forum o convegni ad libitum. Penso che il Deleuze del 1962, di Nietzsche e la filosofia, avesse ben presente questo testo e altri frammenti quando vergò il proprio libro, così come Il Klossowski del 1969 quando scrisse il suo Nietzsche e il circolo vizioso. Le ultime 50 pagine «Introduzione alla schizoanalisi» dell'Anti-Edipo parlano in abbondanza delle formazioni di sovranità e dei problemi di potenza all'interno della fondazione di 'compiti' della schizo-analisi. Poi, visto che sei un grande cultore di 'Pensiero Nomade', questo frammento e il commento di Deleuze sulla 'occupabilità degli aforismi' riveste qui un certo 'sapore' e una diversa 'prospettiva'. Ne riparleremo sicuramente, voglio solo aggiungere questo, riprendendo sempre il 14 [79]: 'Un quanto di potenza è definito dall'effetto che esplica e a cui resiste'. Come non leggere, per chi ama Foucault, la fonte primigenia del suo atteggiamento sugli 'effetti di verità' o sugli 'effetti di potere' e, in ogni caso, su tutta l'importanza che ha l'effettualità per Foucault, cioè le ricadute di un determinato 'movimento' nel corpo sociale, in quanto concetto 'superiore' all'essenza, alla fondabilità statica della cosificazione nello spazio? E il richiamare la «resistenza» non solo come contro-effetto, o feedback, di un'azione, ma anche come «resistenza interna» al proprio ef-
fettuarsi? Non è il Foucault di «Bisogna difendere la società», il Foucault del 1975-1976 che indaga sul «suo» triangolo di dominazione: potere, diritto, verità? E non è questa la prospettiva del rovesciamento di Clausewitz, quando Foucault cerca di analizzare le «molteplici forme di dominazione che possono esercitarsi all'interno della società», sfuggendo a quelli che egli definisce «schemi economicisti» e scegliendo platealmente l'«ipotesi Nietzsche», riarticolandola secondo le proprie coordinate? Si può sempre fare spallucce, e dire che sono sciocchezze - è del tutto probabile - o che si tratti di semplici analogie, molto esili, ma resta il fatto che molto, a mio avviso, resta da pensare - insieme! - anche partendo da singoli frammenti come questo. Pillola 1a) Perché non proporre, pensare, architettare, insieme a Sara, a Letizia, a Lapo, a Tommaso e con chi è sulla nostra stessa lunghezza d'onda, un'antologia, che si potrebbe intitolare #Biforcare? Si potrebbero allineare il Leibniz di Teodicea, il Borges di Finzioni e il Joyce di Finnegan's Wake, e poi Deleuze e Guattari di 'Dal Caos al Cervello', Poincaré e Ruelle, Prigogine e Stengers, Dick e Swanwick, Shilnikov e Andronov, e via catastrofeggiando… Si accettano suggerimenti! O biforcazioni…. • Mi chiedi se è possibile leggere la nostra proposta di ricerca à la Bachelard, rottura e rimozione dell’ostacolo: assolutamente sì. • Un secondo sì convinto all’altra questione che poni: l’autonomizzarsi del protagonismo di critica all’esistente, includendo nell’esistente anche le tradizioni marxiste e le organizzazioni che ne derivano. Inter nos: Berardi è stato uno dei primi a far le sp-
ese di questa «normalizzazione». Qui giova ricordare che è stata eseguita un'atroce epurazione, che non ha eguali nella storia recente d'Italia: speriamo che a Roma, nel dibattito sulla ricezione di Deleuze in Italia, pur all'interno di una clamorosa inattualità, se ne possa parlare. E' stato fatto il deserto, scientemente, sulla proposta filosofica e politica di Guattari e Deleuze. E non solo: molti militanti hanno pagato un prezzo salato, salatissimo di questa desertificazione. E questo deserto «salato» è lungo, lungo…. e ha una memoria feroce, feroce… • Terzo sì sull’inadeguatezza della nostra proposta: sì, ci sentiamo inadeguati al compito. Su questi presupposti di nostra inadeguatezza - inteso il ‘nostro’ come Obsolete Capitalism: non cerchiamo che complici, alleati, sodali, per un percorso comune, oltre la Rizosfera, per costruire, o tentare di architettare una?sfera. Di qui il discorso di «fare Rete», di aprire forum di discussione, di circolazione di pensiero e di aperture di fessure sul Reale. E’ tempo di nuove alleanze. I tempi stanno, di nuovo, cambiando. Può darsi che i tempi siano sfavorevoli a una ‘composizione’, se ho ben inteso ciò che scrivi, e che questi tempi sfavorevoli oltrepassino le nostre vite biologiche, ma di quest’aspetto ‘de-composto’, a-componibile, farei una forza e non una debolezza, esattamente come un nodo/linea che ci colleghi a una Dada-filosofia, o una Fluxus-filosofia o, come disse il parigino, una «filosofia-cinema». Su questo punto, perché non dare sostanza teoretica, come tu giustamente proponi e auspichi, con una, o due, giornate di studio - alla Casa delle Donne, alla Bettola, dove volete voi - dedicate agli argomenti che stiamo 119
trattando? Biforcazione, dromologia, rizosfera, proletizzazione: rigorosamente fuori dall'Accademia, o dentro/ fuori - come preferite -, senza gabelle e dazi per gli estensori degli interventi? Magari ne esce qualcosa di interessante per il futuro. Invitati d'onore: Lazzarato, Berardi, Braidotti. E se anche loro non dovessero accettare, la proponiamo lo stesso!:-) Già comunque l'occasione del panel di Roma è importante per noi e La Deleuziana: ne approfitteremo, stanne certo, perché l'occasione di un ragionamento su Nietzsche e Deleuze è particolarmente ghiotta. Di che cosa stiamo discutendo in questo forum, se non di questo? Poi, sempre sul fronte proposte: è possibile pensare un numero della Deleuziana incentrato su questo tema o su questa pluralità di temi? Diciamo 2017? • Mi chiedi se è importante il discorso e la concettualizzazione della proletizzazione, che voi abbinate alla prospettiva nichilista di Nietzsche. Certo che è importante: è fondamentale, non parliamo d’altro in questo forum. Non solo noi, non solo il forum: il Reale è sotto scacco dell’azione incessante di proletarizzazione, sia in rapporto alla tecnica, sia in rapporto al Ritorno alla Terra e dunque alle forze arcaiche, neo-arcaiche e post-arcaiche in azione, sia in rapporto alla Fuga dalla Terra. Nella nostra contemporaneità si sono risvegliate forze oscure, peggiori del neo-liberismo occidentale, per effetto del «livellamento» prodotto dalla globalizzazione, e giusto ricordarlo - del cuore autoritario delle identità ortodosse che si rifanno all'immutabilità del «Libro»; di queste inquietudini, molti sono già partecipi. E’ probabile che la tendenza alla proletizzazione si intensifichi
nel tempo, abbia durate immense, e i pericoli di un suo articolarsi malvagio siano da prendere in seria considerazione. Però qui i maestri siete voi: il peso e la portata della sfida teorica dentro al mondo accademico spetta a voi. Noi continuiamo a rappresentarci, e a sentirci, come ‘gypsy’, o come ci ha definito Giuseppe Allegri, con simpatia, ‘indie’. O, al massimo, ‘operai del sapere’, come diceva con perfidia il Sassone con il cannone. Seguiamo i vostri scritti non solo con simpatia ma con la necessaria adesione. Il vostro riportare il pensiero e il concetto al corpo, allo spasmo e, in ultima analisi, al dolore è commovente. Si percepisce che il vostro sentire dolente è reale, partecipe, preoccupato. Per questo siamo dalla vostra parte, leggiamo con avidità i vostri saggi, nonostante vogliate rimanere complici amazzonici, nemmeno di Marx, ma addirittura del marxismo:-) • Sulla sostenibilità dell'accelerazione. Quel poco di ordine per difendersi dal caos per alcuni è il Ritornello. Ryoichi Kurokawa - o analoghi - potrebbe essere la risposta, se prendiamo in esame la sua opera Ground, come risposta alle atrocità della guerra in Medio Oriente. La sostenibilità dell'accelerazione potrebbe passare dal Ritornello. Il Ritornello é uno dei luoghi magici dei parigini e, per chi scrive, è stato la porta attraverso la quale sono entrato nel loro pensiero. La poesia - verrebbe da dire, riducendo molto - è la risposta al caos; è certamente una delle stanze di compensazione dei disaggiustamenti che in vita dobbiamo articolare strategicamente per vivere. Alcuni, di certo, diranno che questa è estetica, non è filosofia, non è politica e dunque di scarso valore e utilizzo. Si potrebbe obiettare
che esiste una via - una modalità - Ritornello alla politica, alla filosofia, ecc ma forse svieremmo dalla nostra discussione. Voglio solo qui ricordare un bellissimo squarcio di <Ritornello> politico, a sottolinearne la forza sia in difesa, sia in attacco/sfida all'interno di ambienti <concentrazionari>, nel film di Elio Petri " Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto": precisamente è la scena dell'internamento dei rivoluzionari, quando l'amante della donna assassinata dal commissario di polizia viene incarcerato con altri militanti, e come risposta all'Arma i compagni dentro alla cella intonano l'Internazionale e ne esce un coro struggente, pieno di forza e malia. Ecco, questo è il senso del Ritornello - uno dei possibili sensi -; dentro a un ambiente che <urta>, che ti sommerge, ritrovi la tua forza con il canto, con l'Arte… Sei sul sentiero di casa, su una linea di forza, esile, immateriale, ma che ti accompagna dentro la scomodità dell'evento e nell'ambiente oscuro nel quale vaghi. La filosofia può essere un possente Ritornello ma attraverso forme rinnovate, che tentino di uscire dal discorso saggio/ libro: da Zarathustra a Never Mind The Bollocks, abbiamo tanti esempi a cui riferirci. Si può andare oltre. Ma anche di questo, di sfuggita, abbiamo già parlato; stiamo tentando di andare in questa direzione, con ingenuità e ardore, vedremo i risultati, già a Roma. Biforcazione e pensiero
PD Inizio con il ringraziare per il vostro saggio, articolato, profondo e sfidante, che mettete a disposizione del forum e dei lettori. Sicuramente, tra le sfide che lanciate non solo alla ga120
lassia ‘accelerazionista’ ma all’intero conclave filosofico è il concetto di biforcazione e caos, per la precisione - se non ho effettuato una lettura errata - della biforcazione come forma di difesa e protezione dal caos, a favore di un nuovo ordine a venire. Invocate un rimedio contro l’instabilità sistemica attraverso fasi di trasformazioni ri-equilibranti, in un qualche modo «stabilizzatrici». Al cospetto del vostro concetto di «biforcazione» convocate le nuove alleanze tra fisica e filosofia - Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, tra ontologia e cibernetica - Gilbert Simondon, tra filosofia e complessità - i Deleuze e Guattari più «crepuscolari» di «Che cos’è la filosofia». La vostra critica, sociale e filosofica allo stesso tempo, all’accelerazionismo di Srnicek e Williams è dunque imperniata sull’inutilità di spingere le società di mercato verso la disintegrazione attraverso un’accelerazione entropica (nella speranza di creare un nuovo ordine, migliore del precedente) perché condurrebbe ad un salto nel vuoto, cioè a un nuovo rischio di catastrofe; per voi, invece, saranno le micro-variazioni sociali e le piccole fluttuazioni individuali a creare le condizioni di una «biforcazione alla radice» che potrà produrre un nuovo pensiero e, dunque, un nuovo comportamento globale. Sarà dunque il cumulo di nuove soggettività ‘liberate’ a contrastare il disordine, e provocare una nuova fase dell’umano post-antropocenico, evitando l’accelerazione catastrofica e il collasso strutturale del sistema-pianeta. Ma per voi, il caos, è un concetto così sgradito? Per Josè Saramago, il caos è solo un ordine (ancora) da decifrare. Ma se il caos è associato ai sistemi lontani dall’equilibrio - come
‘mimeticamente’ sembra essere il sistema di governabilità planetaria mercantile dove «biforcare» è sinonimo di catastrofe - il disordine, allora, «può far passare un po’ di caos libero e ventoso» (CCLF, 214) come nell’imperiosa crepa dell’ombrello-firmamento di Lawrence, e diventare forza creatrice - una distruzione necessaria e affermativa. Poi: e se il biforcare si presentasse come un «nuovo infinito», cioè se offrisse un esito paradossale - microvariazioni dell’individuazione talmente impercettibili da rendere l’assioma dell’individualità del tutto negativo, rendendo in tal modo «indistinguibile» ogni singolarità, non passeremmo dalla liberazione all’incubo, dalla rivoluzione al totalitarismo, come appunto accade in «Enemy» di Villeneuve, un film-simulacro di «L’uomo duplicato» di Saramago? https://vimeo.com/99313440 SB & PV Grazie Paolo per questo intervento che ci sprona a chiarire alcune intenzioni del nostro saggio. Cominciamo dal caos. E questa indicazione, “cominciamo dal caos”, dice già un po’ tutto. Non abbiamo un’idea negativa del caos, anzi il caos è la condizione a partire dalla quale un nuovo ordine può emergere attraverso una riorganizzazione della materia che assume dimensioni drammatiche. Anche Deleuze e Guattari, quando affermano “abbiamo bisogno di un po’ di ordine per proteggerci dal caos”, non stanno esprimendo qualcosa di negativo rispetto al caos, bensì una relazione problematica - e diremmo problematica nel senso di Simondon, dunque come fonte d’innesco di un’ulteriore fase d'individuazione. Ora, al netto tanto della retorica quanto della teoresi che Deleuze ha sviluppato attorno al Fuori
(se si può dire “attorno al fuori”), c’è qualcosa di interessante nel fuori-caos con cui si può cominciare a rispondere alla tua questione: la violenza e la sofferenza - la stessa violenza e sofferenza che in "Differenza e ripetizione" è condizione di possibilità del pensiero. Del resto la sofferenza nell’accelerazione e nel capitalismo cognitivo è quello che Bifo mette bene in evidenza (e che noi abbiamo cercato di riportare). Ora, l’atteggiamento che abbiamo rispetto al caos e alla sofferenza, al caos come (relazione di) sofferenza, è sintomatologico, ossia: partire dai sintomi per contro-effettuarli. Partire dai sintomi significa per noi assumerli e non minimizzarli o ignorarli, come invece sembra fare il Manifesto accelerazionista e più in generale chi mette il piede sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica. In questo senso, dire che il caos ha a che fare con la sofferenza ci pare un’affermazione onesta, e per questo bisogna “proteggersi”. Ora diciamo una cosa forse un po’ scioccante per chi è abituato a leggere Deleuze e a leggere chi scrive su Deleuze: proteggersi dal caos per noi non significa “resistere” e il pensiero di Deleuze non è un inno alla resistenza. Non si resiste al caos, così come non si dovrebbe resistere al capitalismo: il pensiero, a differenza del corpo (Foucault), non resiste. Attenzione, non stiamo opponendo il pensiero al corpo, stiamo dicendo che tra il corpo e il pensiero è necessario istituire una differenza. Per dirla con Derrida, il pensiero è il corpo in différance. Comunque, proprio perché differente dal corpo, il pensiero non resiste. O meglio, il pensiero resiste quando non sa più cosa pensare, quando si è cristallizzato in parole d’ordine (e quante ce ne sono nella 121
vulgata di Deleuze e Guattari!), quando invece che creare concetti o inventare altri piani difende il suo sapere costituito. Non resistere, ma inventare. Sappiamo che Deleuze diceva che “resistere è creare”, ma vorremmo saltare fuori da questa identificazione che funziona un po’ come un gesso ortopedico, dicendo che “creare non è resistere”, “creare è qualcosa di più”, è (permettere di) prolungare i processi d’individuazione, è divenire e far divenire. Se si resiste, si accetta di fermare l’individuazione. Ecco, per noi proteggersi è quello che il pensiero a volte deve fare, quando ad esempio soffre; difendersi è invece un atteggiamento reattivo, per dirla con Nietzsche-Deleuze. E se si legge Deleuze per trovare motivazioni per “resistere”, crediamo che si legga Deleuze solo a metà - con il rischio di scrivere su di lui in modo ripetitivo o ideologico. Deleuze non ci insegna a resistere, se quello fosse il suo compito, sarebbe un professore come un altro, convinto del proprio sapere - a proprio agio nel confermare il proprio sapere. Non sposando il resistere, non vogliamo dire che bisogna essere accondiscendenti verso quel che accade, e quindi verso la congiuntura neoliberale, tutt’altro, ma solo che difendersi e quindi resistere ci pare troppo poco. Ora, se resistere non ci convince, perché non rende valore al pensiero, ma appunto lo svaluta, nel senso nietzscheano della svalutazione, accelerare non è una cosa di cui ci fidiamo. Inoltre, non saliamo in macchina di uno sconosciuto che vuole correre come un pazzo. E come abbiamo cercato di mostrare, il Manifesto vorrebbe proprio questo: farci salire sulla macchina - o un’astronave?!? - di una sinistra che
non solo non conosciamo, ma che letteralmente non si può conoscere perché non ha lineamenti, non ha memorie, non ha desideri, non ha traumi, né psicodrammi, né ferite; in pratica, non soffre. Ed è sintomatico che a un certo punto Srnicek e Williams parlino di “una sinistra a proprio agio…”. Infine, è precisamente per differenziare l’invenzione o la creazione dall’accelerazione che abbiamo invocato “un po’ di ordine per proteggerci dal caos”. SB Ora proviamo a rispondere all’ultima questione. È giusto porre il problema dell’ampiezza della mutazione messa in campo dalla biforcazione, dal momento che è proprio sul piano dell’amplificazione (qualcosa di ben diverso dall’accelerazione) che il suo potenziale di rottura si sviluppa. Prigogine e Stengers sottolineano come in una situazione lontana dall’equilibrio la sensibilità di un sistema aumenti esponenzialmente, e come anche quelle fluttuazioni che sarebbero impercettibili in una situazione di stabilità siano portatrici di mutazioni macroscopiche. In altre parole: se un sistema in situazione di equilibrio è “una massa insensibile, prima che il germe si inserisca in essa” (Diderot), un mondo inerte soggetto a dinamiche deterministiche, in disequilibrio esso esprime una sensibilità straordinaria, così che ogni minimo “rumore”, proveniente non solo dal suo stesso stato, ma anche dall’ambiente esterno viene percepito e contrastato/ adottato. Effettivamente queste fluttuazioni corrispondono inizialmente molto spesso a micro correzioni, ma ciò che conta è che che esse sono produttive, ossia moltiplicano il tasso di differenziazione del sistema, che
genera così schemi di reazione sempre più complessi – ossia, nuovi tipi di comportamento sempre più evidenti. Stiamo parlando di un processo in cui le fluttuazioni, inizialmente apparentemente insignificanti, riescono a divenire macrovariazioni, che coinvolgono tutto il sistema. Questo è per noi il significato di quello che Simondon definisce “l’azione transindividuale” e che Stiegler chiama “transindividuazione”, ossia, la generazione di significati condivisi che prendono corpo attraverso le varie individuazioni psichiche e collettive. Allo stesso tempo, queste fluttuazioni sono precisamente l’indice del caos. E dal momento che la biforcazione non è un evento unico ma può costituirsi in serie, è chiaro come la successione di biforcazioni possa costituire un’evoluzione irreversibile precisamente attraverso una crescita dell’effetto “random”, ed è proprio l’effetto random ciò che la transindividuazione dovrebbe organizzare. L’effetto random, comunque, è quello che a nostro avviso esclude l’insorgere di un totalitarismo livellante, come, ad esempio, pare essere quello avviato dalla governamentalità algoritmica, dove il tentativo di “esaurire il reale” attraverso la sua discretizzazione in dati e di “annullare il virtuale” (Rouvroy) nel suo senso deleuziano, ossia mappare tutte le variazioni possibili per poter prevedere il comportamento di un individuo/sistema, è una strategia proposta come antidoto contro i pericoli portati dal caso – e con essi il caos. LR Nell'Anti-Edipo, una delle domande è: come organizzare l'organizzazione? In relazione alla biforcazione mi piacerebbe 122
avere un vs. giudizio, a livello pedagogico e didattico, per le eventuali potenzialità che si possono attivare nella discussione quotidiana nel gruppo classe. In qualità di docente, mi interessa creare e gestire un piano d'organizzazione che tenga in considerazione la biforcazione. PD Grazie Paolo e Sara per le risposte puntuali. Cerco di prolungare l'intervento di Paolo sul «non si resiste al caos» e di Sara su biforcazione e paradigma caotico e sulla loro stretta relazione. Porto come esempio la celebre crime-story di Borges, 'Il giardino dei sentieri che si biforcano' (qui il testo http://www.spsonline.it/Letture/ borges_giardinoBM10.htm ). Nel racconto borgesiano, l'antenato T'sui Pen, è l'agente caotico, il capitano Madden l'agente di ricognizione, il sinologo Stephen Albert lo strano attrattore, mentre il protagonista Yu Tsun è l'agente-vettore della narrazione. L'enigma è imperniato su una costante topologica, il giardino-labirinto, e su una costante temporale, il libro-biforcazione. La soluzione del mistero del libro 'popoloso e insensato' e del giardino interminabile è determinata dalla scoperta da parte del sinologo Albert che la costante temporale riguardi sia il libro interrotto che il giardino introvabile. Si tratta di un crono-isomorfismo con il rapporto biforcazione: possibile in scala 1 a 1. A ogni possibile viene assegnata una biforcazione; a ogni biforcazione succedono ulteriori ramificazioni - nel terzo capitolo l'eroe muore, nel quarto è vivo, nel quinto non è mai nato, e così via. Nessuna biforcazione è esclusa, tutte le variabili vengono esaurite. Le biforcazioni sono infinite così come le
serie dei tempi divergenti, convergenti o paralleli: il libro di T'sui Pen è un libro-caos. Ogni azione è una variabile casuale 'capace di restituire l'infinito'. Addentrarsi nel labirinto temporale significa addentrarsi nel caos; la successione degli avvenimenti all'interno della narrazione non procurano nessun progresso nella lettura dell'opera. Il libro, così come il lettore, deve affrontare il caos mentre ogni tentativo di penetrare l'enigma del testo ne accelera, in realtà, la distruzione di senso. Altri esempi di paradigma caotico e biforcazionismo si possono gustare in «Grammatron» di Mark Amerika, artista virtuale, (qui il testo http://www.grammatron.com/ about.html ) uno dei primi esempi di ipertestualità narrativa che ingloba audio, immagini e testi nel cyberspace, oppure nel «Bafometto» di Klossowski dove l'Anti-cristo è «il principe delle modificazioni che determina il passaggio di un soggetto attraverso tutti i predicati possibili». Deleuze e Guattari, a proposito della persistenza del caos nelle «deviazioni della sua superficie variabile sempre rimessa in gioco», si avvicinano alle temporalità biforcanti di Borges, Amerika e Klossowski, quando affermano che «gli stati di cose sono sottoposti a queste operazioni (di biforcazione e individuazione) perché sono inseparabili da potenziali che prendono in prestito dal caos stesso» (CCLF, 228). Non stupisce il fatto che Deleuze e Guattari si siano sempre occupati, in modo essenziale, di temi contigui quali il caos, l'indecidibilità, l'indiscernibilità e il divenire. Il loro debutto, nel 1970, avviene grazie a un saggio sulla sintesi disgiuntiva in cui l'elemento portante è l'indecidibilità della locuzione inclusiva e illimitata di Klossowski
(L'Arc, n.43); mentre il loro commiato è suggellato dal libro 'Che cos'è la filosofia', il cui capitolo conclusivo è intitolato significativamente 'Dal caos al cervello'. Sarà la melanconica ombra della indecidibilità e della indiscernibilità ad accompagnare i tre piani - immanenza, composizione e referenza - delle muse inquiete, filosofia, arte e scienza, che hanno guidato il pensiero-cervello di Deleuze e Guattari fino all'estremo epilogo della loro vita. Tecnica e capitalismo
PD La tecnica come 'pharmakon', allo stesso tempo rimedio e veleno, agente entropico e neghentropico. Qui c'è la vostra grande apertura a Derrida, e al suo fecondo rapporto con Nietzsche. Anche qui un guadagno e un problema: il guadagno è dato dal vostro rifiuto di ridurre a pura informazione la tecnica, operando una sorta di de-computazione della stessa. Il problema vecchio-nuovo della duplicità della tecnica, in fondo la sua ambiguità, riguarda la mediazione tra i due termini: dove si situano i limiti e le possibilità di tale 'problematica della mediazione'? Poi, la decomputazione - termine che mutuiamo dal design critico anche nella sua versione sintomatologica può essere una strategia affermativa (e non solo descrittiva) per riprogrammare il mondo attraverso un nuovo rapporto tra la filosofia e la tecnologia? Accelerazione e Marx
TG Anzitutto vi devo ringraziare per l’invito e per avermi dato occasione di venire a conoscenza del manifesto di Alex Williams 123
e Nick Srnicek – che (beatamente) ignoravo. Vorrei qui limitarmi ad alcune osservazioni sul problema dell’accelerazione con riferimento al discorso marxista. La mia impressione è che il manifesto di Williams e Srnicek sia politicamente reazionario e si risolva in una giustificazione dell’esistente. Che cos’è l’accelerazione, in Marx – cosa viene in questione? Come pensare l’accelerazione in Marx senza prima capire quale esperienza della velocità, e cioè del tempo e del movimento, sia articolata all’interno del suo discorso (direi di ripartire da Derrida: “in principio, ci sarà stata la velocità” – ma quale velocità)? Questo è il primo problema: non si dà pensiero dell’accelerazione senza pensiero della temporalità. E qui si aprono almeno due linee di lettura di Marx (semplifico, ovviamente). La prima è quella che va, diciamo, da Heidegger ad Axelos: l’ “accelerazione”, in Marx, sarebbe interna ad una logica dell’azione produttiva del soggetto come volontà di potenza, il quale imprime all’ente il carattere dell’energia. Secondo questa lettura, il marxismo si risolverebbe in un nichilismo planetario. Semplificando ancora: se si sta all’interno di questa lettura, allora i problemi della velocità e dell’accelerazione verranno pensati a partire dalla concezione di un tempo uniforme, lineare e dell’ente come ciò che è eternamente manipolabile dal soggetto. Per non dire che l’idea di “accelerare la fine” presuppone l’idea che si dia “una fine” – il che complica ulteriormente le cose. Dall’altra parte, direi che vi sarebbe la linea “althusseriana”, ossia il tentativo di pensare la produzione, in Marx, in senso non teleologico ma “aleatorio”. Qui si tratterebbe, allora, di rileggere anzitutto una nuova
temporalità nel discorso marxiano – la quale apre ad un altro pensiero delle nozioni di velocità, accelerazione, ma anche della storia, dell’ente e del soggetto. Si dà un discorso marxista senza teleologia? Si dà un marxismo in cui il tempo non è omogeneo? E se c’è un “altro tempo”, in Marx, allora velocità ed accelerazione non avranno due significati completamente differenti da quelli che il manifesto di Williams implicitamente fa propri? Non ci sono velocità (e dunque accelerazioni) diverse all’interno della stessa “struttura” (altro e nuovo problema: il capitalismo è un “sistema”, è una “struttura”)? Queste domande non devono essere però pensate come problemi storiografici (“cosa ha veramente detto Marx”?), ma strategici. E qui l’insegnamento di Deleuze è essenziale. Per quanto so, Paolo e Sara giocano sempre su questa linea, che credo del tutto giusta (la domanda: “Che cosa può immaginare l’individuo di sinistra?”). Ci sarebbe da lavorare, molto. Ed un forum non mi permette di andare oltre. Sto dalla vostra parte. SB & PV Grazie Tommaso per il tuo intervento, che apre questioni da noi non esplorate nel saggio, ma che tuttavia sono centrali. Da un lato, il rapporto tra temporalità e accelerazione, sebbene non affrontato da Srnicek e Williams nel loro manifesto, è presente in autori più filosofici, come Pasquinelli, e in modo coraggioso, specie quando prova a decostruire l'atteggiamento "catecontico" di molti pensatori italiani (cfr. Pasquinelli, "Gli algoritmi del capitale", ad esempio). Qui, tu che assieme a Leonardo Marchettoni hai curato il numero monografico di Jura Gentium dedicato proprio al katéchon potresti illu-
minarci… Dall'altro lato, crediamo che senza la presa in carico delle questioni che solleva il concetto controverso dell'Antropocene (in cui la temporalità "umana" si dissolve in quella geologica), l'accelerazionismo rimanga una sorta di romanticismo rovesciato. Ci trovi poi d'accordo sul percepire la valenza reazionaria del manifesto, anche se per noi è più una questione "micropolitica", nel senso che crediamo che la soggettività a cui Srnicek e Williams vogliono appellarsi sia essenzialmente fordista, dunque "monolitica", tutta d'un pezzo, quasi come il protagonista di un film d'azione ("fordista" quindi più nel senso di Harrison Ford…); ci pare che disegnino una soggettività che può nutrirsi di accelerazione senza effetti collaterali, né per quanto riguarda il passato, ossia gli ultimi 30 anni di neoliberalismo, TINA, capitalismo cognitivo, ecc., che hanno prodotto una disindividuazione brutale dei singoli e dei collettivi, né per quanto riguarda il presente-futuro (cognitive enhancement technologies, governamentalità algoritmica, ecc.) che stanno invece "dividuando" gli individui (cfr. Deleuze, Stiegler, Rouvroy). In tal senso, per noi "reazionario" non è solo da intendersi "borghesemente", ossia giustificare l'esistente (e in questo caso giustificarlo performativamente, ossia facendogli premere l'acceleratore), ma anche "militarmente", nel senso dei generali: mandare avanti le truppe a farsi ammazzare (ossia a farsi sbriciolare le facoltà critiche, l'inconscio, gli affetti, ecc.). Per noi il ruolo della sintomatologia è anche quello di evidenziare tale aspetto marziale, anche quando è invocato per l'ennesimo tentativo di rivoluzione, o per immaginare un fu124
turo che dovrebbe stare davanti a noi, soggetti sempre pronti a manipolare enti. In questo senso, e ci ricolleghiamo alla temporalità, il futuro lo vediamo a fianco delle nostre soggettività, raggiungibile solo per biforcazione, decostruzione o differenziazione dello stato di fatto (dell'esistente). Ancora una volta, è per questo che per noi i sintomi sono così importanti. TG Il riferimento al tema del katéchon - in quella pubblicazione in cui anche Paolo ha partecipato con un bellissimo contributo - certamente riguarda la relazione tra tempo e velocità-accelerazione. Qui ci sarebbe, ovviamente, da riprendere il vostro discorso anche sul piano teologico-politico, tracciando quantomeno due possibili "linee" proprie della logica "apocalittica" e di uno dei suoi interrogativi essenziali: frenare o accelerare la fine dei tempi? (Da questo punto di vista, un autore come Scholem vedrebbe nell' "accelerazionismo" una corrispondenza con quel il "nichilismo" tipico del sabbatianesimo). Ma la logica apocalittica è sempre molto complicata - e non sono convinto che si possano realmente separare le due linee katechontica ed accelerazionista. Mi interessa, ora, molto di più la vostra insistenza sul "sintomo". Mi piacerebbe sapere se, nella vostra analisi, la nozione abbia parentele o meno con due autori che non vengono qui citati: anzitutto Althusser, che direi l'inventore della lettura "sintomatologica" di Marx e poi Lacan, con il suo concetto di "synthomo". Capire se e in che modo, oggi, possano essere fatti funzionare insieme questi concetti, in quale strategia concettuale, credo sarebbe un ottimo tema di indagine. Ma - come solito - ho bisogno di tempo per pensarci su…
PV Dici bene Tommaso, la nostra è proprio una "insistenza" sul sintomo. E insistiamo su questa parola, ormai da qualche anno, per provare a promuovere una certa idea del sintomo, un'idea il più possibile filosofica e il più possibile connessa al sociale. In questo senso, la prima operazione che ho sentito di dover fare è stata quella di far rinascere la prospettiva sintomatologica all'interno dell'opera deleuziana, con particolare riferimento a Nietzsche, al tema dell'evento e della ferita di Logica del senso e alla visione che Deleuze ha della letteratura come impresa di salute (ne venivo appunto da un libro su Deleuze e la letteratura). Il sintomo, in quest'ottica, è un concetto "non-psicoanalitico" (ma non anti-psicoanalitico!) e coinvolge tanto la dimensione trascendentale del pensiero deleuziano, quanto quella etico politica. Sulla questione trascendentale, potrei indicare questo mio testo. Sul tema etico politico, e le sue ripercussioni su "quel che ci accade" oggi, mi pareva che la "sintomatologia" che Deleuze vede all'opera negli scrittori e in Nietzsche potesse essere sviluppata ulteriormente, per farne qualcosa di più consistente. Per questo, in alcuni lavori ho cercato di riprendere l'idea di salute sviluppata da Canguilhem per connetterla al concetto d'individuazione di Simondon. Un altro mio libro, L'attenzione altrove. Sintomatologie di quel che ci accade (2013), prova a mostrare la pertinenza di questa operazione, mantenendo 2 obiettivi imprescindibili: quello di dare al sintomo una dimensione essenzialmente collettiva, sociale, per cui i sintomi si ritrovano non nel singolo individuo ma nei risultati trans-individuali (linguaggi, saperi, cliché, tec-
nologie, movimenti, oggetti e fenomeni culturali, ecc.); e quello di pensare il sintomo come evento che, per quanto doloroso, contiene già l'indicazione di una possibile salute, ossia di una possibile via di ulteriore individuazione. E qui è ancora Nietzsche a fare da battistrada: "il sintomo può indicare il declino o la forza". In generale, per il momento stiamo cercando di osservare il contemporaneo attraverso il concetto di sintomo chez Deleuze e con l'aiuto degli autori che si avvicinano al pensiero di D&G (ecco perché Bifo, Stiegler e Rouvroy), senza farlo (ancora) interagire con la psicoanalisi di Lacan o con Althusser, sebbene condividiamo la tua volontà di articolare queste prospettive. Anzi, la butto/buttiamo lì: perché non provare a fare un lavoro collettivo sul sintomo e la sintomatologia che metta in dialogo tutti questi autori, ed altri, magari nell'ottica di una nuova individuazione del pensiero critico radicale? TG Grazie per la risposta, che mi chiarisce anzitutto il vostro percorso più nel dettaglio (anche perché ho seguito il pensiero di Paolo soprattutto quando si è dedicato strettamente a Deleuze - penso al testo sulla letteratura - mentre riesco meno, per mie insufficienti letture, a seguire i riferimenti a Bifo, Stiegler e Rouvroy). Certo che accetto volentieri l'idea di progettare insieme qualcosa su sintomo e sintomatologia (di Lacan, sono interessato a tutto ciò che nel suo discorso non è pur non potendolo che essere "psicoanalitico", ed il passaggio da sintomo a sinthomo, attraverso la rilettura di Joyce, credo renda possibile realizzare molte operazioni concettuali che vanno al di là di Lacan stesso). Al125
thusser servirebbe forse per definire una vera e propria arte di lettura dei testi, e quindi degli stessi concetti che funzionano in essi. Certo, forse più che SUL pensiero di Lacan, Althusser o altri autori, si potrebbe tentare (per non fare "storia" della filosofia) di muovere da altri testi o alti temi applicando ad essi una lettura sintomatologica. Pensiamoci! Io ci sono sempre. PD Come Paolo e Sara, anch'io ti ringrazio per l'intervento - e meno male che è solo un forum e non sei andato oltre! Il tuo primo post è ricchissimo di spunti e centra un obiettivo importante di critica - e quindi apre un'intera prospettiva - rispetto alla «galassia accelerazionista», peraltro parecchio frastagliata e impossibile da riassumere in un'unica posizione. Infatti, se ci confrontiamo con il Manifesto di Srnicek e Williams - e con le posizioni di Pasquinelli - il tuo primo punto/nodo "Questo è il primo problema: non si dà pensiero dell’accelerazione senza pensiero della temporalità" è cruciale. Come Obsolete Capitalism, in modo certamente confuso e parziale, abbiamo domandato al curatore e agli estensori del MPA: perché escludere Virilio e la sua logica della velocità, in cui l'accelerazione rientra a pieno titolo, dalle teorie che ci permettono di meglio focalizzare il presente e così inventare il futuro? Virilio è portatore di un'istanza sistemica, grazie alla concettualità dromologica che esprime. Se «accelerazionismo» non è solo un nome, una etichetta, si apre allora di fronte al nostro tempo ciò che si aprì, e accadde, ai «mertoniani» (ma è solo un esempio, uno fra i tanti) tra il XIII e il XIV secolo: l'opportunità di fare «ricerca pura» (che noi chiamiamo
«ricerca nomade», gypsy scholarship) avvalendoci di differenti saperi quali fisica, filosofia, matematica, linguistica, politica, diritto…. La domanda che tu poni a Srnicek e Williams - e che giustamente Paolo allarga a Pasquinelli - cioè velocità, accelerazione, temporalità, può essere lo spunto per un'analisi trasversale dei saperi che potrà generare in futuro brillanti risultati. Se possiamo chiedere - per riprendere a pensare sul tuo solco - quali velocità/tempi sono articolati nel discorso di Marx, ad esempio, nel Capitale, allora non trascurerei nemmeno gli «effetti» di Marx e dei marxismi: quali temporalità sono prodotte dagli effetti di Marx?. Poi: è possibile che il farsi della strategia o il predisporsi nel campo di forze (di forze-che-frenano e forze-che-dilagano, di forze statiche e forze magnetiche) possa rovesciare il ruolo degli agenti a seconda dei piani strategici in cui si gioca? E in Nietzsche, quali velocità/tempi? E nella contemporaneità? Una o più velocità, uno o più tempi? C'è coalescenza di tempi in ogni vita e in ogni istante del nostro presente, come affermava Proust? E se appunto la temporalità fosse come le variazioni di Diabelli, variazioni finite/infinite che girano intorno a un tema (un centro) che non c'è? Non andiamo oltre, come giustamente affermi; certo i temi «strategici» di catecontico/accelerato, infinito/finito, acentrato/centrato, velocità/tempo/resistenza, caos/equilibrio, intensità/organizzazione e via sfarfallando non possono essere lasciati solo a Paolo di Tarso, o a Guderian, oppure a Ruelle, dato che potrebbero aprire un campo di ricerca quanto mai vasto e proficuo.
Scienza e biforcazione
RB Carissimi, solo oggi mi riesce di commentare il vostro articolo: quindi scusate se non seguo l'evoluzione finale dello scambio in corso, ma risalgo al vostro testo. Dunque cominciamo. In una delle sue favole più immaginifiche, Rodari racconta di un ascensore che continua a salire indefinitamente: come fate giustamente notare, i nostri bravi accelerazionisti sembrano concentrarsi sull'ascensore più che sui passeggeri. Eppure c'è un merito nel manifesto in questione, che sembra finalmente accorgersi della necessità di una visione strategica, proprio sull'esempio di Hayek e della sua Mont Pelerin Society. Purtroppo questa visione è subordinata ad uno schema totalizzante, e per di più unilineare, come il percorso dell'ascensore di cui sopra. E ho l'impressione che il vostro appello a Prigogine e Stengers sia fin troppo sofisticato rispetto alla semplificazione brutale macchine avanti/macchine indietro. Comunque, inter nos, vorrei invitarvi a considerare lo statuto teorico di questo appello. Se la nozione di biforcazione non è semplicemente una descrizione del comportamento delle strutture dissipative, ma uno strumento di costruzione e intervento che per questo può essere trasferito oltre i limiti della fisica chimica, non si dovrebbe anche riconoscere che questo trasferimento di fatto usufruisce del capitale retorico accumulato dalle scienze come specchio della realtà oggettiva? Questo riconoscimento non servirebbe solo a disinnescare le imputazioni à là Sokal di uso filosofico improprio dei linguaggi scientifici, ma soprattutto potrebbe riaprire la riflessione sugli strumenti teorici anche 126
nei loro campi propri, cioè le varie discipline. La ricaduta politica di questa riapertura sarebbe evidente, per esempio, in area politico-economica, dove la nozione di capitalismo perderebbe la sua aura di oggettività e potrebbe ritornare a essere valutata come strumento più o meno utile/efficace/produttivo/radicale di costruzione della realtà. PV Innanzitutto siamo d'accordo con te sul fatto che il manifesto in questione abbia il merito di "accorgersi della necessità di una visione strategica, proprio sull'esempio di Hayek e della sua Mont Pelerin Society". Inoltre, d'accordissimo: "Purtroppo questa visione è subordinata ad uno schema totalizzante, e per di più unilineare". A questo proposito, ossia di "totalizzante e per di più unilineare", racconto un piccolo aneddoto. Durante un recente convegno a Napoli sull'inconscio, a cui ho partecipato parlando di L'Anti-Edipo e Pensiero nomade, mi è stato chiesto che relazione vedevo tra il manifesto accelerazionista e l'Urstaat, "l'idealità cerebrale" dello Stato, come la definiscono Deleuze e Guattari, che per me (tramite D&G e Nietzsche) è anche il dispositivo fondamentale di proletarizzazione dell'inconscio - ossia di sottrazione dei mezzi di produzione desiderante. Quel che mi è venuto da rispondere, su due piedi, è stato che, forse inconsapevolmente, il Manifesto fa segno verso una qualche forma di Urstaat, e questo a me pare problematico perché lo vedo come il segno di una mancanza di cura nei confronti delle soggettività, dell'inconscio, dei processi d'individuazione. Sulla seconda questione, hai sicuramente ragione, abbiamo
ancora molto lavoro da fare per usare la nozione di biforcazione come un concetto, ossia maneggiando la sua dimensione problematica, invece di usarla forse ancora un po' ingenuamente, tralasciando cioè la sua valenza "oggettiva". Il passaggio poi dalla fisica e dalla biologia all'economia politica, e la conseguente critica della nozione di capitalismo, beh, su questo aspettiamo di poter leggere qualcosa da te, dotata di quell'intelligenza che tutte le volte hai adoperato quando a voce abbiamo parlato di questi temi. RB Mentre leggevo la tua (vostra?) replica, e l’ultimo periodo in particolare, non ho potuto fare a meno di immaginarti ridere sotto i baffi… Comunque, ho già messo in cantiere una presentazione in cui l’immagine della biforcazione serve a introdurre un abbozzo di teoria della performatività giuridica. Non è proprio prendere il toro del discorso scientifico per le corna (mi ci proverò invece nel saggio sull’Antropocene), ma direi che è un effetto di risonanza col vostro uso della biforcazione.
Nome PD PV RB SB TG
127
Paolo Davoli Paolo Vignola Riccardo Baldissone Sara Baranzoni Tommaso Gazzolo
l ap o berti
viii Fantasie Accelerate. Un’uscita di sicurezza della sinistra? I am not an advocate for frequent changes in laws and constitutions. But laws and institutions must go hand in hand with the progress of the human mind. As that becomes more developed, more enlightened, as new discoveries are made, new truths discovered and manners and opinions change, with the change of circumstances, institutions must advance also to keep pace with the times. We might as well require a man to wear still the coat which fitted him when a boy as civilized society to remain ever under the regimen of their barbarous ancestors. —Thomas Jefferson
Premessa
Gli autori del manifesto parlano un dialetto che non è tra quelli che conosco meglio nella babele di dialetti in cui la sinistra, un po’ ovunque, perde se stessa e perde il filo del discorso politico; ma cerchiamo d’intenderci, tenendo d’occhio i fatti e i processi. Apprezzo, in primo luogo, il taglio pragmatico e il linguaggio diretto. È una salutare boccata d’aria fresca rispetto agli arzigogoli ideologici e al dannunzianesimo sotto cui buona parte della sinistra italiana ha seppellito la capacità di elaborare e comunicare punti di vista sensati e praticabili. L’intero testo è percorso da una tensione, che considero altamente positiva, fra la visione sufficientemente chiara, anche se non fondata analiticamente, di un mondo che è profondamente cambiato rispetto a quello su cui la sinistra tradizionale ha tarato le sue proposte e i suoi comportamenti, e l’esigenza, fortemente avvertita, di mettersi al 129
passo dei cambiamenti in atto, specialmente nella sfera della tecnologia. Apprezzo, in secondo luogo, il netto rifiuto di una politica di sinistra intesa come “una politica del senso comune [folk politics] basata su localismo, azione diretta ed inesauribile orizzontalismo” (Punto 0.3: Manifesto: sul futuro). Sono d’accordo, infine, con l’idea che bisogna attrezzarsi per una battaglia culturale che non può non essere, a mio avviso, che di lunga durata, qualche decennio almeno, per sedimentare i germi di una nuova mutazione antropologica. Mi piace anche la critica del keynesismo di ritorno, ennesima riprova della “pigrizia” mentale della sinistra, nonché il riconoscimento dell’impossibilità di riprodurre le condizioni del fordismo su cui ha poggiato, per decenni, la proposta socialdemocratica. Si tratta, dunque, di prendere il largo per battere altri mari alla ricerca di nuovi approdi. D’accordo. Vediamo più da vicino. L’accelerazionismo si pone
come una proposta che mira a disincagliare la politica della sinistra dalla deriva minoritaria e conservatrice, cui la condanna la totale assenza di un’analisi aggiornata della composizione sociale e l’incapacità di intendere la mutazione culturale, addirittura antropologica, che ha investito gli abitanti dell’ultimo scorcio del secondo millennio. Nell’incapacità di abitare il presente, si è persa anche la capacità di frequentare il futuro. Come spesso accade nelle famiglie nobili decadute, si rimane prigionieri di un passato glorioso, avvolto nell’aura del mito, ma senza neanche i mezzi per fare la manutenzione dei beni di famiglia. Le erbacce fanno il resto, rendendo impraticabile le dimore di un tempo. L’accelerazionismo spazza via tutto ciò, cerca di afferrare energicamente le dinamiche del presente e di proiettarsi verso un futuro che si presenta, tuttavia, piuttosto nebuloso e incerto. L’analisi che fa da sfondo alla proposta e dovrebbe sostener-
la mi sembra decisamente carente, se non addirittura banale e superficiale. E non aiuta il ricorso insistito a metafore piuttosto che a tagli concettuali e a prospettive analitiche. Un altro vuoto che spesso fa zoppicare l’argomentazione è la mancanza di una teoria del funzionamento della società. Ma di questo più avanti. Verrebbe voglia di commentare punto per punto questo testo così ricco di suggestioni e di provocazioni, oltre che di temi rilevanti. Ma mi limiterò a qualche osservazione sparsa, seguita da alcune considerazioni di carattere generale. Osservazioni sparse
La parte che, forse, mi lascia più insoddisfatto è quella dedicata alla “Congiuntura”. I temi scelti per definirla, mi sembrano banali, anche se veri; giustapposti, invece che elaborati all’interno di una visione prospettica. Non hanno la poderosa capacità di dischiudere orizzonti interpretativi che ancora oggi ha l’apodittica affermazione che apre il Manifesto del partito comunista: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi”. Pur senza la pretesa anche solo di imitare la pregnanza e la generalità di questa affermazione, dovremmo riuscire a individuare una chiave che ci fornisca l’accesso al presente, unica e imprescindibile possibilità di gettare uno sguardo sul futuro. Io credo che, finché non comprendiamo e non analizziamo a fondo perché siamo qui, oggi, non riusciremo a immaginare un futuro diverso e, soprattutto, una transizione praticabile. Lo snodo decisivo, su cui occorre fissare lo sguardo sono gli anni 130
settanta, quel fatidico decennio che inizia con il dollaro che cessa di essere convertibile in oro, ponendo fine a un mondo, e si conclude con l’arrivo al potere di Reagan e Thatcher. Nel mezzo di quel decennio ci sono tante altre cose, ma è lì, in quei due passaggi, che il corso della storia cambia binario. E, come quasi sempre avviene nelle vere e profonde svolte della storia, quasi nessuno se ne è accorto, continuando a fissare lo sguardo su un oggetto che non c’era più. Naturalmente, non penso che Nixon, Reagan o la Thatcher abbiano scelto la storia: è la storia che ha scelto loro, perché si erano esaurite le spinte e le energie sociali, culturali ed economiche che avevano trainato il trentennio del compromesso “keynesiano” o socialdemocratico, se si preferisce. Occorre capire perché quella svolta, operata democraticamente, ha conquistato un consenso maggioritario e perché, in tutto il mondo, la sinistra politica, nelle sue varie espressioni, non è più stata in grado di elaborare un progetto vincente e convincente. Una risposta è stata data e, probabilmente, è quella giusta: era cambiata la composizione sociale. Ma nessuno, a sinistra, a parte l’uso di alcune metafore (dalle più antiche, come l’”operaio sociale”, alle più recenti, come la “moltitudine”) ha veramente fatto i conti con la configurazione reale della società attuale; con i vissuti che in essa si intrecciano; con i modi concreti in cui i soggetti costruiscono o rinunciano a costruire i loro percorsi di vita e condividono pezzi di immaginario di cui è sempre più incerta l’origine; con i modi attraverso cui prendono coscienza del loro vivere in società come individui formalmente liberi. Nessuno ha cercato di capire quale strada avesse
intrapreso la “ricerca della felicità”, sia a livello individuale che, se esiste, a livello collettivo. Insomma, ce ne sarebbe, ma comunque è da qui che occorre ripartire, per ricostruire un’immagine maneggevole della società in cui viviamo. È un percorso lungo e accidentato, che molto probabilmente, non ammette e non consente accelerazioni. Punto 1.2 Sulla congiuntura
Il tema del “collasso del sistema climatico del pianeta” e quello connesso dell’”esaurimento terminale delle risorse” hanno entrambi una valenza politica, ovviamente, ma non possono essere agitati ingenuamente, a più di un quarantennio dalle previsioni catastrofiche del “Club di Roma” (“nell’ipotesi che tutte le variabili seguano l’andamento attuale”). Per essere all’altezza dei problemi cui essi alludono, andrebbero discussi nella prospettiva di una teoria dell’antropocene, ossia tenendo conto del fatto che ormai la presenza dell’uomo sulla terra ha creato un nuovo scenario probabilmente irreversibile, ma solo controllabile mediante opportuni adattamenti che l’ambiente ci impone tramite le catastrofi. Si apre, probabilmente, una nuova prospettiva filosofico-antropologica che dovrebbe indurci a ripensare radicalmente il rapporto uomo-natura e il modo in cui le nostre società lo vivono. Si tratterebbe di ripensare le istituzioni, le norme scritte e non scritte, cui abbiamo affidato, in un cammino millenario, la possibilità di riprodurre la nostra specie sulla base di quell’invenzione antropologica che è la società. Impresa titanica, di cui non si vedono
all’orizzonte le energie che la potrebbero sorreggere. Quanto alla “continua crisi finanziaria”, è innegabile, ma forse va invocata per il motivo opposto a quello per cui la richiama il Manifesto per una politica accelerazionista: non come segno di debolezza del capitalismo, ma come celebrazione della sua vitalità. Ritengo, da sempre, che le crisi finanziarie siano endemiche, addirittura funzionali, nel sistema capitalistico, in quanto sono intimamente connesse al suo modus operandi e discendono dall’impulso a superare qualsiasi limite e ostacolo, che ne è la cifra fondante oltre che il fattore di perenne attrazione. L’idea che di crisi in crisi il capitalismo si scavi da solo la fossa fino alla crisi risolutiva, dopo essere stata solennemente consacrata nella “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”, è miseramente naufragata contro la dura quanto imprevedibile dinamica dell’innovazione e appare ormai infantilmente consolatoria e pericolosamente fuorviante. Le risposte politiche e istituzionali alle crisi finanziarie, e gli eventuali conflitti che le accompagnano sono uno dei propellenti fondamentali del cambiamento sociale. Oggi abbiamo la soluzione dell’austerità, che, per quanto miope e inefficace, è la risposta anche a distorsioni e deviazioni provocate dal modello precedente (keynesiano). Settant’anni fa avemmo la soluzione del New Deal e del keynesismo, che ebbero successo anche perché ponevano rimedio agli eccessi del modello precedente (liberistico). Le crisi, comprese quelle finanziarie, certificano lo stato di buona salute del capitalismo. Le politiche si rivelano come meri epifenomeni del processo metabolico del capitalismo. En 131
passant, non mi sembra che la crescente automazione dei processi produttivi sia “la prova della crisi secolare del capitalismo”, ma piuttosto la prova dell’inesauribile energia che il capitalismo è in grado di sprigionare mediante l’innovazione scientifica e tecnologica rivolta a rigenerare e ad ampliare le fonti del profitto. Quella che è in crisi, secolare o meno, è la società nel suo insieme, che è chiamata a governare questi processi e che da troppo tempo si dimostra incapace di farlo. In questo vuoto di governo si è infilato un potere nuovo e antico al tempo stesso, ma comunque dirompente: il potere economico e finanziario. Nessun contro-potere si è profilato all’orizzonte, se si prescinde, com’è giusto fare, dai patetici, se non finti, tentativi di regolamentare i mercati (antitrust). In ogni caso, penso siamo d’accordo sul fatto che le crisi finanziarie, come tutte le crisi, sono anche un’opportunità. Il problema che attualmente nessuna teoria affronta è che non abbiamo gli strumenti per individuare il range di possibilità realmente praticabili e i modi per tradurle in realtà. Un vuoto che nessun esercizio retorico è in grado di riempire. Forse è quello che il Manifesto intende dire al Punto 1.3. (Sulla Congiuntura). Punto 1.5 Sulla congiuntura
Parlare di “un approccio sistematico alla costruzione di una nuova economia” è un’indicazione indubbiamente accattivante, ma nessuno ha ancora spiegato cosa comporta, anche se in tanti in questo periodo si esercitano a disquisire di nuova economia e a dettare ricette, più o meno
fallimentari o puramente astratte. “Costruire” un nuovo sistema economico, nel pieno senso della parola ovvero concepire un nuovo modello e attuarlo, è un’impresa estremamente ardua e, francamente, non so se è alla portata della nostra civiltà. L’esperienza storica recente ci dimostra, inoltre, che è estremamente pericoloso e socialmente costoso anche solo tentare di costruirla. Il liberalismo economico ha vinto e continua a vincere perché ha preso un’altra strada e ha puntato prevalentemente (non esclusivamente) sull’interazione “spontanea” fra le scelte che gli uomini compiono a partire dai loro interessi individuali, anche se nelle loro motivazioni possono entrare considerazioni non strettamente individualistiche ed egoistiche. Lo stesso discorso vale, ovviamente, allorché si afferma che è necessaria “una pianificazione post-capitalista” (Punto 3.8). A mio avviso, al momento attuale, resta aperta solo la via di un’interferenza “locale” (non in senso geografico) ovvero circoscritta a tematiche specifiche con i processi dominanti che di volta in volta si presentano nel divenire della società. Spero sia chiaro che non penso affatto a forme, per quanto nuove, di “localismo neo-primitivista” che gli autori del Manifesto giustamente criticano e rifiutano. Queste "interferenze" potranno certo entrare in rete e dare luogo a processi cumulativi, ma difficilmente faranno massa critica. A meno di eventi catastrofici.
Punti 3.2, 3.3, 3.4, 3.5, 3.7 Manifesto: Sul futuro
“Tutti vogliamo lavorare meno”, “Il capitalismo ha iniziato a reprimere le forze produttive della tecnologia” (in realtà l’ha sempre fatto, in un modo o nell’altro), “Non vogliamo tornare al fordismo”, “Liberare le forze produttive latenti”, “Accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica”. Non si può che essere d’accordo con queste affermazioni/proclamazioni che hanno semmai il difetto di essere troppo generiche. L’asino, tuttavia, casca dopo, quando si tratta di passare all’atto pratico. Il rifiuto del lavoro l'abbiamo già visto. Ci si può riprovare, ma le chance non sono migliorate. Nel frattempo, il mondo e lo statuto dei lavori sono radicalmente cambiati (vedi l’Excursus più avanti). Considerazioni di carattere generale: lo scandalo del potere economico e finanziario
Ho già detto che mi ha colpito la povertà di analisi su cui poggia l’ipotesi accelerazionista. Voglio sottolineare anche che questo è il meno marxiano, per non dire il più antimarxiano degli atteggiamenti. Per Marx l’impegno fondamentale era la critica del presente, non l’elaborazione di ricette per il futuro. Qui siamo all’opposto: la ricetta anticipa la critica, la bypassa. Io credo invece che, in tutto il mondo, la sinistra ha perso, e continua a perdere, non perché non abbia proposto le ricette giuste, ma perché non è più stata in grado di elaborare una visione giusta, critica, del mondo presente, delle metamorfosi del capitalismo e, quindi, di offrire 132
una narrazione vincente e convincente, venendo incontro alle mutate esigenze e aspettative di gran parte delle persone. Nessuno ancora, a sinistra, ha avuto il coraggio intellettuale e la capacità critica di spiegare perché, alla fine degli anni settanta la proposta politica vincente ha preso il nome di reaganismo e thatcherismo. In questa prospettiva, almeno due temi mi sembra propongano una sfida formidabile a chi voglia prima di tutto capire cosa è in ballo e qual è la posta in gioco. In primo luogo, sebbene, da almeno un ventennio, il tema della globalizzazione sia uno dei più frequentati nel discorso pubblico mondiale, siamo ancora ben lontani da averne svolto tutte le implicazioni. Manca ancora la piena percezione del fatto che la maggior parte dei problemi economici, sociali, culturali, psicologici e, quindi, politici che fanno dramma nei singoli paesi e si riversano, talora, nell’arena globale, sono semplicemente il portato dei flussi e dei campi di tensione generati dalla globalizzazione ovvero dalla progressiva interconnessione delle scelte e dei destini di tutti gli abitanti del pianeta. Siamo in mezzo al guado, nel pieno di una transizione fra assetti complessivi. Le crisi locali, meno locali e generali che stiamo vivendo in tutti gli ambiti della vita collettiva, compreso il terrorismo, non sono che gli inevitabili scossoni di questo gigantesco processo di assestamento della società globale. Ed è nelle linee di faglia di questo processo che si annidano, si offrono, le opportunità di cambiamento, di fronte agli snodi che quasi quotidianamente ci obbligano a scegliere (o a subire). Anche in una prospettiva accelerazionista. In secondo luogo, stupisce che un occhio accelerazionista
non abbia scorto che la finanza rappresenta oggi il principale fattore di accelerazione dei processi capitalistici e il protagonista dell’accelerazione impressa all’evoluzione del sistema nel suo complesso. La concentrazione finanziaria a livello globale, da cui discende il dominio dell’1% o meglio dello 0,1%, è il risultato più dirompente del processo di globalizzazione. L’improvvisa quanto impetuosa accelerazione che si realizza nella finanza globale sta sconvolgendo il mondo di ieri in modi e misure che ancora stentiamo ad afferrare. La reazione è debole, incerta, quando c’è. Le stesse istituzioni che dovrebbero garantire la metabolizzazione sociale dei processi d’innovazione più minacciosi per la tenuta della società si aggirano nel paesaggio economico come pugili suonati. Nessun domani è pensabile, a portata di mano, se non si viene a capo della feroce anomalia che ha preso forma con la finanza globale e dell’intollerabile ferita che incide nel corpo sociale con l’arma della disuguaglianza estrema e della distruzione di ogni forma di governo politico (democratico). In altre parole la carenza più grave e invalidante del Manifesto mi sembra essere la totale assenza di un riferimento alla problematica del potere, che a me sembra, invece, il problema dei problemi. Se c’è un evento catastrofico, nel mondo in cui viviamo, al di là delle minacce ambientali che periodicamente riecheggiano, non solo nella loro materialità, ma anche come componenti di un discorso politico alternativo che non riesce a decollare, se c’è un evento veramente catastrofico, che segna irreversibilmente il nostro tempo, questo è l’assoggettamento del potere politico al potere economico, con la con-
seguente formazione di un potere oligarchico globale che cancella la sfera della mediazione politica dallo strumentario del governo delle cose e degli uomini. Si tratta di un passaggio che potrebbe segnare la fine della modernità come l’abbiamo conosciuta, che è stata segnata dal tentativo generoso, seppur non riuscito, di rendere tutti partecipi del potere, di fare di tutti gli “azionisti” di quell’impresa suprema che è il governo della società. Oggi, mentre osservatori che poco osservano e tanto meno capiscono, si attardano a elencare i difetti delle democrazie e la carenza di legittimazione di governi e politici, tutti problemi reali, beninteso, non ci si accorge che il problema principale è lo svuotamento della democrazia. La democrazia ha perso l'anima, che era il conflitto sociale. Era il conflitto sociale che dava senso e contenuto alla rappresentanza, ai corpi intermedi. Oggi il potere è stato asportato dalle istituzioni democratiche, che sono rimaste gusci vuoti, ed è stato trasferito altrove, nelle mani di un manipolo di persone che governano i giganti dell'industria e della finanza globali, i quali non sono assoggettati, di fatto, ad alcuna regola democratica generale e, per di più, sono in grado di addomesticare o addirittura dettare le regole che li riguardano direttamente. Il conflitto sociale ha perso il suo habitat tradizionale, la fabbrica fordista, e si è frammentato in movimenti molecolari che non riescono a sviluppare egemonia. Il lavoro non è più quella poderosa leva della socializzazione che alimentava il conflitto. Non stiamo parlando di tendenze; parliamo di cose già avvenute, che ci lasciano disarmati e afasici. Dobbiamo tornare a guardare nel sociale 133
con occhi sgombri da schemi e ideologie ormai arrugginiti, magari con l’aiuto di qualche algoritmo. Il cambiamento cui abbiamo appena alluso è un evento che mina alle radici il patto democratico che, seppure in maniera sempre più insoddisfacente, ha assicurato la coesione delle società moderne. Se vogliamo essere seri, o anche solo efficaci, è a questo livello che va posta la sfida politica del presente. Occorre riscrivere il patto sociale implicito ed esplicito che è depositato nelle nostre costituzioni e che non contempla il disciplinamento del potere economico. E non c’è altra via se non quella di spingere e convincere i governi a fare propria questa istanza e a muoversi nella prospettiva di una riforma della legge fondamentale che finalmente ponga limiti e vincoli alla conquista e all’esercizio del potere economico, rendendolo socialmente sostenibile. Se non riusciamo a cambiare le norme e le istituzioni che regolano (o provano a regolare) il funzionamento della società, è altamente improbabile che si riesca a imbrigliare i poteri esorbitanti che ci stanno minacciando. La fallacia costruzionista
C'è una cosa che purtroppo accomuna il piglio innovativo e sanamente provocatorio del Manifesto accelerazionista con la sinistra pleonastica ed è quella che vorrei chiamare la fallacia costruzionista, che è poi l'aporia contro cui si è schiantato, storicamente, il progetto comunista in tutte le sue accezioni. Voglio dire l'idea che la realtà sociale possa essere plasmata sulla base di un progetto consapevole, qualunque ne sia la natura e il modo
in cui si è arrivati a definirlo. Se l'idea che un progetto consapevole fosse in grado di condizionare in misura significativa l'evoluzione sociale poteva ancora avere una sua plausibilità rispetto a società piccole e sufficientemente semplici, è categoricamente escluso che ciò si possa applicare alla complessità della società globale. Purtroppo per tutti, il cambiamento sociale ed economico procede sulla base dell'interazione di una miriade di comportamenti e di scelte, i cui effetti sono per lo più imprevedibili, se non in termini molto generali. Neanche con un monitoraggio high frequency. E, quel che più conta, sono anche largamente incontrollabili. Questo è per me un punto decisivo e irrinunciabile. Ci tengo molto, lo considero una sorta di punto archimedico su cui appoggiare un modo nuovo di guardare al divenire sociale, che faccia leva sul presente per sollevare il futuro all'altezza del nostro sguardo. Credo che non sia possibile perseguire nuovi progetti collettivi di azione sociale senza acquisire, attraverso l'analisi, la piena comprensione di quali siano i fattori che concorrono a determinare il divenire sociale e, più in generale, del modo in cui funziona il metabolismo della società. Vi sono strutture, comportamenti, valori, che sono in larga misura il risultato di un'infinità di azioni ripetute e sedimentate al di fuori di qualsiasi progettualità. Esiste, ritengo, una sorta di DNA della società che muta solo lentamente e impercettibilmente sulla base di deviazioni dalla norma che il tempo e l'esperienza selezionano e valorizzano. Era, e forse ancora è, compito del conflitto sociale farlo. Talora, il loro assestamento assume la forma di una crisi generale che scuote
dal profondo i pilastri che sorreggono e garantiscono la riproduzione della società evitando le pulsioni autodistruttive, che pure esistono e talvolta si manifestano. Gli autori del Manifesto sembrano essere consapevoli, almeno in parte, di questa problematica, tanto che, al Punto 3.21 (Manifesto: Sul futuro), dichiarano esplicitamente: “laddove non possiamo prevedere il risultato esatto delle nostre azioni, possiamo comunque probabilisticamente determinare degli intervalli di risultati probabili”. Il problema è che poi non svolgono tutte le implicazioni che da questa osservazione si riverberano, necessariamente, sull’intero impianto del loro discorso. I progetti tramite cui gruppi più o meno vasti di persone perseguono determinati obiettivi di cambiamento sociale sono solo una delle forze in campo e, spesso, non tra le più rilevanti, anche nei casi in cui arrivino a coinvolgere fette consistenti di popolazione. Essi possono certamente generare spostamenti, sedimentare nuovi valori, nuove pratiche, nuove regole, ma anche qui, andando al di là, se non addirittura contro quello che l'esplicito disegno originario contemplava. L'eterogenesi dei fini è una delle caratteristiche sistemiche del mondo sociale in cui siamo immersi. L'esempio più celebre e sorprendente è, forse, quello illustrato da Adam Smith sotto l'etichetta della "mano invisibile”. È uno stato di cose difficilmente accettabile da parte dell’homo faber, che è riuscito a domare la natura, ma non riesce ancora a domare la società in cui vive. La vita quotidiana di una società umana è fatta di una miriade di decisioni e di scelte individuali che implicano l'integrazione nel 134
tempo e nello spazio fra i membri che la compongono e una più o meno ampia cooperazione, implicita o esplicita. Solo una minima parte di queste decisioni e scelte è frutto di un accordo preventivo fra gli individui coinvolti e, tanto meno, discende da un disegno condiviso in vista del raggiungimento di determinati fini. Tutte queste decisioni e scelte vengono assunte in un contesto di regole per la massima parte pregresse e interiorizzate e, in misura infinitamente minore, sulla base di regole che sono il frutto di innovazioni o modifiche, e sotto la pressione di incentivi e disincentivi che queste regole pongono in essere. In ogni società, il sistema delle regole, che, è bene avvertire, quasi mai è del tutto coerente al proprio interno, è decisivo, come decisivo è il modo in cui le regole vengono fatte valere e altrettanto decisiva è la misura in cui esse vengono spontaneamente rispettate e, inversamente, la quantità di coloro che non le rispettano. L'influenza che i singoli, da soli o associati, sono in grado di esercitare sul processo di formazione e attuazione delle regole misura esattamente la quantità di potere che ciascuno detiene per concorrere a determinare i destini della società. È chiaro che il singolo individuo, specialmente se isolato, dispone di un potere di condizionamento infinitesimale, se non nullo, mentre il massimo di potere si trova consegnato nelle mani di coloro cui è istituzionalmente affidato il compito di disegnare e amministrare le regole nonché di coloro che, per ragioni non istituzionalmente previste, si trovano a disporre di un potere di condizionamento estremamente elevato, come è nel caso dei gestori delle gi-
gantesche organizzazioni economiche e finanziare che dominano la scena mondiale. La partita del potere, in cui si decidono i destini della società, si gioca fra questi attori. Allo stato attuale, l'esito della partita, almeno nel breve periodo, è segnato. La fallacia costruzionista si annida nei luoghi più impensati. ”Potremmo far funzionare il capitalismo per la maggioranza di noi anziché solo per un numero ristretto" (Reich 2015, 21). "Crediamo che qualsiasi post-capitalismo richieda una pianificazione post-capitalista" (Manifesto per una politica accelerazionista, 3.8 - Manifesto: Sul futuro). “Cambiare il paradigma economico” (Rifkin 2014). In contesti culturali assai lontani, ma con accenti simili, è questo il mito, di origine faustiana, che aleggia nelle file di una sinistra che, consapevole delle tragiche sconfitte del Novecento, ha abbandonato la prospettiva del rovesciamento rivoluzionario del capitalismo ed è alla ricerca di un obiettivo più realistico e convincente, ma che sempre comporta l’assunto di poter “guidare” la società. Quando sento parlare di "progetto", di "piano", di "pianificazione" in campo politico e sociale, mi prende subito un senso di sgomento e di preoccupazione, perché so quanto l'esperienza storica ci ammonisca che ogni volta che un gruppo di uomini, comunque ben intenzionati, si propongono di attuare un progetto di cambiamento sociale, di pianificare una trasformazione della società, prima o poi, di fronte a una realtà inevitabilmente recalcitrante, nasce la tentazione di usare un po' di costrizione, un po' di violenza per spingere la realtà ad adeguarsi. I risultati sono ampiamente noti. Credo che nes-
suno voglia ripetere quelle esperienze, anche se in molti, prima o poi, saranno tentati di farlo, dimentichi dalla storia e abbagliati dall’utopia. Occorre cercare altre strade. Il problema di oggi non è quello di escogitare un'ennesima "ricetta per l'osteria dell’avvenire", secondo l'ironica espressione di un noto agitatore politico del sec. XIX. Di ricettari è tristemente piena la storia sociale dell'occidente. Nel migliore dei casi sono serviti a decretare la fortuna di qualche intellettuale. Lo pensava anche Tronti: “Premettere il modello di una società dell’avvenire all’analisi di quella attuale è un vizio ideologico borghese che solo le plebi oppresse e gli intellettuali d’avanguardia potevano a ragione ereditare” (Operai e capitale 1966, 19). Il mito dell’accelerazione
Ma veniamo al senso di ciò che l'uso del termine "accelerazionismo" lascia intendere. Si tratterebbe di una rivoluzione che non va "contro" l'ordine esistente, come fanno tutte quelle che sono state finora concepite e tentate, ma “verso”, “non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, ‘accelerare il processo’”, come indica uno degli incunaboli dell’accelerazionismo (Deleuze-Guattari 1975, 272). Si tratta di una rivoluzione che è pro-attiva rispetto allo stato di cose che intende mutare. Se di rivoluzione si può parlare, se ce n’è una, come si chiedevano, denunciando qualche opportuna incertezza, Deleuze e Guattari. Prudenza che gli accelerazionisti hanno baldanzosamente accantonato. L’accelerazionismo appare più un capitolo dell’estetica, sulla 135
scia del mito della velocità propugnato dal futurismo italiano, che una nuova prospettiva politica. Vengono in mente le parole con cui Walter Benjamin condanna il futurismo quale “estetizzazione della politica”, parole non a caso richiamate da un severo critico dell’accelerazionismo (Noys 2014, 17), specialmente quando afferma che c’è una “discrepanza tra l’esistenza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione”, che si manifesta nella disoccupazione e nella mancanza di mercati di sbocco e che genera la guerra imperialistica come “ribellione della tecnica” (Benjamin 1966, 48). Non voglio dire, ovviamente, che sia questa la prospettiva in cui si muove l’accelerazionismo, per lo meno nella declinazione “di sinistra”, ma mi sembra evidente che esso poggia su di una analoga mitizzazione della tecnica, con la velocizzazione dei processi che essa provoca. La metafora del lunapark, in cui Benjamin vede una sorta di vaccinazione nei confronti della possibile intossicazione tecnologica della società è al tempo stesso la proiezione dell’esperienza della velocità cui l’umanità è destinata a piegarsi. Ma lui faceva ancora affidamento sul comunismo e sul potere del proletariato. Del resto, il richiamo dell’accelerazionismo alle “forze produttive della tecnologia”, alla necessità di “liberare le forze produttive latenti”, di “accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica”, in quanto “trampolino di lancio verso il post-capitalismo”, ha un accento decisamente mitologico, non certo fattuale. L’incrollabile certezza di poter piegare gli esiti tecnologici dello sviluppo capitalistico a usi socialmente alternativi non poggia su alcuna
analisi delle caratteristiche effettive del mondo che viene avanti delle macchine animate dall'intelligenza artificiale e tanto meno prende in considerazione le inedite problematiche che esso pone rispetto al rovesciamento possibile del rapporto uomo-macchina. Viene in mente, anche qui, un episodio lontano ma significativo, opportunamente richiamato ancora da Noys (2014, 27): il sogno leninista di un “taylorismo proletario” che, accrescendo la produttività, servisse a liberare tempo per gli operai che avrebbero così potuto partecipare alla costruzione del nuovo regime socialista. Sappiamo come è andata. Ma sappiamo anche che non poteva andare diversamente, perché l’innovazione capitalistica, organizzativa o tecnologica che sia, porta le stigmate del contesto in cui è stata concepita e delle finalità cui deve servire. Oggi siamo di fronte a innovazioni scientifiche e tecnologiche che sostituiscono il lavoro vivo a ritmo accelerato e su di una scala mai vista. Dovremmo gioirne, e invece siamo impegnati a ricercare i modi per evitare che questo lavoro “liberato” si trasformi direttamente in lavoro inutile, in disoccupazione. Problema terribile, cui, temo, non si può neanche tentare di porre rimedio, se non mettendo radicalmente in discussione i dispositivi che attualmente regolano la distribuzione (e la redistribuzione) del reddito e della ricchezza. L’utopia comunista di una società che guida e regola la tecnologia e le macchine è rimasta tale. Resta il fatto che questa è una sfida che va raccolta, anche se non con l’ottimismo dell’intelletto che anima gli accelerazionisti. L’ondata montante della tecnoscienza di origine capitalistica è attaccabile e la si può costrin-
gere, entro certi limiti, a rifrangersi su lidi diversi, dando vita a dinamiche oggi impensabili. Gli accelerazionisti pongono giustamente l’accento sui mutamenti profondi che il progresso scientifico e tecnologico sta determinando, in particolare, nella sfera del lavoro. Ammaliati dall’espansione del general intellect di marxiana memoria, non sembrano accorgersi che la faglia critica che spacca il mercato del lavoro mondiale non è quella, storica, fordista potremmo dire, fra lavoro materiale e lavoro intellettuale, ma quella fra lavoro di routine e lavoro non di routine. Ai fini dell’espansione e della gestione del general intellect, quello che conta è il sottoinsieme, relativamente ristretto, dei lavoratori intellettuali non di routine e ad alta qualificazione, che rappresentano poco più del 18% della popolazione lavorativa. Più in generale, negli Stati Uniti il lavoro di routine, che rappresentava il 60% circa dell’occupazione a metà degli anni settanta è sceso al 40%, mentre esattamente l’inverso è avvenuto per il lavoro non di routine. Questo ci dice che la nozione di “capitalismo cognitivo”, pur cogliendo uno degli aspetti che segnano, attualmente, l’evoluzione del capitalismo globale, risulta decisamente parziale e riduttiva riguardo al quadro economico effettivo. Il capitalismo continua a essere una realtà assai complessa e diversificata, in cui convivono e si combattono dimensioni economiche e rapporti sociali molto diversi. Vi convivono formazioni capitalistiche stratificate, frutto di stagioni diverse e caratterizzate da dinamiche diverse. Lo spazio fisico e sociale occupato dal capitalismo non è omogeneo, è attraversato da conflitti interni. 136
Il capitalismo è sempre in lotta con se stesso, condannato a quella fatica di Sisifo che è il processo di “creative destruction”, di distruzione creatrice, che ne determina l’incoercibile dinamismo. Da questo processo emergono continuamente nuove formazioni capitalistiche, che entrano in conflitto con quelle precedenti. Il filo conduttore è dato dall'innovazione scientifica e tecnologica che continuamente riplasma il software incorporato nei processi produttivi e, più in generale, nei processi economici in cui si articola la riproduzione della società. Il “capitalismo cognitivo”, se vogliamo usare questa espressione, definisce semplicemente l’ultima manifestazione dell’eterno processo di distruzione creatrice, che si è installata ai vertici del capitalismo globale. Ciò che la caratterizza è l’applicazione, sempre più estesa e intensiva, della conoscenza ai processi produttivi e finanziari. Prendere la parte per il tutto ed estendere la definizione di “capitalismo cognitivo” alla realtà tutta del capitalismo attuale significa perdere di vista le contraddizioni che lo percorrono, le linee di fuga che continuamente si disegnano, creando spazi di cambiamento che si rischia di non cogliere. Il “capitalismo cognitivo” definisce la tendenza dominante, la forza che distrugge e al contempo crea, ma non descrive necessariamente il capitalismo che avremo. Scommettere sulla possibilità di addomesticare quella tendenza e rivolgerla contro il capitalismo stesso è un’illusione che può contribuire a perpetuare l’irrilevanza della sinistra. L'ipotesi accelerazionista regge o cade con questa scommessa. L'impressione è che gli accelerazionisti sottovalutino, forse deliberatamente, la solid-
ità, addirittura l'inscindibilità del nesso che lega il progresso scientifico e tecnologico al capitalismo e non si rendano conto di quanto potenti siano gli incentivi radicati nell'economia di mercato. È su questi, in definitiva, che bisognerebbe tentare di agire. In generale, e in conclusione, mi sembra che l’unico aspetto interessante e promettente dell’approccio “accelerazionista” sia la proposta, certamente innovativa per il pensiero della sinistra tutta, di provare a porsi non solo “contro”, ma soprattutto “dentro” i processi di cambiamento indotti dall’innovazione tecnologica. Bisogna muoversi sulla scia delle innovazioni prodotte dalle imprese capitalistiche e tentare di deviarne il corso, di stravolgerne la cifra. Non è un’idea del tutto nuova. È l’idea, ripresa tanti anni fa da Tronti nell’introduzione di Operai e capitale, che “le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni”. Ma nella proposta “accelerazionista” di accelerare i processi del presente per andare all’assalto dell’avvenire ricompare quella che ho chiamato la “fallacia costruttivista”, l’idea che si possano deliberatamente accelerare e guidare i processi sociali in vista di una meta preventivamente e “arbitrariamente” scelta. Rimaniamo chiusi nell'asfittica cucina dell’avvenire. Il presente, come le sue opportunità, le sue fratture, le sue congiunture, resta fuori della porta. La cifra del nostro tempo è, indubbiamente, la “legge di Moore” che, a sua volta, è l’inveramento dell’accelerazione che caratterizza il modo in cui la tecnologia e la scienza, con le loro innovazioni, entrano nella nostra vita, modificandone i ritmi e i contenuti e riplasmando la società. L’accel-
erazionismo, dunque, coglie bene un fattore preminente del nostro destino collettivo, ma gli sfugge, mi sembra, la logica intima dell’accelerazione in atto ovvero l’accumulazione esponenziale: della potenza di elaborazione dei chip, dei dati stoccati in formato digitale. Sono questi i fenomeni che stanno sovvertendo le basi della nostra civiltà, non tanto l’accelerazione tecnologica in sé, che si ripresenta più o meno regolarmente nel corso dello sviluppo economico. Tutto questo avviene sotto il ferreo controllo degli incentivi connaturati al capitalismo e in un regime di sostanziale casualità, nel senso che nessuno progetta e guida in vista di un approdo definito. Sta emergendo, molto probabilmente, una nuova variante della specie umana, l’homo informaticus, un uomo che si alimenta di informazioni e rilascia informazioni nell’ambiente in cui vive. Sia chiaro, questa dimensione "informatica" è sempre esistita nella vita dell'homo sapiens, ma fino alla rivoluzione digitale la quantità d'informazione che l'individuo era in grado di processare era mediamente assai ridotta e, soprattutto, statica, per non parlare dell'informazione che a vario titolo, consapevole e inconsapevole, immetteva nell'ambiente, che andava pressoché interamente perduta. Oggi, qualsiasi individuo, dotato degli strumenti informatici più diffusi, è in grado di attingere a un'enorme quantità d'informazione e può processarla per i fini più diversi. Ma, quel che più conta e sorprende, è che una porzione rapidamente crescente dell'informazione che immettiamo nell'ambiente semplicemente interagendo con i nostri simili viene immagazzinata e resa disponibile per gli usi più impensati. Sono i famosi big 137
data, che stanno invadendo e rivoluzionando l'ambiente digitale in cui sono ormai immerse le nostre vite. Nel bene e nel male, le nostre vite saranno sempre più condizionare dalla manipolazione di queste gigantesche basi dati. Esse saranno utilizzate per renderci servizi oggi impensabili o per rivoluzionare la fruizione di quelli esistenti, ma potranno essere utilizzate anche per rendere sempre più superflue le nostre scelte, che saranno anticipate da un'intelligenza artificiale capace di leggerle nei nostri comportamenti quotidiani, come il fast food automatizzato che saprà già com'è la nostra colazione preferita e ce la consegnerà al tavolo, dopo averla preparata espressamente. O come il medico robotizzato che, avendo immagazzinato tutte le informazioni che riguardano la nostra salute sarà in grado di fare una diagnosi estremamente precisa, confrontando i nostri sintomi con quelli contenuti in un immenso data base. Già oggi, con strumenti preistorici, i governi si propongono di monitorare i fattori che determinano la nostra percezione della felicità al fine di adeguare le loro politiche praticamente in tempo reale. Già oggi, la psicologia sperimentale si ritiene in grado di indicare quali sono gli elementi di contesto suscettibili di spingere (nudge) in maniera morbid gli individui a compiere le scelte che i governi ritengono più appropriate. È agevole, anche se inquietante, immaginare lo scenario che si materializzerà quando queste politiche potranno avvalersi dell'elaborazione sistematica di gigantesche banche dati. Di più: attualmente, a raccogliere ed esplorare i big data sono soprattutto le maggiori imprese a livello globale. Chi deciderà dell'accesso a questi
dati e del loro utilizzo? E, inoltre, siamo di fronte all'emergere di un nuovo e drammatico divario fra chi dispone di big data e chi no, fra chi può accedervi e chi no. Sullo sfondo si profila la possibilità che emerga un’altra caratteristica, potenzialmente più dirompente, dell’homo informaticus. La millenaria inclinazione dell’essere umano ad associarsi in gruppi potrebbe trasformarsi nell’attitudine compulsiva a connettersi con i suoi simili tramite reti informatiche, sovvertendo il senso universale del vivere in società. Si compirebbe, in tal modo, il processo di polverizzazione della società che si è prodotto nel trentennio dell’individualismo mascalzone che ha accompagnato e favorito l’affermazione del progetto neoliberista. Sarebbe l’interramento della famosa, e famigerata, affermazione di Margarethe Thatcher: “Who is society? There is no such thing! There are individual men and women”. Una società fatta di individui interconnessi, alla ricerca delle ragioni perdute dello stare insieme. Di nuovo, penso siano questi alcuni tra i più rilevanti interrogativi posti dall'accelerazione esponenziale della tecnologia informatica, in un mondo in cui la velocità si è imposta all’agire umano sopraffacendone i ritmi. Interrogativi che però l’accelerazionismo non vede o sottovaluta. Un’altra fallacia si annida, a mio avviso, nelle pieghe dell’argomentazione, quella dell’”avanguardia rivoluzionaria”, che anticipa intellettualmente e guida materialmente il popolo; ma di questo un’altra volta. Mi preme solo accennare qualche spunto di riflessione. Non è che l’”avanguardia rivoluzionaria” si ripresenta nelle vesti de “i forti dell’avvenire”
o addirittura del “superuomo”, riprendendo una suggestione nietzscheana rilanciata tanti anni fa da Deleuze e Guattari in un testo, abbastanza oscuro, che sembra stare molto a cuore agli “accelerazionisti”, che lo considerano quasi fondativo della loro impostazione? E non sorgono dubbi sulla compatibilità di questa “linea di fuga” con le aspirazioni democratiche che ancora nutriamo? Visto che siamo in un contesto nietzscheano, viene in mente, inevitabilmente, quel brano di Al di là del bene e del male in cui Nietzsche pone esplicitamente in contrasto gli "uomini dell'avvenire", i "nuovi filosofi", i "condottieri", con la democrazia, intesa come una forma di decadenza dell'organizzazione politica, ma anche di immeschinimento dell'uomo. Non c'è da banalizzare, sono temi rilevanti, ma vedo qui più un viluppo di problemi che un accenno di soluzione. Note a margine sul tema della velocità e dell’accelerazione
Porre l’accento sull’accelerazione, come fanno gli accelerazionisti, è per certi versi fuorviante, perché induce a trascurare la “qualità” dei processi cui dà luogo lo sviluppo scientifico e tecnologico. In fin dei conti, lo sviluppo economico, in quanto fondato sull’innovazione, è sempre stato “accelerazionista”. Una qualche forma della legge di Moore è sempre stata all’opera. Non è questo il punto. In realtà, l’aspetto decisivo e distintivo della fase attuale sembra essere la velocità che il progresso scientifico e tecnologico consente di raggiungere in determinati campi di azione legati all’elaborazione dei dati, conferendogli un’impron138
ta assolutamente nuova e dirompente: li pone al di fuori della portata delle capacità umane. Crea un mondo artificiale in cui, per la prima volta e su vasta scala, l’uomo non è più padrone, ma succubo delle macchine che ha creato. Si tratterebbe di uno sviluppo esplosivo, che potrebbe costituire “il più grande evento nella storia dell’umanità”, ma essere anche l’ultimo, secondo il drammatico avvertimento lanciato nel 2014 da un gruppo di qualificatissimi scienziati (Stephen Hawking, Stuart Russell, Max Tegmark, Frank Wilczek). La "singolarità tecnologica" è vicina, ha scritto nel 2005 un controverso futurologo, informatico e scrittore americano, Raymond Kurzweil, per dire che sarebbe prossimo il momento in cui il progresso tecnologico porterà alla realizzazione di un'intelligenza superiore a quella umana che determinerà la fine degli esseri umani. "Siamo alla vigilia di un cambiamento comparabile alla comparsa della vita sulla terra", aveva già scritto nel 1993 Vernor Vinge, un altro controverso scrittore di fantascienza americano, ma anche matematico e informatico, riferendosi alla stessa tematica. L'esperienza ci insegna quanto le previsioni dei futurologi siano scritte sulla sabbia, ma la traiettoria tecnologica contrassegnata dall'approdo un po’ criptico della singolarità appare quanto meno verosimile e, comunque, ci segnala che ci stiamo muovendo in prossimità della soglia oltre la quale si delinea un futuro veramente sconosciuto. Per la prima volta nella sua storia millenaria, l'umanità si troverebbe privata di ciò che più profondamente ha caratterizzato la sua evoluzione: l'appropriazione progressiva della conoscenza
e il crescente controllo, mediato dalla tecnologia, sull'ambiente in cui vive. È una prospettiva solo apparentemente in contrasto con quella delineata sotto l'etichetta di antropocene e che, in realtà, potrebbe saldarsi con essa. In entrambi i casi, non disponiamo, attualmente, degli strumenti culturali, e tanto meno politici, per affrontarle. E non ce li dà, certamente, l'ingenua fantasia accelerazionista. Un'accelerazione negativa: excursus sul lavoro
Negli Stati Uniti, il terzo millennio si è aperto con un decennio in cui non sono stati creati posti di lavoro nuovi. Non era mai successo. I decenni precedenti avevano sempre portato in dote, in media, un 20% di incremento dell’occupazione. Ma non è tutto. Fra il 1998 e il 2013, le ore lavorate nel settore privato dell'economia sono rimaste sostanzialmente invariate: 194 miliardi. Nel frattempo, la popolazione è cresciuta di 40 milioni di persone; il prodotto del medesimo aggregato di imprese è cresciuto del 42%. La disuguaglianza economica ha continuato a crescere, raggiungendo livelli che non si vedevano dagli anni venti. Il lavoro, dopo i fasti del primo trentennio post-bellico, è tornato a essere un problema. È la questione centrale, oggi. E, come sempre, tocca alla società, non al capitalismo, trovare la soluzione. Proviamo a schematizzare. Chiamiamo lavoro l’attività attraverso cui l’uomo crea le condizioni della propria sopravvivenza e di quella della propria specie. C’è stata, nella notte dei tempi, un’età in cui il lavoro era nella disponibilità immediata del
singolo individuo. Questi, anche in piena solitudine, sapeva cosa doveva fare per procurarsi il cibo e per proteggersi dai pericoli e dalle avversità e applicava le sue energie per farlo. La ricompensa era, appunto, la sopravvivenza e la possibilità di riprodursi. Da quando l’uomo ha cominciato a vivere in società il lavoro è diventata un’attività sociale, mediata dai rapporti sociali. Il lavoro non è già nella disponibilità diretta e immediata del singolo, ma è soggetta a una qualche forma di cooperazione sociale e richiede che l’individuo entri in relazione con altri uomini e si assoggetti alle regole che le forme di cooperazione impongono. Il lavoro diventa il perno e il fondamento dell’essere sociale dell’individuo e, nel contempo, lo rende dipendente dalle relazioni sociali entro cui l’attività lavorativa si svolge. L’uomo, ora, dipende dal lavoro, la sua sussistenza dipende dal lavoro. L’evoluzione economica della società o, più esattamente, l’evoluzione delle condizioni economiche che rendono possibile la riproduzione sociale si identifica, in larga misura, con l’evoluzione delle condizioni che determinano l’accesso al lavoro e le modalità della sua esecuzione. Il processo è passato attraverso una serie di fasi, segnate, in particolare, dal cambiamento tecnologico. Non è questa la sede per ricostruirle. Oggi sappiamo che uno dei fattori che condizionano l’accesso al lavoro è il grado e la qualità delle conoscenze possedute. È questo il fattore che sempre più determina la struttura del mercato del lavoro e plasma la gerarchia dei lavori, la quale, a sua volta, determina a quale lavoro si può aspirare di accedere sulla base di un determinato livello di conoscenze. Il mercato del lav139
oro, a livello globale, è oggi investito da due forze, due spinte tendenziali, che principalmente ne determinano la struttura. Da una parte, vi è la spinta poderosa della globalizzazione che sta provocando una forzata, e dolorosa, ricollocazione della forza lavoro mondiale, guidata dai differenziali del costo del lavoro nelle diverse aree economiche del mondo. I mercati del lavoro nazionali e regionali possono essere rappresentati come un gigantesco sistema di vasi comunicanti in cui è in corso un faticoso riequilibrio dei costi salariali, che prende tempo e provoca disagi sociali non indifferenti. Nell’industria cinese i salari sono aumentati del 10% annuo fra il 2000 e il 2005 e di circa il 20% fra il 2005 e il 2010, mentre il governo cinese ha fissato l’obiettivo di una crescita del 13% annuo del salario minimo fino al 2015. Questo processo ha un termine, anche se non esattamente prevedibile e si concluderà con la creazione, virtualmente, di unico mercato globale del lavoro. Non durerà, come non dura alcun assetto produttivo e distributivo sotto il regime capitalistico. Ma questa è la direzione in cui stiamo andando. Dall’altra parte, vi è la spinta, sempre più poderosa e accelerata, dell’innovazione tecnologica che incorpora nei processi produttivi dosi massicce e crescenti di conoscenza. Sempre più, le operazioni produttive sono affidate ad algoritmi che non hanno bisogno di intervento umano, se non al momento della loro progettazione (almeno per ora). Non si tratta solo di operazioni materiali, che implicano attività fisiche, ma anche di operazioni astratte, che implicano attività intellettuali. Il lavoro umano, in entrambe le sue forme di es-
trinsecazione, fisica e intellettuale, è sempre più efficacemente sostituito dall’azione delle macchine, con riduzioni esponenziali dei costi. Le macchine diventano sempre più “pensanti” e l’uomo deve solo assisterle. Per ora pensano solo quello che gli si impone di pensare, attraverso algoritmi che sostituiscono determinati passi del pensare. Ma il momento in cui si renderanno autonome anche nel pensare, nel senso che costruiranno da sole nuovi algoritmi, non è lontano. Il mondo vagheggiato da Marx e poi ancora da Keynes, un mondo in cui la maggior parte del lavoro che serve alla riproduzione degli uomini e della società viene fatto da macchine e gli uomini vedono ridursi drasticamente il tempo di vita che devono dedicare al lavoro, si avvicina pericolosamente. Pericolosamente perché sono, viceversa, tremendamente lontane, non si vedono, le istituzioni per gestire un mondo in cui il tempo di lavoro necessario si riduce drasticamente, potenzialmente fino a zero, ma la capacità dell’uomo di procurarsi i mezzi di sussistenza e tutto ciò che un immenso apparato produttivo gli offre, è, paradossalmente, legata proprio al lavoro necessario. E questo paradosso ne genera un altro, ancora più terribile: il tempo liberato non contiene alcuna libertà, ma solo un’intensificazione del bisogno. Più il progresso scientifico e tecnologico trasfuso nel sistema delle macchine libera il tempo di vita dell’uomo dalla costrizione del lavoro e più l’uomo si impoverisce. Le implicazioni potenziali sono decisamente sconvolgenti o intriganti, a seconda della “filosofia” che seguiamo. Se viene meno l’esigenza di utilizzare il lavoro umano per mandare
avanti la produzione di beni e servizi, viene meno anche il fondamentale meccanismo di attribuzione del potere di acquisto, che, a sua volta, è il presupposto basilare perché possano esistere e funzionare quelle istituzioni caratteristiche della nostra società che sono i mercati. Si creerebbe una sorta di paradossale cortocircuito. Davanti a una crescente possibilità tecnica di produrre beni e servizi in quantità virtualmente illimitate, non vi sarebbe più la strumentazione necessaria per distribuirli a coloro che ne hanno bisogno o li desiderano. Di nuovo, dobbiamo riconoscere che si profilano scenari di fronte ai quali siamo del tutto disarmati. Siamo di fronte, oggi, a un sistema produttivo che è sempre più permeato e condizionato dall’inarrestabile accelerazione della tecnologia digitale e che presenta due caratteristiche potenzialmente distruttive. Da un lato, il fatto che la proprietà del capitale tecnologico accumulato viene a trovarsi nelle mani di una ristretta cerchia di persone che si appropria anche dei profitti che esso produce. Dall’altro, la crescente disuguaglianza economica che spacca sempre più nettamente la società, dissolvendone il corpo centrale che era stato finora il fondamento e il baluardo della democrazia. Il popolo dei colletti bianchi che, nel bene e nel male, ha segnato la storia delle democrazie novecentesche, sembra in via di scomparsa perché reso superfluo dalla superiore “intelligenza” delle macchine. L’intelligenza artificiale, il machine learning (apprendimento automatico), il cognitive computing (computer cognitivo), il genetic programming (programmazione genetica), stanno letteralmente risucchiando il 140
contenuto informativo di molte attività lavorative, “svuotando” il patrimonio professionale degli individui, specialmente quello basato sulla conoscenza. La cosa inquietante è che le macchine utilizzano queste conoscenze infinitamente meglio di quello che finora hanno fatto gli esseri umani. Ma c’è un’altra cosa inquietante: la potenza di elaborazione di queste macchine è, al momento, nella disponibilità di un numero assai ristretto di persone. L’accelerazionismo sembra essere consapevole di questi problemi, ma non ha nulla di veramente significativo da dire in proposito. È chiaro che di fronte a questi processi di sovvertimento tecnologico e, prima ancora, cognitivo, la nostra società è disarmata; il suo apparato istituzionale o, se si preferisce, il suo software è del tutto inadeguato per trattare i problemi che ne derivano. C’è bisogno di ridisegnare valori e istituzioni idonei a incorporare nel metabolismo sociale queste esplosive innovazioni. La domanda cruciale potrebbe essere: Come si fa a fare in modo che il tempo di lavoro liberato dall’avvento delle macchine intelligenti non svanisca nella disoccupazione, ma diventi tempo disponibile, tempo riconquistato alla vita di ciascuno? Domanda non nuova, quasi banale. Ma la risposta non è data. Hic Rhodus, hic saltus. Chi vuole davvero confrontarsi con il problema centrale della modernità al crepuscolo, è a questa domanda che deve trovare una risposta. Ammesso e non concesso che si possa accelerare deliberatamente il processo di innovazione che qui ci sta portando, non è l’accelerazione in sé la risposta. La risposta si nasconde nel mistero profondo delle pulsioni che di tanto in tanto spingono gli
esseri umani a ricercare nuove forme di cooperazione, dando vita a nuove istituzioni sociali. Ma oggi viviamo in tempi oscuri: le forme di cooperazione si stanno pericolosamente disgregando, dissipando quel velo di fiducia che finora ha tenuto insieme le nostre società. Anche qui è in atto un’accelerazione progressiva, che si affianca a quella celebrata dagli accelerazionisti, ma riguarda processi distruttivi, processi che chiudono, e non aprono, il nostro futuro. Il mondo che abbiamo di fronte assomiglia molto a quello immaginato, più di sessanta anni fa, da un geniale scrittore americano ventinovenne, Kurt Vonnegut. Un mondo in cui dominano le macchine e gli uomini si dividono in due categorie sulla base di una sorta di quoziente di intelligenza: quelli che hanno a che fare con le macchine, la classe dominante, e quelli che, espropriati della loro intelligenza e capacità lavorativa dalle macchine, vivono in condizioni di mediocre sopravvivenza. La domanda davvero pertinente potrebbe allora essere non “Cosa fare?”, ma “Perché in sessant’anni non siamo riusciti a fare niente?” Nel momento di massima accelerazione del fordismo, fu lo stesso Ford a porre e “risolvere” il problema, raddoppiando la paga dei suoi dipendenti perché fossero in grado di comprare le auto sfornate dalle sue catene di montaggio. Chi farà oggi la parte di Ford? In realtà, il problema è assai più complesso. Come spesso avviene nelle cose che riguardano la società, vi sono almeno due risposte: una massima e una minima. C’è il fondato sospetto che, ammesso e non concesso che si faccia qualcosa di sufficientemente generale ed efficace in
tempi brevi, la soluzione che prevarrà sarà quella minima. La soluzione massima implicherebbe che ci ponessimo il problema di come deve governarsi una società in cui il progresso scientifico e tecnologico sta riducendo il ruolo del lavoro umano diretto a una quantità percentualmente trascurabile. Il fatto nuovo e dirompente, cui la nuova ondata di innovazioni tecnologiche ci pone di fronte, è che il mito della liberazione degli uomini dal giogo del lavoro e della fatica fisica sta diventando tendenzialmente realtà. Ci stiamo avvicinando asintoticamente al momento in cui tutto il lavoro necessario alla riproduzione materiale dell’umanità potrebbe essere effettuato da sistemi di macchine. La ricchezza collettiva potrebbe essere rappresentata non dalla massa di beni e servizi resi annualmente disponibili e dalla corrispondente quantità di mezzi di pagamento necessaria per acquistarli, ma dalla quantità di tempo libero. Il problema è: in base a quali criteri, tramite quali istituzioni, si potrebbe determinare la ripartizione della quantità di tempo disponibile? Anche su questo tema ci sono proposte che provengono da una famiglia di idee assai prossima, quella elaborata sotto le etichette del “citizen’s dividend” o del “quantitative easing for the people”. Ma siamo qui in un campo di ipotesi e soluzioni che non sembrano rientrare nell’ambito di ciò che è realizzabile a breve termine. La soluzione minima consiste nell’adozione di una delle tante proposte avanzate per attribuire un reddito (minimo) di base a tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, non riescano a procurarselo sul mercato oppure, in una versione estensiva, a tutti indistintamente. Sono ampia141
mente note, e discusse, le controindicazioni di queste due versioni della soluzione minima. A parte tutte le considerazioni sulle possibili conseguenze sul sistema di incentivi che muove le scelte umane, ne indico qui solo una di carattere generale, che è comune a tutte le altre: ognuna delle soluzioni proposte implicherebbe una, più o meno ampia, socializzazione della ricchezza. E questo è un problema cui nessuno, fino a oggi, ha trovato una risposta men che utopica. Non è questa la sede per ragionarci sopra. È sufficiente, per il momento, ribadire che di qui passa la ricostruzione di un ordine sociale ed economico accettabile, che faccia i conti con le derive dirompenti e insostenibili illuminate dalla crisi generale degli ultimi anni.
ix
vari autori
Cyberforum ‘Fantasie accelerate’
PD Sono il curatore del progetto «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire» e in questa veste ho ospitato di comune accordo con Lapo Berti il suo intervento all’interno di questo spazio che utilizziamo per promuovere i materiali che assembliamo sotto il moniker di Obsolete Capitalism. Ringrazio Lapo per la sua disponibilità al confronto e per lo sforzo prodotto sia nel testo critico che nella volontà di sperimentare nuove forme di dialogo e di pensiero. Il mio intervento sarà distribuito sul testo sotto forma di post strettamente tematici per enucleare i punti di convergenza e i nodi di differenziazione tra i due ‘universi’ che esprimiamo, mantenendo un confronto che non si esaurisca solo nella suggestione del testo, ma che lo ‘buchi’, entrando e uscendo dallo scritto e dal libro… Per promuovere scambi di idee e riflessioni sul tema «accelerazionismo» e «futuro della sinistra», in accordo con l'autore Lapo Berti, in qualità di curatori dell'e.book «Moneta, rivoluzione e filosofia dell'avvenire»; il testo di Lapo Berti «Fantasie accelerate» - riflessione politica ed economica scaturita dalla lettura del «Manifesto per una politica accelerazionista» di Williams e Srnicek - sarà infatti inserito nell'opera collettiva a cura di Obsolete Capitalism in uscita il prossimo anno. Il «Manifesto per una politica accelerazionista» è stato 143
pubblicato da Ombre Corte, 2014, in un volume a cura di Matteo Pasquinelli «Gli algoritmi del capitale», di cui consigliamo la lettura. L’ e-book intitolato «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire» svolge una critica serrata ma costruttiva al progetto filosofico-politico «accelerazionista di sinistra», così come si definiscono gli autori Williams, Srnicek, Pasquinelli e altri neo-marxisti irregolari, eterodossi, riuniti nel libro «Gli algoritmi del capitale». Il ritornello del libro è il seguente: Nietzsche, Klossowski, Deleuze, Guattari e Foucault sono i teorici paradigmatici dell’accelerazionismo del XIX e XX secolo, pur nelle rispettive differenze biografiche, politiche e filosofiche. Essi hanno formato una Rizosfera di senso destinata a trasformare la pragmatica delle nostre esistenze. Attraverso una nuova concezione della dromologia come logica della velocità, ispirata dal lavoro teorico dell’urbanista Paul Virilio, gli autori dell’opera vogliono contribuire a ripensare e ridefinire la concezione dominante in alcune coppie concettuali quali democrazia/politica, moneta/ economia, rivoluzione/filosofia, velocità/spazio, tecnologia/agire macchinico. Sulle lotte locali
LR Ciao a tutti, sono Letizia e mi occupo di testi, editing e tra-
duzioni per il collettivo Obsolete Capitalism. Sono di parte, quindi. Vorrei esprimere una riflessione comune, uscita da un confronto 'serio e amichevole' con alcune persone che lavorano, o meglio militano, in alcuni resistenti centri sociali che stanno elaborando la proposta accelerazionista del manifesto - che per comodità riassumo con l'acronimo MPA. Questi ragazzi, svegli, acuti, interessati al confronto su temi 'inattuali' quali rivoluzione, accelerazione, democrazia diretta, autogestione, tempo e lavoro, sono contrariati dal MPA. Lo ritengono un attacco ingiusto alle loro pratiche di lotta e liberazione. Si trovano dalla parte sbagliata della lotta: sono dei «folks» della politica orizzontale. Sono uno dei bersagli politici del MPA. Alla luce di quanto espresso sia da MPA, sia da Lapo - in uno dei suoi pochi punti di contatto con Williams e Srnicek - davvero riteniamo l'orizzontalità e il localismo di Rete degli «avversari» da combattere, o comunque una sinistra di lotta da superare in quanto inefficace? A volte, si insinua nel mio pensiero che il MPA e parte della sinistra, alla quale si richiama anche Lapo, disdegnino un certo tipo di lotta e di impegno sul territorio che si è sviluppato in Occidente - frutto anche ma non solo del lascito filosofico di Foucault, Guattari e Deleuze. C'è come un tema neo-egemonico nel MPA che mi preoccupa: non vorrei che i richiami evidenti alla contrapposizione
con il neoliberismo sfociassero in un nuovo 'spirito' da partito di massa che guida il demos con l'aiuto del progresso accelerato scientifico e tecnologico. Un PC o un Labour hi-tech. Ultima riflessione: la parte più convincente dell'intervento di Lapo è quella sul lavoro/accelerazione negativa. Però sia nel caso di MPA che di Lapo questa riflessione è vergata troppo al maschile: le donne vivono da sempre una vita accelerata, al limite della sopravvivenza. Hanno accelerato lo stress piuttosto che il processo! Prima di porci nella solita riserva indiana del 'femminile' perché non pensare da subito, cioè rapidamente, a una dimensione non di lavoro pieno, saturo ma di lavoro a intermittenza, dove anche la pausa, la sospensione, la non forzata adesione al lavoro come progetto di vita possa avere una sua dignità e una sua forza? Perché non rovesciare il concetto di lavoro? Su questo aspetto, mi attendo sì, una rivoluzione. Non solo dalle donne, ma da tutte le aree di pensiero della sinistra, più o meno accelerate. Facciamo del «post-work», del lavoro patchwork, una forza e non una debolezza. Non prendetelo come un elogio del precariato diffuso, perché non lo è: si tratta di ripensare il lavoro e il progetto di vita che s'interseca con esso. E' più una sollecitazione a pensare e ad agire come Torvalds e la prassi di GNU/Linux. Pensare e agire a Rete come può conciliarsi con chi ancora pensa in termini di occupazione fissa, sindacato, partito espressione di una classe e altro ancora? Cerchiamo una connessione, un rapporto tra chi vuole organizzare e chi vuole scivolare o sono/siamo opposti? Grazie ancora a Lapo per il suo intervento e per lo spazio di discussione che ha creato con il suo pensiero e la sua azione. 144
Sui finanziamenti a una nuova infrastruttura politica
GA Vi ringrazio assai di avermi incluso in questo, per me, fondamentale dibattito, anche alla luce della prossima traduzione italiana del libro di Paul Mason, PostCapitalism. Mi riservo di intervenire con più calma sul gran bel saggio di Lapo, davvero denso, potente e problematico. Faccio un intervento da "piedi scalzi", da impoverito ricercatore indipendente, da sempre sensibile alla questione del basic income e alle formulazioni di pensieri e pratiche per le attività indipendenti, oltre la società salariale (dai comunardi ai movimenti femministi, a Gorz, Debord, Pateman, Gruppo Krisis, etc.). Ai tempi della prima lettura che avevo fatto del MPA il profilo che più mi aveva interessato era quello di far saltare nella mente dei "sinistrati" il clivage dentro/fuori, indie/mainstream, orizzontalità/ verticalità, apocalittici/integrati, soprattutto a partire dalla necessità di attraversare tutte le piattaforme del capitalismo digitale per trovare consensi e sostegni in percorsi di formazione culturale (e latamente politica), condivisione e diffusione di saperi e pratiche di una possibile sinistra accelerazionista. Insomma la tesi 20 della terza parte del manifesto (copiata sotto), che mi pare alluda alla necessità di fondare istituzioni in grado di socializzare le ricchezze, tutelare autonomia individuale e cooperazione sociale contro la potenza estrattiva delle piattaforme oligopoliste del capitalismo finanziario. Questo mi pare il più rilevante messaggio del MPA: servono "nostre" istituzioni per quel lungo interregno che il Marx del Frammento e il Keynes delle
"prospettive economiche per i nostri nipoti" anticiparono e che probabilmente noi stiamo cominciando a vivere (anche dal punto di vista di quella mentalità abituata da millenni alla "maledizione di Adamo", riguardo alla progressiva diminuzione della "quantità di lavoro salariato tradizionale" disponibile. Con un sorriso ricordo André Henry, Ministro del Tempo libero nel primo governo socialista dell'epoca Mitterand, 1981). A presto con più calma spero e grazie ancora per la discussione. Tesi 20 MPA. Per raggiungere ognuno di questi obiettivi, a livello più pratico riteniamo che la sinistra accelerazionista debba pensare più seriamente ai flussi di risorse e denaro necessari alla costruzione di una nuova ed efficace infrastruttura politica. Al di là della formula del people power e dei corpi nelle strade, abbiamo bisogno di finanziamenti, sia da parte di governi che istituzioni, think tank, sindacati o singoli benefattori. Riteniamo che la localizzazione e l’indirizzamento di tali flussi di finanziamento sia essenziale per iniziare a ricostruire una efficace ecologia delle organizzazioni della sinistra accelerazionista. —Srnicek, Williams, Algoritmi del capitale PD Ringrazio Giuseppe Allegri per il suo intervento e per il prezioso suggerimento riguardante 'Postcapitalismo', il libro di Paul Mason in uscita nel 2016 per i tipi del Saggiatore. Allego a questo proposito l'articolo di Mason, L'era del postcapitalismo, uscito su The Guardian, tradotto in italiano da Internazionale lo scorso settembre 2015. L'argomentazione di Mason
è della massima importanza, riguardo i temi che stiamo sviluppando nel Forum, e va sicuramente affiancato al testo critico di Lapo Berti, al testo di Vignola-Baranzoni sull'Antropocene, nonché al libro curato da Pasquinelli che stiamo commentando, per formare un'unica costellazione di senso. Per quanto riguarda la tesi 20: in prima battuta, la lessi come la più bizzarra delle tesi proposte. Ma come, mi dissi, MPA getta il guanto di sfida al perfido capitalismo finanziario, e poi chiede - a una parte del sistema - dei finanziamenti per combatterlo, o per contrastarne l'egemonia? Mi sembrava un implicito invito al 'manufactured dissent' - il consolidato mix 'corporate' anglosassone di ONG/centri di ricerca indipendenti/ charities/organizzazioni trasversali - che è una pratica consolidata, specialmente negli Stati Uniti, e che recentemente è stata evidenziata su The Guardian da Nafeez Ahmed (2014) - il suo blog di giornalismo investigativo Insurge Intelligence lo trovate a questo indirizzo https:// medium.com/insurge-intelligence - per la presunta doppiezza del finanziamento targato M.D. Dietro a questi lauti finanziamenti ai movimenti di protesta, dagli anti-globalisti a OWP, Ahmed suggerisce ci sia una precisa strategia 'sistemica' in merito allo sviluppo e allo studio di un modello empirico riguardante le dinamiche di mobilitazione e contagio fra i movimenti di protesta. Si finanzia per controllare, più che fomentare. Il progetto preparato dai vari enti più o meno governativi e dai think tank di accademici USA «determinerà "la massa critica (tipping point)" dei “contagi” sociali studiando le loro "tracce digitali"»: Deleuze l'avrebbe chiamata un'«assiomatica di controllo», 145
quanto mai sinistra. Oppure, come ha scritto Luciana Parisi, un'«assiomatica dinamica e interscambiabile», aperta al calcolo delle contingenze. Il filosofo-viralista Tony D. Sampson avrebbe catalogato questa strategia di sistema come un perfetto esempio di 'teoria del contagio' nell'Era dei Network. A una seconda lettura, la «nuova ed efficace infrastruttura politica» del MPA mi pare molto meno preoccupante, e più in sintonia con quel carattere 'accademico' e 'neo-egemonico' che il MPA non riesce a celare fin dalle prime righe del suo manifestarsi. La tesi 20 rientrerebbe nel grande solco, peraltro molto affollato, delle organizzazioni di sinistra votate all'episteme socio-politica: una sorta di Mont Pelerin Society 'rossa', se mi è concessa la battuta. Se si deve attraversare il deserto e qui mi richiamo alla suggestione del «percorso lungo e accidentato» di Lapo (pg.3) e alla «fondazione di nostre istituzioni» che abbiano come obiettivo il contrasto all'estrazione di valore del capitale, come hai scritto nel tuo intervento iniziale - io suggerirei di partire dal «wiki wiki web» cioè da un lavoro 'digitale-culturale 'di lunga prospettiva che abbia il suo cuore nelle istituzioni «wiki» che raccolgono dal basso e dalle minuzie, con l'etica della condivisione (sharing), delle risorse di massa (crowdsourcing), delle culture di rete (network theory), con l'obiettivo del reperimento di massa dei fondi (crowdfunding) attraverso donazioni, con tetto massimo poche migliaia di euro, per evitare fastidiosi lasciti bi-partisan del mondo 'corporate'. Da Wikipedia a Wikileaks, il mondo della cultura digitale non è rimasto a guardare: si è mosso con la prestanza e la tracotan-
za delle forze giovani. Assange e Wales hanno saputo coniugare - finora - il piano dell'organizzazione e il piano delle intensità: sedimentano saperi e fughe, elaborano grandi lentezze e ultra-velocità. Sono organizzazioni acefale con leadership partecipate, rivoluzionarie come metodo e non come mezzo; né dentro, né fuori ma «in mezzo», giusto per uscire dal clivage… Anche il wiki avrà (ha?) le sue magagne, ma la sua forza-forma è dirompente, vitale. Forse è qui il «common» del futuro: un wiki-common… Per rimanere nel solco del tuo intervento, Paul Mason, nel suo 'Postcapitalism', offre Wikipedia come paradigma della società del futuro imminente post-finanziario. Proprio perché siamo in ambito 'accelerazionista', sarebbe più che lecito - e altamente dromocratico il ricorso al wiki-world: «wiki«nella lingua delle Hawaii significa rapido, super-veloce. L'accelerazionismo socio-politico troverebbe il suo 'movimento', il suo 'ritmo', nella logica digitale «wiki»… Perché non provare? Meglio il «Wiki Thought» - il pensiero del Comune Accelerato - che la «Thought Police» (Orwell, 1984) - la psicopolizia delle élite globali! LR Qui (link) un'interessante infografica sul Post-capitalismo postata da Edmund Berger @D.I.U., un blog americano molto vicino alle nostre posizioni. Mancano alcuni nomi di eminenti post-capitalisti, ma è interessante notare come si muove il P2P movement e i temi che presenta. LB È una piacevole sorpresa scoprire che anche Giuseppe, come me, trovi che la tesi forse più stimolante del MA sia quella in cui si indica la necessità di tro-
vare risorse finanziare e organizzative per dar vita a un'infrastruttura politica, che io interpreto come la necessità riconosciuta di attrezzarsi, con il gusto bolscevico per la maggioranza avrebbe detto Tronti, per riconquistare un'egemonia culturale senza la quale non si va da nessuna parte. Progetto alto e ambizioso, ma è anche il minimo, se si vuole uscire dal ghetto dei "sinistrati" e combattere in campo aperto. Condivido anche l'accenno al lavoro di Mason come possibile terreno di una discussione che sarebbe bello affrontare insieme. Mason mette sul tavolo gran parte degli ingredienti che ritengo necessari per comporre una visione che renda maneggevole la realtà attuale. Ma la ricetta con cui li combina non mi convince. Mi pare sia inquinata da un eccesso di ottimismo della volontà, un'inclinazione che troppe volte ha fatto male agli esploratori di nuovi territori della sinistra. A maggior ragione dovremmo discuterne, con tutta la passione e il sapere di cui siamo capaci. GA Cari, scusate la latitanza, ma grazie davvero per la ricchezza di spunti e riferimenti che proponete! E potente il «Wiki Thought», caro Paolo, seppure io sia antropologicamente un "lentone" (e si vede da quanto tempo ci metto a rispondere), scusa ancora. Hai molta ragione caro Lapo sull'eccesso di ottimismo di Mason, ma, come sai, sono sempre stato attratto dagli estremisti ottimisti (dal buon Toni, in poi;-)… Invecchiando, e precipitando nella peggior prosa possibile, in realtà, mi accorgo dell'assenza totale di uno spazio di formazione "abitabile" fuori dalle secche del mainstream da élite globali, dalle difficoltà immense dello squal146
ificato, depressivo e faticosissimo pubblico (almeno italiano) o dal marginalismo autoreferenziale delle sette (anche del radicalismo estremo, che discettano del microframmento radical) e lo vedo, sulla pelle di mia figlia ventenne alla quale tutto consiglierei tranne che fare una qualsiasi università pubblica italiana (non possiamo certo permetterci una privata, piuttosto che straniera o all'estero; ma lo stesso si pone per il più piccolo, dove i suoi amici che saranno classe dirigente, già vanno in scuole private, prevalentemente svizzere, francesi, tedesche, inglesi), per questo mi pongo, certo troppo in ritardo e probabilmente continuando a guardare il mio ombelico, nella miseria in cui sono, il tema centrale di quella tesi 20, perché penso che sul quel versante siamo in ritardo di 40 anni, soprattutto in Italia che, mi rendo conto, è forse il posto più arretrato del Continente, dove la miseria di una classe dirigente provinciale, si unisce al peggior "professorame" mainstream (e che per recuperare, sui processi formativi, ce ne vorrà di tempo)… ma spero davvero che l'ipotesi discussione intorno alla traduzione di Mason possa essere una piccola occasione, anche per mettere a tema la formazione delle felici classi dirigenti e delle pericolose classi subalterne! A presto con più calma e grazie ancora per tutto (anche a Letizia per i preziosi link!). LR Lo studente italiano è uno studente europeo: la scala è maggiore, la distanza, riducibile. Non solo l’ambiente universitario si sta attrezzando ad accogliere e a scambiare studenti e docenti europei ma anche la scuola secondaria. Tramite gli exchange students program i giovani possono vivere esperienze didat-
tiche diverse che offrono loro la possibilità di vivere e apprezzare una idea di scuola differente, maggiormente legata all’idea di società e dei valori che la improntano quali libertà, politica, equità, integrazione e solidarietà. Alla tesi 20 quindi opporrei, o meglio aggiungerei, che la sinistra accelerazionista non solo "deve pensare più seriamente ai flussi di risorse e denaro necessari alla costruzione di una nuova ed efficace infrastruttura politica", ma vedere il cittadino del domani, cioè colui che dovrà far parte del "people power", come un cittadino slegato da un singolo territorio, abitante di spazialità ed esperienze migrabili. Nietzsche e accelerazionismo
PD Su Nietzsche. Capisco le perplessità su Nietzsche: qui la divergenza tra noi è evidente, ma chi è abituato alle differenze, sa come convergere e contaminarsi. Questo forum può essere uno dei luoghi, non il solo, di chiarimento su Nietzsche. E’ un peccato che la sinistra, genericamente intesa, rimanga refrattaria al pensiero tellurico di Nietzsche. Alcuni pensatori dichiaratamente nazisti sono stati recuperati e assimilati a sinistra, seppur con emicranie e qualche pallore: Heidegger e Schmitt su tutti. Sono diventati «organici» ad alcune varianti politiche del pensiero di sinistra. Anche se si trattava di nazismo conclamato, consapevole, puro al 100%. A Nietzsche, pensatore non riconducibile al nazismo, per vari motivi, non viene perdonato alcunché. Qualsiasi frammento o aforisma viene deglutito crudo, «à la lettre», per non essere risparmiato dall’esegesi ideolo-
gizzata: Nietzsche resta inassimilabile a una «certa» sinistra. Nulla è valso a recuperarlo: né il lavoro esegetico del comunista Montinari, né i cinquanta volumi dell’edizione critica Colli-Montinari, né il Nietzsche francese de-nazificato degli anni Trenta, Sessanta e Settanta del secolo scorso e nemmeno il Nietzsche «debole» di Vattimo. La patina di pensatore reazionario, proto-nazista, razzista, anti-semita, gli rimarrà appiccicata «sine die» perché perpetrata generazione dopo generazione. Ricordiamo che Nietzsche, nella «sua» DDR, fu bollato come «Staatsfeind», nemico di Stato. Ogni generazione ha il suo Lukács, il fustigatore rosso: a noi, più modestamente, son toccati Ferraris, il conservatore mite e Losurdo e figli, gli ortodossi focosi. Contro Nietzsche è stata intentata la più grande operazione di de-bunking intellettuale di sempre: il Pensiero Unico ha pur sempre i suoi funzionari all'opera. La vulgata odierna è la seguente: non solo si può addebitare a Nietzsche il Libro Nero del nazismo, ma addirittura il Libro Nero della Globalizzazione Capitalista. Nietzsche «colpevole», Nietzsche «processato», anno dopo anno. Pazienza. Lungi da noi ogni martirologio o beatificazione atea. Per noi è passato il periodo della lotta sui testi di Nietzsche. L’edizione critica di Colli e Montinari ha fatto luce sul pensiero di Nietzsche, e la sua evoluzione nel tempo. Si tratta ora di «attraversare» i suoi testi. Lo hanno fatto socialisti e nazisti, anarchici e fascisti, capitalisti e comunisti, ebrei e anti-semiti, atei e spirituali. C’è stato un discreto pigia-pigia e ognuno ha colto ciò che ha voluto e potuto. Nell’e. book «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire» analizzia147
mo proprio i frammenti postumi di «La volontà di potenza» che hanno aizzato gli appetiti di Baeumler, il filosofo nazista sodale di Rosenberg, ideologo di regime caro a Hitler: in particolare, rileggiamo proprio i frammenti del «complotto» nietzscheano - «I forti dell’avvenire» e seguenti - sull’asse «anti-edipico» di Guattari, Klossowski e Deleuze. Tre pensatori di sinistra, anticonvenzionali e radicali. Il compito non ci spaventa, anzi, ci rende più seri e severi nel lavoro che abbiamo intrapreso. Il fatto che qui ci preme sottolineare, dato che in questo forum è presente anche Maurizio Lazzarato, è che noi utilizziamo un approccio simile a quello che Lazzarato ha seguito per il suo accostamento a Nietzsche. Testi come «La fabbrica dell’uomo indebitato» e «Il governo dell’uomo indebitato» sono debitori - perdonami il gioco di parole - di Nietzsche e la sua «Genealogia della morale» e di Deleuze e Guattari e il loro «Anti-Edipo». Lazzarato ha saputo cogliere il nesso di debito infinito, produzione capitalista, governo morale-finanziario, creazione di una nuova soggettività ben controllata - l’uomo indebitato - frutto di una lettura politica intransigente e radicale sull’asse Deleuze-Guattari-Nietzsche. Ecco, a nostro avviso, un uso creativo e politicamente innovativo delle intuizioni sul debito di Nietzsche. Noi vorremmo andare oltre, e analizzare il concetto di «moneta infinita» come strumento di controllo e assoggettamento non solo dei singoli, ma di intere comunità, sia locali (nazioni) che globali (federazioni di nazioni, enti sovra-nazionali) attraverso la rete delle banche centrali planetarie. Il tema è quanto mai attuale e scottante. Gli autori prima citati possono
esserci utili per fornire intuizioni fondamentali e chiarire certi meccanismi, non solo politico-economici, ma morali, psichici e intensivi che insistono sull’economia e sulla politica. LB Non ho nulla da replicare. Frequento i testi di Nietzsche da quando ero ragazzo, anche se non posso certo dichiararmi un esperto o uno studioso di Nietzsche e tanto meno misurarmi con gli autori che tu citi. Ho fatto riferimento a Nietzsche in un mio lavoro di qualche anno fa che criticava il modo in cui alcuni economisti attuali trattano il tema della felicità. Per concludere provvisoriamente: considero Nietzsche uno dei materiali utili per il bricolage teorico cui dovremmo dedicarci. Mi prometto di ritornarci sopra in maniera più approfondita, con riferimento ai lavori di Lazzarato. Sulla moneta, come sai, ho cominciato a scrivere nella direzione da te indicata nella prima metà degli anni settanta e ci sto ancora lavorando. Spero di avere presto qualcosa di mio da dire in proposito. PD I tuoi interventi sul tema 'Moneta e Capitale' dei primi anni Settanta, in contrasto 'amichevole' con la marxista francese de Brunhoff sono il punto più alto raggiunto dal marxismo italiano riguardo la teoria generale della moneta. Oggi la tua ricerca instancabile sulla moneta su quale aspetto o carattere lavora? Il tema delle criptovalute, dal punto di vista politico, ti appassiona? Poi, una curiosità: cosa ne pensi oggi della 'teoria marxista della moneta'? LB Premessa: la fioritura di teorie della moneta e di proposte di rivoluzionamento del siste-
ma monetario sono sempre, storicamente, il segno di tempi di profonda crisi economica, politica e di confusione culturale. Quando la mano passa agli stregoni, a coloro che cercano e spesso pensano di avere trovato la pietra filosofale, c’è da preoccuparsi seriamente e bisogna tentare di tenere il più ferma possibile la barra dell’analisi in direzione dei fatti. Per quanto riguarda il mio lavoro sulla moneta, sei troppo generoso nei miei confronti, anche se sono consapevole di avere aperto una strada. Oggi lavoro intorno alle implicazioni del fatto che la “moneta”, nella sua realtà storica, è giunta a coincidere con il suo concetto. In un’economia capitalistica, la moneta svolge essenzialmente la funzione di mezzo di pagamento. Qualunque strumento o procedura che consenta di rendere effettivo un pagamento è “moneta”. E’ uno strumento per trasmettere informazioni all’interno del grande sistema della contabilità sociale. L’intera economia monetaria e finanziaria va rivista alla luce di questo principio. Le criptovalute, come le monete parallele, rientrano in questa considerazione. Il bitcoin apre una prospettiva che può avere sviluppi impensati, anche se oggi mi sembra che il suo uso sia circoscritto a un ambito abbastanza ristretto. Prima di mettere fuori giuoco Fed e Bce ce n’è di strada da fare! Marx e la moneta. Diversamente dalla maggior parte dei suoi attuali (sedicenti) seguaci, Marx era animato da una curiosità sconfinata e possedeva una straordinaria capacità di cogliere le novità che prendevano corpo nella realtà economica e sociale del tempo, come lo sviluppo delle banche e del credito, su cui ha scritto pagine illuminanti. 148
Riguardo alla moneta e il credito, tuttavia, si trovava stretto in uno schema teorico che non gli consentiva di sviluppare pienamente la sua analisi sul piano teorico. A me lo studio dei testi marxiani sulla moneta e il credito è servito moltissimo, ma è stato anche il segnale che occorreva salpare verso il mare aperto. PV & SB Care e cari tutti, ecco, non sapevamo dove inserirci nel dibattito, dato che i diversi filoni di discussione hanno giustamente superato i singoli argomenti da dove eravate partiti. Ci inseriamo qui, dove alla fine siete arrivati a parlare di moneta - di cui confessiamo la nostra ignoranza… ma prima parlavate di Nietzsche, e siccome veniamo da riflettere proprio su Nietzsche e l'ipotesi accelerazionista, ci sentiamo di scrivere qualche riga. Innanzitutto, il testo di Lapo Berti ci pare mettere in luce in modo equilibrato i limiti del Manifesto accelerazionista, senza arroccarsi su posizioni stereotipate. Questo è a nostro avviso il modo migliore per condurre un'analisi nel presente. Ed è il presente quel che ci sembra accomunare il nostro punto di vista a quello di Lapo Berti e a quello di Paolo Davoli e Letizia Rustichelli. Il presente, ossia per dirla con Deleuze "quello che ci accade", di cui dobbiamo trovare il modo per "esserne degni". Da "nativi deleuziani" quali siamo, abbiamo provato a sviluppare una critica sintomatologica del manifesto accelerazionista, Diciamo "da nativi…", in due sensi: 1) il Manifesto e diversi altri testi accelerazionisti (come l'Accelerate reader di Avanessian) utilizzano Deleuze e Guattari, in particolare L'Anti-Edipo, come un grimaldello per aprire la ser-
ratura della sinistra, chiusa a quattro mandate nelle strategie e Weltanschauungen che essi criticano; per tale ragione, vogliamo al tempo stesso esprimerci e capirci di più. 2) è "da nativi deleuziani" che abbiamo provato a sviluppare una lettura critica del Manifesto, mettendo in evidenza una rimozione enorme, riguardante qualcosa che Deleuze e Guattari non avrebbero mai trascurato: il divenire "dividuale" degli individui nella società del controllo, il loro (nostro) disagio, al tempo stesso psichico e collettivo quando la psiche, l'inconscio, il corpo sono sottoposti all'accelerazione del controllo, alla governamentalità algoritmica, alla stupidità sistemica, insomma a quello che Nietzsche aveva preannunciato come l'avvento del nichilismo (che noi diagnostichiamo componendo Bifo, Lazzarato e Stiegler). In particolare, se la frase sull'accelerazione del processo, che Deleuze e Guattari riprendono dal frammento sui forti dell'avvenire, ha avuto, ha e avrà il suo peso nel dibattito teorico-tecnologico-politico di oggi, per noi non può essere slegata da quell'altra frase nietzscheana, ad essa contemporanea, in cui Nietzsche afferma: "quel che racconto è la storia dei prossimi due secoli…". Questa storia è quella del nichilismo, che oggi diviene computazionale; è la storia dell'Antropocene (giustamente messo in evidenza anche da Lapo Berti); è la sintomatologia della decadenza, che tutti noi proviamo - e che ancora Lapo ha indirettamente indicato nel suo riferimento alla "felicità". Per farla breve, quel che ci sta a cuore è la soggettività, o i processi di soggettivazione, o d'individuazione, o il desiderio - insomma, chiamiamolo come volete, anche "sinistra" al lim-
ite, oppure appunto "presente", ma in qualsiasi caso ci pare essere quello a cui non sembrano così interessati gli estensori del Manifesto, o perlomeno ciò che gli sfugge di mano nella loro protensione verso il futuro. Speriamo che perdonerete queste righe così confuse e tracotanti, nonché la segnalazione del nostro testo, che del resto, anche per via di una certa parzialità, poco può fare dopo quello, lucidissimo e inevitabile, di Lapo Berti. PV & SB Proviamo a rispondere alle tue tre questioni. • Come componiamo la triade diagnostica Lazzarato-Stiegler-Bifo in rapporto a Nietzsche? È vero, come tu dici, che questi tre autori sono molto diversi tra loro, rispetto a Nietzsche e in generale (Stiegler, in particolare, non proviene da una tradizione operaista, post-operaista o autonoma, ma pensare che è un reazionario, come qualcuno fa, è veramente da maestrini di catechismo). Nessuno dei tre è del resto quel che si potrebbe definire uno studioso di Nietzsche (come in buona parte lo è stato Deleuze), e neanche un filosofo nietzscheano (come Deleuze lo è stato a nostro avviso più di chiunque altro). Nondimeno, Lazzarato, Stiegler e Bifo ci paiono essere tra i pochi (certo non gli unici) pensatori che oggi a) pensano il presente politicamente, b) diagnosticano quel che ci sta accadendo con lucidità, c) dimostrano di avere un cuore per il "noi", a differenza ad esempio di Agamben, Sloterdijk o Zizek (parere personale, ma che potremmo motivare a tempo debito). Questi tre elementi ( a,b, c) rappresentano per noi quella che Deleuze ha cominciato a descrivere come 149
una sintomatologia della civiltà. Ora, è molto ma molto probabile che questa parola, "sintomatologia", Deleuze la riprenda da Nietzsche, e in particolare a noi piace fare riferimento a un appunto di Nietzsche per lo schema della Volontà di Potenza, di cui uno dei capitoli avrebbe dovuto intitolarsi "Sintomatologia della decadenza". Lazzarato con il tema della colpa e del debito (attraverso la lettura di Deleuze) e Stiegler con il livellamento delle differenze, hanno a nostro avviso centrato il problema della decadenza della soggettività, e ne hanno descritto i sintomi in modo inaggirabile. Bifo lo ha fatto esprimendosi soprattutto attraverso Guattari, ma lo ha fatto forse anche prima degli altri. La sua critica al Manifesto accelerazionista, che è al contempo una micro-analisi lucidissima del neoliberalismo, è per noi esemplare. Quel che conta è che tutti e tre hanno trattato i sintomi come l'espressione di eventi, in modo decisamente deleuziano. E lo hanno fatto, ciascuno a proprio modo, controcorrente, in modo decisamente nietzscheano. Quando leggiamo le loro diagnosi, qualcosa si muove sulla superficie dei nostri corpi, qualcosa frigge sugli occhi, questo è per noi la sintomatologia. • Al di là del fatto che non sappiamo ancora come uscire dall'alternativa "pamphlet politico"/"saggio accademico", proviamo a suggerire un modo per usare Nietzsche oggi. Non è un consiglio, è solo quello che stiamo per fare. Eleonora De Conciliis, nel libro "Pensami stupido!", aveva parlato di "Nietzsche reloaded", di ricaricare Nietzsche, cioè giocarlo nel contemporaneo altrimenti. Tu parli della parodia come variazione, ecco: a noi piacerebbe parodiare Nietzsche in quel senso,
e proprio di fronte all'Antropocene, all'accelerazionismo, al compimento del nichilismo nella società automatica di oggi. Ci piacerebbe in sostanza vedere Nietzsche su quella zattera della medusa di cui parla Deleuze in Pensiero Nomade. Ok, è lo stesso Deleuze a descrivere gli aforismi nietzscheani come una zattera della medusa, ma un dettaglio di quel passaggio ci sta molto a cuore. La zattera immaginata da Deleuze passa attraverso il Rio delle Amazzoni. Molti studiosi dell'Antropocene (Viveiros de Castro, Chakrabarty, Szerszynski, Latour, Haraway, Adelar, ecc.) pensano alla decolonizzazione e desecolarizzazione del pensiero occidentale, in nome di una ragione altra, e alcuni di loro propongono il pensiero amazzonico, il cosiddetto multinaturalismo o prospettivismo amerindio, come una sperimentazione con cui la filosofia dovrebbe confrontarsi. Nessuno di loro però vede Nietzsche come un "reale" interlocutore. Noi sì, noi vorremmo spedire Nietzsche sulle Ande (dove stiamo noi) e in Amazzonia, e proprio per la sua diagnosi sui "prossimi due secoli", su "quel che verrà… l'avvento del nichilismo". Ve lo immaginate Nietzsche e "tutti i (suoi) nomi della storia" in Amazzonia, ora che i capi tribù usano twitter? Noi stiamo provando a immaginarcelo, e ci immaginiamo che a noi, "europei livellati" dal neoliberalismo, Nietzsche ci lasci il nostro Amazon.com per illuderci di "divenire quel che siamo": ecco una bozza di parodia. • Sulla biforcazione: Ancora una volta parleremmo di nichilismo, o meglio di nihil. Per noi, e qui seguiamo Stiegler, questo nihil è la tecnica. Nel senso almeno che il pensiero ha sempre pensato che la tecnica fosse nulla, non esistesse, non fosse. Senza
questo nihil però l'uomo non sarebbe uomo. Ecco perché non si può essere heideggeriani nemmeno in "teoria"… Pensare la tecnica come condizione di possibilità del nichilismo pensato da Nietzsche, come condizione degli ideali ascetici, ma anche condizione per il compimento/rovesciamento del nichilismo, è invece qualcosa che stiamo cercando di fare anche al di là di Stiegler (Su questo tema, come su quello del punto 2, "Nietzsche in Amazzonia", usciranno tra non molto un paio di testi di Paolo). Stiegler, molto deleuzianamente, ha detto che il compito oggi è quello di divenire la quasi-causa del nihil (in un'intervista uscita su di una rivista olandese, in olandese…). Cioè capire che ci stiamo ammalando di tecnica (cosa che gli accelerazionisti non capiscono), ma sapere che si può cominciare a guarire solo smettendola di pensarci autonomi dalla tecnica (la tecnica non è uno strumento, e non è qualcosa "inventato dall'uomo", piuttosto, è la tecnica ad inventare l'uomo). Biforcare è quindi in questo senso letteralmente prendere un'altra strada alla radice del problema. Si può anche andare velocissimi, e con la tecnologia, ma prima bisogna porre il problema diversamente, altrimenti non si "crea" niente di nuovo - e gli accelerazionisti non stanno creando una soggettività inedita (cosa più pertinente a Nietzsche e a Deleuze); come abbiamo cercato di spiegare in "Ultima fermata: Antropocene", stanno solo mettendo la soggettività fordista sul tappeto rotante… PD L'ipotesi di Nietzsche a Iquitos, in Amazzonia - una sorta di Fitzcarraldo Reload - o di un caustico incrocio di Nietzsche. 150
com e la 'Genealogia della morale di Jeff Bezos' è molto intrigante… e forse vale davvero la pena di indagarla!:-) Ne approfitto per farvi i complimenti per il secondo numero de La Deleuziana, la rivista di militanza filosofica che voi gestite: «Alice and the mirror» è online dal 1 gennaio 2016 ed è incentrata sulla doppia figura di Alice e della «jeune fille». Val la pena leggere il numero 2: c'è una strepitosa trascrizione dell'intervento di Rosi Braidotti, «Vitalismo, materia, affermazione», di grande interesse anche ai fini della nostra discussione. Infatti, parto da Rosi Braidotti e colgo lo spunto di una sua affermazione riguardante Darwin e la necessità - tutta nostra, nel senso di contemporanea, dunque urgente - di inglobarlo nel pantheon dei pensatori della nostra Modernità, alla stessa stregua di Freud, Marx e Nietzsche. L'inserimento nel pantheon della Modernità di Darwin non significherebbe mummificazione o celebrazione ma paleserebbe altrimenti l'esigenza di riprendere la sua enorme eredità epistemologica per ri-problematizzarla e giocarla su altri piani, in primo luogo quello dello sviluppo sostenibile e della critica del modello antropologico. E qui mi ricollego al discorso di Lapo sulla irreversibilità di certi processi 'antropocenici', al 'livellamento europeo' del vostro scritto, e dunque al Nietzsche de 'I forti dell'avvenire', il cui carattere anti-darwiniano esplode in tutto il frammento. (Naturalmente specifico subito che il suo anti-darwinismo non ha nulla a che fare con il 'creazionismo' o altre teorie anti-evoluzioniste di matrice religiosa: quando c'è in ballo Nietzsche, è meglio fare chiarezza da subito…). La critica del livellamento eu-
ropeo - noi oggi potremmo definirlo occidentale, senza poter esser smentiti - e del suo processo inarrestabile da parte di Nietzsche - «probabilmente irreversibile» l'ha definito Lapo riferendosi all'Antropocene - avviene con un presupposto, che mi pare esser stato equivocato dagli estensori del MPA. Mi riferisco al fatto che Nietzsche pensa alle «condizioni per la produzione di una specie più forte» cioè l'omogeneizzazione economico-sociale della società europea incombente, come ad una necessità antropologica inevitabile, già realizzata. Ovvero: l'uomo europeo può permettersi il 'lusso' di mantenere il proprio status di «umanità», in questo tipo di sviluppo economico e tecnico che si è progressivamente inverato, solo al prezzo di un totale livellamento. Tanto sviluppo, tanta regolarizzazione. Tot progresso tecnologico, tot calco e misura. Non solo. 'Questo' sviluppo, 'questa' sottomissione. 'Questa' qualità di stile di vita, 'questa' catena di serialità. L'Oikonomia industriale di mercato necessita di una selezione di 'regolarità': la società stessa diventa questa comunità operosa di regolarità solo dopo un'attenta selezione e un successivo processo dinamico di formazione di soggettività 'industriali'. Ecco le condizioni di sviluppo dell'uomo 'darwiniano', la «specie del più forte». La 'conditio sine qua non' del «mantenimento» dell'uomo «occidentale» a questo stadio di sviluppo è la sua assimilazione alla modellizzazione mercantile. La critica alla biologia darwiniana è dunque fondativa per Nietzsche, e precede e indirizza le sue analisi di condanna riguardo il cristianesimo, il nazionalismo, il liberalismo e il socialismo, le quattro macro agenzie che
si contendono l'egemonia dell'omogeneizzazione dell'uomo europeo (ieri), e occidentale (oggi). Ecco perché Nietzsche era indifferente ai progetti di dominio di ogni ideologia che partissero da questi presupposti 'seriali'. A fare le spese di questa spinta al conformismo totalizzante, le porzioni di realtà non riconducibili alla sfera di mercato: qui l'esempio inarrivabile è quello dei padri pellegrini inglesi, fondatori della federazione USA. Pur essendo «democratici» - e rimanendo in quanto tali «Modello» insuperato di civiltà occidentale - è noto come essi fossero palesemente razzisti e schiavisti, e qualificassero come «sub-umani» gli indigeni nordamericani, i 'pellirosse'. Non diversamente da come francesi, spagnoli, portoghesi, pensassero la 'sotto-umanità' nelle altre terre del continente americano. Dal pensiero euro-centrico del 'subumano' all'inumano del genocidio dei popoli amerindi il passo, com'è noto, fu breve, accumunando nella carneficina i popoli del nord, centro e sud America. Nietzsche pensa altrimenti la differenza, cioè in termini anti-darwinisti, vuole una nuova fase di sviluppo - una re-ingegnerizzazione direbbe Reza Negarestani - che per Nietzsche può arrivare solo alla fine dell'ultimo uomo, «l'uomo più brutto» - ma l'uomo al silicio di Nietzsche è già «oltre l'uomo», in un'altra dimensione 'macchinica' direbbe Guattari; forse più prossimo al cowboy d'interfaccia, Case (Neuromancer), di William Gibson. Oscuro tra gli oscuri. Concordo dunque con la vostra lettura: sì al pensiero amerindio di decolonizzazione e sì, il problema della soggettività rimane ancora 'alieno' nel MPA. La perdita d'identità necessaria per creare delle nuove possibilità di 151
vita e di «insistenza di pura vita» non rientra nei radar dell'accelerazionismo marxista. Più che una comunità di singolarità, mi pare che Srnicek e Williams mirino a una comunità ben regolarizzata, che si addice maggiormente a una società che contempli il progresso tecnologico controllato dal Bene e dal Comune. In ogni caso, bisognerebbe sottoporre a 'sovversione critica' tutte le culture dell'accelerazione, non solo quella marxista. La 'biforcazione alla radice' da voi richiamata può dunque essere lo «zaino leggero» di Lapo? Gli «irregolari» vestono leggero? Rivoluzione, Acéphale, moneta, accelerazione
PD Rivoluzione, Acéphale, moneta e accelerazionismo. I primi due temi quanto mai inattuali in Occidente - mentre le rivoluzioni del XXI secolo (dunque su assunti del tutto 'oltremarxisti') stanno divampando da anni in Medio Oriente e nel mondo musulmano. Sul concetto di «rivoluzione acefala» rimandiamo ad un nostro post di cui è parte importante il testo di Lapo Berti 'Fantasie accelerate'. La rivoluzione acefala è il cuore del nostro intervento sull'asse Nietzsche, Klossowski, Deleuze, Foucault, Guattari. Sull'acefalia che ci accompagna come 'pulsione dominante' in questo lasso temporale fotonico sospeso tra gregarietà e rivoluzione, segnalo due interventi - dissimili ma convergenti - sul tema. Il primo è una fiction story del sedicente K.D. (in cui è coinvolta la coppia d'artisti di base a Stoccolma, Goldin + Senneby) con il suo fanta-thriller Headless (Triple Canopy, USA) in cui si mischiano con grande sa-
gacia arte, filosofia, turbofinanza dei paradisi offshore, «xenospazi», Bataille e misteriose pratiche esoteriche di decapitazione, mentre l'introduzione di «Headless» a cura di Alexander Provan la trovate qui. La dimensione spaziale e sovrana della moneta - nel progetto artistico di Goldin + Senneby LA moneta per eccellenza è il dollaro USA in quanto copre il 90% dei volumi valutari offshore - è scissa tra versante 'domestico' e versante 'straniero' (xenomoney): la moneta domestica è 'sovrana', la straniera è 'speculativa', aperta alle forze che si scatenano all'esterno dello spazio politico nazionale: forze politiche, economiche, belliche, criminali, segrete. La moneta sovrana è protetta, regolamentata; la xenomoneta è borderline, o meglio 'oltre confine', puro flusso. Essa fluttua nello spazio globalizzato, prima 'sotterraneo' - per tutto il secondo Novecento - ora cyber. La decapitazione terminale della moneta avviene con il taglio effettuato da Nixon il 15 agosto 1971, quando l'ultimo scampolo di sovranità e di materialità, l'oro, che frena la speculazione e la fluttuazione della xenomoneta, viene abolito dalla sua convertibilità con il dollaro Usa. Si può valutare il percorso interessante della moneta 'decapitata' e delle rotte irregolari e silenziose che gli xenocapitali subiscono, ascoltando l'intervento del geografo inglese Angus Cameron a Toronto, nel Dicembre 2008. La seconda segnalazione riguarda Paolo Ruffino - esperto di «gamification» e teorico di New Media @ Goldsmiths di Londra - e il suo intervento «Acephalous Algorithms» tenuto in occasione del simposio «Algorithmic Regimes and Generative Strategies» (Vienna, settembre 2015) e il cui
sottotitolo - «Regulatory politics of code and machines» - mostra la contiguità con i temi di questo forum. Una delle domande potrebbe essere: Quanta influenza ha avuto sul concetto di «rivoluzione acefala» nell' 'Anti-Edipo' di Deleuze e Guattari - nella sua formazione, intendiamo - la scelta del 15 agosto 1971 di Nixon/Connally/ Volcker di cancellare il «gold standard», cioè la convertibilità del dollaro Usa con l'oro? Quando si dovette scegliere tra la decapitazione della moneta nazionale e la decapitazione dell'oro, per cogliere la decapitazione della rivoluzione mondiale attraverso la libera fluttuazione delle monete? La smaterializzazione e l'astrazione della moneta iniziò qui, e fu la premessa shockante della futura 'algorithmic governmentality'. Qui il «codebreaking» affossò nientemeno che gli accordi di Bretton Woods del 1944; il valore politico ed economico di tale scelta significò il tramonto definitivo dell'epoca di 'prosperità industriale' seguita alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un'altra domanda potrebbe essere la seguente: premesso che nella prima rivoluzione della Contemporaneità, la rivoluzione francese del 1789, il momento più intenso è stato la decapitazione di Luigi XVI nel 1793 (e ciò significa che fino alla fine del XVIII secolo il potere era ancora visibile e si poteva incarnare nella fisionomia di un soggetto) e premesso che nella seconda rivoluzione della Contemporaneità, la rivoluzione russa del 1917, il momento simbolico è stato la presa del Palazzo d'Inverno a Pietrogrado con la conseguente decapitazione dell'impero zarista (e ciò significa che fino al primo Novecento il potere era ancora occupabile 152
e localizzabile nelle forme architettoniche di un’istituzione) possiamo allora affermare che la terza e ultima rivoluzione occidentale, il 1968 euro-americano, ha avuto il suo momento cruciale nell'agosto del 1971 con la decapitazione del 'gold standard', quando il potere effettivo, già invisibile e illocalizzabile, ha annegato sia il capitalismo industriale che la rivoluzione mondiale socialista, allagando il mondo con i flussi di moneta disancorata e i capitali finanziari senza frontiera? Violenza, virtuale e forma - le tre co-appartenenze della politica del futuro: l'inverarsi della moneta acefala, non è anche l'inizio della decadenza e del sentore di morte dei Leviatani terrestri? Lapo Berti ci ha avvertito che le sperimentazioni sulla moneta avvengono nei momenti di crisi e caos permanente; ed è su questo punto che, oltre la 'potenza del Niente', il nichilismo richiamato da Vignola e Baranzoni, si affacciano i nuovi Nomoi del Virtuale, di cui forse il più algido è quello della moneta algoritmica, binaria e fluttuante, non più solo merce, non più solo equivalente generale, ma virtualità che riassume tutti i virtuali, condizione necessaria affinché tutto il Sistema funzioni a livello dei processi di nuova sovranizzazione delle 'potenze del Virtuale': le I.A., i data center che computano le masse smaterizzate dei Big Data, le Clouds che storano i nostri dati, le Dark polls che trattano nella segretezza milioni di transazioni, le piattaforme digitali, i network sociali e infine gli agenti mutogeni del funzionamento dell'architettura cyber - gli algoritmi/i programmi/i software. Se guardiamo alle istituzioni in essere dal punto di vista privilegiato del 'Nomos del Virtuale' esse possono es-
sere definite come 'xeno-istituzioni', l'economia come xeno-economia, la moneta come xeno-moneta in un tremendo rovesciamento di sovranità ed estraneità. Qui è possibile vedere una presentazione dello psico-geografo Angus Cameron dal titolo Where Has All the Xenomoney Gone? Chi è ora l'estraneo? Chi scriverà la genealogia di questo nuovo Nomos del Virtuale e della violenza della sua affermazione? Chi saranno i nuovi cantori - gli alfieri di una neonata etica giurisprudenziale - di queste entità post-statali, frutto di razionalità nuove, metamatiche, che ci accompagneranno per tutto il millennio? Quali norme per una cyber-nazione quale Facebook in cui coabitano oltre 1,6 miliardi di persone? Quali scopi e confini può assumere il Cervello Mondiale di Google? Quali istituzioni possono legiferare sulla governance algoritmica della moneta acefala e desovranizzata? L'ultima domanda per Lapo: è possibile valutare la moneta attraverso la guerra, quale strumento di guerra e dominio? Godin + Senneby vedono la decapitazione della sovranità della moneta, con l'intervento a Parigi di russi e cinesi negli anni '50 attraverso la creazione dell'euro-dollaro, come un attacco comunista al dollaro per colpire gli Stati Uniti; la virtualizzazione della moneta è sostanzialmente un atto di guerra e il suo passaggio da una funzione simbolica a una virtuale segna la cessione della sovranità dello Stato a un'entità sovranazionale 'polemica', in cui le banche internazionali, il cambio e la finanza offshore conquistano sempre più autonomia e potere; a mio avviso, se il processo è iniziato nel 1949-1950 con la vittoria di Mao in Cina, allora la guer-
ra di decapitazione del dollaro e dello Gold Standard, e dunque degli equilibri mondiali instaurati alla fine della Seconda Guerra mondiale, è terminata nell'agosto del 1971. Oppure ritieni che il 'Nixon Shock' sia solo una tappa di una guerra attraverso la moneta ben più lunga? LR Uno studio complementare alla xeno-economy e alla sovranità cyber e computazionale è proposto da Benjamin H. Bratton, un filosofo californiano del giro della rivista e.flux, che ha appena pubblicato per la MIT Press, nella prestigiosa collana di Software Studies di Manovich e Fuller, il libro ‘The Stack. On Software and Sovereignty’. In questa opera Bratton concettualizza lo «Stack», definito come una megastruttura casuale e multistratificata su scala mondiale governata dalla computazione algoritmica. Questo nuovo costrutto è del tutto coerente con la geografia verticale venutasi a creare attraverso la nuova cartografia cyber e l’industria e la cultura del software. Qui (link) la presentazione del libro e qui la presentazione del ‘Black Stack’ (con Metahaven) al Transmediale 2014. PD Oltre ogni limite. Questa potrebbe la caratteristica suprema del nostro secolo. Quando Qiao Liang e Wang Xiangsui, due strateghi militari cinesi, teorizzarono per il XXI secolo un paradossale ribaltamento delle forme di guerra, vennero giudicati provocatori. Ma la loro affermazione che le guerre dell'avvenire sarebbero state combattute non tanto da militari quanto da civili, ha avuto ora una tragica conferma non solo dalle gesta temibili dei giovani beurs dell'Isis 153
ma anche dalle innumerevoli formazioni irregolari di civili che combattono nel Donbass, in Siria, nel Califfato e in altre situazioni belliche in giro per il mondo. Quindi non solo la finanza e l'alta tecnologia hanno superato i limiti ma pure la guerra ha rotto tutte le consuetudini precedenti. 'Il terrorismo usa metodi limitati per condurre una guerra illimitata' - sempre Liang e Xiangsui. E seguendo questo registro ha certamente ragione Fabio Mini quando afferma che le leggi esistenti non riescono a legalizzare gli eccessi e per questo motivo vengono invocate leggi nuove, o si recuperano leggi arcaiche, come impongono Al Qaeda e l'Isis. Questo per dire che ha ragione da vendere Bratton quando invoca un superamento di Carl Schmitt e del suo Nomos della terra. Il XXI secolo sarà il secolo delle organizzazioni non statali, spesso con strutture a network, a volte dalle tipiche dinamiche caotiche rizomatiche. Sono tratti evidenti in economia, politica, tecnologia, scienza e per finire nella guerra. Il tempo e la cultura di Schmitt - va detto senza livore, senza nostalgia ma con altrettanta fermezza - sono finiti per sempre. Bisognerà attendere altre ere, altri evi e condizioni economiche-politiche ad oggi nemmeno pensabili per riagguantare lo 'jus publicum Europaeum'. Oggi un certo pensiero italiano, penso a Cacciari, Agamben, e Tronti - quindi una filosofia di alto livello, che ammiriamo - è diventato inguaribilmente catecontico. Un certo orizzonte della modernità è definitivamente spirato. Bisogna pensare il nuovo. Oggi ci schieriamo con Bratton, e con Stiegler, con quelle domande fastidiose e insistenti: come pensare Google? Come pensare Facebook? Queste organizzazi-
oni post-statali sono organizzazioni bambine - dei fanciulli mostruosi, dei titani - a quale nomos appartengono? Il Virtuale è il sesto continente o un nuovo pianeta, una second life a tutti gli effetti? Anche qui, lo stesso dilemma di prima: come legalizzare gli eccessi in atto? È giusto che la nostra posizione possa essere - solo - quella di un giurista illuminato, seppur con le sembianze nobili di un Rodotà? Non abbiamo nulla da opporre a Facebook e Google se non 'nuove regole', nuove tasse territoriali, una critica ideologizzata - e dunque irrilevante ai nostri fini - sulla rocciosa linea dell'estrazione di valore, il plusvalore di Rete? Perfino Goldin + Senneby mimano parodiandola la gesture manageriale: l'atto artistico è pianificato in meeting professionali, dove si ingaggiano altri professionisti che svolgono un ruolo preordinato grazie a un compenso pattuito con regolare contratto. Sia il meeting che la contrattazione fanno parte a tutti gli effetti dell'opera artistica: agli individui che prestano la propria professionalità a scopi artistici viene riconosciuto l'onore di diventare parte integrante del plot narrativo, con un certo grado d'autonomia espressiva. A queste nuove forme d'arte non vanno opposte richieste di impegno sociale o ideologico secondo gli schemi del Novecento: non c'è bisogno di scattare 'fotografie' nitide. C'è l'assoluta necessità, invece, di cogliere il senso dei processi in atto, il tempo dei movimenti, lo scopo delle forze sullo scacchiere di questo nuovo millennio. Senza teste incoronate, senza territori sotto i corpi. Headless, Stateless.
Oikonomia bellica e accelerazione
LR Partendo dal presupposto che l'economia mantiene un primato importante nel condizionare le scelte di vita del singolo e della collettività, ti voglio chiedere se è possibile cogliere dalla gestione della guerra, e in particolare della guerra al terrorismo, quella particolare forma di 'oikonomia bellica' che viene utilizzata in modo inquietante dalle democrazie occidentali, e che sta contribuendo ad uno svuotamento di senso della democrazia, più volte da te denunciato. In particolare mi riferisco a quella forma di 'dominio rapido' che è una delle caratteristiche 'accelerazioniste' del nostro tempo: la forma di terrorismo, o di guerra asimmetrica così come l'hanno messa in atto le forze islamiche radicali. È la risposta asiatica ai 'valori occidentali' del Shock and Awe. A fronte della minaccia incombente e sempre più presente nella quotidianità dell'Occidente, la risposta degli Stati Uniti e della Francia ai tragici fatti del 11/9 e del 13/11, è stata una legislazione interna che ha come obiettivo non solo la lotta al terrorismo ma il controllo e il contenimento di ogni area di dissenso radicale allo status quo con la semplice evocazione della 'sicurezza' indispensabile per tutti. In una battuta, come detto da Agamben: dallo Stato di diritto allo Stato di sicurezza. LB Ritengo che, a tutt’oggi, la dimensione economica dell’agire umano sia quella in cui si sono installati i più potenti meccanismi di governo e di disciplinamento dei comportamenti individuali e collettivi. L’analisi che serve a supporto di questa affermazione è lunga e complessa, ma la possiamo fare e, forse, vale la 154
pena di provarci, una volta di più, per tener conto delle novità che affollano l’universo economico. E’ chiaro che la guerra, il terrorismo, offrono uno strumento di disciplinamento ulteriore, ma non credo siano ricercati a questo fine. L’economia basta e avanza. Del resto, la guerra non è mai stata un’occasione di promozione della democrazia, se non per il riconoscimento del ruolo delle masse (come carne da macello). A svuotare la democrazia è stata l’economia capitalistica. La guerra ha trovato un vuoto già preparato e lo sta riempiendo. Ma anche sulla guerra il discorso è più lungo. Nei prossimi giorni pubblicherò qualche mia riflessione sul tema. PD Ai nostri fini 'accelerazionisti', o 'dromologisti', si potrebbe iniziare a riflettere su come si stanno componendo, ridelineando e compenetrando sia l'economia sia la guerra nel XXI secolo. Mi pare evidente che la guerra del XX secolo si sia trasformata velocemente incorporando ampi settori dell'economia. Non mi riferisco al tipico complesso militare-industriale-economico dei singoli schieramenti, sicuramente in essere ai giorni nostri, oppure al fatto che l'economia viene utilizzata come un'arma - dalle sanzioni ai paesi 'canaglia' alle guerre di valute, dei cambi, delle materie prime - ma alla formazione di una nuova 'oikonomia' bellica - se ho inteso bene il senso che Letizia attribuisce al termine. Oikonomia nel senso di amministrazione oculata e risparmio, dunque. Ecco perché la forma di 'dominio rapido' diventa LA forma più utilizzata di guerra - non l'unica forma, ma la struttura bellica che più si confà ai nostri tempi di bilanci ristretti e accumulazioni di debito nazionale esorbitanti. Da questo punto di vista, esiste
una via occidentale e una via orientale al 'dominio rapido', in cui s'intrecciano velocità, potenza e risparmio. Le forme di 'dominio rapido' e i loro effetti sono destinate a riconfigurare sia le politiche post-democratiche occidentali, sia i processi di soggettivazione, sia le singole componenti economiche. Qualche esempio. Per la politica: il Patriot Act di Bush, o la proposta di modifica costituzionale del governo Hollande che, guarda caso, nel nome della sicurezza limitano la libertà di tutti (la stessa legge di Bush è stata accettata da Obama che ne ha chiesto la proroga per altri 4 anni, fino al termine del suo mandato). Senza poi preoccuparsi, tale politica securitaria, di portare a risultati positivi nè parziali, nè risolutivi. Infatti la forza che sceglie la strategia asiatica accelerata del 'colpisci e terrorizza', riesce ad attuarla, purtroppo, con apparente semplicità ed efficacia tramite la strage di innocenti nelle capitali occidentali. Per questo motivo si trova in una win/win situation: il 'modo asiatico' priva i cittadini della libertà, della sicurezza, del proprio stile di vita. Uno dei suoi effetti, infatti, limita un diritto fondamentale, ampiamente utilizzato in tempi di neoliberalismo globalizzato: la libertà di movimento delle persone. Qualsiasi risposta data dai governi occidentali in risposta al terrorismo è negativa per il cittadino e per la democrazia: leggi speciali, asfissia di controlli, maggiori quantità di dati stoccate, profilazioni identitarie, razzismo, omologazione, delazione. Ogni elezione successiva ai grandi eventi di 'dominio rapido' vede avvantaggiarsi proprio le forze che il dominio rapido invoca mentre costringe le forze cosiddette progressiste a varare o confermare leggi da stato
di eccezione: Germania, Usa e Francia hanno mostrato, in tempi diversi e in condizioni diverse, le stesse debolezze e le stesse strategie. Il risultato è la guerra asimmetrica permanente, policentrica e intensiva; il nemico è interno, in mezzo a noi, ci frequenta, si mimetizza; la democrazia è decostruita colpo dopo colpo dalla strategia del dominio rapido intensificato che influisce ad ogni tornata elettorale quale variabile indipendente. Ai bombardamenti di Baghdad, Gaza o Aleppo, corrispondono stragi a Londra, Parigi, New York, organizzate da cellule rizomatiche di organizzazioni semiotizzate e globalizzate. Non vi pare, cari Lapo, Letizia, Sara e Paolo, che uno dei grandi 'silenzi' del MPA sia proprio quella forma di tecnologia e tempo presente che si chiama 'guerra'? LR Grazie per la risposta chiara e articolata. Purtroppo temo anche io che nell’emergenza di attacchi che arrivano nel cuore delle nostre città, il primo riflesso è di affidarci al potere e alla sua promessa di sicurezza. Economia rizomatica (altrimenti detta «universale»)
PD Vorrei che su questo punto considerassi le analogie e le ricadute positive tra la tua analisi «Sulla fallacia costruzionista» e ciò che stiamo costruendo e analizzando nell’ambito dei mercati a partire dalla bioeconomia che si può ricavare dall’asse Nietzsche, Klossowski, Deleuze, Foucault, a partire dai testi del «Nachlass» e passando per «L’Anti-Edipo» e altre opere come «La moneta vivente» e «Microfisica del potere»: chi155
amerò questo coacervo di opere e autori con il termine Rizosfera. Qual’è la posizione e la proposta economica della Rizosfera che prima abbiamo denominato come bioeconomia? Per prima cosa, specifichiamo che la bioeconomia di derivazione nietzscheana non ha nulla a che vedere con la bioeconomia di Georgescu-Roegen. Dai frammenti postumi come I forti dell’avvenire e analoghi della stagione 1887-1888, magistralmente analizzati da Klossowski e poi ripresi da Deleuze e Guattari nel celebre passaggio accelerazionista dell’Anti-Edipo, si evince che l’economia della comunità di singolarità, ovvero la pletora di comunità inoperose, non cerca di rovesciare l’economia di mercato bensì gli affida il compito di sovrintendere la gregarizzazione dell’uomo contemporaneo. Questa bioeconomia portata avanti da comunità non riconducibili ai valori mercantili e dunque allo ‘scambiabile’, dovrà sfidare l’economia capitalista piuttosto che rovesciarla e resettarne gli assetti proprietari. La bioeconomia funziona come valorizzazione del surplus, inteso anche come surplus biologico in quanto Nietzsche identifica i forti dell’avvenire come ‘uomini del surplus’. Tali uomini non-identitari, sono guidati dalla mancanza di un fine se non quello di biforcarsi accelerando le differenze rispetto alla macro-comunità mercantile della quale non condividono alcun aspetto. Questa economia comunitaria di irregolari elabora una forte volontà di sperimentazione perché non seleziona alcun modello riconoscibile: diciamo che assume una posizione euristica rispetto al modellizzabile. Allo stesso tempo, tale economia rizosferica è pronta ad abortire e distruggere qualsiasi progetto
proprio che sia assimilabile o incapsulabile dall’economia di mercato. Tale bioeconomia sfida l’economia generale di sistema lavorando sugli stessi principi quali scelta, forza, spreco, lusso, valore, surplus, dono, ricchezza, povertà, bisogno, pathos, reciprocità, ma la sua forza è la mimesis, qualità silenziosa e sovvertitrice nel ‘revocare’ tutte le credenze del potere economico. Sulla tecnologia
PD Sulla tecnologia: posto che il merito maggiore del MPA è nel suo atteggiamento positivo verso l'innovazione e la tecnologia, e nel potenziale liberatorio che intravede nella 'latenza' pre e post-capitalista della loro progressione interna, ti chiedo qual'è il tuo pensiero in merito a tecnologia e capitale. Ritieni che lo sviluppo tecnologico sia legato in modo inequivocabile all'accelerazione e alle dinamiche del capitale, cioè all'equazione d'immanenza tra modi di produzione e innovazione tecnica, o invece ritieni che la tecnologia, e a seguire la scienza, mantengano una loro autonomia, anche se parziale o alienabile, rispetto al capitale e ai suoi modi di produzione? LB A costo di apparire poco generoso nei confronti del general intellect, ritengo che, nelle condizioni del capitalismo attuale, vi sia pochissimo spazio per una ricerca scientifica autonoma e indipendente e, tanto meno, per un’applicazione dei suoi risultati per innovazioni tecnologiche che prefigurino un’alternativa alla prospettiva capitalistica. Non escludo che vi siano e vi possano essere sperimentazioni di nicchia, ma dubito fortemente che
vi sia attualmente la possibilità concreta di renderle maggioritarie in una prospettiva alternativa al capitalismo. Come sempre, ritengo che un’opposizione consapevole possa determinare degli scarti, delle deviazioni, in grado di spostare lo sviluppo del capitalismo, ma non, nel breve periodo, di determinarlo e tanto meno di sostituirlo. Pronto a ricredermi. Data Economy ed accelerazionismo dei consumi
LR Che dire dell’accelerazionismo dei consumi? Cioè la ‘data economy’? Non solo gli algoritmi della rete captano dai nostri messaggi e dalle nostre ricerche i nostri gusti, sogni, desideri, ma alcuni nuovissimi software specializzati nella lettura della traiettoria degli occhi, posti tra gli scaffali dei supermercati, sanno di noi cosa comperiamo, su cosa ci dilunghiamo a meditare (composizione, calorie, prezzi, packaging… tutte caratteristiche che individuano differenti profili di consumatori) e quindi saranno in grado di individuarci come “unità acquirente interessante”. Ma non si ferma qui, il software accelera ulteriormente creando una mappa di “colori” sullo scaffale, leggendone le osservazioni più prolungate. E’ pensabile quindi che il mio ‘shopping time’ possa essere accelerato grazie a linee di colore che al mio ingresso mi guidano verso quei prodotti in offerta di mio gusto, o novità in settori da me apprezzati, o altro, fornendomi così una ‘tailor-made-shopping-guideline’.
156
PD E che dire della 'Data-democracy'? Anche in questo settore si preannunciano rilevanti novità: dalla tessera elettronica a punti per ogni singolo elettore, caricabile o scaricabile secondo il proprio livello di partecipazione a competizioni elettorali, referendum, consultazioni online, alla premiazione finale con ricchi premi e riconoscimenti al 'cittadino democratico modello': una sorta di Super-Bowl elettorale. E' importante che la risposta della sinistra alla e-democracy non sia il solito postulato collettivizzante della 'socializzazione dei data-center' così come richiesto recentemente da Morozov: sembrerebbe l'attualizzazione, nemmeno tanto mascherata, della socializzazione delle banche operata da Lenin. Suggerirei, su questo punto, d'iniziare a riflettere sul nomos di queste nuove entità sovra-nazionali quali il clouding, i data-center, gli stacks, e le nuove piattaforme sociali che é riduttivo pensare solo in termini 'corporate' come Google, Twitter, Facebook. Su questo singolo aspetto è opportuna la lettura dei saggi di Benjamin Bratton, The Black Stack, e di Tiziana Terranova, Red Stack Attack. Le osservazioni di Lapo e il timore generato dalla profilatura massiva dei consumatori attraverso i Big Data sono del tutto legittimi: per evitare la deriva tecno-fobica, più che la solita ricetta di 'controllare i controllori' potrebbe essere importante iniziare una contro-informazione dal basso sugli aspetti pericolosi messi in luce da Lapo e Letizia, mentre un'opportuna legislazione di ecologia ambientale sulla profilatura segreta andrebbe elaborata e proposta a tutti i livelli.
LB In un mondo in cui ormai si vota con i piedi in tutti gli ambiti, compreso quello politico che un tempo era, quasi per definizione, il regno della “voce”, è ovvio che tutti, dalle imprese ai partiti, ai governanti cerchino di leggere in anticipo le preferenze dei cittadini/ consumatori/elettori. Negli anni scorsi, alimentato da qualche economista imprudente o, peggio, inconsapevole, ha preso forma il tentativo da parte dei governi di farsi carico della “ricerca della felicità” monitorando nella maniera più ravvicinata possibile le preferenze dei cittadini e le loro variazioni. Ancora su suggerimento di economisti, si è pensato di poter indirizzare ex ante le scelte dei cittadini nei più diversi campi tramite qualche “spintina”, ovvero attraverso la creazione di contesti suscettibili di influenzarli, naturalmente per il loro bene. La disponibilità di quantità incommensurabili di dati riguardanti pressoché tutti gli aspetti della nostra vita potrebbe rendere ridicoli, nel giro di pochissimo tempo, questi primi conati di governo dall'alto (soft), rendendo semplicemente superflua la democrazia. Non vedo risposte facili e immediate all’altezza di questi problemi. Per questo concordo con la conclusione di Paolo e auspico l’apertura di un dibattito vero su questi problemi, sorretto dalla conoscenza dei fatti e da analisi accurate. Lavoro e sinistra
PD Lavoro e sinistra. Lavoro e capitale. Lavoro e organizzazione. Lavoro e tecnologia. Lavoro e liberazione. Mario Tronti in una celebre intervista di qualche anno fa disse: «Finché non ci sarà una sinistra politica, non ci sarà nessuna possi-
bilità di liberazione del lavoro». Sono tra coloro che pensano che la sinistra debba battersi per creare la possibilità di liberare chiunque «dal» lavoro e «dall»’industria. Non è un semplice slittamento semantico (in questo mi riallaccio a quanto scrive Letizia nel suo intervento). Sono, forse, scopi diversi: di conseguenza i mezzi saranno differenti. Il modello alternativo di società - queste parole sono dettate dal più grande rispetto verso la nobiltà di questo progetto - prospettato nel rovesciamento dell’idea che l’impresa comanda e il lavoro ubbidisce, con la conseguente creazione di una larga soggettività politica, la classe operaia, e di una granitica forma di organizzazione politica, il partito, è stato superato dagli eventi della storia e dalla grande trasformazione sociale e tecnologica nella quale siamo ancora incapsulati. Qui vorrei chiarire il punto perché stiamo parlando sia di sinistra che di presente e futuro: se il presente ci mostra l’esaurimento di ambedue i rapporti di forza - a) il lavoro che comanda e l’impresa ubbidisce b) l’impresa comanda e il lavoro ubbidisce - non potremmo meditare insieme un ulteriore rovesciamento in cui si faccia saltare sia il lavoro che l’impresa? Cioè pensare insieme il superamento - non la distruzione - del lavoro e dell’industria? Questo compito appare immane. Soffermiamoci allora a ciò che già c’è, in nuce, ancora non ben noto e accreditato: sto pensando, ad esempio, al mondo delle app e degli sviluppatori indipendenti. Oppure ai mondi del free-copyright, del free-software o della monetica alternativa come le nuove digivalute à la Bitcoin. Se si lavora sul concetto e la pratica del «digicash» o sulla moneta libera digitale, 157
ottieni come effetto collaterale il far saltare Fed e Bce. Qui c’è un potenziale rivoluzionario, sovvertitore sia del concetto di lavoro così come l’abbiamo finora concepito, sia della fabbrica come luogo fisico, produttivo, reattivo che delle istituzioni esistenti. Pensare il lavoro e la fabbrica non come impolitici ma nemmeno come immediatamente politici; né prossimi, né lontani, ma dentro alla trasformazione delle forme dei lavori e dei luoghi di produzione. In realtà, si dovrebbe essere dentro, e non contro, alla «conoscenza» tout court. Liberiamoci, per ora, sia del «taylorismo del proletario» che del «taylorismo del capitale». Sono zavorre. C’è di mezzo un cambiamento epocale: su questo punto sono d’accordo sulla tua lettura globale dell’«Excursus sul lavoro» e, in particolare, dell’avvicinarsi rapido del drastico abbattimento tra tempo - vita e tempo - lavoro. Ultima annotazione sulla rivoluzione: se si abbandona il modello leninista, del partito classista, si può mettere allora in discussione anche il modello di rivoluzione come «evento», come accumulazione di strategia ed energia che permette un «balzo in avanti» e apre uno squarcio di nuove possibilità e di nuovi spazi politici. Qui non si tratterebbe di abbandonare il concetto di rivoluzione, ma di pensarlo in termini «processuali». La rivoluzione, a cui tendevano i «professionisti rivoluzionari», andrebbe rielaborata come costruzione di percorsi alternativi, non solo conflittuali, dentro alle contingenze che emergono là dove la società stride, antagonizza: sulle innovazioni tecnologiche, sulle sperequazioni economiche ancora ben distribuite spazialmente, sulle discriminazioni di razza e di genere, sui collassi
ecologici e via elencando. Questo potrebbe essere il nuovo modo di «stare dentro» al conflitto, cioè avere un approccio immersivo, sperimentale, dentro al «processo» tecnologico, politico, economico, rivoluzionario. Qui si potrebbe articolare quell’ecologia delle istituzioni che non dovrebbe difendere l’esistente; si dovrebbe iniziare a pensare alla «mortalità» delle istituzioni più che al loro procrastinarsi all’infinito o al loro blando riformismo; qui potrebbe iniziare la costruzione di nuovi ambienti istituzionali per le relazioni tra uomini, uomini e macchine, uomini e cosmo, in sostituzione a quelli già esistenti. Più Basaglia, meno Faust: questo è il presente in cui vorrei nuotare e il futuro in cui partecipare. Prometeismo e ipotesi comunista
PD Sono d’accordo su come è costruita l’analisi: è vero che il Manifesto di Srnicek e Williams è molto sintetico, se non ‘povero’, nel trattare economia, finanza e moneta, così com’è altrettanto vero che l’intero libro «Gli algoritmi del capitale» è ricco di analisi più approfondite e puntuali, con punte di assoluta eccellenza nei saggi di Pasquinelli, Terranova, Bunz, Harney, Dyer-Whiteford: tutta la parte centrale del libro dal titolo «Astrazione algoritmica» è di assoluto valore. Qui però analizzo il testo di Lapo che risponde direttamente al Manifesto di Srnicek e Williams, per cui gioco forza devo riferirmi solo a quel singolo testo. C’è troppo Prometeo nel «Manifesto per una politica accelerazionista»; c’è ancora troppa fede nel grande progetto idealizzato che tutto vede, analizza e cura; c’è ancora troppo posi-
tivismo e troppa ratio che deriva dalle assiomatiche marxiste di redenzione sociale figlie di quell’idea di progresso, moneta comune nel XlX secolo. Che il «Manifesto» appartenga a quell’area neo-marxista che ha ripreso vigore dopo lo schianto finanziario del 2008 è altrettanto evidente, anche se possiamo valutare la rinascita di questo pensiero come immanente alla crisi e dunque ampiamente prevedibile, gestibile e neutralizzabile dagli amministratori più o meno palesi della crisi finanziaria. La prova del nove di questa inspendibilità del rifiorire neo-marxista e di ogni pianificazione economica è confermata dall’effetto di grande desertificazione di qualsiasi «ipotesi comunista» nell’arena politica occidentale, includendo in questa analisi anche il successo di Syriza. Come abbiamo visto, nonostante la sua vittoria elettorale, la coalizione greca di sinistra radicale si è velocemente riposizionata su livelli più concilianti verso le cancellerie neoliberali europee: invece di dar fuoco alle polveri, Tsipras ha rinegoziato il debito. LR A questo proposito anche Internazionale a Novembre scriveva: "Questi continui voltafaccia non portano da nessuna parte, se non a svilire la politica e i politici. È giunto il momento che Syriza e i suoi vertici decidano da che parte stare: o governano in maniera responsabile, oppure rimarranno un partito di protesta." Il PIL del paese è sceso del 30% in poco tempo e la disoccupazione è salita fino al 25%. Le immagini della Grecia abbandonata sono desolanti ma più interessanti sono quelle degli street artist nei giorni in cui il governo Tsipras - dopo la vittoria del ‘no’ al referendum di luglio. 158
La domanda per Lapo, e in generale a tutti, è: in che modo il capitalismo sarà in grado di recuperare, reinventarsi, ripartire dopo essere stato dichiarato "perdente" anche sui muri delle città? Può l'arte di strada essere una via di critica al capitalismo? Anche riferendomi all'intervento poco fa di Paolo D, potrebbe essere questa la via alternativa e autonoma di espressione che non sia il pamphlet politico o il saggio accademico? D'altra parte qualche segnale c'è già: lo scorso Ottobre all’ottava edizione di Robot Festival – la manifestazione dedicata alla musica elettronica e alle arti digitali – il tema centrale è stato proprio l'accelerazionismo applicato al campo artistico-musicale. http://www.robotfestival.it/2015/ index.html Segnalazioni
PD Antropocene e Grande Accelerazione. Segnalo su questi due temi un eccellente articolo di Giannuzzi Mariaenrica sul blog Effimera, di recente pubblicazione, in sintonia con le analisi di Vignola, Baranzoni e Berti. MG Grazie per l'invito a questa sessione, cercherò di trovare il filo della discussione che c'è stata finora e che a una prima occhiata mi sembra straordinariamente viva. PD Operaismo, post-operaismo e la filosofia di Mario Tronti. Segnalo su questi tre temi contigui al nostro forum, e in sintonia con lo scritto di Lapo Berti, un eccellente articolo di Damiano Palano, pubblicato di recente su Tysm e poi successivamente su Academia.edu.
Per terminare le segnalazioni, vi invito a leggere l'ultimo saggio di Franco Berardi - filosofo e militante politico più volte evocato in questo forum - pubblicato alcuni giorni orsono da e-flux, dove con la consueta lucidità e disperazione denuncia gli orrori della 'necro-economy' e della guerra civile mondiale: http://www.e-flux. com/journal/the-coming-globalcivil-war-is-there-any-way-out / Qui trovate l'articolo in lingua italiana: http://www.altranews.it/mondo/ item/276-necro-economia Sinistra e naufragio
LB Approfitto dell'ultimo giorno dell'anno per ringraziare tutti coloro che hanno accettato di discutere, seppure in forma ancora embrionale. E ne approfitto anche per fare gli auguri a tutti. Stiamo tentando di avviare un dialogo, di scambiare vedute, di condividere analisi e riflessioni allo scopo di verificare se esista uno spazio ideale in cui possano ritrovarsi i naufraghi di quel mondo che un tempo si definiva, genericamente, sotto l'etichetta "sinistra". Oggi quel termine è del tutto privo di senso, uno sgangherato contenitore in cui ciascuno getta quello che gli rimane, per lo più ricordi venati di malinconia, di un passato che da tempo ha esaurito le proprie capacità vitali. Non c'è nulla di male a coltivare i ricordi e a raccoglierli in album o a racchiuderli in piccoli santuari. A patto di non pretendere che questa sia politica. È stupefacente notare che oggi ci si riempie la bocca di un termine vuoto come sinistra, semplicemente perché non si ha il coraggio di usare i termini che, un tempo, davano un senso
al termine "sinistra": socialismo, comunismo, socialdemocrazia, anarchia. Sorge il sospetto che ciò avvenga perché non si è ancora trovato il coraggio e l'onesta intellettuale necessari per uccidere il padre, per fare i conti con un mondo che non c'è più. Non parliamo, ovviamente, dell'energia e del coraggio intellettuale che servirebbero per inventare una tradizione che ci consenta di leggere il presente. Eppure, basterebbe soffermarsi un momento a riflettere per rendersi conto che l'appellarsi alla "sinistra" è una cosa che ha un valore puramente nominalistico. Nessuno di coloro che lo fa, si sente in dovere di dire che cosa c'è nel suo scatolone etichettato "sinistra". E quando anche lo fa, la situazione è ancora più penosa, perché ci troviamo di fronte a "modi di dire" (coesione sociale, cooperazione, giustizia sociale, diritti, anticapitalismo, e simili), che non hanno valore di per sé e che, al di fuori di qualsiasi contesto politico e di qualsiasi visione della società e del suo modo di operare, sono delle pure citazioni. Mai potranno esprimere una capacità di mobilitazione politica. Come, infatti, avviene. Occorre, dunque, un lavoro umile, faticoso, di lunga lena, di ricostruzione di un senso possibile entro una visione condivisa che poggi su di una rappresentazione realistica del mondo in cui ci troviamo a vivere. Il richiamo alle fonti, ai padri fondatori, ai libri sacri, può avere un senso quando si tratta di fondare e alimentare una religione. Non, certo, quando si pretende di cambiare il mondo. A meno che non si voglia rimanere sul terreno religioso, ognuno a onorare i propri lari. Se così non è, non resta che andare in cerca degli attrezzi giusti per lavorare la realtà e renderla maneg159
gevole. Possiamo prenderli ovunque, senza pregiudizi e senza prevenzione. I piatti migliori nascono dalla varietà degli ingredienti, non importa se poveri e trascurati o ricchi e sofisticati. Non sono molto interessato alle disquisizioni nominalistiche né, tanto meno, alle dispute sui puri e i traditori, sui compagni (di che?), sui fedeli e gli infedeli. Credo che ciò di cui veramente si sente il bisogno è di una ricerca seria, che si avvalga di tutti gli strumenti di analisi che ci offrono le diverse discipline per diagnosticare i "mali" del nostro tempo e per formulare rimedi che recuperino il senso originario della nostra, laica, ricerca della felicità. Un'impresa in cui dobbiamo recuperare e impegnare la nostra libertà e indipendenza di individui socialmente maturi per non farci dettare da nessuno che cosa dobbiamo vedere e che cosa dobbiamo fare. Siamo sempre noi, sempre gli stessi: veniamo da lontano, ma abbiamo un bagaglio leggero e la mente agile, e abbiamo un mondo da conquistare. Di nuovo auguri e speriamo che il 2015 si porti via un altro bel po' di scorie che ingombrano il nostro cammino e il 2016 sia finalmente un anno di discussione libera, aperta, e sorridente. LR & PD A tutti: Contraccambiamo gli auguri di cuore: apriamo il cantiere della post-sinistra 2016 con un sorriso! Alleghiamo due video a titolo di 'cartolina' leggera e intelligente per il 2016. Si tratta di due sperimentatori italiani attivi a Shanghai, Cina: si occupano di futuro, oggetti, economia, tecnologia e, in ultima analisi, di curiosità come forma di vita [1, 2].
obsolete capitalism
x
Dromologia, bolidismo, accelerazionismo marxista. Frammenti di comunismo tra al-Khwarizmi e Mach.
‘È circa un quarto d’ora che l’FBI non mi affida una missione! Che gli è successo a 'sto mondo di merda? Sono in ansia!!’ ‘E non sei contento? Siamo sposati da appena venti minuti!’ —Stefano Tamburini, Snake Agent Esistono dati reali che confermano che la sopravvivenza della Terra è compromessa dagli abusi della razza umana. La proliferazione dei dispositivi nucleari, i comportamenti sessuali smodati, l'inquinamento della terra, dell'acqua, dell'aria, il degrado dell'ambiente. In questo contesto non le sembra che gli allarmisti abbiano una saggia visione della vita? E il motto dell'homo sapiens "andiamo a fare shopping" sia il grido del vero malato mentale? —Terry Gilliam, Twelve monkeys La filosofia non va veloce —Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia
Acceleriamo! Matteo Pasquinelli è un giovane filosofo cosmopolita che sta costruendo un proprio itinerario teoretico-speculativo del tutto eccellente e originale, tra 161
Berlino, Londra e Amsterdam. È una delle figure di punta del movimento filosofico internazionale «accelerazionista» nonché una delle menti più avanzate dell’area intellettual-politica che viene definita post-operaista. Ha curato, per le edizioni Ombre Corte, un’importante antologia di testi, Gli algoritmi del capitale, che compone in modo articolato lo «stato dell’arte» non solo del pensiero «accelerazionista» - di cui riporta il celebre Manifesto per una politica accelerazionista del 2013 di Nick Srnicek e Alex Williams - ma anche della ricerca sul tema «algoritmi e capitale», spostando più in là la nota freccia nietzscheana dell'indagine filosofica. È da tempo che la teoria critica s’interroga sul rapporto esistente tra l’attuale modo di produzione e la componente «macchina soffice» - l’algoritmo - che permette alla governance neo-liberista di attuare l’imponente sforzo di dominio che si estende su tutto lo Stato-Mondo, visto che, come afferma Wittgenstein, “Die Welt ist alles, was der Fall ist”, «il Mondo è tutto ciò che accade». Per avere un quadro più completo dell’agonismo filosofico in corso, questa antologia di testi andrebbe
letta con la coeva raccolta di Robin Mackay e Armen Avanessian, #Accelerate# (Urbanomic Media, 2014), con cui condivide alcuni saggi, e con il libro di Benjamin Noys Malign Velocities: Accelerationism and Capital (Zero Books, 2014). Quest'ultima opera si costituisce come una critica costruttiva molto serrata, sempre da sinistra, al movimento accelerazionista, da colui che in fondo ne ha coniato il nome, nell’anno 2010, riprendendolo da un racconto fantascientifico di Roger Zelazny, Lord of Light (1967). L’antologia di testi si divide in tre differenti sezioni: la prima, più politica, è dedicata al tema Accelerazione e crisi, la seconda, più teoretica, all’astrazione algoritmica, mentre la terza e ultima - la più debole, come vedremo, ma che acquista un suo senso «posizionale» nel panorama italiano - indaga l’autonomia del Comune, e inserisce le presenti tematiche nel dibattito interno al pensiero post-operaista di matrice italiana. Ultima nota introduttiva: Pasquinelli e Avanessian hanno curato l’evento del 14 dicembre 2013, a Berlino, intitolato: Accelerationism. A Symposium of Tendencies in Capitalism.
dromol o gy a rc h i v e i
Bolidismo e dromologie verticali
Andy Green, inglese, è il pilota di automobili che corre più veloce del suono. Nel 1997 Green ha realizzato nel deserto del Nevada il record mondiale di velocità, i 1.228 chilometri orari - Mach 1,016 - con l’automobile supersonica ThrustSSC, diventando in questo modo il primo uomo che ha superato il ‘muro del suono’ a livello del suolo. Nell’estate del 2015, in Sud Africa, Green tenterà di superare il limite dei 1.600 km/h, al volante di una nuova vettura supersonica, la BloodhoundSSC. Ha dichiarato: ‘A parte il calore, il rumore, la gravità e lo sbandamento dell’automobile nel deserto, dovrebbe essere facile’. Una dichiarazione e un personaggio che avrebbe fatto la felicità di J.G. Ballard, anche lui proveniente dalla RAF come Green. È giusto ricordare che il primo record di velocità, ufficialmente registrato, di un’automobile risale al 1898. Il pilota fu il francese Chasseloup-Laubat e l’autovettura - elettrica! - raggiunse i 63,14 km/h. Ma già un anno dopo, 1899, la mitica autovettura-missile ‘La jamais contente’, infranse la barriera dei 100 km/h: Il belga Jenatzy la lanciò ai 105,88 km/h. Oggi, quella velocità primordiale di 63 km/h è raggiunta dagli ascensori della Torre di Shangai, 632 metri d’altezza, il secondo edificio più alto al mondo - l’inaugurazione è prevista entro dicembre 2015 -. Dal livello B2 al 119 piano in 55 secondi, gli ‘ultra high-speed elevators’ raggiungeranno i 64,8 km/h.
162
Futuri futuribili: Inadeguatezza del senso politico comune dei movimenti di sinistra
Pasquinelli e gli estensori del Manifesto per una politica accelerazionista, Alex Williams e Nick Srnicek, hanno un primario obiettivo politico, salutare per tutti. Riappropriarsi del futuro, o per meglio precisare, dell’elaborazione di una nuova idea del futuro che non combaci né con l’idea del futuro perpetrata dall’attuale situazione politica - l’austerity in primis, con il correlato mantra della crisi permanente dell’ordine politico, sociale ed economico delle società occidentali né con le predominanti visioni alternative proposte dalle forze di sinistra, siano esse moderate o radicali. Infatti, tra i tanti futuri futuribili, un discorso a parte merita il futuro della sinistra. Buona parte delle visioni di chi critica da sinistra l’attuale involuto ordine politico mantiene nel proprio DNA politico due «elementi caratterizzanti» che l’accelerazionismo attacca con vis polemica: la tecnofobia e la folk politics. Per folk politics Williams e Srnicek intendono, in particolare, “il senso politico comune dei movimenti di sinistra, così come si è costruito storicamente e collettivamente” (Srnicek, Folk Politics and the Future of the Left, 2014), ovvero le lotte «residuali» del localismo fondato su quell’anti-capitalismo orizzontale che parte dalle «decrescite felici» - una posizione intellettuale che in Occidente è ben espressa da Serge Latouche e Mauro Bonaiuti - per arrivare ai movimenti eco-anarco-antimodernisti alla No-Tav, passando per il sindacalismo vetusto, marxista e non, che rasenta il neo-corporativismo o che opera su cartografie eminentemente
localistiche. La critica accelerazionista non è basata su una contrapposizione frontale, o su un atteggiamento di rigetto, di queste forze, ma sull’idea del tutto fondata che, per ricostituire una nuova prospettiva socialista vincente, sia necessario cambiare drasticamente strategia. È la forma di resistenza e di lotta che va cambiata. È necessario sfidare lo Stato-Mondo sul suo stesso campo d'azione, cioè globalmente, evitando però gli errori che si sono compiuti su quell’asse di lotte, da Genova 2001 in poi, logica dello scontro frontale con il Mondialismo. Il problema contingente e prospettico della lotta politica era ed è un problema di «scala».
dromol o gy a rc h i v e i i
Il PartiRank del Cerchio
“Mae guardò l’ora. Erano le sei. Aveva un mucchio di tempo per migliorare, lì per lì, e allora s’imbarcò in un turbine di attività, inviando quattro zing, trentadue commenti e ottantotto smile. In un’ora il suo PartiRank arrivò a 7288. Scendere sotto i 7.000 era più difficile, ma entro le otto, dopo essersi iscritta a undici gruppi di discussione e avervi postato dei messaggi, dopo aver inviato altri dodici zing, uno dei quali classificato tra i primi 5000 per quell’ora, e dopo essersi registrata per altri sessantasette feed, ce l’aveva fatta. Era a 6872, e si dedicò al social feed dell’InnerCircle. Era rimasta indietro di qualche centinaio di post e cercò di riguadagnare il terreno perduto rispondendo a una settantina di messaggi, dando la propria adesione a undici eventi del campus, firmando nove petizioni e sfornando commenti e critiche costruttive su quattro prodotti che al momento erano in una delle fasi conclusive di sviluppo. Alle 22.16 la sua posizione era 5342 e, di nuovo, il plateau - fissato questa volta a 5000 - non fu facile da raggiungere. —Dave Eggers, Il Cerchio (2014)
163
Futuri futuribili: sfida al monopolio della rivoluzione tecno-scientifica
L’idea di futuro che ci propongono i giovani teorici dell’accelerazionismo è imperniata sulla sfida globale al capitalismo, e più precisamente sull’idea che i rapporti tra capitalismo e progresso tecnologico possano trasformarsi dall’attuale divergente accordo a una più dinamica divaricazione perpetua. A differenza di coloro che ritengono l’attuale sviluppo tecnico causato e persino incarnato dalle dinamiche stesse messe in moto dal capitalismo - riprendendo questa posizione critica dal Marx dei Grundrisse - Pasquinelli e gli autori del libro ritengono che la tecno-scienza possieda una sua autonomia e possa, in futuro, essere separata dai laboratori di R & S del mondo industriale e dalle istituzioni del sapere foraggiate dalle forze neo-liberiste. Questa posizione «accelerazionista», a sua volta, è stata accusata, da più parti e da critici protervi, di provvidenzialismo crollista, tardo-positivismo, neo-prometeismo e apologetica tecno-feticista; alcuni hanno già tacciato i giovani filosofi di aver solamente aggiornato il vecchio slogan di Lenin, “soviet + elettricità”, nel ben più accattivante “soviet + cibernetica”. Al di là delle polemiche contingenti, rimane il fatto che la sfida posta è ambiziosa, ben argomentata e di notevole spessore intellettuale e tattico. Grazie al rinnovato slancio degli accelerazionisti, la sinistra - anche se questo termine andrebbe ridiscusso in profondità, a cominciare proprio dagli autori della presente opera - recupera quel minimo margine di manovra politica e di tracotanza intellettuale che le permette,
dopo tempo immemore, di lanciare il guanto di sfida sullo stesso terreno simbolico del capitale, ovvero la competizione tecnologica. Questi giovani intellettuali saranno all’altezza del compito che si sono auto-attribuiti?
dromol o gy a rc h i v e i i i
Accelerazioni negative e positive. Quanta accelerazione può un corpo?
Cosa può un corpo? Questa la domanda spinoziana per eccellenza. Di conseguenza, in tempi di bolidismo, la domanda si può modificare in “Cosa può sopportare un corpo in termini di accelerazione?” Su pista, il record di velocità con partenza da fermo appartiene, come noto, al velocista giamaicano Usain Bolt con 9'58" (Berlino, 2009): velocità media su tutta la distanza di 37,578 km/h, con i secondi 50 m corsi oltre i 41 km/h, con il picco di velocità massima oltre i 44 km/h. Ai primordi delle competizioni olimpiche, nel 1912 a Stoccolma, il velocista americano Donald Lippincott corse i 100 m. in 10"6, nel primo record mondiale registrato per la IAAF. La velocità media fu di 33,9 km/h. Ma se assolutizziamo la velocità e usciamo dalla pista in tartan, allora il record di velocità massima attribuibile ad un essere umano è quello di Felix Baumgartner: il 14 ottobre 2012, lanciato in atmosfera da 38.969 metri d'altezza grazie a un pallone aerostatico, raggiunse i 1.357 km/h_ Mach 1,24. Il corpo umano, però, non soffre la velocità, ma le accelerazioni. Con moto rettilineo e velocità costante, gli effetti sull'organismo umano sono minimi. È sufficiente però un brusco cambio di direzione per sommare le forze centrifughe al peso del corpo. Per correggere tali implicazioni sono state studiate in fisiologia le accelerazioni negative (piedi-testa) e positive (in senso inverso, testa-piedi). Il corpo umano sopporta in posizione eretta accelerazioni positive fino a 9 g, ovvero 9 volte l'accelerazione di gravità, mentre per le accelerazioni negative ci si ferma a -3 g, a causa del sangue che affluisce alla testa e produce perdita di conoscenza. Le accelerazioni vengono misurate in
164
g ovvero quante volte il nostro peso corporeo è aumentato dall'accelerazione. A 1g il nostro peso corporeo rimane intatto; a 9g il nostro peso sarà di 720 kg se il peso 1g era di 80 kg. Gli attuali aerei da combattimento raggiungono accelerazioni fino a un rapporto di 9g/-5g, come gli Eurofighter, gli F 18 e gli F 22. Ma in volo, a determinate condizioni, si superano i 10g istantanei che, per non portare alla morte per ipossia cerebrale i piloti, che indossano in ogni caso tute-anti-g, devono durare al massimo una manciata di secondi. Ad accelerazione positiva 10g troviamo anche l’iperbolica ‘Montagna russa dell’eutanasia’ dell’ingegnere lituano Urbonas che illustra questo breve saggio.
Futuri futuribili: il collasso del capitale
Se il capitalismo crolla, come arrestare la corsa impazzita della ‘macchina immensa’? Vediamo a questo proposito cosa affermano Deleuze e Guattari nel celebre passo dell’Anti-Edipo (1972) riguardo le modalità di contrasto alla trionfante società capitalista: “Quale soluzione? Quale patto rivoluzionario? (…) Ritirarsi dal mercato mondiale? (…) Oppure andare in senso contrario? (…) Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, “accelerare il processo”, come diceva Nietzsche: in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla.” Pasquinelli e gli accelerazionisti sono gli investigatori filosofici che, letteralmente, vogliono andare piú lontano, andando a «vedere» - cioè a pensare - i «flussi scatenati» come si comporterebbero una volta liberati dalla coazione al guadagno, dalla logica del profitto, dall’allocazione esclusivamente reddituale. “L’assiomatica delle società moderne è presa tra due poli, e non cessa di oscillare da uno all’altro. (…) [Le società moderne] sono prese tra due direzioni: arcaismo e futurismo, neoarcaismo e ex futurismo, paranoia e schizofrenia”. Oppure, per parlare come Srnicek e Williams, la scelta è tra post-capitalismo globalizzato o lenta frammentazione verso il primitivismo. Gli autori di Algoritmi del Capitale la risposta al quesito vettoriale dei due filosofi post-strutturalisti, l’hanno già identificata: il capitalismo non è distruzione creativa bensì distruzione distruttiva. Gli accelerazionisti, dunque, hanno scelto l'opzione militante di ‘andare in senso contrario’: accelerare il processo secondo le sue linee di decodificazione
e deterritorializzazione - anche se le posizioni individuali dei singoli filosofi che si richiamano all’accelerazionismo possono variare ed esprimere differenti sfumature a riguardo - affinché il capitalismo collassi in quanto la sua natura intimamente distruttiva prima o poi ne causerà l’auto-consunzione. Difatti siamo già ad un passo dal cataclisma disgregante, vedi il collasso del sistema climatico del pianeta e la crisi del paradigma economico finanziario dominante; per Srnicek e Williams intorno a noi si è sviluppato un ‘panorama di apocalissi' che l’attuale politica non è più in grado di governare. Il metabolismo parossistico del capitale, che coniuga una continua crescita ad una turbinosa evoluzione tecnologica, è giunto al capolinea. Il collasso è imminente. Oppure, per utilizzare la terminologia cara a Prigogine, l’entropia del sistema della vasta macchina è giunta ai massimi livelli; siamo prossimi al firewall. Il pianeta necessita di una differente accelerazione «navigazionale» che dischiuda nuovi orizzonti di possibilità. Ovvero, secondo Williams e Srnicek, un’altro progetto politico, alternativo all’economia di mercato, si deve far carico delle linee di decodificazione e deterritorializzazione del sistema. Bisogna, con urgenza, separare due distinte traiettorie: quella del sistema capitalistico e quella dell’evoluzione tecnico-scientifica.
165
dromol o gy a rc h i v e i v
Il Secolo accelerazionista per eccellenza: il Cinquecento Rinascimentale
Tommaso Campanella nel 1602 diede alle stampe il celebre libro utopico La città del sole. Al suo interno si legge questa significativa frase: “V’è più historia in cent’anni che non ebbe il mondo in quattromila; e più libri si fecero in questi cento che in cinquemila; e l’invenzioni stupende della calamita e stampe ed archibugi, gran segni dell’unione del mondo…”. Non c’è ombra di dubbio che tra il Quattrocento e il Seicento si siano sviluppati in Europa un numero enorme di processi tecnici, scientifici e sapienziali che intrecciati in una progressione continua abbiano fatto balenare, per la prima volta nell’umanità, il sogno di un «Tutto comune», cioè quella «Unione del Mondo» che Campanella coglieva nei «gran segni» delle scoperte del Cinquecento: la calamita, dunque, la Scienza, le stampe, dunque, il Sapere, l’archibugio, dunque, la Guerra. Ma lo scritto del filosofo italiano mette in evidenza alcuni temi su cui varrebbe la pena soffermarsi: il rapporto tra pensiero utopico-politico e scoperte scientifiche, tra rivoluzione psico-mentale e rivoluzione «meccanica», tra organizzazione del mondo a venire e organizzazione sociale contingente. La prossimità magistralmente evocata da Campanella tra «Unione del Mondo», progresso tecno-scientifico e compressione temporale secolare, sollecita le seguenti riflessioni: 1) non esiste accelerazione assoluta e ogni epoca sviluppa la propria accelerazione; 2) nel campo di forze secolarizzato si forma solo il convergere caotico di un fascio di tendenze accelerate che s’intrecciano ad altre medie velocità ambientali;
3) nel processo accelerato delle forze materiali - a cui dobbiamo sottrarre qualsiasi ipotesi ciclica e lineare - ogni resistenza 'negativa' viene espulsa dal movimento stesso di progressione, in quanto esso stesso dotato di un potere centrifugo che espelle tutto ciò che rimane di inorganico. A seguito di queste ipotesi, si dovrebbe distinguere tra accelerazioni relative e assolute, accelerazioni intragenerazionali e intergenerazionali, tra velocità medie di lunga durata e brusche accelerazioni di momenti contingenti, di elementi organici e inorganici di una accelerazione. Oppure potremmo ipotizzare, in un radicale cambio di prospettiva tecno-politica, la distinzione tra forze catecontiche e spinte rivoluzionarie. Si dovrebbero analizzare periodi storici, archelogie dei saperi, cartografie dei poteri, virtualità future con le Fisiche e le Meccaniche appropriate. È giunto il momento in cui politica e filosofia, fisica e cibernetica affinino una nuova visione congiunta e stringano una nuova alleanza.
Dromologia, dunque, Logica della Velocità
Un primo compito necessario potrebbe essere il seguente: costruire un lessico appropriato e un vocabolario condiviso di concetti politici e filosofici derivanti dalle analisi collettive di coloro che si riconoscono nell’area del pensiero accelerazionista. Se tale pensiero si concentrasse sui principi e sui concetti sui quali poggia la fisica, la matematica e la cibernetica, sviluppandoli e articolandoli in modo consono alle contingenze politiche determinate dalla governance algoritmica dell’economia di mercato e dallo sviluppo imperioso della tecnologia, le concezioni di spazio, tempo, singolarità, collettività e le leggi della politica ne uscirebbero profondamente rinnovate, esattamente come successe, citiamo a puro titolo d’esempio, nelle riflessioni svolte tra il XIII e XIV secolo da filosofi europei quali Nicola Oresme, Giovanni Buridano, Richard Swineshead e Thomas Bradwardine. In particolare, la scuola cosiddetta «mertoniana», ebbe il merito di formare analisi e concetti, d’avanguardia per l’epoca, relativi ai linguaggi dei limiti, dell’infinito, del continuo, dell’incremento e del decremento. Si tratterebbe, riprendendo quella nobile volontà di ricerca e di analisi espressa dai «mertoniani» e dalla «nuova fisica» trecentesca, di dare consistenza politica e filosofica - e al suo limite estremo, di disegnare i tratti di una nuova ontologia per il rapidissimo me - a queste nuove aree speculative legate ai nuovi campi di forze materiali. Si potrebbe utilizzare, ampliare e torcere, a questo proposito, la nota definizione di dromologia di Paul Virilio. La dromologia è 166
quella neo-scienza che - secondo le teorie dell’urbanista francese - si occupa della ‘logica della velocità’. Utilizzando inoltre il suggerimento che Antonio Negri offre nel suo saggio Riflessioni sul “Manifesto per una politica accelerazionista”, occorrerebbe sancire la distinzione politica tra «velocità» e «accelerazione», ovvero tra ‘processo sperimentale di scoperta e creazione all’interno dello spazio di possibilità determinate dal capitalismo stesso', e velocità intesa come quantità «pura» intensiva, immanente a ogni progetto di potere. Virilio, viceversa, da grande catastrofista qual’è, vede la velocità irrazionale del capitale con l’intrinseco portato dell’Incidente o della Catastrofe. Ovvero l’interruzione della velocità turbinosa del capitale, o dello Stato-Mondo, avviene con la crisi improvvisa e violenta dello Schianto, del Crollo, del Cataclisma, dell’Evento Eccezionale che è già interiorizzato nell’automazione e nella governance algoritmica. Fatalismo tecnologico, si potrebbe dire, ben lontano dal determinismo economico epistemico marxiano che vedremo più avanti. In ogni caso, nulla parrebbe fermare il processo entropico del capitale. Si potrebbe asserire che il suo carattere distruttivo sia uno dei poli dell’assiomatica del capitale, polo Mad-Max potremmo definirlo, il che ci riconduce al catastrofismo sotto traccia degli accelerazionisti e alla loro volontà di palingenesi. Forgiatori di processi fotonici così ultra-veloci da infrangere il muro del suono.
dromol o gy a rc h i v e v
Onda d’urto e boom sonico
Nel 1864 il fisico tedesco August Töpler fu il primo scienziato a visualizzare le onde d’urto. Le shock waves sono onde acustiche di vera e propria energia fisica, che si propagano nello spazio tridimensionale e si generano quando la materia viene sottoposta a rapidissima compressione. Quando gli aerei supersonici si proiettano a velocità superiori a quelle del suono (1.237,68 km/h _ Mach 1), le onde d’urto generano a loro volta un suono che è prodotto dal cosiddetto ‘cono di Mach’. Il boato sonico è dunque un’unica onda d’urto che si muove alla velocità critica di >Mach 1: il singolo osservatore non è raggiunto dal boato assordante finché l’onda d’urto non attraversa la sua posizione. La potenza dell’onda d’urto è determinata dalla quantità d’aria che viene accelerata e dalla dimensione e forma del velivolo. La percezione del doppio boato sonico (perché in effetti si tratta di due boom sonici determinati in rapida successione da compressione e rilascio di pressione) dipende dalla distanza tra singolo osservatore e aereo che produce l’infrangersi della barriera del suono. Il primo velivolo a superare il muro del suono, Mach 1, con volo livellato, fu l’aereo-razzo Bell XS-1 guidato dall’aviatore statunitense Charles Yeager il 14 ottobre 1947. Ma già nel 1953 un’altro aviatore americano, Albert Scott Crossfield, volava a velocità oltre Mach 2. Il 7 marzo 2004 l’aereo ipersonico Boeing X-43A raggiunse i 6,83 Mach. L’apoteosi fu però raggiunta più tardi, quando il 16 novembre 2004, lo stesso dimostratore tecnologico raggiunse quasi Mach 10 (M9,68 ad un’altezza di 34.000 metri). All’interno del progetto militare segreto Hyper-X dell’esercito statunitense,
il velivolo sperimentale Boeing X-43D è pensato per raggiungere velocità Mach 15. È con ammirazione che pensiamo al primo aereovolo, realizzato il 17 dicembre 1903 con il Wright Flyer dai fratelli statunitensi Wright: motore con potenza di 12 CV e velocità raggiunta di 48 km/h…
167
Oltre l'elaborazione del lutto: cyber-Marx e pensiero alieno
L'antologia Gli algoritmi del capitale s'inserisce, con i continui riferimenti a Marx, nel dibattito contemporaneo sull'attualità filosofica del marxismo, sulla sua spendibilità immediata nell'agone politico e sulla sua ricchezza inesauribile come classico imprescindibile del pensiero 'critico'. Potremmo definire il lavoro di Pasquinelli come un atto del tutto legittimo sia di volontà speculativa che di militanza politica. La sua antologia ci presenta, infatti, una variante dell'accelerazionismo che potremmo definire 'marxista-post-operaista', figlia del più visionario pensiero eretico marxista italiano, operando in questo senso su tre versanti differenti. • Eredità: il primo versante è orientato sia all'interno che all'esterno del contesto intellettuale italiano per ribadire, ancora una volta, quanto sia importante, originale ed ineccepibile l'eredità della tradizione filosofica e politica, anche eterodossa, del marxismo italiano post-1945, mettendo in luce quanto 'lascito' operaista e post-operaista sia presente nelle elaborazioni più recenti dell'accelerazionismo inglese. • Potenziamento: il secondo versante è relativo a trasferire e diffondere le teorie accelerazioniste al di fuori del contesto inglese, impedendone in questo modo la chiusura in ristretti ambiti accademici e intellettuali londinesi, per costruire vice-versa un potente strumento di critica che abbia perlomeno, ma non solo, un afflato europeo. Evitando in tal modo che il dibattito politico e filosofico si risolva in posizioni pro e contro le tesi di Nick
Land, il maggior esponente della prima ondata di accelerazionismo negli anni Novanta. • Innesto: il terzo versante riguarda l'introduzione, in Italia, dell'attuale dibattito politico e filosofico accelerazionista europeo, innestandolo e saldandolo nel dibattito della sinistra italiana, non solo marxista. Eppure Marx è, per usare un eufemismo, politicamente convalescente al giorno d'oggi. Come affermava Derrida, Marx, nel biennio 1989-1991, era accreditato di un triplice lutto: Unione Sovietica, Comunismo, Marxismo. L’elaborazione accelerata del lutto marxista, da parte di Pasquinelli e degli autori riuniti nell’antologia, organizza invece una potenzialità del suo pensiero estremamente dinamica e suggestiva: un Marx cibernetico e non più, e non solo, 'industrialista'. È questo l’unico Marx possibile oggi, all’alba del XXI secolo?
dromol o gy a rc h i v e v i
La macchina del tempo socialista: Red London e topologia marxista
Londra, estate 2015. Scorriamo ‘The London Bookshop Map - 104 independent bookshops’ per cercare una libreria specializzata in editoria comunista e accelerazionista. La scelta ricade su Bookmarks, 1 Bloomsbury Street, che si autodefinisce ‘a socialist bookshop’, una libreria socialista. Si tratta di una nota libreria che rappresenta un nodo-snodo importante - essendo anche una blasonata casa editrice militante della ‘Londra rossa’ sull’asse del pensiero radicale e antagonista londinese. Si trova a due passi, a nord, dall’University College dove svolge il proprio dottorato di ricerca Nick Srnicek, in quella Bloomsbury che accolse, a metà Ottocento, il peregrinare epistemico di Karl Marx, nelle immediate adiacenze del British Museum, e nella prima metà del Novecento, la bohème del Bloomsbury Group di Keynes, Woolf e Forster, mentre nella nostra contemporaneità si trova pericolosamente vicina a quel bastione del turbo capitalismo, e nemico di classe, che è la London School of Economics. I libri di e su Marx la fanno da padrone, insieme a testi che rievocano le lotte operaie, con particolare attenzione alla lotta dei minatori inglesi degli anni ‘80, il sindacalismo, la rivoluzione russa. A corollario, testi su Trotsky, Luxemburg, rivoluzione cubana, Chavez, anti-fascismo, anti-nazismo, anti-razzismo. Nulla che non sia presente in qualsiasi libreria militante socialista e comunista anglosassone, o europea, e che qui in Italia potremmo trovare, con lievi variazioni peninsulari, negli stand del Manifesto o di Rifondazione Comunista. Così la nostra richiesta di testi cyber-marxisti e di pensiero astratto comunista si limita - da
168
parte del simpatico staff - al ritrovamento di un unico testo di Nick Dyer-Witheford (Cyber-proletariat), il che la dice lunga sulla portata e sull'impatto dell’accelerazionismo marxista sul corpo massiccio e granitico del marxismo classico e del comunismo ortodosso. In effetti, ci troviamo fuori posto, come se fossimo dislocati temporalmente in un altro spazio politico-filosofico. A noi, pare di essere all'interno di uno stagionato museo di storia socialista, a loro appariamo alieni, o al meglio, vincitori del premio ‘customer of the day’, per bizzarria e insipienza.
A Thousand Marxes: Ritornelli, marxismo non lineare e marxismo speculativo
Ma di quale Marx stiamo parlando? Perché l'universo politico e intellettuale che fa riferimento a Marx è caleidoscopico, e anche all'interno della cosiddetta Marx Renaissance le posizioni sono quantomai variegate. Il Marx qui richiamato è l'estensore dei Grundrisse e del Capitale, quindi il Marx della maturità speculativa: il testo più citato dai vari saggisti è il celebre 'Frammento sulle macchine', che viene inserito come passaggio obbligato in ogni intervento del libro (ad eccezione del saggio di Mercedes Bunz) quasi fosse un Ritornello che si articola nel testo, saggio dopo saggio. Si tratta di un Marx quasi oracolare, di un fanta-Marx che viene evocato a suggello della genealogia del pensiero accelerazionista. 'È Marx, insieme a Land, a rimanere il pensatore accelerazionista paradigmatico' (Williams e Srnicek, Manifesto, 2013). Avanessian e McKay, d’altro canto, aprono il loro 'Accelerate' con la cronistoria del pensiero accelerazionista, iniziando con il genetico 1858 marxiano, e il passo sul potere alieno della macchina - The machine as an alien power - tratto sempre dal citato 'Fragment on Machines' del Grundrisse. Nell'antologia curata da Pasquinelli, uno degli autori di punta è Nick Dyer-Witheford, autore del fondamentale 'Cyber-Marx' (1999). Insomma, si tratta di un Marx non lineare, in bilico tra steam e cyberpunk, letto con gli occhiali deleuziani del plusvalore macchinico, più vicino, forse, a William Gibson che a Friedrich Engels. Se Pasquinelli evoca a ragione un neo-marxismo speculativo, e se
noi lo intendiamo in modo corretto come sottrazione dell’intero pensiero marxiano alla pretesa dell’ortodossia di ogni tempo e latitudine di suffragarlo come filosofia vera e come ‘pensiero scientifico capace di affermarsi come ‘altro dalle ideologie’, allora i nemici dell’accelerazionismo marxista all’interno del movimento comunista avranno gioco facile nel bollare tali posizioni come una degradazione del marxismo stesso. Si veda ad esempio la posizione storica del Lukàcs maturo che si scagliò contro ‘la degradazione del marxismo a pensiero speculativo’ (Perlini, 1968); ovvero per i marxisti ortodossi una contraddizione in termini. Aggrappandosi alle schegge del marxismo esplose e scagliate in aria dal collasso del marxismo come ideologia di stato, gli autori de 'Gli algoritmi del capitale’ propongono invece una nuova episteme. Pasquinelli afferma nelle sue tesi che ‘non c’è alcuna classe originale per la quale provare nostalgia’, intendendo per ‘classe’ la classe operaia, per la quale perora un divenire postumano. Si tratta di frammenti di comunismo, appunto, tra Marx, Dick e Nexus-6: Does working class dream of electric sheep?
169
dromol o gy a rc h i v e v i i
La nascita del Robo Sapiens: automazione e crisi del taylorismo
Nel 1961 la General Motors impiantò il primo robot industriale, Unimate, nella catena di montaggio del proprio impianto a Ewing Township, New Jersey, Usa. Brevettato nel 1954 da George Devol e Joe Engelberger, la macchina fu perfezionata da quell'anno fino al suo ingresso in fabbrica, agli albori dei Sixties. Iniziò in questo modo la terza rivoluzione industriale che di lì a pochi decenni avrebbe ridefinito tutto il sistema di produzione del settore manifatturiero. Il primo ‘robo sapiens’ installato sulla linea d’assemblaggio risulterebbe oggi, ai nostri occhi, particolarmente goffo, nella sua dimensione estetica: fornito di un solo braccio meccanico che poteva spostare fino a due tonnellate di metallo rovente per poi saldarlo sulla carrozzeria dell’automobile, poggiava su una scatola di metallo, governata a sua volta da un computer anch'esso inserito in una scatola quadrata da cui silenziosamente guidava il braccio meccanizzato. Altrettanto silenziosamente i robot industriali hanno sostituito i lavoratori umani. Anche nel nostro immaginario collettivo, gli schiavi alienati in tuta blu, così empaticamente descritti da Fritz Lang in Metropolis (1927), sono ora sostituiti dalle tenui fogge cyber-metallizzate dei robots saffici di Chris Cunningham (1999). Dal lavoratore umano accanto alla macchina, preso nel concatenamento brutale ottocentesco del processo industriale uomo-macchina, si passa a macchine adiacenti ad altre macchine nel secondo Novecento, in processi algoritmici di automazione tra robot. Nel 1982 il Giappone produceva già 24.000 robot industriali all’anno. La Cina, nel 2014, ne ha pro-
dotti 40.000: possono sembrare pochi, ma sono il doppio di quanto ne ha prodotti nel 2011 e quasi il triplo di quanti ne ha prodotti nel 2010. Nel 2014, in tutto il mondo, sono stati venduti oltre 228.000 robot. Quest’anno i Robo Sapiens impiegati nelle linee di produzione dell’industria mondiale sono oltre 1,5 milioni: si tratta di prodotti generati da una sintesi raffinata di meccanica, elettronica, matematica e software. Si è già innescata, però, una seconda rivoluzione nella robotica: il futuro dell’automazione saranno i ‘service robots’ utilizzabili non più nell’industria ma nei servizi e nella domotronica residenziale. Sarà la prossima sfida del futuro. Algoritmi fruscianti, soluzioni automatizzate e lavoratori meccanici: che ne direbbe il Marx del ‘frammento delle macchine’? Come si può sfidare la ‘vasta potenza inumana’ ingegnerizzata dal capitale?
Assiomatiche marxiste e tonfo empirico della 'caduta tendenziale del saggio di profitto'
Il grappolo di domande deleuziane-guattariane a cui vogliono rispondere gli accelerazionisti sono domande dal futuro, provengono dal futuro - non ultima quella specifica domanda, affatto controversa, su quale processo accelerare tra quelli formulati come possibili dalla coppia di filosofi parigina. Alle quali domande si potrebbe rispondere con altrettante domande, questa volta derridiane, 'Dove andremo domani? Dove va, per esempio, il marxismo? Dove andiamo noi con lui?'(Spettri di Marx, 1994). Perché se escludiamo la 'politica della memoria, dell'eredità e delle generazioni', il futuro della politica accelerazionista, anche nella sua versione influenzata dal post-operaismo, potrebbe rimanere incerto se rimanesse ancorato ad assiomatiche marxiste che mostrano il limite intrinseco del contesto nel quale sono state concepite e limitano in particolare il loro doppio avvenire. Dato che una tale ricostruzione, in particolare sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, eccede i compiti prefissati del nostro scritto, ci soffermeremo solo brevemente su quel punto cruciale della tesi n.6 in cui Pasquinelli - giustamente vede l'equazione marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto come l'individuazione, all'interno del pensiero marxiano, dell'ingranaggio principale del capitalismo industriale. Bisogna intendersi fin da subito, in modo che, ciò che è storia, venga consegnata alla Storia, e ciò che è futuro vivente sia trasportato come un tesoro prezioso nel futuro. L'inefficacia o la prob170
lematizzazione del dogma della caduta tendenziale del saggio del profitto, comprendendo in questa inefficacia anche la formula marxiana intesa come motore primo delle ripetute crisi e dei collassi temporali del capitalismo, era già nota ai tempi dell'Anti-Edipo (1972). A noi pare una forzatura troppo 'meccanica' il fatto che la lettura e il riferimento all'accelerazione del processo del crollo capitalista, in Deleuze e Guattari, sia causata dalla resurrezione in toto della celebre formula sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. Tale formula, o almeno la sua base epistemica, è osteggiata perfino da economisti contemporanei come Thomas Piketty e da intellettuali marxisti come David Harvey e Michael Heinrich, solo per citarne alcuni tra i tanti. Analisi economiche marxiste che partono dagli stessi dati economici, ma aggregati in modi differenti, arrivano a conclusioni diametralmente opposte: che l'equazione marxiana sia corretta e dunque, utilizzabile, o al suo contrario, sia parzialmente vera e, dunque, inapplicabile e disfunzionale dal punto di vista dell'economia capitalista. L'economia classica accademica, d'altra parte, aveva già superato la formula marxiana nel decennio che si apriva nel 1870, da William Stanley Jevons e la sua 'Teoria dell'economia politica' in poi.
dromol o gy a rc h i v e v i i i
Robo-Trading Era, Algoritmi ad alta frequenza e il balenìo dello Schianto
Più di 5.000 operazioni al secondo. Per valori operativi totali, di un singolo operatore, superiori a 500 milioni di dollari; e tutto ciò per posizioni che in ogni caso vengono chiuse in giornata. A tanto arrivano gli HFT, i trader ad alta frequenza – definiti anche come algorithmic trader – che si sono sviluppati come una nuova forma ‘tossica’ o ‘endemica’ nel mondo della finanza mondiale, a partire dal biennio 2009-2010. Tale forma di trading schizofrenico ha assunto dimensioni preoccupanti: alcuni mercati maturi e altamente competitivi, come le piazze americane, londinesi e tedesche, vedono gli HFT produrre circa 1/3 delle operazioni giornaliere. A fronte di una tale mole di operazioni, mostruose per numero di ordini e valore totale di importi, le autorità che supervisionano i mercati sono corse ai ripari, cercando di limitare, sempre in ottica neo-liberale e pro-finanza, l’utilizzo di tali strumenti attraverso protocolli e linee guida imposti ai vari operatori di mercati. Ad oggi, dato che l’informatica regna sovrana sui mercati finanziari, ancora non è possibile distinguere tra trading algoritmico a bassa velocità e trading ad alta frequenza, dato che gli ultimi potrebbero simulare i primi, per sfuggire alle funzionalità tecniche predisposte dalle autorità di vigilanza. Ma come opera la ‘bestia silenziosa e fulminea’? Le aziende HFT lavorano in mercati a fortissima accelerazione, attraverso strumenti estremamente sofisticati, algoritmi creati ad hoc che girano su software e hardware evoluti. Qui il vantaggio competitivo è dato in primis dalla velocità, sia d’esecuz-
ione – spesso in frazioni di secondo – sia d’evoluzione, cioè i prodotti utilizzati per l’algo/HFT trading devono essere costantemente aggiornati per essere dinamici e flessibili. Questo tipo di operatività ha necessità, in prima battuta, di mercati liquidi, cioè mercati che possono ‘sopportare’ per quantità e qualità tale produttività; poi, in seconda battuta, nell’endogena latenza d’arbitraggi, ovvero l'algorithmic trader ‘lavora’ sullo spread che si forma ogni qualvolta su un singolo titolo, nel confronto tra bid/ask – domanda e offerta. In ogni caso, gli squilibri sistemici di tale dromotecnica è palese e già si è verificata nel ‘Flash Crash’ del 6 maggio 2010 quando il NYSE perse il 10% del proprio valore in soli 36 minuti, generato da ordini di vendita massivi su un future Procter & Gamble, quotato nel mercato dei future a Chicago. Il titolo P&G sul NYSE crollò del 37% in un battibaleno, per contagio automatico del panico, da Chicago a New York. Qui gli HFT giocarono un ruolo fondamentale per allargare il crollo istantaneo su tutto il listino azionario del NYSE. Uno scenario tipico dell’accidente viriliano: a nuova tecnica, corrisponde un incidente amplificato dalle caratteristiche intrinseche della tecnica stessa. Gli schianti fulminei intraday dei mercati finanziari - i Flash Crash - stanno al trading ad alta frequenza, tanto quanto i crolli giornalieri o ciclici stanno al trading informatico a bassa velocità. Solamente 5 anni dopo il terribile e repentino schianto, il 21 aprile 2015, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha incriminato con 22 capi d’accusa un anglo-punjabi, il signor Navinder Singh Sarao, un algorithmic trader di base nella multietnica Londra Ovest che, dalla casa dei genitori, immise il 6 maggio 2010 la pioggia mostruosa di ordini sul mercato dei future di Chicago. Migliaia di ordini di vendita, per un totale di oltre
171
200 milioni di dollari su un singolo future P&G. Gli ordini di vendita subirono oltre 19.000 modifiche o sostituzioni nell’arco di pochi e frenetici minuti, prima di venir cancellati del tutto da Singh stesso. Ma il collasso per contagio tra titoli e tra mercati diversi ma iperconnessi, amplificati dagli altri HFT, causarono danni per miliardi di dollari e dimostrarono la fragilità sistemica della finanza mondiale. Non si tratta più della ‘mano invisibile’ del mercato, come scrisse Adam Smith oltre 200 anni orsono, ma della ben più prosaica voracità schizo di mercati altamente localizzati e specializzati che lavorano su squilibri sistemici mitigati da circuit breakers automatizzati. Accelerazione e Collasso in una mortale catena di anelli stridenti che si compenetrano…
‘Il becchino del capitalismo’ (Marx, Grundrisse) e il suo utilizzo politico
Il valore della caduta tendenziale del saggio di profitto risiede, dunque, nel suo utilizzo politico e, in particolare, nell'essere il cuore dell'analisi marxiana sul futuro del capitalismo, considerato transeunte, un momento di transizione storico all'interno di una vettorialità comunista. Marx, nei suoi drafts dei Grundrisse considera questa ‘legge’ come il becchino definitivo del capitalismo; nel Capitale questa legge diventa ‘tendenza’, non più una legge inevitabile, grazie alle contro-tendenze che si attivano durante la crisi, portando l’effetto ‘gravedigger’ terminale nel lunghissimo periodo. Equazione, o legge, o tendenza, la caduta tendenziale del saggio di profitto in Marx rimane centrale. Ma questo cuore marxista ottocentesco, sia aspettativa messianica che cogito escatologico secolarizzato, elaborato in un contesto di grande sviluppo industriale non più proponibile, ci è utile nel XXI secolo? E, soprattutto, era questo cuore marxista ottocentesco che veniva utilizzato da Deleuze e Guattari come impetus generativo e ordine direzionale del processo accelerato del collasso capitalista? Su questo punto controverso, Christian Kerslake (Marxism and Money in Deleuze and Guattari, 2015), acuto scholar deleuziano, suggerisce che il fulcro dell’analisi presente in Anti-Edipo rifletta l’influenza delle teorie della De Brunhoff e di Schmitt sulla moneta e sui flussi del capitalismo finanziario. Per Deleuze e Guattari il cuore del capitalismo globale, la macchina civilizzata, sono divenuti la moneta e i flussi del capitale
grazie al ruolo egemonico di snodo, controllo e regolazione dei flussi monetari di banche commerciali e banche centrali, per recuperare e stabilizzare la crisi delle economie di mercato. Non già la produzione, il lavoro vivo, la composizione organica del capitale e la caduta tendenziale del saggio di profitto sono centrali per il capitale post-1945 del XX e XXI secolo, bensì la gestione della monetarizzazione del sistema economico come fattore cruciale negentropico del sistema. Già il riferimento a Nietzsche, e non a Marx, dovrebbe far riflettere gli accelerazionisti e gli estensori di 'Gli algoritmi del capitale' su questo singolo punto controverso ma, allo stesso tempo, cruciale e qualificante. Per terminare il discorso sulla 'portata storica' della caduta tendenziale del saggio di profitto, va ricordato che essa, definita da Marx 'la sintesi delle contraddizioni del modo di produzione del capitale', fomentò una prima ondata di «catastrofismo marxista» già negli anni novanta dell'Ottocento e il movimento operaio e sindacale italiano faticò non poco per demistificare quel mix fatale di determinismo economico, pensiero messianico e suggestione oracolare. Ci chiediamo: può essere accelerazionista riprendere questa concezione dell'equazione marxiana, e il suo sub-prodotto, il «catastrofismo marxista», già superata da marxisti e socialisti italiani più di cento anni or sono? Vogliamo ritornare ai tempi del dibattito pro e contro le assiomatiche marxiste di Benedetto Croce per l'Accademia Pontaniana?
172
dromol o gy a rc h i v e i x
HyperSearch & Destroy: Estrazione e distruzione di valore di Rete
Un gigante si aggira per il Mondo: secondo tra i titoli tecnologici per capitalizzazione di borsa - quotazione al Nasdaq con valore di 462,5 miliardi di dollari Usa, dietro ad Apple 660 mld di dollari Usa, dati agosto 2015; secondo ‘marchio’ al mondo per valore - 173,6 mld dollari Usa, sempre dietro ad Apple, dati maggio 2015; titolo azionario più trattato al mondo con 2 mld di dollari Usa in un mese, dati dic. 2014. Grandi risultati per un’azienda che ha debuttato in borsa nel 2004 con un’azione del costo di 100 dollari. Inventato il celebre algoritmo Pagerank nel 1997, fondata l’azienda Google nel 1998, dopo solo alcuni mesi i fondatori Page e Brin la misero in vendita per 1 milione di dollari, per aver più tempo per gli studi universitari e potersi così laureare in matematica a Stanford. Nessuno volle comprarla. Nei primi mesi del 1999, al principale acquirente, George Bell, CEO di Excite, una delle big di Internet in quel periodo, fu offerta Google a sconto, per soli 750.000 dollari. Perché comprare un’azienda basata su un nuovo modello di motore di ricerca, in un mondo che aveva già Altavista, Excite e Yahoo, si chiese George Bell?
Macchina algoritmica di Google e accelerazione cibernetica La velocizzazione che aveva contraddistinto il divenire della tecnica sino alla rivoluzione delle comunicazioni e dei trasporti è superata dall'accelerazione cibernetica che, a ben guardare, supera e rende obsoleto il concetto stesso di movimento. È più opportuno, a questo punto, postulare l'idea di uno spazio virtuale contraddistinto per sua natura dal tempo dell'accelerazione, un tempo che non necessita di movimento ma che appunto si esprime in presa diretta. —Tiziana Villani, Il tempo della simulazione
Nella critica serrata alla governance algoritmica da parte di Pasquinelli, si scorge in filigrana l'altro grande pericolo a cui va incontro il genere umano, una strada inquietante che porta diritto alla singolarità tecnologica, al limite di uno sviluppo alieno incontrollabile di macchine con potenza di calcolo infinita che accelerano con altri sistemi strutturati di macchine, i cui utenti finali potrebbero anche essere non umani, come previsto, in forma embrionale, dall'Internet delle cose. A fine millennio (1999) è comparsa la prima vera e propria corporation post-umana, Google, il nuovo stadio del capitalismo metalinguistico e metamatico che vorremmo pensare, seguendo le analisi di Guattari, come collasso della semiotica antropologica del XX secolo. Grazie ai giacimenti sapienziali sui quali basa la propria potenza calcolante inumana, Google supera con eleganza matematica e vigore cristallino ogni precedente assiomatica ottocentesca del conflitto in quanto Brin et alii valorizzano a cos-
to zero sia la propria forza lavoro, cioè i produttori di contenuti dell'infosfera, sia la materia prima del proprio prodotto, ovvero il Sapere del genere umano, attivando ciò che Bernard Stiegler chiama, rifacendosi a Simondon, 'il nuovo stadio del processo di transindividuazione capitalistica' (Reincantare il mondo, Stiegler, 2012). Pensare Google, questo è il nuovo compito; Pasquinelli lo ha già iniziato a fare con il saggio sul plusvalore di Rete (Capitalismo macchinico e plusvalore di rete, 2011) ma è necessario continuare ad indagare Google ora, a causa del pensiero alieno che opera sul 'processo di transindividuazione, vale a dire la maniera di prodursi collettivamente come soggetti'. Pensare Google, secondo Stiegler, significa 'come fare di Google uno spazio critico e non solo un oggetto della critica'. Significa anche oltrepassare le assiomatiche marxiste, nonostante la loro ricchezza, e il pensiero conflittuale dell'età industriale, per porre le basi di un pensiero che si faccia carico dell'algoritmo che connette infinite macchine soffici e milioni di nuvole nella sua complessità. Quest'alba di un nuovo pensiero è il compito, il punto chiave del libro Gli algoritmi del capitale, soprattutto nel saggio più denso dell'antologia, Capitalismo macchinico e plusvalore di rete (Pasquinelli, 2011). Ma a nostro avviso, il moto accelerazionista, a causa di singoli punti critici, rende la propria traiettoria epiciclica in rapporto al marxismo, considerando il marxismo stesso come traiettoria deferente, vale a dire che a fronte di un guadagno apparente attuale, si consumerà in futuro un moto retrogrado dell'accelerazionismo, se non viene corretto il sistema di riferimento principale come baricentro di pensiero. 173
dromol o gy a rc h i v e x
Il futuro del comunismo è Marx oppure Mach?
La domanda paradossale e retorica è la seguente: e se il futuro del comunismo, inteso come nucleo etico-riformatore della nostra società, fosse il pensiero di Mach e non più il materialismo dialettico engelo-marxista propugnato abrasivamente dal suo dogmatico divulgatore, cioè Lenin? E, dunque, se il futuro della critica al plusvalore algoritmico risiedesse nel passato, o almeno nella riconsiderazione critica delle fondamenta speculative del socialismo? Queste domande sono meno aliene di quanto sembrino in prima battuta, se consideriamo che Lenin diede alle stampe nel 1909 il libro Materialismo e Empiriocriticismo. Si tratta di un pamphlet che, nella peggiore tradizione comunista, fu usato come strumento per colpire un bersaglio politico, anzichè essere un libro teoretico polemico verso una filosofia materialista antagonista. L'obiettivo principale di Lenin - il testo era fomentato e suggerito da Plechanov, marxista ortodosso nonché allievo di Engels - era denigrare e distruggere intellettualmente Alexander Bogdanov, filosofo e scienziato, nonché leader principale dei bolscevichi russi dopo la rivoluzione fallita del 1905, sostenitore di un materialismo fortemente debitore del pensiero dello scienziato e fisico austriaco Ernst Mach, il teorico e studioso, tra le altre cose, della velocità di propagazione di un suono nell’aria e nei fluidi. Lenin bollò le teorie ‘empiriocriticiste’ di essere reazionarie, e per la nota proprietà transitiva dell’insulto, il marxista-machista Bogdanov, si ritrovò ad essere etichettato come la quintessenza incarnata del reazionario. E pensare che l’ala bogdanovista del partito era quella
più a sinistra… In un recente libro di McKenzie-Wark, Molecular Red (Verso, 2015) - un’opera che non stentiamo a definire ‘superba’ - l’intellettuale newyorchese ricostruisce minuziosamente proprio il rapporto Lenin - Bogdanov alla luce della loro controversia politica-economica-filosofica del 1908-1909. I metodi leninisti, tristemente famosi in tutti i loro aspetti teorici, organizzativi e storici, hanno poi contribuito massivamente alla tragedia del ‘socialismo reale’ e a minare per sempre l’occasione storica di un potere rivoluzionario sovietico, meno militarizzato e totalitario. Del leninismo non rimangono che rovine; ora non rimane che salvare Mach e Bogdanov, oltre a ciò che resta di Marx. E ‘Molecular Red’ è necessario perché ripropone e contestualizza sul palconoscenico mondiale delle idee, e dunque della politica, proprio la figura e la statura intellettuale di Bogdanov, di Platonov e del Proletkult.
Dall’abbondanza rossa al sylos rosso: proposta per un nuovo bilanciamento di poteri
Siamo al termine dell'analisi della brillante antologia 'Gli algoritmi del capitale' che riteniamo il testo più avanzato, in Italia, sulle tematiche fin qui trattate. Al suo interno abbiamo trovato riflessioni necessarie e importanti, iper-attuali, a volte coniugate con «passaggi» vecchissimi - ci scusino gli autori per la franchezza. A volte il nuovo si fa strada anche con queste modalità: l’accelerazione - o la «linea di fuga» per parlare come Deleuze - si zavorra con l’arcaico o il neo-primitivo e, forse, sarebbe «alieno» trovare il «novissimo» già impacchettato e pronto per l’uso. Il canone cancrizzante a volte ritorna e non sempre si presenta con le forme già conosciute… Rimangono da effettuare alcune segnalazioni di singoli saggi presenti nel libro. La prima va a 'piattaforme per una abbondanza rossa' di un autore, Nick Dyer-Witheford, che stimiamo da tempo e del quale segnaliamo anche la recente uscita 'Cyber-proletariat' (Pluto Press, 2015). In 'piattaforme per una abbondanza rossa' l'autore indaga il celebre esperimento cileno 'Cybersyn', occorso ai tempi di Salvador Allende e concepito come ottimizzatore cibernetico della pianificazione socialista, incrociandolo, con la consueta maestria, alla fantascienza di Francis Spufford in 'Red Plenty'. Il tema principale del saggio potrebbe essere 'calcolo e comunismo': abilmente Dyer-Witheford intreccia la cibernetica sovietica, il Marx dei Grundisse, la catallassi dell'economista liberale Frederick Hayek e i teorici della pianificazione economica computerizzata, in una caval174
cata suggestiva e godibile che stimola sia la lettura politica che la riflessione filosofica. Il secondo saggio da segnalare è della tedesca Mercedes Bunz, 'algoritmi della conoscenza e trasformazione del lavoro'. Si tratta di un testo meno collegato al pensiero post-operaista e più interno al mondo dell'automazione della conoscenza nelle fabbriche del sapere. Oggi, ci spiega Mercedes Bunz, le università occidentali si sono strutturate come 'industrie del sapere' in cui gli esperti - o la nuova classe di istruiti - sta perdendo il proprio privilegio di 'expertize' a favore di una conoscenza abbondante e ben distribuita nel sociale. Il sovraccarico di informazioni, Internet e le nuove macchine soffici, la conoscenza digitalizzata, gli algoritmi e le app, mettono il ruolo dell'esperto - e dunque dell'intellettuale e dello specialista accademico-scientifico - sotto attacco, esternalizzandone de facto le competenze specifiche. La Bunz propone nel suo saggio un cambio radicale di approccio alla tecnologia grazie all'alleanza tra intelligenza algoritmica e umanesimo operativo ispirato dalla filosofia di Simondon, autore che si sta imponendo sempre più come centrale in questo tipo di analisi. Ultima segnalazione infine per Tiziana Terranova, filosofa italiana di ultima generazione, abile indagatrice del mondo digitale e delle sue pratiche più eterodosse fin dai primi anni Novanta. Il suo saggio 'Red Stack Attack' è, fin dal titolo, una sorta di risposta propositiva e combattiva al celebre saggio di Benjamin Bratton 'The Black Stack' (e-Flux, 2014) in cui il teorico americano indaga lo status normativo delle megastrutture 'inaspettate' del contemporaneo sistema globale di calcolo. Terranova, infatti,
propone il proprio saggio come il risultato di un sapere sociale costruito nella Rete e dalla Rete, il cui fulcro di analisi è la relazione esistente tra capitale e algoritmo. Dunque l'algoritmo dal punto di vista politico, economico e finanziario: si parla di Bitcoin e di altre monete digitali, delle interfacce tra individuo-magazzino dati-nuvola, dell'algoritmo come 'capitale fisso', dell'assorbimento delle eccedenze di ricchezza ed energia nel ciclo produttivo del capitale. Rispetto ad altri pensatori dell'area post-operaista, la Terranova mostra e organizza un sapere più pronunciato del mondo digitale e delle culture network, che le permette di uscire da un evidente manierismo espositivo e intellettuale, caro ad altri autori di area, e che rende il suo testo il più avanzato nelle riflessioni in corso tra potenzialità e criticità della ragion algoritmica.
dromol o gy a rc h i v e x i
Il silenzio alle sette di sera di Leibniz
Per ritornare all’espressione dei pensieri per mezzo di caratteri, sento che le controversie non finirebbero mai e che non si potrebbe mai imporre il silenzio alle sette, se non ci riportassimo dai ragionamenti complicati ai calcoli semplici, dai vocaboli di significato vago ed incerto ai caratteri determinati… Una volta fatto ciò, quando sorgeranno controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamato, se loro piace, un amico): calculemus. —Leibniz, Scritti di logica, [1689] (1962)
Final Cut: Calculemus!
Vorremmo terminare questa recensione con una felice immagine tratta dagli Scritti di Logica di Leibniz. Nella vexata quaestio, l'ultima parola, in modo paradossale, spetta al numero e all'azione di maggiore aderenza alla realtà, il calcolo. Attualizzando la scena ai giorni nostri, a questo tavolo virtuale, in una sequenza temporale 'scardinata', anacronica, vorremmo convocati e seduti un numero maggiore di amici della Sapienza. Oltre allo stesso Leibniz, convocheremmo Marx, nonché Deleuze e Bogdanov, e di certo Mach e al Khwarizmi. A ognuno di loro sarebbe assegnato un pocket calculator in grado di «lavorare» a tempo esponenziale. E, come arbiter imparziali, tutti gli autori dell'antologia 'Gli algoritmi del capitale'. E che Pasquinelli, maestro di cerimonie, al cospetto di tale camerata e per dirimere le insorgenti controversie, con gesto lucido e sguardo febbricitante, affermasse perentorio, in piedi: et nunc calculemos! Agosto 2015
175
176
xi
Testi in appendice: Nietzsche I forti dell’avvenire (Autunno 1887) [Traduttore Angelo Treves, 1927]
I forti dell'avvenire (Autunno 1887) [Traduttore Sossio Giametta, 1971]
Ciò che in parte il bisogno, in parte il caso hanno qua e là raggiunto, ossia le condizioni per la produzione di una specie più forte: tutto questo possiamo ora comprenderlo e volerlo consapevolmente; possiamo creare le condizioni in cui un tale potenziamento sia possibile. L'«educazione» ha avuto finora di mira l'utile della società, non già il maggior utile possibile dell'avvenire, bensì l'utile della società in quel momento esistente. Si volevano «strumenti» per essa. Posto che ricchezza di energia fosse maggiore, si potrebbe pensare a una DETRAZIONE DI FORZE il cui fine non fosse l'utile della società, ma un utile futuro Un tal compito sarebbe tanto più da proporre, quanto più si comprendesse in che misura la forma presente della società è in forte trasformazione, al punto di non poter più esistere, un giorno futuro, per se stessa, ma solo più come mezzo nelle mani di una razza più forte. Il crescente rimpicciolimento dell'uomo è appunto la forza motrice per pensare all'allevamento di una razza più forte, che troverebbe il suo sovrappiù proprio nella sfera in cui la specie rimpicciolita si indebolirebbe sempre di più (volontà, responsabilità, sicurezza di sé, capacità di porsi degli scopi). I mezzi sarebbero quelli che la storia insegna: l'isolamento attraverso interessi di conservazione opposti a quelli che sono oggi correnti; l'esercitarsi in giudizi di valore opposti; la distanza come pathos; la coscienza libera in ciò che oggi è più sottovalutato e vietato. Il livellamento dell'uomo europeo è il grande processo che non si deve ostacolare: bisognerebbe affrettarlo ancora di più. È così data la necessità dello spalancarsi di un abisso, della distanza, della gerarchia: non la necessità di rallentare quel processo. Questa specie livellata, appena è raggiunta, abbisogna di una giustificazione, che consiste nel servire un tipo superiore, sovrano, che sta sopra di essa e che solo poggiando su di essa può innalzarsi al suo compito. Non solo una razza di signori, il cui compito si esaurisca nel governare; ma una razza con una propria sfera di vita, con un sovrappiù di forza per la bellezza, il valore, la cultura, il comportamento, sino a ciò che è più spirituale; una razza affermatrice, che possa concedersi ogni
177
grande lusso…, abbastanza forte per non aver bisogno della tirannia dell'imperativo della virtù, abbastanza ricca per non aver bisogno della parsimonia e della pedanteria, al di là di bene e male; una serra per piante speciali e scelte.
Friedrich Nietzsche Frammenti postumi 1887-1888, Volume VIII, tomo II delle «Opere di Friedrich Nietzsche» Edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Titolo del frammento: I forti dell'avvenire ( 105 ) 9 [ 153 ] (Adelphi, 1971) Traduzione: Sossio Giametta Si ringrazia per la gentile concessione a pubblicare l’editore Adelphi. Si ringrazia il filosofo Luigi Rustichelli per l'aiuto prezioso nella ricerca del frammento accelerazionista di Friedrich Nietzsche.
Ciò che in parte la necessità, in parte il caso hanno ottenuto sporadicamente, ciò le condizioni per la produzione di una specie più forte, possiamo ora comprenderlo e volerlo scientemente: noi possiamo creare le condizioni in cui una simile elevazione sia possibile. Finora, l'«educazione» ha mirato all'utile della società: non ciò che è più utile per l'avvenire, ma l'utile della società esistente. Si volevano «strumenti» per questa società. Posto che fossimo più ricchi di energie, si potrebbe pensare a trattenere una quota non destinata a giovare alla società, ma per un'utilità futura. Tanto più dovremmo porci un simile compito, quanto più comprendessimo come la forma presente della società si trovi in una fase di forte trasformazione: cioè sulla via che potrà un giorno portarla a non esistere più per se stessa, ma soltanto come un mezzo nelle mani di una razza più forte. Il crescente rimpicciolimento dell'uomo è precisamente la forza che spinge a pensare all'allevamento di una razza più forte, una razza i cui tratti eccessivi sarebbero proprio quelli in cui la specie rimpicciolita diventerebbe sempre più debole (cioè volontà, responsabilità, sicurezza, facoltà di porsi degli scopi). I mezzi sarebbero quelli che la storia insegna: l'isolamento mediante interessi di conservazione opposti a quelli che sono oggi gli interessi medi; l'addestramento a produrre valutazioni opposte; la distanza considerata come pathos; la libera coscienza in ciò che oggi è disprezzato e vietato. Il livellamento dell'uomo europeo è il grande processo che non si deve ostacolare: anzi, lo si dovrebbe affrettare. Da ciò risulta la necessità di aprire un abisso, di creare distanze e una gerarchia: non la necessità di rallentare quel processo. Nel momento in cui la si sia ottenuta, questa specie livellata ha bisogno di una giustificazione: e questa si trova nel servire una specie più alta e sovrana, che si basa su quella e solo basandosi su quella può elevarsi al proprio compito. Non si avrà soltanto una razza di signori il cui compito si esaurisca nel governare, ma una razza con una propria sfera vitale,
energie in eccesso per la bellezza, il coraggio, la cultura, le maniere, giungendo a ciò che c'è di più spirituale: una razza affermatrice che si può concedere ogni grande lusso - abbastanza forte per non avere bisogno della tirannia dell'imperativo della virtù, abbastanza ricca per non avere bisogno della parsimonia e della pedanteria, di là dal bene e dal male; una serra per piante rare ed elette.
Friedrich Nietzsche La volontà di potenza, Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche. Nuova edizione italiana a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau Titolo del frammento: I forti dell'avvenire (898) (Bompiani, 1992) Traduzione: Angelo Treves (1927, per la casa editrice Monanni, Milano, prima edizione italiana autorizzata, Volume 9, La volontà di potenza) e rivista da Pietro Kobau (1992). Si ringrazia per la gentile concessione a pubblicare l’editore Bompiani.
xii
Testi in appendice: Guattari
La Macchina informatica [Frammento di un intervento di Félix Guattari al corso di Deleuze a Vincennes, 1975-1976]
FG Far funzionare un ordine del mondo, dei sistemi di ordine, di ordinamento del mondo. Lo stesso tipo di promozione di invarianti che costituiscono le coordinate di uno stesso piano sociale, cosmico, affettivo. GD Scusi un attimo. Sentite tutti? Vuole sedersi qui? Se parla di fronte, la sentono tutti. FG Riprendo l’esempio che faceva lei delle società che studia Clastres (…) presunto capitalizzare l’informazione attraverso piccole unità distintive tipo, lettera, anche un certo tipo di articolazione molto epurata di fonema, con una sintassi perfettamente civilizzata. Ma in correlazione c’è tutta una serie di componenti semiotiche che concorrono a qualcosa che non è specificamente una trasmissione d’informazione ma una vita libidinale dell’insieme del gruppo che può esprimersi sia attraverso le parole che attraverso le mimiche, le danze, i tatuaggi, i rituali, ecc. Sono quelle che chiamo le diverse componenti semiotiche. In fondo alla catena arriveremo a un ordine in cui possiamo trasmettere una cosa con una serie di messaggi trasmessi tramite un computer. Oggi designare qualcuno equivale a prendere un certo tipo di numeri e farli passare in un computer. Questi qualificano la localizzazione della persona e anche tutto il suo comportamento, la sua libertà, le sue potenzialità economiche, ecc. Quindi, intanto dirò che c’è stato un crollo semiotico nel senso che i modi di enunciazione collettivi che intricavano, articolavano in modo indissolubile le diverse componenti semiotiche, gestuali, mimiche, prosodiche, linguistiche, si sono ritrovati ridotti al punto che è sempre possibile tradurre in termini di quantità d’informazione. L’apprendimento della lingua, il passaggio della lingua infantile alla lingua della scuola, e da questa a quella professionale, e così via, è un lavoro volto a rendere gli individui capaci, malgrado la polivocità dei loro desideri, di arrivare a questa riduzione possibile, essenziale ai sistemi di produzione e di scambio che possono tenere in circolazione solo persone traducibili in termini di informazione nel sistema economico di produzione. Altrimenti sono pazzi, marginali, poeti, ecc. Si usano strumenti particolari per curarli e vengono messi in istituti creati apposta
178
per questi fenomeni marginali. Questa operazione di crollo semiotico fa sì che si possa enunciare qualsiasi cosa dei propri desideri, della propria vita, a patto che sia compatibile con la macchina informatica di tutto il sistema capitalista, socialista, burocratico, di tutti i sistemi a Stato, per riprendere la classificazione di Clastres. A un tratto, la sola soggettività di riferimento possibile è quella che rende compatibili con la specie umana in generale, la specie umana delle società a Stato, la cittadinanza. Quindi non si ha più lo stesso rapporto con la particolarizzazione dell’enunciazione che consisteva nel dire… Gli indiani, le tribù indiane dicono che solo gli indiani sono uomini e, quando vedono dei bianchi, dicono che non sono uomini. Il loro senso di appartenenza a una comunità d’espressione è delimitato dal luogo dove c’è un groviglio delle diverse componenti semiotiche. Perdonate lo schematismo abominevole che consiste nel prendere due punti così distanti in campo sociale. Quindi, cosa succede? E’ possibile sottomettersi a questo sistema di riduzione informatica solo nella misura in cui si ricostituiscono delle territorialità che chiamerò superfici di ridondanza, dove si possa articolare questo tipo di opposizione. Vi faccio un esempio. Scegliere una donna in una società come quella di Clastres non è mai solo avere come scopo un atto sessuale, riproduttivo, possedere qualcuno, ma è sempre due sottoinsiemi sociali che s’incrociano e implicano due sistemi di scambio, dei sistemi di composizione semiotica multipla. Oggi si può dire che l’attribuzione di un partner sessuale, che sembra libera, una libera scelta è in realtà determinata da sistemi che fanno sì che si debba rispondere a un certo tipo di profilo socio-economico al punto che c’è gente che cerca di facilitare le cose con il computer facendo una sorta di corrispondenza delle scelte preferenziali. Ma non si sceglie più uno che è di un clan di una certa natura con tutto ciò che rappresenta questa specie di danza, d’intrigo semiotico. Non si sceglie forse nemmeno più, e vorrei anticipare qualcosa, un corpo, il possesso degli organi sessuali dell’altro, così abbiamo dato una definizione, ma la possibilità di trovare un certo tipo di ridondanza, di ridondanza di sopravvivenza, di ridondanza di viseità. Si cerca qualcuno
nel campo dell’enunciazione dove si possa dire qualcosa come Tristano-Isotta, Isotta-Tristano, ma in modo molto più triste e sinistro, in una perpetua scenata tra coniugi che consiste solo in “a chi si parla”. Quando torno, quando enuncio il mio nome, il mio progetto, chi mi riflette? Chi mi fa eco? In quale superficie di ridondanza posso esprimermi? Nelle società territorializzate ci sono larghe superfici di ridondanza e molteplici possibilità di composizione semiotica. Nel caso della coniugalità o della soggettività deterritorializzata, miniaturizzata, ci si può solo agganciare e dire: “Mi riconosci quando ti parlo? Torno alla data ora. Faccio questo “non per i figli”.” C’è dissociazione anche dal rapporto di viseità, questa sorta di impronta di cui parlano gli etologi, il rapporto di contatto oculare, “eye to eye” di cui parlano Spitz e un certo numero di americani. C’è bisogno di inquadrare: io sono, solo se c’è un certo punto che serve da superficie di riferimento e da buco nero sul quale posso continuare ad articolare gli enunciati. Se mi tolgono quest’ultima superficie di ridondanza o di riferimento, tutto l’insieme delle mie coordinate informative esplode letteralmente. Curiosamente ci accorgiamo che il tipo di oggetto che gli psicanalisti hanno chiamato “oggetto parziale”, gli occhi, il viso, il triangolo occhi-naso-bocca raggiunge un rapporto di tutela straordinaria rispetto ai diversi individui poiché non ci sono più le varie componenti semiotiche, mimiche, gestuali, di danza, di gruppo, ecc. e arriva a non esserci più neanche l’esercizio sessuale. Si può concepire di essere innamorati di un tratto di viseità di una donna, senza avere la possibilità di mettere in gioco delle semiotiche sessuali, di innamoramento o di questo tipo. L’essenziale è quest’ultima presa, l’aggancio di territorializzazione. La seconda cosa che possiamo abbozzare adesso è che o le ridondanze informatiche si agganciano a delle superfici con dei sistemi di buchi neri, cioè la viseità, il potere a livello statale… in qualsiasi sistema di potere c’è sempre un sistema di buchi neri. Sono gli occhi di Giscard d’Estaing, gli occhi dei leader… “E’ comunque dei nostri, ha comunque una possibilità. E’ la Francia. Mi riconosco perché l’ho già vista. Posso continuare a parlare, a produrre significati.” O c’è questo sistema
di ridondanze, di buchi neri, il sistema arborescente, ci sono alberi quando c’è un buco nero, o per il sogno, c’è l’ombelico del sogno, un luogo dove tutte le cose si organizzano su un punto centrale che è un punto cieco, oppure possiamo considerare un’organizzazione di ridondanza (…).
FG = Felix Guattari GD = Gilles Deleuze Le parti sottolineate corrispondono alle parti campionate inserite nel brano La machine informatique dub di Obsolete Capitalism Sound System.
xiii Testi in appendice: Chlébnikov Solo noi, arrotolati i vostri tre anni di guerra [traduzione Angelo Maria Ripellino]
Solo noi, arrotolati i vostri tre anni di guerra in un cartoccio di minaccévole tromba, cantiamo e gridiamo, cantiamo e gridiamo, ubriachi del fàscino di quella certezza, che il Governo del Globo Terrestre già esiste: siamo Noi. Solo noi abbiamo calcato sulle nostre fronti il serto selvatico di Governanti del Globo Terrestre, inesorabili nella nostra abbronzata ferocia, salìti sul masso del diritto di conquista, alzando il vessillo del tempo, noi - vasai che cociamo le umide argille dell’umanità nelle brocche e nei bricchi del tempo, noi - promotori della caccia alle anime urliamo in canuti corni marittimi, chiamiamo a raccolta gli umani armenti Evoè! Chi è con noi? Chi ci è amico e compagno? Evoè! Chi ci segue? Così noi balliamo, pastori degli uomini e dell’umanità, sonando il pìffero. Evoè! Chi è il più grande? Evoè! Chi è più avanti? Solo noi, salìti sul masso di noi stessi e dei nostri nomi, fra un mare di vostre maligne pupille, solcate dalla fame dei patìboli e contorte dall’estremo orrore, sulla risacca dell’urlo umano vogliamo che ci si apòstrofi e d’ora in poi ci si onori Presidenti del Globo Terrestre. Che sfacciati - diranno certuni, no, sono santi, obietteranno degli altri. Ma noi sorrideremo come dèi, additando con la mano il Sole. Trascinatelo ad un guinzaglio per cani, impiccatelo alle parole «Libertà», «Fratellanza», «Uguaglianza», processatelo al vostro tribunale di sguàttere, perché sulle soglie d’una molto ridente primavera ci ha ispirati questi bei pensieri, queste parole e ci ha dato questi sguardi sdegnosi. Il colpevole è Lui. Noi non facciamo che adémpiere il bisbiglio solare, quando verso di voi erompiamo come capimandatari dei suoi ordini, dei suoi severi comandi. Le pingui folle dell’umanità si stenderanno sulle nostre tracce. Dove noi siamo passati, Londra, Parigi e Chicago per gratitudine sostituiranno i loro nomi coi nostri.
179
Ma perdoneremo una tale stoltezza. Tutto questo è di là da venire, e intanto, madri, portate via i vostri figli, se apparirà in qualche posto uno stato. Ragazze e chiunque fra voi non sopporta l’odore dei morti, cadete in deliquio alla parola «frontiere»: esse odorano di cadaveri. Eppure ogni ceppo fu un tempo una bella conìfera, un pino fogliuto. Il ceppo è perverso soltanto per questo, che su esso si tronca la testa agli uomini. Così, stato, anche tu sei parola assai bella nel sogno, composta di ben cinque suoni: con molte comodità e refrigerio. Sei cresciuto in un bosco di parole: ceneriera, fiammifero, cicca, pari tra pari; ma perché si va nutrendo d’uomini? Perché il paese natìo s’è fatto cannìbale, e la patria sua sposa? Ehi!Ascoltate! A nome dell’intera umanità ci rivolgiamo con maneggi di pace agli stati del passato: se voi siete splendidi, o stati, come amate narrare di voi stessi e di voi costringete a narrare i vostri famigli, allora perché questo cibo agli dei? Perché scricchiamo, noi uomini, nelle vostre mandibole, tra zanne e denti molari? Ascoltate, stati degli spazi, ecco ormai da tre anni voi fate finta che l’umanità sia soltanto una pasta, un dolce biscotto che vi si scioglie in bocca; e se il biscotto scatterà come un rasoio, dicendo: mammina? Se lo spargeremo di noi, come d’un tòssico? D’ora in poi noi ordiniamo di sostituire le parole «Per grazia divina» con «Per grazia delle Isole Figi». E’ forse decente per il Signor Globo Terrestre (sia fatta la sua volontà) incoraggiare il cannibalismo ecumenico entro i confini di se stesso? E non è servilismo senza limiti da parte degli uomini in quanto mangiabili proteggere il proprio Mangiatore Supremo? Ascoltate! Persino le formiche spruzzano acido fòrmico sulla lingua dell’orso. Se ci sarà qualcuno ad obiettare che lo stato degli spazi non è giudicabile come ecumenica persona di diritto, non obietteremo noi forse che l’uomo
è anch’esso uno stato: bìmano, di glòbuli sanguigni, ed anch’esso ecumenico? Se gli stati sono perversi, chi di noi moverà un solo dito, per prolungare il loro sonno sotto la coltre del Per Sempre? Voi siete malcontenti, o stati e loro governi, in segno d’avviso battete i denti e fate piccoli balzi. E con questo? Noi siamo la massima forza e sempre potremo rispondere: a sommossa di stati sommossa di schiavi, con una missiva bene assestata. Stando sulla tolda delle parole «Superstato della stella» e non necessitando di bastone nell’ora di questo rullìo, chiediamo: chi è più alto: noi che, in virtù del diritto di sommossa e inoppugnabili nel nostro primato, servendoci della tutela delle leggi sull’invenzione, ci siamo proclamati Presidenti del Globo Terrestre, oppure voi, governi di singoli paesi del passato, questi prosaici residui caduti vicino a macelli di tori bìpedi, del cui cadaverico umore vi siete unti? Quanto a noi, condottieri di un’umanità da noi edificata secondo le leggi dei raggi con l’ausilio delle equazioni del fato, noi rinneghiamo i padroni, che si spacciano per governanti, per stati e altre case editrici e ditte commerciali Guerra & C., che hanno appoggiato i mulini del dolce benessere all’ormai triennale cascata di vostra birra e di nostro sangue dell’inerme onda rossa. Vediamo stati ruzzolare sulla spada per lo sconforto del nostro avvento. La patria sulle labbra, sventolandovi col ventaglio del regolamento bèllico-campale, avete con impudenza inserito la guerra nel cerchio delle Fidanzate dell’uomo. Ma voi, stati degli spazi, placatevi e non piangete come ragazzine. Come intesa privata di privati, assieme alle società di ammiratori di Dante, dell’allevamento di conigli, della lotta con le arvìcole, entrerete sotto l’usbergo delle leggi da noi promulgate. Non vi toccheremo. Una volta per anno potrete adunarvi in annuali adunanze, passando in rassegna le forze che si rarefanno e in base al diritto delle associazioni. Restate dunque volontaria intesa di privati, non necessaria a nessuno
e per nessuno importante. Fastidiosa come un mal di denti in una Nonnina del XVII secolo. Rispetto a noi voi siete come l’irsuta gamba-mano d’una scimmia, scottata da un recòndito dio-fiamma, rispetto alla mano d’un pensatore, che plàcida governa l’universo, di questo cavaliere della sorte sellata. C’è di più: noi fondiamo la società per la difesa degli stati dal ruvido e feroce trattamento delle comuni del tempo. Come deviatori ai binari d’incontro del Passato e del Futuro, guardiamo con uguale sangue freddo alla sostituzione dei vostri stati con una umanità edificata scientificamente, come alla sostituzione d’una ciòcia di tiglio col bagliore di specchio d’un treno. Compagni-operai! Non vi lagnate di noi: come operai-architetti, noi andiamo per una strada speciale ad un fine comune. noi siamo un genere speciale d’arma. Dunque il guanto di sfida di quattro parole «Governo del Globo Terrestre» è gettato. Intersecato da una rossa fòlgore, l’azzurro stendardo dell’Anarchia, stendardo delle albe ventose, dei soli aurorali, è issato e sventola sopra la terra, eccolo, amici miei! Il Governo del Globo Terrestre!
Velimir Chlébnikov 21 Aprile 1917 Il testo di Chlébnikov è apparso in Poesie (Einaudi, Torino, 1968) a cura di Angelo Maria Ripellino. Traduzione a cura di Angelo Maria Ripellino. Si ringrazia per la gentile concessione a pubblicare l’editore Einaudi.
180
xiv Biografie Algorithmic Committee, the Un’oscura entità cibernetica che si batte contro le significazioni dominanti Baranzoni, Sara PhD in Studi Teatrali e Cinematografici (Università di Bologna) con un lavoro sulla performatività in Gilles Deleuze, è stata nello stesso Ateneo assegnista di ricerca sul tema della stupidità nell'era digitale (2014), ed è ora ricercatrice Prometeo in Scienze Tecnologiche e Performance presso l'Università Yachay Tech (Ecuador), dove insegna “Scienza, Tecnologia e Società”. Co-fondatrice della rivista on line di filosofia «La Deleuziana», conduce studi su filosofia contemporanea e arti performative, collabora con l'Institut de Recherche et d'Innovation di Parigi, con la scuola di filosofia Pharmakon.fr e con il network Performance Philosophy. Ha curato i volumi How shall I act? Per una filosofia della realtà (Napoli 2013) e, con P. Vignola, La salute della filosofia (Roma 2014), pubblicato traduzioni e saggi, tra cui “Pensiero e creazione. Il 'teatro del futuro' di Gilles Deleuze” (in Culture Teatrali 22, 2013), “Foucault e la filosofia antica: cura, esperienza e scrittura di sé” (in La salute della filosofia, 2014), “Performing creativity” (in La deleuziana 0, 2014), “Cosa potrebbe un corpo? Il dividuale e l'individuazione della filosofia contemporanea” (in La Deleuziana 1, 2015, con P. Vignola). Berger, Edmund Attivista, scrittore, critico culturale, vive a Louisville, Kentucky. Scrive sui blog Deterritorial Investigations Unit e Synthetic Zero, e in altre esperienze editoriali in rete. Attualmente sta lavorando a un libro il cui oggetto è l’economia marxista e la Grande Recessione del ‘29. Berti, Lapo Economista, è stato dirigente presso l'Autorità garante della concorrenza e del mercato. È stato, inoltre, docente di politica economica e finanziaria. Si è occupato principalmente di storia del pensiero economico, di teoria e politica monetaria e di politica economica. Fra le pubblicazioni più recenti Il mercato oltre le ideologie (Milano, Bocconi, 2006), Le stagioni dell'antitrust (Milano, Bocconi, 2010), con A. Pezzoli, e La felicità perduta. Economia e ricerca del benessere (Roma, Luiss, 2010). Ha contribuito, tra l’altro, ai seguenti volumi: Per lo sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale (Bologna, Il Mulino 2005), Legittimare l’Europa (Bologna, Il Mulino 2005) e Nascita del populismo digitale/The Birth of Digital Populism (Obsolete Capitalism 2014).
183
Davoli, Paolo Lavora @ Rizosfera Lancellotti, Ettore Economista, si occupa di politica e relazioni internazionali; è laureato in Economics, Politics and International Relations al Royal Holloway and Bedford New College, parte della University of London. Si occupa di traduzioni @ Obsolete Capitalism e @ Rizosfera. Ha partecipato al progetto collettivo di traduzioni Lost in translation (a cura di Rustichelli L. e Valcavi M.). Network Ensemble, the: Gruppo di electronic data noise nato a Londra nel 2015, debutta con il presente remix di La machine informatique dub - Urban sonata RMX. Previsto per il 2017 l’album di debutto. Obsolete Capitalism, Sound System Gruppo elettronico influenzato da jazz e dub nato in Italia, nel 2016, debutta con il presente mix ‘La machine informatique dub’ (Rizosfera-NuKfm, 2016) una metanarrazione del frammento accelerazionista di Félix Guattari. OCSS sta lavorando al long playing di debutto ‘Obsolete Capitalism Sound System vs Electric Tree’, previsto per la fine del 2016. Obsolete Capitalism, collettivo Ha curato Nascita del populismo digitale/ Birth of digital populism (OCFP, 2014) con Alberto Toscano, Tiziana Terranova, Luciana Parisi, Lapo Berti, Paolo Godani, Simon Choat, Jussi Parikka, Saul Newman, Tony D. Sampson; Archeologia delle minoranze (OCFP, 2015) con Franco Motta; Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski (OCFP, 2016) con Sara Baranzoni, Edmund Berger, Lapo Berti, Paolo Vignola, the Network Ensemble, Obsolete Capitalism Sound System. OC pubblica su alcuni blog tra cui blog Obsolete Capitalism, Rizomatica, Variazioni foucaultiane, A century of molecular fascism. Rustichelli, Letizia Lavora @ Rizosfera Tacchini, Francesco Lavora @ Demystification Committee
Vignola, Paolo PhD in Filosofia (Università di Genova), dopo un post-doc internazionale in Coomunication Science è ora ricercatore Prometeo in Scienze Tecnologiche e Sociali presso l'Università Yachay Tech (Ecuador), dove insegna “Scienza, Tecnologia e Società”. Collabora con l'Institut de Recherche et d'Innovation di Parigi, con la scuola di filosofia Pharmakon.fr e con le riviste «Philosophy Kitchen» e «Kaiak». È membro del consiglio d'amministrazione dell'associazione internazionale Ars Industrialis e co-fondatore della rivista on line di filosofia «La Deleuziana». Studioso di filosofia contemporanea e di filosofia della tecnologia, ha tradotto e curato diverse opere di Bernard Stiegler, curato libri collettivi, pubblicato numerosi saggi in volumi e riviste scientifiche, in italiano, francese e inglese. Ha inoltre pubblicato i libri Le frecce di Nietzsche. Confrontando Deleuze e Derrida (Genova 2008), La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura (Macerata 2011), (con J. Vignola) Sulla propria pelle. La questione trascendentale tra Kant e Deleuze (Roma 2012), e L'attenzione altrove. Sintomatologie di quel che ci accade (Napoli 2013).
obsolete capitalism
ø
Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire
Siamo proiettati a velocità fotonica nella comunicazione istantanea e nel controllo continuo mentre le forme di dominio rapido appaiono inarrestabili. Il museo delle ideologie si riempie di concetti in via di esaurimento quali capitalismo, neoliberismo, marxismo, keynesismo. Ora, con più esattezza, il sistema modula i vari flussi che innervano il pianeta: Moneta, Ricerca, Controllo, Informazione, Circuito sono i vecchi nomi che attraverso una nuova velocità producono potere. Maggiore è l’immanenza del Mercato, maggiore è la probabilità che al conflitto si sostituisca l’interruzione, il virus, la fuga di notizie, l’invisibilità, il fuori-circuito, la biforcazione. Uno squarcio nella «zona grigia» dell’egemonia. Gli autori del libro Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire indagano alcune aree poco battute di politica accelerazionista attraverso linee teoriche contagiate dalle filosofie più visionarie: Nietzsche, Klossowski, Deleuze, Guattari, Foucault. Più che analizzare la grande trasformazione culturale in atto, la presente antologia evidenzia i pericoli in cui incorre il pensiero del futuro quando ancora mantiene pratiche, schemi e linguaggi di un’epoca industriale e post-industriale che mostra in tutti i suoi aspetti una crisi perpetua. Siamo tutti coinvolti nel
duro intreccio di liberazioni insperate e nuovi asservimenti che ci prospetta la presentificazione del futuro da parte della tecnologia a linguaggio numerico, ma - come afferma Deleuze - «non è il caso né di avere paura, né di sperare, bisogna cercare nuove armi». Sperimentare è dunque il primo impegno politico e filosofico per un futuro differente. Autori e autrici: Algorithmic Committee, Sara Baranzoni, Edmund Berger, Lapo Berti, Paolo Davoli, Network Ensemble, Letizia Rustichelli, Obsolete Capitalism, Obsolete Capitalism Sound System, Francesco Tacchini, Paolo Vignola.